Risposte nonviolente al terrorismo

  1.  Il quadro di riferimento

green dove 1In un precedente articolo dello scorso novembre [i]  mi ero occupato della praticabilità – oltre che della necessità – di forme di resistenza al terrorismo alternative a quelle cui ci hanno voluto assuefare, come se rispondere alle stragi con stragi ancora maggiori fosse l’unica possibilità. In quello intervento, in particolare, mi ero soffermato sul clima di paura, d’insofferenza e di reazione che si era creato dopo i tragici fatti di Parigi, sottolineando come il terrorismo abbia messo a dura prova le nostre fragili sicurezze, inducendo nella maggioranza delle persone un istintivo meccanismo di autodifesa dall’oscura minaccia al nostro stesso modello di vita. La guerra mondiale ‘a pezzetti’, l’insidioso stragismo ‘della porta accanto’ e la ripugnante strategia del terrore, infatti, hanno  suscitato reazioni isteriche. Hanno evocato i peggiori incubi della nostra società globalizzata ed omogeneizzata dal pensiero unico; troppo radicata nel proprio modello di sviluppo per accorgersi delle proprie contraddizioni e, soprattutto, per ammettere che la sua non è l’unica modalità socio-economica e culturale possibile. Ebbene, sei mesi dopo, quel clima di paura e di sospetto sta continuando a generare mostri, alimentando la prevedibile ascesa delle destre nazionaliste e xenofobe e colpendo tutti quelli che, per fuggire a guerre e miseria, ingrossano le file dei migranti nella nostra Europa. Gli ultimi convulsi avvenimenti –sul piano sia del conflitto armato che infiamma il Medio Oriente, sia dei presunti attacchi terroristici di questi giorni – stanno quindi riaprendo una ferita mai rimarginatasi, gettando altra benzina sul fuoco.

Il fatto è che bisogna sì reagire ad un progetto ferocemente integralista e fondato su morte e distruzione, ma bisogna farlo nella maniera esattamente opposta, con le modalità creative e costruttive che la nonviolenza attiva può indicarci. L’alternativa alla barbarie – quella degli attentati ma anche quella dei bombardamenti sui civili – può fondarsi solo su strategie opposte alle logiche di morte, dal momento che “la violenza è il problema, mai la soluzione” [ii]. Il guaio è che l’opinione pubblica continua a restare in preda agli imbonitori della difesa militare, secondo i quali le nostre città diventerebbe più sicure con blindati nelle piazze e soldati armati di mitra agli incroci. Eppure la verità è sotto gli occhi di tutti: la gente si sente ancora più in pericolo in questo clima di guerra quotidiana, che non ci difende affatto dal terrorismo ma, al contrario, ne realizza proprio la finalità principale, che è quella di spargere ovunque paura e diffidenza. Peraltro, come sottolineavo già in un  intervento dell’aprile 2015 [iii] , la martellante propaganda anti-islamista di questi mesi ha sortito l’unico risultato di generare un estremismo jihadista ancor più feroce, evocando un assurdo clima da crociata e radicalizzando conflitti che erano, fra l’altro, frutto di scelte sbagliate delle potenze occidentali. Eppure si continua a considerare il terrorismo come un fenomeno del tutto indipendente, contro il quale si possono solo assumere provvedimenti drastici per difendere la nostra preziosa ‘civiltà’. Gli interventi armati contro l’avanzare dell’estremismo islamista – che fino a poco tempo fa si evitava pudicamente di denominare ‘guerra’ – si stanno perciò concretizzando sempre più, come se fossero davvero un rimedio all’instabilità politica, alla repressione del dissenso, alle operazioni terroristiche, alla povertà ed all’abbandono che affliggono intere popolazioni, il cui disperato e massiccio esodo verso i nostri confini e le nostre coste sembrerebbe l’aspetto che più ci preoccupa di tale drammatica situazione.

Il fatto è che, al di là della deprecabile malafede di chi ha finora attizzato il fuoco dei conflitti interni ed internazionali e adesso si atteggia a pompiere della situazione, credo che vada sempre tenuto presente il principio ippocrateo: “primum non nocere” . Ecco perché, pur volendo prescindere da considerazioni etiche e dal rifiuto di principio della guerra come metodo di risoluzione delle controversie e dei conflitti, dobbiamo comunque deciderci a prendere atto che anni e anni d’interventi militari negli infiammati scenari mediorientali hanno solo aggravato la situazione, che vede sempre più giovani disperati arruolarsi nelle milizie di Da’ish (ad-Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāqi wa sh-Shām).                 Cerchiamo almeno di non far finta che si tratta di forze oscure o di fenomeni che trascendono la nostra realtà. Non siamo di fronte alla ferocia di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte e pertanto non ci servono bacchette, pozioni o formule magiche per esorcizzare tali inquietanti presenze. Interventi armati e politiche sicuritarie e xenofobe rappresentano le solite ricette fallimentari ed antidemocratiche di chi si ostina a non voler vedere la realtà di un mondo lacerato da ingiustizie, divisioni e violenze. Per contrastarle, però, bisogna che il movimento pacifista, italiano ed internazionale,  impari a contrapporre ad esse soluzioni realmente alternative e nonviolente, sviluppando la ricerca sulla pace, promuovendo esperienze di educazione alla pace e compiendo azioni concrete e quotidiane per la pace.

  1. Prevenzione, difesa nonviolenta, corpi civili di pace

1185067_720472841312856_467797743_nEra questo il sottotitolo del libro che Alberto L’Abate e Lorenzo Porta hanno curato nel 2008 sul tema “L’Europa e i conflitti armati” [iv]. A distanza di otto anni ritengo che quelle proposte restino sostanzialmente valide, anche se lo scenario internazionale è indubbiamente mutato, e non certo in meglio. In sintesi, la loro tesi è che, essendoci varie forme di terrorismo (ad es. ‘di Stato’ o ‘dal basso’), le risposte devono ovviamente essere flessibili, in quanto l’opposizione antimilitarista alla guerra va bene nel primo caso, mentre nel secondo è il caso di ricorrere a strategie di difesa popolare nonviolenta sul territorio, alla mediazione sociale ed alla progettazione partecipata di interventi rivolti ai migranti. Credo che anche adesso le soluzioni alternative perseguibili debbano tener conto di questo trinomio, prevenendo tutte le azioni che alimentano i conflitti, praticando le numerose tecniche della D.P.N. ed allargando l’intervento dei corpi civili di pace. Per prima cosa però, dovremmo demistificare i diffusi luoghi comuni che provocano reazioni inconsulte, come quelli che amplificano la portata degli attacchi terroristici e delle stragi, facendoceli avvertire come un’incombente minaccia alla nostra sicurezza. In un recente articolo sul Washington Post, infatti, questo mito negativo viene sfatato da due studiosi del norvegese P.R.I.O. (Peace Research Institute Oslo), dimostrando che la violenza  esercitata dagli estremisti islamici ha colpito in primo luogo i loro stessi correligionari e connazionali.

 <<I Musulmani stanno combattendo principalmente l’uno contro l’altro, non contro l’Occidente. Mentre gli attacchi nei confronti dei non-Musulmani  comprensibilmente attirano di più l’attenzione dei ‘media’ occidentali, la stragrande maggioranza delle insurrezioni islamiste stanno colpendo i governi nei Paesi a maggioranza musulmana. Infatti, nel corso degli ultimi tre anni, più del 90% delle vittime in tutte le guerre civili sono nei Paesi musulmani, in particolare in Siria, ma anche in Afghanistan e Iraq…>> [v]

Dovremmo smetterla di lanciare gridi allarmistici e pensare piuttosto ad evitare che ogni intervento occidentale si trasformi in ulteriore impulso a nuovi conflitti armati. Se è vero che la fragorosa comparsa sulla scena dell’ ISIS  ha cambiato la nostra visione del terrorismo, dobbiamo però prendere atto che, come osservava Jean-Marie Müller in un editoriale dello scorso novembre:

<<…Da’ish non è lo Stato che pretende d’essere, ma si tratta d’una organizzazione strutturata militare e politica che occupa certi territori e svolge azioni belliche in Iraq ed in Siria. Pertanto, Da’ish non verrà a fare la guerra in Francia e la Francia non progetta alcun intervento sul terreno mediorientale […] Il problema è che proprio la cultura che domina le nostre società è strutturata in base all’ideologia della violenza necessaria, legittima ed onorevole. Disarmare il terrorismo vuol dire disarmare prima quest’ideologia, così da costruire una cultura fondata su un’etica di rispetto, di fraternità e di nonviolenza. Poiché il vero realismo è quello di chi vede nell’estrema ignominia della violenza terroristica l’evidenza della nonviolenza. ‘Il sangue – diceva Victor Hugo – si lava con le lacrime, non col sangue’ …>> [vi]

Ma demistificare il terrorismo mediatico di chi ci vuol fare sentire minacciati nella nostra sicurezza e nella nostra stessa identità socio-culturale è solo il primo passo. Bisogna poi comprendere a fondo il fenomeno terroristico e le sue cause e distinguerlo dalla guerra, che è ben altra cosa. Per citare ancora un noto teorico della nonviolenza come Müller:

<<Il terrorismo non è la guerra. La sua strategia, viceversa, pone come postulato il rifiuto della guerra. Ciò che caratterizza la guerra è la reciprocità delle azioni decise ed intraprese da ciascuno dei due avversari. Ora, per la precisione, di fronte all’azione dei terroristi nessuna azione reciproca può essere intrapresa dai decisori opposti. Questi si trovano infatti nella incapacità di rispondere colpo su colpo a un avversario senza volto e che si nasconde…>> [vii]

Ecco perché, argomenta Müller, alla retorica antiterrorista che parla di ‘negazione del valore della vita umana’ si dovrebbe replicare che, conseguentemente, per sconfiggere il terrorismo di dovrebbe agire con la più grande prudenza e nel massimo rispetto della vita, non certamente i base alla logica mortifera della guerra.

<<Difendere la civiltà, in primo luogo, vuol dire rifiutare di lasciarsi contaminare da questa ideologia. Ciò esige che si rinunci alle operazioni militari che implicherebbe inevitabilmente che si ammazzino degli innocenti […]Pertanto, una volta riconosciuto questo diritto e questo dovere di legittima difesa, la vera questione è sapere quali sono i mezzi legittimi ed efficaci di questa difesa […] Ma per vincere il terrorismo è il caso di sforzarsi di comprenderne le cause e gli obiettivi  […] Per sradicare il terrorismo bisogna sforzarsi di comprenderne le radici storiche, sociologiche ed ideologiche che l’alimentano. […] Se il terrorismo non è la guerra, può ugualmente essere un mezzo di continuare la politica. Possiede allora la propria coerenza ideologica, la propria logica strategica e la propria razionalità politica.  Allora non serve a niente negarlo, brandendo la sua intrinseca immoralità. Dal momento in cui sarà riconosciuta la dimensione politica del terrorismo, diventerà possibile cercare la soluzione politica che esso esige. La maniera più efficace per combattere il terrorismo è privare i suoi autori delle ragioni politiche che essi invocano per giustificarlo [..] Da quel momento, per vincere il terrorismo non è la guerra che bisogna fare, ma è la giustizia che bisogna costruire>> [viii]

Prevenzione, dunque, significa cambiare radicalmente le nostre politiche, che di guerre e terrorismo spesso sono la causa prima, ma anche comprendere le dinamiche di questi fenomeni violenti, per poi fronteggiarli con interventi di matrice opposta. Il guaio è che tali soluzioni alternative risultano quasi pressoché sconosciute a quelle stesse popolazioni che dovrebbero metterle in atto, ma non ne conoscono i principi teorici, le strategie pratiche né le esperienze già realizzate in tal senso.  La difesa civile nonviolenta (D.P.N.), infatti, è di fatto ignota non solo alla gente comune, ma perfino alla maggioranza degli studiosi di questioni internazionali . D’altra altra parte, il ruolo dei corpi civili di pace (C.C.P. ) viene spesso ignorato oppure scambiato con la cooperazione internazionale o con azioni volontaristiche ed umanitarie portate avanti negli scenari bellici.  Cerchiamo quindi di fare un po’ di chiarezza e di prospettare alcune possibilità per uscire dal circolo vizioso guerra-terrorismo-guerra.

  1. Quali risposte nonviolente al terrorismo?

guerramedioorienteGià nel mio contributo di un anno fa, richiamando un contributo di Eli McCarthy (docente di studi sulla pace all’Università statunitense di Georgetown) cercavo di chiarire quali sarebbero le soluzioni possibili per indurre le popolazioni locali a resistere nonviolentemente all’integralismo islamista ed alle sue operazioni terroriste. In quell’occasione, infatti, citavo gli otto punti della sua proposta [ix], sintetizzabili ulteriormente nei seguenti interventi in loco:

  1. Diminuire le risorse umane, attraverso politiche che dissuadano la persone dall’unirsi alle organizzazioni come l’ISIS, venendo loro incontro con l’offerta di opportunità che rispondano ai loro veri bisogni economici, sociali e culturali;
  2. Promuovere la nascita di gruppi di cittadini per dare più peso alla società civile, riducendo il potere sanzionatorio militare e poliziesco sulla comunità locale;
  3. Ridurre l’intoccabilità di certi principi, mettendo in discussione la sostenibilità etica e religiosa sia delle azioni terroristiche, sia della repressione violenta nei confronti delle donne e delle minoranze interne;
  4. Ridurre le risorse materiali, stimolando la gente del posto a rifiutare o ritardare il pagamento di tasse che alimentino quel regime;
  5. Creare istituzioni alternative e svolgere iniziative di resistenza e non-collaborazione attuando azioni tipiche del repertorio della DPN.

Che qualcosa si stia lentamente muovendo lo si deduce da alcuni segnali positivi, provenienti da aree di crisi come il Pakistan, dove cresce l’opposizione alle risposte violente del governo e finalmente maturano risposte alternative, come quelle proposte da Rwadan Tehreek, il movimento per la tolleranza, che ha organizzato uno sciopero della fame ed un sit-in davanti all’edificio dell’assemblea del Punjab. Secondo il presidente musulmano dell’organizzazione, Abdullah Malik:

<<Il Governo deve attuare una politica di lungo periodo rivedendo il suo programma, cancellando le leggi che spingono all’odio e annunciando una politica globale per demilitarizzare la società. Le autorità devono bandire tutti i tipi di armi e adempiere alla loro responsabilità costituzionale di garantire sicurezza e protezione a tutti i cittadini.>> [x]

Purtroppo l’incalzare degli eventi è tale che non possiamo accontentarci di questi timidi segnali di conversione alla resistenza nonviolenta. Occorre quindi che i paesi occidentali – a partire da quelli dell’Unione Europea – facciano scelte alternative ed intraprendano da subito azioni concrete per invertire la rotta. Un prezioso ‘decalogo’ in tal senso ce lo ha fornito il nostro Nanni Salio, in un articolo apparso a novembre 2015 sul sito del Centro Studi Sereno Regis di cui è stato l’animatore ed il direttore fino alla sua scomparsa, lo scorso febbraio. In questo scritto egli elencava le seguenti dieci azioni alternative:

 1. Interrompere il flusso di armi ai belligeranti  

2. Interrompere i finanziamenti ai gruppi jihadisti

3Affrontare con decisione e concretamente i problemi dei rifugiati, migranti, profughi.  

4. Offrire valide alternative ai giovani immigrati nei paesi occidentali, che vivono in condizioni di degrado e disagio sociale.

5. Avviare processi di negoziato e dialogo con le controparti…

6. Affrontare con serietà, impegno e decisione la questione Israele-Palestina…

7. Istituire una commissione Verità e Riconciliazione per facilitare i negoziati e indagare sulle responsabilità storiche passate e recenti …

8Lavorare alla costruzione di una confederazione del Medio Oriente, sulla falsariga di altre confederazioni già esistenti

9Coordinare azioni di polizia internazionale, che non sono guerra in senso stretto, per individuare e catturare i responsabili degli attentati e processarli

10Avviare processi di ricostruzione partecipata, per rimediare ai gravi danni inflitti alle popolazioni civili con i bombardamenti. >> [xi]

Come si vede, anche in questo caso si tratta di ripercorrere i sentieri delle strategie nonviolente, arrestando innanzitutto il flusso di armi e denaro ai belligeranti, aprendosi a politiche di accoglienza e integrazione dei migranti e studiando provvedimenti di politica estera che si diano l’obiettivo di sanare i conflitti, mediare tra le parti e contribuire a ricostruire le comunità locali, decimate e sconvolte da anni di guerra e di stragi.

C’è poi da ricordare l’articolo che il noto attivista quacchero statunitense George Lakey pubblicò nel gennaio 2015 sulla rivista online Waging Nonviolence, in cui proponeva ed argomentava “Otto modi per difendersi nonviolentemente dal terrorismo”.  Anche in questo caso ne riporto sinteticamente il contenuto:

  1. Costruzione di alleanze e l’infrastruttura di sviluppo economico. La povertà e il terrorismo sono indirettamente collegati. Lo sviluppo economico può ridurne il reclutamento e guadagnare alleati, soprattutto se lo sviluppo è fatto in modo democratico….

 2. Ridurre l’emarginazione culturale. Come la Francia, la Gran Bretagna ed altri paesi hanno imparato, emarginare un gruppo all’interno della propria popolazione non è sicuro o sensato; terroristi crescono in queste condizioni. Questo è vero anche a livello globale….

 3. Protesta nonviolenta / campagne tra i difensori, ed inoltre mantenimento della pace civile e disarmato. Il terrorismo avviene in un contesto più ampio e quindi ne è influenzato . Alcune campagne di terrore sono fallite perché hanno perso il sostegno popolare…

4Educazione ed addestramento al conflitto. Ironia della sorte, il terrore spesso si verifica quando una popolazione cerca di sopprimere i conflitti invece di sostenere la loro espressione. Una tecnica per ridurre il terrore, quindi, è quella di diffondere un atteggiamento pro-conflitto e le competenze nonviolente che sostengono le persone impegnate in un conflitto, per dare piena voce alle loro rimostranze…

5Programmi di recupero post-terrorismo. Non tutte le forme di terrore possono essere prevenute, come accade per il crimine. Tenete conto che i terroristi spesso hanno l’obiettivo di aumentare la polarizzazione….

6. La polizia come ufficiali di pace: l’infrastruttura di norme e leggi. Il lavoro di polizia può diventare molto più efficace attraverso una maggiore politica di comunità e la riduzione della distanza sociale tra la polizia e i quartieri che essa serve. In alcuni paesi questo richiede una ri-concettualizzazione della polizia, da difensori della proprietà del gruppo dominante ad autentici agenti di pace …

7. Cambiamenti di politica e il concetto di comportamento sconsiderato. Talvolta i governi fanno scelte che invitano – quasi vanno cercando – una risposta terrorista … .. Per proteggersi dal terrore, i cittadini di tutti i paesi hanno bisogno di ottenere il controllo dei loro governi e costringerli a comportarsi di conseguenza.

8. Negoziazione. Di frequente i governi dicono: “Noi non negoziamo con i terroristi”, ma quando lo fanno spesso stanno mentendo. I governi hanno sovente ridotto o eliminato il terrorismo proprio attraverso la negoziazione e le capacità di negoziazione continuano a diventare sempre più sofisticate…>> [xii]

Concludendo, è evidente che da noi in Italia c’è ancora molto da fare perché si apra un vero confronto sulle strategie più efficaci per contrastare il terrorismo con modalità alternative. Il movimento per la pace, purtroppo, si presenta frammentato e quindi ancora più debole, mentre le significative esperienze di ricerca sulla pace e di educazione alla pace finora attuate rischiano di essere sommerse dallo strisciante indottrinamento bellicista, giunto massicciamente anche nelle scuole. Eppure, proprio per questo, bisogna che dai movimenti antimilitaristi e nonviolenti ripartano segnali chiari di mobilitazione civile, d’impegno quotidiano, di dialogo finalizzato ad un’azione comune.

Quel che è certo è che bisogna partire dalla formazione al pensiero nonviolento e dall’addestramento alle tecniche della nonviolenza attiva. Mi sembra altrettanto evidente, poi, che bisogna costruire anche un patto tra pacifisti ed ecologisti, perché guerra e terrorismo costituiscono un gravissimo pericolo per l’ambiente naturale e le comunità locali, dal momento che, come affermavo già un anno fa:

 <<… le catastrofi umanitarie corrispondono quasi sempre a quelle ecologiche, essendo frutto della stessa violenza cieca ed irresponsabile>> [xiii]

Ecco perché pace, giustizia e salvaguardia della ‘casa comune’ – come ci ha ricordato Papa Francesco nella sua ultima enciclica – sono strettamente collegate e richiedono risposte organiche. E’ indispensabile infatti che gli uomini facciano pace tra loro ma anche con la natura, ma purtroppo le cose vanno diversamente:

<<La politica e l’economia tendono ad incolparsi reciprocamente per quanto riguarda la povertà e il degrado ambientale. Ma quello che ci si attende è che riconoscano i propri errori e trovino forme d’interazione orientate al bene comune. Mentre gli uni si affannano solo per l’utile economico e gli altri sono ossessionati solo dal conservare o accrescere il potere, quello che ci resta sono le guerre o accordi ambigui, dove ciò che meno interessa alle due parti è preservare l’ambiente e aver cura dei più deboli…>> [xiv]

Al messaggio di morte e distruzione che vengono da guerre e terrorismo, dunque, bisogna contrapporre risposte di vita, relazioni più giuste ed una difesa della casa comune dell’umanità, che già 700 anni fa l’Alighieri definiva: “l’aiuola che ci fa tanto feroci”. [xv]     La ferocia dei terroristi è la stessa delle guerre e della sistematica distruzione degli ecosistemi ed ha la stessa origine. La nonviolenza è l’unica soluzione possibile da adottare, prima che sia troppo tardi.

NOTE ———————————————————–

[i]  Ermete Ferraro (2015), “Resistere, nonviolentemente “, Ermete’s Peacebook, novembre 2015 > https://ermetespeacebook.com/2015/11/19/resistere-nonviolentemente/

[ii]  Monde sans Guerre et sans Violence (2015), “La violence est le probleme, jamais la solution” > https://www.pressenza.com/fr/2015/11/la-violence-est-le-probleme-jamais-la solution

[iii]  Ermete Ferraro (2015),”La colomba verde ed il califfo nero”, Ermete’s Peacebook, Aprile 2015 > https://ermeteferraro.wordpress.com/2015/04/02/la-colomba-verde-e-il-califfo-nero/

[iv] Alberto L’Abate, Lorenzo Porta (2008), L’Europa e i conflitti armati, Firenze, University Press > vedi e-book ( https://books.google.it/books?id=bmw04syro0wC&printsec=frontcover&dq=L%27Europa+e+i+conflitti+armati&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiQyeCS5erMAhWBFRQKHRmzCngQ6AEIHTAA#v=onepage&q=L’Europa%20e%20i%20conflitti%20armati&f=false )

[v] Nils Petter Gledisch and Ida Rudolfsen  (2016), “Are Muslim contries more violent ?”, Washington Post, 05.16.2016 > https://www.washingtonpost.com/news/monkey-cage/wp/2016/05/16/are-muslim-countries-more-violent/ (traduz. mia).

[vi] Jean-Marie Müller (2015), “La France est-elle en guerre?”, MIR France, 18.11.2015 http://mirfrance.org/MIR/?p=295 (traduz. mia)

[vii]  Ibidem

[viii] Ibidem

[ix] Eli McCarthy (2015), “ISIS: Nonviolent Resistance?” , Huffington Post > http://www.huffingtonpost.com/eli-s-mccarthy/isis-nonviolent-resistance_b_6804808.html   (traduz. mia)

[x] Alessandro Graziadei (2016), “Pakistan: una risposta nonviolenta al terrorismo”, Unimondo, 222.02.2016 > http://www.unimondo.org/Guide/Guerra-e-Pace/Conflitti/Pakistan-una-risposta-nonviolenta-al-terrorismo-155592

[xi] Giovanni Salio (2015), “I due terrorismi  e le alternative della nonviolenza”, (20.11.2015) >  http://serenoregis.org/2015/11/20/i-due-terrorismi-e-le-alternative-della-nonviolenza-nanni-salio/

[xii] George Lakey (2015), “8 ways to defend against terror nonviolently”, Waging Nonviolence (22.01.2015) > http://wagingnonviolence.org/feature/8-ways-defend-terror-nonviolently/ (traduz. mia)

[xiii] Ferraro (2015), “La colomba verde e il califfo nero”, cit.

[xiv] Papa Francesco (2015), Laudato si’ – Lettera enciclica sulla cura della casa comune, n. 198 >   http://w2.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html

[xv] Dante Alighieri, Divina Commedia – Paradiso, XXII, v. 151

GUERRA DI…LIBIERAZIONE?

Emanuele Filiberto Duca d'AostaFino ad un paio di giorni fa, sulle pagine dei nostri quotidiani regnava il silenzio sulla ‘missione’ militare in Libia che l’Italia si appresta non solo a svolgere con grande zelo, ma addirittura a dirigere sul piano operativo. Solo alcuni giornali, come Secolo XIX e Corriere della Sera, ci hanno informato in merito a questa operazione – segreta ma non troppo – raccogliendo più che altro le indiscrezioni trapelate grazie ad un articolo del Wall Street Journal. Un generale americano, comandante delle forze speciali in Africa, infatti, sosteneva in un’intervista che “…è già operativo a Roma un Coalition Coordination Center, in sigla CCC, un comitato di coordinamento della coalizione che combatte l’Isis. Il CCC è una «war room» in piena regola dove si pianifica l’intervento, dove si fanno simulazioni, e da dove, in futuro, si guideranno le azioni.[i]   Naturalmente i vertici politici si sono affrettati a smentire che si aspetta solo l’ok dell’ONU, dopo che il governo libico (quale?) avrà formalizzato una richiesta di aiuto militare alla coalizione, di fatto già presente da tempo sul territorio libico e comprendente anche francesi, inglesi americani e, forse, olandesi. Lo stesso Ministro degli esteri Gentiloni, d’altra parte, confermava che: «Il livello di pianificazione e di coordinamento è a un livello molto avanzato e va avanti da parecchie settimane» [ii], così come risulta chiaro il senso del recente accordo fra Italia ed USA sull’utilizzo dei droni armati di stanza alla base aerea siciliana di Sigonella.

Qualcuno, sicuramente, si sarà chiesto come diavolo è possibile che ci stiamo di fatto preparando ad intervenire militarmente in Libia senza uno straccio di ratifica da parte del Parlamento, custode della sovranità popolare? E’ vero che in questi ultimi tempi è stato molto occupato a discutere di unioni di fatto ed adozioni non di diritto, ma come mai nessuno ha ritenuto ancora che esso avesse qualcosa di dire anche sulle pericolose unioni militari di fatto e sulle nostre illegittime ‘adozioni’ degli equilibri politici d’un altro stato? La risposta è nelle precisazioni di Fiorenza Sarzanini che, in un articolo di qualche giorno fa sul ‘Corriere’, ci spiegava che il nocciolo della questione sono i c.d.”decreti missione”, grazie ai quali l’Italia si tiene le mani libere da fastidiosi passaggi parlamentari.   “Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, lo ha ribadito ieri nel corso del Consiglio supremo di difesa, sollecitando anche la rapida approvazione del decreto che ogni anno finanzia e fornisce copertura giuridica alle missioni all’estero. Le norme già varate consentono infatti di evitare il voto delle Camere, prevedendo esclusivamente un’informativa del governo alle commissioni Esteri e Difesa. Il tempo stringe, gli alleati sono già sul campo, Roma ha assicurato che «farà la propria parte» nella guerra ai terroristi dell’Isis. E dunque schiererà le navi già in attività di perlustrazione del Mediterraneo, un aereo cisterna, i Tornado di stanza a Trapani, anche due sommergibili. E potrà contare sulle basi militari del Sud, compresa Pantelleria dove da tempo sono insediati numerosi militari statunitensi”. [iii]

E chi se ne frega se la Costituzione della nostra Repubblica, all’art. 11, recita che: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…” , sancendo poi, all’art. 52, che: “L’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica…” ? L’escamotage è stato facilmente trovato, per cui la sovranità del Parlamento è ancora una volta aggirabile coi giochi di parole in Neolingua di chi sembra propenso a ripudiare la Costituzione più che la guerra. Le operazioni in Libia, conseguentemente, sono state coperte dal segreto militare e dietro il centro di coordinamento italiano della coalizione è più volte spuntata la sigla dell’A.I.S.E (Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna), quella ‘intelligence de Noantri’ su cui mi sono già soffermato a proposito della fiction televisiva che ne rivelava ai più l’esistenza.[iv]  Il Sole 24 Ore – ripreso dal quotidiano britannico The Guardian , peraltro, aveva già rivelato che ormai da settimane erano stati inviati in Libia 40 agenti segreti ed una cinquantina di ‘forze speciali operative’. Sta di fatto, comunque, che il piano di smantellamento della Costituzione avviato da Renzi aveva già previsto – per ridurre fastidiosi intralci alle decisioni governative – che anche l’art. 78 (“Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari” ) fosse modificato dalla previsione che tale dichiarazione spetti esclusivamente alla Camera dei Deputati Dal 3 marzo, però, sugli organi d’informazione si è ricominciato a parlare dell’intervento militare italiano in Libia, complice un’intervista all’ambasciatore USA che lodava il governo Renzi e lo esortava ad investire di più su questa ‘missione’, riconoscendo all’Italia la richiesta leadership ma, al tempo stesso, accollandogliene gli oneri che ne derivano. Questa esternazione ha molto infastidito il nostro premier , che – pur fiero dell’ investitura a condottiero d’un intervento armato in nord Africa senza precedenti – si è sentito tirare palesemente per la giacca, per cui si è affrettato a gettare acqua sul fuoco.

Ma intanto quotidiani come la Repubblica avevano già rotto l’imbarazzato silenzio mediatico, rivelando la portata straordinaria di questa sconcertante avventura bellica del nostro Paese.  In un articolo di Gianluca Di Feo, infatti, si squadernavano i dati relativi a piani segreti ma non troppo, informandoci che: “Di sicuro, si prepara un’operazione massiccia, la più grande mai realizzata dal 1943. Da mesi gli stati maggiori stanno elaborando piani su piani, ipotizzando un vertice italiano che gestirà uno schieramento di forze europee. La previsione minima è di 3mila militari, la massima supera i 7 mila. I due terzi saranno forniti dal nostro Paese. L’allestimento richiede circa un mese. Ma un primo contingente potrebbe muoversi nel giro di dieci giorni per prendere il controllo di un aeroporto. In ogni caso, la fase iniziale sul campo sarà interamente affidata a truppe italiane.[v]   Altro che operazione di polizia internazionale! Non sembra, del resto, che gli stessi servizi segreti siano riusciti a mantenere segreta quest’ ingombrante spedizione che, a distanza di 105 anni, ci riporta tristemente all’Italietta colonialista di Giolitti, schierata contro l’Impero Ottomano. Ed infatti è difficile nascondere operazioni che prevedono l’invio di portaelicotteri coi marò del San Marco, con al seguito altre navi per rifornimenti . E’ difficile anche negare che gli aeroporti meridionali siano da tempo stati allertati per la partenza di cacciabombardieri e che la base di Pantelleria, come conferma l’articolo di Repubblica : “servirà come scalo per il ponte aereo di elicotteri e cargo.” [vi] . Sarà pur vero che noi Italiani ci siamo abituati a tutto, compresi i blindati coi militari in assetto di guerra nelle nostre piazze. Ma far passare l’invio in Libia di 5.000 soldati come una normale operazione  è poco credibile, né può passare inosservato lo schieramento di mezzi aeronavali che poco hanno a che fare con l’ipotesi di un semplice ‘presidio’ di quei territori.  Ecco perché uno stizzito Renzi – di fronte alle notizie riportate dai giornali – ha dichiarato che: Su questo terreno ci vuole prudenza. Nessuna fuga in avanti. La situazione è troppo delicata perché ci si lasci prendere da accelerazioni “ [vii]

Certo, ci vuole prudenza. Peccato però che lo stesso Renzi stia scalpitando da mesi per ottenere la guida italiana di questa spedizione bellica, cercando di sottrarsi ad un confronto con un Parlamento peraltro fin troppo disattento in proposito. Peccato poi che l’Italia risulti palesemente preoccupata del futuro dei propri affari in Libia più di quanto lo sia di andarsi a cacciare nell’ennesima, pericolosissima, avventura militare, in barba alla Costituzione e ad un secolo di storia che a quanto pare non ci ha insegnato nulla. Non bisogna fare ‘fughe in avanti’, d’accordo. Ma questo non significa che il governo debba proseguire indisturbato a giocare alla guerra o al ‘piccolo 007’, mentre i media non devono fare troppo rumore su tali operazioni, solo per non disturbare il manovratore. Sulla stessa ‘Stampa’, fra l’altro,  è stato pubblicato un articolo che “fa i conti” sull’intervento italiano in Libica, con l’aiuto di ‘analisti militari indipendenti’ , che appaiono piuttosto perplessi nel merito. Infatti l’autore, Luigi Grassia, si chiede prudentemente: “Se l’Italia dovesse fare la guerra in Libia, o per dirla in modo più accettabile: mandare un corpo di stabilizzazione che rischia anche di dover combattere contro l’Isis, quante forze potrebbe mettere in campo? “ [viii]. La risposta è che questa eufemistica ‘stabilizzazione’  ci costerebbe cara, anche se uomini e mezzi ci sarebbero pure. Per cui l’articolista, con una punta di scetticismo, conclude: “… qui si tratta solo di numeri, di potenzialità. Che poi questi numeri possano tradursi in un intervento militare in Libia è tutta un’altra questione”. [ix]  Ebbene, fra clangori di guerra e dichiarazioni più o meno diplomatiche e prudenti di politici ed ‘analisti’, cosa dicono e cosa fanno i pacifisti di fronte a quest’ultima minaccia del complesso militare-industriale che rischia di coinvolgerci in prima persona in un conflitto bellico senza precedenti? E, soprattutto, come reagiscono gli Italiani, di fronte ai quali si è agitato a lungo lo spettro della minaccia ISIS unita a quella della pretesa ‘invasione’ da parte dei profughi? In questo campo, in particolare, la mistificazione è stata massiccia, visto che – come ci ricorda un articolo de ‘il Manifesto’, nel 2015 l’Italia ha speso 800 milioni di euro per accogliere i rifugiati, a fronte di 1 miliardo e mezzo spesi per inutili e dannose ‘missioni’ all’estero.[x]

La verità è che per reagire efficacemente – al di là di comunicati e prese di posizione –  il movimento per la pace italiano deve ritrovare la forza per superare antiche divisioni che ne frammentano l’azione. Ciò non significa affatto chiudere gli occhi davanti alle differenze nelle analisi o nelle strategie di azione. Dico soltanto che è arrivato il momento di andare oltre la politologia teorica – che ci fa sentire appagati dalla comprensione delle dinamiche in corso – per manifestare in piazza e gridare chiaro e forte non solo il nostro dissenso, ma anche la nostra proposta antimilitarista e nonviolenta. Da un secolo le alternative alla guerra esistono e sono senz’altro più efficaci, come dimostrano vari studi accademici in proposito. Bisogna però far capire alla gente che pacifismo non è passività, bensì resistenza nonviolenta, accompagnata da educazione alla pace e concreta azione per la pace, in tutte le sue dimensioni. Ecco perché condivido ciò che scrive Mao Valpiana sull’urgenza di offrire risposte alternative a quest’assurda avventura militare in Libia: Bisogna intervenire, ma con obiettivi, strategia e mezzi giusti. Esistono altre strade. Il caos libico non accetta scorciatoie. Occorre agire per mettere in sicurezza vite umane, spegnere il fuoco, ma senza produrre ulteriori vittime. Sono tante le cose da fare: la ricostruzione dell’assetto statuale libico, sostenendo con la diplomazia e la politica l’iniziativa per un accordo tra le parti e per un’azione internazionale sotto egida Onu di contrasto all’Is; la valorizzazione e la partecipazione della società civile; il coinvolgimento della Lega araba e dell’Organizzazione degli stati africani, anche al fine di mettere alle strette Qatar e Arabia saudita che finanziano le guerre in corso; bloccare le fonti di finanziamento del terrorismo, la vendita delle armi, lo sfruttamento dei disperati; garantire da parte dell’Europa assistenza umanitaria ai profughi; mettere in campo un’operazione di salvataggio”. [xi]  L’Italia ripudia la guerra e francamente credo che pochi Italiani – nonostante il martellamento mediatico sul pericolo ISIS – credano davvero che quella che si sta preparando sia una guerra di… libierazione. Ma ripudiare la guerra non può significare starsene con le mani in mano seguendo alla televisione l’evolversi degli eventi. Bisogna quindi obiettare con forza al militarismo che invade le nostre strade e penetra fin nelle scuole dei nostri figli e proclamare che la forza collettiva e diffusa della nonviolenza è l’unica via per uscirne.

NOTE _____________________________________________

[i]  F. Grignetti, “A Roma la war room anti-Isis che guiderà le azioni alleate in Libia” , Il Secolo XIX 02.03.2016) http://www.ilsecoloxix.it/p/italia/2016/03/02/ASqQmFoB-guidera_azioni_alleate.shtml

[ii]  Ivi

[iii] Fiorenza Sarzanini, “Intervento il Libia: ok a missioni segrete dei corpi speciali” , Corriere della Sera 16.02.2016) http://www.corriere.it/esteri/16_febbraio_25/intervento-libia-ok-missioni-segrete-nostri-corpi-speciali-ccd07350-dc03-11e5-b9ca-09e1837d908b.shtml

[iv]  Ermete Ferraro, Ragion di Stato…Maggiore, http://ermetespeacebook.com/2015/01/16/ragion-di-stato-maggiore/

[v]  Gianluca Di Feo, “Libia, nuclei d’assalto e sostegno dal mare: Italia pronta all’intervento”, la Repubblica 04.03.2016  http://www.repubblica.it/esteri/2016/03/04/news/il_dossier_il_primo_contingente_potrebbe_muoversi_entro_10_giorni_ma_restano_i_dubbi_sul_quadro_legale_e_sugli_obiettivi-134727115/

[vi]  Ivi

[vii] Fabio Martini, “Renzi sceglie la prudenza: ‘Il Libia niente fughe in avanti”, La Stampa 04.03.2015 https://www.lastampa.it/2016/03/04/italia/politica/renzi-sceglie-la-prudenza-in-libia-niente-fughe-in-avanti-yz4nLVtxDSmrIuGy9Xue0H/pagina.html

[viii] Luigi Grassia, “Intervento in Libia: gli analisti fanno i conti” , La Stampa, 04.03.2015 https://www.lastampa.it/2016/03/04/esteri/intervento-in-libia-gli-analisti-fanno-i-conti-dOXIk5FNBsAbGKfuwtvV9L/pagina.html

[ix]  ivi

[x]  Ignazio Masulli, “Le due guerre dell’Europa”, il Manifesto 03.03.2016, p. 5 (cfr. http://ilmanifesto.info/edizione/il-manifesto-del-03-03-2016/ )

[xi]  Mao Valpiana, “Il Libia la storia si ripete ma un’altra difesa è possibile”, Huffington Post 04.03.2016  http://www.huffingtonpost.it/mao-valpiana/in-libia-la-storia-si-ripete-ma-unaltra-difesa-e-possibile_b_9381754.html

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© 2016 Ermete Ferraro ( http://ermetespeacebook.com  )

SOL PERCHE’…

Come trasformare il Sole da nemico in alleato

di ERMETE FERRARO (*)

downloadSOL PERCHÉ l’attenzione globale resta focalizzata sul terrorismo più che sui terribili scenari che si prospettano a livello ambientale, non possiamo accettare che l’opinione pubblica non  sia cosciente che alla Conferenza di Parigi sul Clima ci stiamo giocando  gran parte del nostro futuro.  Del resto, non sembra esserci sufficiente coscienza neppure del fatto che lo stesso terrorismo ha origine in fenomeni per nulla estranei al modello di sviluppo attuale ed al disastro che sta provocando sugli ecosistemi, comportando cambiamenti climatici a livello planetario. I Grandi della Terra (che come USA e CINA del nostro pianeta sono soprattutto i più grandi inquinatori) hanno pochi giorni per raggiungere un’intesa sui provvedimenti da adottare per contrastare i cambiamenti climatici globali.  Ma è in gioco la Terra e l’intera umanità, non la supremazia di uno Stato o di una federazione rispetto agli altri, per cui una tal partita deve coinvolgere tutti noi, che non possiamo restarne spettatori. Anche se i media insistono sugli accordi di vertice raggiungibili in quella sede, dobbiamo quindi far sentire la nostra voce, possibilmente anche a nome di tanti altri esseri non umani, che non hanno alcuno strumento per far valere il loro diritto alla vita. Ecco perché agli appelli  a far presto e bene – fra cui quello, accorato, di Papa Francesco sulla ‘cura della casa comune’  – dovrebbero seguire scelte inequivocabili, non compromessi pasticciati o mere promesse.

SOL PERCHÉ tali promesse sono presentate come  vere e proprie rivoluzioni, non illudiamoci che siano sufficienti a fronteggiare  i disastri ambientali di cui siamo già testimoni. Gli impegni prospettati finora dai 180 stati partecipanti a COP21, infatti, non assicurano affatto il contenimento a 1,5-2 gradi del riscaldamento globale, ma rischiano di portarlo, entro il secolo, a +2,7 gradi. Non possiamo assistere impotenti a questo assurdo mercanteggiare sulla possibilità di distruggere gli equilibri sul nostro pianeta, soprattutto se le soluzioni ci sono da decenni e manca solo la volontà politica di praticarle. La biosfera è un bene comune dell’umanità e nessuno ha il diritto di accaparrarsi le risorse naturali e di mettere in forse la sopravvivenza di milioni di esseri umani, oltre che di animali e di piante. La realtà, però, è che c’è ancora chi pretende di monopolizzarle, se sulla nostra Terra si registrano ben 79 conflitti determinati da cause ambientali, di cui 19 valutati di intensità altissima (4/4).  Il legame tra una politica energetica predatoria e la ricerca di un’egemonia economica e politica attraverso una guerra combattuta ‘a pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni – per citare il Pontefice – è ormai evidente ed oggettivamente scandaloso. E’ indispensabile far crescere la coscienza collettiva di questo perverso rapporto e bisogna mobilitarsi contro un modello di sviluppo che persegue una crescita illimitata, incompatibile con gli equilibri ecologici, imponendosi con le armi ma anche col falso mito del progresso tecnologico che risolve ogni problema e col modello di vita globalizzato delle ‘monoculture della mente’.

86855548_gettyimages-494954212SOL PERCHÉ ci mostrano il Sole come la causa del riscaldamento globale e dei suoi guasti ambientali, non dobbiamo vederlo come un nemico. Esso, al contrario,  è la fonte stessa della vita del nostro pianeta e la nostra più grande risorsa energetica. Questa verità è di per sé evidente e, del resto, perfino gli stati più inquinatori – fra cui USA  e Cina – stanno facendo grandi progressi in direzione di una valorizzazione di questa immensa risorsa energetica. Ma mentre i ‘grandi’ possono permettersi di premere contemporaneamente sul pedale sia delle fonti fossili sia di quelle rinnovabili,  a partire proprio dal solare, agli stati minori non è facile seguirne l’esempio. Svanita bruscamente l’illusione dell’energia nucleare,  troppo spesso si sta ripiegando sulla folle politica delle trivellazioni, per raschiare il fondo del ‘barile’ delle risorse fossili. Però la stessa rivoluzione del Solare non può essere confusa con la pura e semplice diffusione della tecnologia fotovoltaica, se la costruzione di centrali solari ed il fiorire selvaggio d’impianti del genere non tengono conto del loro impatto ambientale o non modificano le modalità di produzione e distribuzione dell’energia elettrica.  Sebbene realtà geopolitiche enormi come il Brasile o la stessa Cina si dichiarino pronte a ricavare sempre più energia dal Sole, non è detto che si realizzi una vera rivoluzione ‘elio-centrica’, se il modello produttivo e distributivo resterà centralizzato e porterà l’ambiguo marchio delle majors dell’inquinamento globale. Il rischio d’un nuovo colonialismo energetico – sfruttando il sole con megacentrali  nei deserti del nord-Africa per esportare elettricità magari in Germania – potrebbe in effetti avere conseguenze negative, confermando un modello predatorio causa di danni e conflitti.

SOL PERCHÉ ci fanno sapere che in  Italia l’energia da fonti rinnovabili copre il 20% della richiesta e rappresenta addirittura la prima fonte di generazione elettrica (43% della produzione nazionale lorda), questo incoraggiante dato non rappresenta ancora l’affermazione d’un nuovo modello energetico. Resta il grave problema dei trasporti e della produzione di calore (il settore termico impiega il 50% del fabbisogno energetico) ed il solare in senso stretto non supera il 20% delle fonti rinnovabili impiegate (contro il quasi 48% dell’idroelettrico). Insomma, al di là dei trionfalismi,  la realtà è che il nostro ‘Paese del Sole’ si limita ad utilizzare tale risorsa in una percentuale inferiore all’8% (dati Terna 2014). D’altronde, perché il Sole non resti una risorsa energetica tra le altre ma rappresenti un’alternativa reale ed effettiva, bisogna cambiare in primo luogo la stessa idea di ‘sviluppo’. In caso contrario, sarà difficile far accettare ai paesi del c.d. Terzo Mondo (le developing countries) che ci si accorda per ridurre le emissioni proprio quando essi cominciano a produrre ed a consumare come noi abbiamo fatto finora, senza troppi scrupoli. Se invece con ‘sviluppo’ si continuerà ad indicare un indefinito progresso tecnologico ed una crescita esponenziale dei consumi, sarà impensabile invertire la marcia e scongiurare l’incombente catastrofe ecologica.

PERCHÉ IL SOLE diventi il punto centrale della ‘Civiltà’ auspicata da Antonio D’Acunto, cui è ispirata la proposta popolare di legge regionale che due anni fa è diventata legge in Campania, non ci si può accontentare di un puro e semplice incremento della percentuale di elettricità ricavata da quella fonte. Occorre ripensare collettivamente e responsabilmente un modello alternativo di sviluppo, fondato sul controllo democratico e decentrato delle risorse e sulla scelta prioritaria delle fonti rinnovabili, non solo perché ecologiche, ma anche diffuse, non monopolizzabili e gestibili dalle comunità locali. Ebbene, in Campania eravamo riusciti a far approvare all’unanimità dal Consiglio Regionale una legge rivoluzionaria in materia energetica, per aprire il capitolo di uno sviluppo alternativo ed eco-compatibile. Purtroppo il colpevole immobilismo della Giunta –dopo l’iniziale tentativo di boicottare la  L.R. n.1/2013 (Cultura e diffusione dell’energia solare il Campania), le hanno impedito di produrre almeno in parte i suoi effetti.  Eppure la Campania avrebbe potuto essere la regione-leader d’una pianificazione energetica decentrata, contrastando non solo assurdità come trivellazioni in mare e geotermia selvaggia, ma anche un uso del fotovoltaico e dell’eolico spesso irrispettoso delle risorse agricole e degli equilibri ambientali, in quanto improntato a mera speculazione o ad operazioni di dubbia trasparenza.

PERCHÉ IL SOLE diventi davvero il simbolo di quella ‘civiltà’ più equa, pacifica ed ecologica che tanti di noi auspicano, dobbiamo quindi fare molti passi avanti. La Conferenza di Parigi è l’ultima spiaggia per portare a casa almeno dei risultati parziali per un contrasto dei cambiamenti climatici. Non è pensabile, però, che il futuro dell’intera umanità –e del nostro stesso pianeta – dipendano solo dalle mediazioni in corso e dal dosaggio delle parole che sanciranno i protocolli che dovrebbero impegnare gli stati partecipanti. Deve aumentare il livello di consapevolezza ambientale dei cittadini e si devono praticare tutte le possibili soluzioni per ridurre le emissioni, partendo dal risparmio energetico ed usando modelli di produzione e di consumo a basso impatto energetico. Perché il sole non è certo il nemico da battere, ma il nostro più grande alleato nella lotta al surriscaldamento globale. La “Civiltà del Sole” che noi proponiamo consente a tutti di affermarsi, come persone e come comunità, utilizzando un bene comune a vantaggio di tutti. Perché  ‘messor lo frate Sole’  di san Francesco –  bellu e radiante cum grande splendore” – è il simbolo stesso della vita; una sorgente inesauribile di energia che non ha padroni ma solo fruitori. Perché il Sole è il nostro futuro e non vogliamo che la compromissione degli equilibri ecologici scippi tale futuro a noi ed ai nostri figli e nipoti.

 (*) Ermete Ferraro, ecopacifista, è il Presidente della Rete Campana per la Civiltà del Sole e della Biodiversità   (http://www.laciviltadelsole.org  ) .                                                                                               ————————————————————

© 2015 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

Resistere. Nonviolentemente.

   1 . “Non avrete il nostro odio…”

Ogni volta che ci troviamo a fronteggiare fatti tragiimagesci – come quelli di Parigi dei giorni scorsi – la prima reazione è quella di protestare con forza, di urlare il nostro sdegno contro qualcuno o qualcosa che riteniamo responsabile di quell’episodio. E’ una tentazione comprensibile, del tutto umana, che ci serve anche per sfogare la rabbia ed il senso d’impotenza  che ci pervadono davanti allo scempio assurdo di vite umane, ma anche di fronte alla minaccia che sembra abbattersi sulla sicurezza e la vita quotidiana di gente come noi. Questo misto di umana compassione e di vago autocompatimento  ci portano allora ad imprecare contro i ‘barbari’ che non rispettano nessuno e non si fermano davanti a nulla. Il fatto è che nelle vittime innocenti degli attacchi terroristici come quello di Parigi noi tutti ci ritroviamo un po’ riflessi, come se improvvisamente ci accorgessimo di quanto fragile è la nostra rete di protezione e di quanto ci troviamo esposti a qualsiasi minaccia, perfino nelle nostre vecchie, care ed inquinate città europee.

L’elemento fondamentale, però, è la percezione che quella minaccia ci viene da ‘fuori’, da un mondo che ci è estraneo  e che, nonostante tutto, ci sta ormai maledettamente vicino, al punto da condividere apparentemente la nostra stessa quotidianità, salvo poi esplodere improvvisamente e violentemente come una maledizione, come una mina calpestata per caso.

La seconda reazione, pertanto, è quella di guardarci intorno, per cercare solidarietà, aiuto e protezione reciproca, alla ricerca – a quel punto piuttosto tardiva – di un’unità che sembra potersi   realizzare solamente in forma di coalizione contro un nemico comune, proprio come fanno gli anticorpi quando combattono un agente infettivo, un corpo estraneo, un elemento nocivo.

Anche questo tipo di risposta, istintiva e molto umana, ci mette comunque in una posizione di difesa, di protezione della nostra stessa sopravvivenza come persone e come comunità, e quindi di reazione contro chi insidia le nostre già malferme sicurezze, sfidando sempre più da vicino il nostro modello di sviluppo e di convivenza civile, lo stile di vita che ci contraddistingue, i punti fermi politico-sociali cui noi occidentali restiamo ancorati, anche se più per pigrizia mentale che per fedeltà ai principi dei ‘padri fondatori’.  Ciò che ne deriva è l’ovvio appello affinché ‘noi’ restiamo  uniti, fermi e determinati davanti a ‘loro’, ai nemici che ci minacciano così platealmente e, per sovrappiù, con la sprezzante sicumera di chi è talmente convinto delle proprie idee da potersi far esplodere insieme a decine di detestati ‘infedeli’.

Abbiamo assistito, purtroppo ancora una volta, all’accavallarsi di dichiarazioni vibranti, testimonianze toccanti, anatemi terribili e, ovviamente, promesse impossibili da concretizzare e retoriche affermazioni di forza e saldezza. Al coro dei pur legittimi e condivisibili richiami a ‘resistere’ a questa barbarie, non accettando di lasciarsi intimidire e contrapponendo la reazione della ripresa della normalità alla paralisi della paura, si sono infatti aggiunte tante voci sgradevolmente stonate, provenienti da tanti governanti che farebbero bene a riflettere sulle loro pesanti responsabilità nell’escalation del terrore, ma anche da sciacalli politici che si affollano sempre intorno ai cadaveri, speculandoci su.

Una delle dichiarazioni più toccanti e profonde di cui abbiamo avuto notizia, viceversa, è stata postata  sul profilo facebook di un signore francese – Antoine Leiris – il quale ha perso l’amata compagna di vita in quel micidiale e cieco scoppio di violenza terroristica. “Vous n’aurez pas ma haine” (Non avrete il mio odio)– ha scritto Antoine in modo fermo, asciutto e privo di retorica, rivolgendosi direttamente a chi gliel’aveva strappata in quel modo assurdo. Non gli interessa sapere chi è stato; sa solo che sono delle ‘anime morte’, gente che uccide ciecamente in nome di quel Dio il cui cuore sta invece trafiggendo con le stesse pallottole che hanno colpito la moglie.

“Allora non vi farò il regalo di odiarvi. Voi lo avete ben cercato ma rispondere all’odio con la collera sarebbe come cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi ciò che siete. Voi volete che io abbia paura, che guardi i miei concittadini con occhio diffidente, che sacrifichi la mia libertà in cambio della sicurezza. Avete perso […] Siamo due, mio figlio ed io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo […] (Lui) ha appena 17 mesi, si prepara a mangiare il suo cibo come tutti i giorni, poi andremo a giocare come tutti i giorni e per tutta la sua vita questo bambino vi farà l’affronto di essere felice e libero. Perché no, non avrete più il suo odio.” [1]

In queste nobili parole, piene di dignità e coraggio civile, penso che si possa e si debba racchiudere l’unica risposta sensata alla violenza cieca di chi crede di servire una causa ma sta solo causando un servizio alla logica spietata della guerra.

2 . Come contrastare il terrorismo e la guerra?

images (1)In un editoriale, il Movimento Nonviolento ha giustamente contrapposto la nonviolenza alla barbarie, prendendo atto che ormai la guerra non è qualcosa cui assistiamo dai nostri teleschermi, proprio come fanno i ragazzi con i videogiochi, bensì una realtà tragicamente vicina e palpabile.

Ed eccola qui, la guerra. E’ arrivata anche alla porta accanto. Con il suo orrore, il terrore, il sangue, i corpi morti. Quando la vedi con i tuoi occhi capisci davvero perché è “il più grande crimine contro l’umanità”. E’ un’unica guerra che si mimetizza in varie forme, che si ciba dello stesso odio e defeca la stessa violenza. E’ sempre la stessa cosa, compiuta da eserciti addestrati, ben armati, finanziati, le cui vittime sono soprattutto i civili innocenti.” [2]

Sì, è proprio vero: piangere i morti ed esprimere solidarietà non serve a nulla se tutto continua ad andare per la vecchia e perversa strada della risposta violenta alla violenza, perpetuando una tragedia che accompagna l’umanità da millenni.  Reagire si deve, ma bisogna farlo evitando di ripercorrere quella solita storia,  che vuol dire ricadere nella tragica spirale della risposta bellica.

Bisogna reagire, ma in modo creativo e costruttivo,  a chi ha fatto della morte e della distruzione il suo unico progetto di vita.  Senza dimenticare però che se tutto ciò è diventato possibile è anche perché la nostra avidità di potere e di risorse ha reso un inferno vivere in certi territori, al punto tale che morire per una causa pseudo religiosa può diventare l’alternativa ad una vita normale cui non si ha diritto. Come ci ricorda il Movimento Nonviolento:

Il terrorismo e la guerra (che è una forma di terrorismo su vasta scala) si contrastano con strumenti altrettanto forti, ma con spinta contraria. Siamo anche noi dentro il conflitto, e lo dobbiamo affrontare con soluzioni opposte a quelle perseguite finora. L’alternativa oggi è secca: nonviolenza o barbarie.”  [3]

E evidente – anche se nessuno ce lo dirà ufficialmente – che la strategia delle risposte violente al terrorismo risulta del tutto fallimentare, come ha giustamente sottolineato in un suo articolo Pasquale Pugliese. D’altronde, se il fine ultimo delle azioni terroristiche è quello di renderci tutti più feroci e spietati, anche in questo caso la nostra risposta non può che essere negativa. Chi semina morte indiscriminatamente ed in nome d’un fanatismo integralista non deve avere il nostro odio, perché  non deve riuscire ad imbarbarire anche noi. Basta solo che non presumiamo di essere i ‘buoni’ che lottano contro i ‘cattivi’,  perché questo ruolo di vittime innocenti possiamo riconoscerlo a chi si è visto stroncare la vita mentre assisteva ad un concerto o mangiava in un ristorante, non di certo a coloro che – ufficialmente o di nascosto – per anni hanno alimentato conflitti insanabili, vecchi odi e contrasti, ricorrendo spregiudicatamente al traffico di armi ed all’addestramento di mercenari e spie.

In Europa ci siamo illusi di poter fare guerre ovunque e vendere armi a tutti senza subirne le conseguenze. Abbiamo giocato col fuoco e ci siamo bruciati. Oltre a bruciare, ogni anno, centinaia di miliardi di euro in spese militari “ scrive Pugliese, che così conclude la sua analisi:  “La via da seguire è quella della nonviolenza. Sul piano personale e su quello politico. La via del diritto, della cooperazione, del dialogo, delle alleanze con chi in ogni luogo cerca la pace, della riduzione drastica della produzione e del traffico di armi, dei corpi civili di pace per affrontare i conflitti prima che diventino guerre,della polizia internazionale per fermare chi si pone fuori dal contesto legale dell’Onu. Il terrorismo e la guerra (che è una forma di terrorismo su vasta scala) si contrastano con strumenti altrettanto forti, ma con spinta contraria. Siamo anche noi dentro il conflitto, e lo dobbiamo affrontare con soluzioni opposte a quelle perseguite finora. L’alternativa oggi è secca: nonviolenza o barbarie. Anzi, ancora più secca, intelligenza o stupidità.” [4]

La verità, per citare un altro articolo apparso in questi giorni, è che:     “La violenza è il problema, mai la soluzione”, ed infatti anche questo nuovo terribile massacro è frutto della “violenza brutale, alimentata dall’odio, dall’intolleranza, dalla discriminazione, dal fanatismo e dalla vendetta.” [5]

La voce ‘terrorismo’ del “Dictionnaire de la Non-Violence” – curato dall’Institut de recherche sur la Rèsolution Non-Violente des Conflicts di Montreuil (Francia) ci offre altri spunti di riflessione:

“Di fronte al terrorismo, sia gli Stati sia l’opinione pubblica danno prova d’un indignazione selettiva, che tende a banalizzare le altre forme di violenza. Certo, il terrorismo non merita alcuna compiacenza ed i suoi metodi sono effettivamente criminali. Certo, il terrorismo ammazza degli innocenti, ma la guerra non ucciderebbe forse che i colpevoli? […] Il discorso etico della nonviolenza, il giudizio etico condotto sul terrorismo, deve essere ugualmente guidato dagli stessi criteri fondamentali di quelli cui ci si riferisce abitualmente per giudicare la violenza. Il discorso  che condanna il terrorismo avrà tanto meno forza e coerenza se, d’altronde, giustifica altre forme di azione violenta, che non sono meno mortifere e che possono essere altrettanto criminali.” [6] 

3. Strategie nonviolente anti-terrore

images (2)Il fatto è che, di fronte al bagno di sangue di Parigi, non bastano le dichiarazioni di principio. La gente si aspetta che dal movimento pacifista vengano parole chiare, proposte alternative, strategie efficaci e non solo giuste. In un articolo pubblicato nel luglio del 2014 su vari periodici, fra cui Peace Worker, una ricercatrice per la pace dell’università di Portland (USA) aveva già cercato di proporre una strategia in tre fasi per un ‘antiterrorismo’ nonviolento:

“Per prima cosa, smettere immediatamente d’inviare finanziamenti ed armamenti a tutte le parti coinvolte […]Dieci anni di terrorismo e noi pensiamo ancora che le nostre armi non stiano cadendo nelle mani ‘sbagliate’? Quelle in cui esse cadono sono già ‘sbagliate’. Se vi serve un buon esempio, date un’occhiata ai nostri beniamini, l’Esercito Siriano Libero ed alle loro plateali violazioni dei diritti umani, come l’utilizzo di bambini soldati, documentato dall’Osservatorio sui Diritti Umani (HRW) nel 2013 e 2014. Secondo, investire pienamente in iniziative di sviluppo sociale ed economico in ogni regione in cui sono impegnati gruppi terroristi[…] Se vogliamo indebolire ISIS ed ogni altro gruppo impegnato in attività terroristiche, dobbiamo cominciare a concentrarci  sulle esigenze cui essi danno risposta in quelle comunità. Le comunità locali in una regione dovrebbero essere auto-sostenibili ed  i civili dovrebbero sentirsi messi in grado di provvedere a se stessi e alle loro famiglie senza ricorrere alle armi o usare violenza. In terzo luogo, sostenere pienamente tutti gli eventuali movimenti di resistenza nonviolenta della società civile. […] Erica Chenowet e Maria Stephen , nel loro innovative studio del 2011 sulla resistenza civile – intitolato “Perché la resistenza civile funziona”-  hanno rilevato che: “…tra il 1900 ed il 2006, le campagne di resistenza nonviolenta, sono state capaci quasi in misura doppia di conseguire pieno e parziale successo, rispetto alle loro controparti violente…” [7] 

Ho già affrontato la questione in un mio precedente articolo dello scorso aprile, nel quale ho cercato di delineare una posizione ecopacifista nei confronti della sfida del terrorismo islamista, ma soprattutto dell’escalation bellicista che, alimentata dalla strage di Parigi, sta raggiungendo in questi giorni un’ulteriore acme. In questi ultimi anni, osservavo allora, chi si schiera contro le rappresaglie armate è accusato di non voler tutelare la sicurezza nazionale e di cedere alla minaccia terrorista, mentre è sotto gli occhi di tutti che le prodezze della linea guerrafondaia sono riuscite solo a rafforzare la strategia violenta dei movimenti islamisti.

“La nostra martellante propaganda anti-jihadista, paradossalmente, è riuscita a partorire un estremismo islamico ancor più feroce e combattivo, evocando un assurdo clima da crociate, di cui hanno fatto le spese in particolar modo le minoranze cristiane dei paesi arabi. La radicalizzazione del conflitto, però, non è stata un indesiderabile ‘effetto collaterale’ della escalation militare degli ultimi anni. E’ stata piuttosto la logica conclusione di una serie di scelte sbagliate, affrettate e miopi da parte di un sistema che, dipendente com’è dal complesso militare-industriale, alimenta nuove guerre, utilizzando anche l’arma della guerra psicologica” [8]

Ecco perché il movimento italiano per la pace deve scuotersi, superando gli slogan ma anche il mentalismo politichese di chi pensa che i conflitti armati si risolvano solo prendendo coscienza delle loro cause e schierandosi in qualche modo da una parte o dall’altra.  Ci troviamo a fronteggiare una situazione estremamente complessa e delicata, dove è piuttosto facile scovare e denunciare le responsabilità e demistificare gli inganni mediatici, ma molto più difficile fornire soluzioni che sfuggano alla logica perversa della violenza. Per esorcizzare il mostro cui abbiamo irresponsabilmente dato vita non basta dissociarsi, perché – come scrive l’IFOR in un suo comunicato:

 “… il terrorismo non esiste in un vuoto, ma all’interno di un contesto globale d’instabilità, causato ed esacerbato dalla guerra in corso, da operazioni clandestine, dalla repressione militare e poliziesca, dalla povertà e dall’abbandono […] Noi siamo impegnati a trovare mezzi per scoraggiare la violenza e costruire la nostra comunità. Siamo impegnati a cercare vie per prevenire che i giovani scelgano la violenza come un mezzo per formare ed affermare la propria identità. Siamo impegnati a sfidare la guerra e le strutture ingiuste che consentano alle ideologie violente di fiorire.”[10]

Anche il movimento per la pace italiano deve assolutamente trovare un’unità per fronteggiare questa sfida, che è culturale e sociale prima ancora che politica.

© 2015 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

NOTE——————————————–

[1]  http://www.la-croix.com/Actualite/France/Vous-n-aurez-pas-ma-haine-le-temoignage-d-Antoine-Leiris-2015-11-17-1381560– trad. mia

[2] http://www.azionenonviolenta.it/la-guerra-nonviolenza-o-barbarie/

[3]  ibidem

[4] P. Pugliese, La strategia della violenza ha fallito. Ora intelligenza contro stupidità, http://blog.vita.it/disarmato/2015/11/15/la-strategia-della-violenza-ha-fallito-ora-intelligenza-contro-stupidita/

[5] Monde sans Guerres et sans Violence (équipe de coordination nationale), La violence est le probleme, jamais la solution, https://www.pressenza.com/fr/2015/11/la-violence-est-le-probleme-jamais-la-solution/- trad.mia

[6] Cfr. “Terrorisme” , http://www.irnc.org/NonViolence/Dictionnaire/Items/5.htm -Trad. mia

[7] Erin Niemela, “Before the Next ISIS, We Need Nonviolent Counterterrorism Strategies”, Peace Worker , Salem (Ore.) July 2014, Trad. mia – http://peaceworker.org/2014/07/before-the-next-isis-we-need-nonviolent-counterterrorism-strategies/?utm_source=July+18%2C+2014+PeaceWorker+Articles&utm_campaign=This+Week%27s+PeaceWorker+Articles&utm_medium=email

[8] Ermete Ferraro, “La colomba verde e il califfo nero”, Ermete’s Peacebook, Aprile 2014, https://ermeteferraro.wordpress.com/2015/04/02/la-colomba-verde-e-il-califfo-nero/

[9] Derek Flood, “ Is There a Nonviolent Response to ISIS ? “, Huffington Post , 08.12.2014, trad. mia –  http://www.huffingtonpost.com/derek-flood/is-there-a-nonviolent-isis_b_5670512.html – Un altro ottimo contributo alla ricerca di una strategia nonviolenta contro il terrorismo è l’articolo di George Lakey, “8 Ways to Defend against Terror Nonviolently”, Waging Nonviolence, 22.1.2015, http://wagingnonviolence.org/feature/8-ways-defend-terror-nonviolently/ 

[10] IFOR, “IFOR Responds to Paris Attack”, Statement, Nov. 18, 2015, trad. mia – http://www.ifor.org/movement-news-and-updates/

NATO PER COMBATTERE

  1. images (1)

    L’amm. Mark Ferguson, Comandante US Navy Europa-Africa e JFC Naples

    CONDAN-NATO

E poi dice che uno si fissa sulle stesse questioni. Ma come diavolo si fa a non tornarci su quando siamo di fronte ad una escalation guerrafondaia, al centro della quale c’è anche la nostra Napoli, e praticamente nessuno ne parla?

Come si fa a far finta di niente, mentre dal cuore della nostra regione partono ripetuti segnali di accelerazione del processo di militarizzazione e bellicizzazione di un’Europa sempre più divisa su tutto, ma supinamente subalterna alle strategie atlantiche?

In questi mesi a Napoli i media – nazionali e locali – ci hanno informato su tutto, dalla ristrutturazione dello stadio alle iniziative per la stagione turistica, dalla chiusura per assemblea di qualche sito archeologico all’abortito ‘village’ del lungomare.  Nessuna informazione, però, riguardava alcune importanti decisioni che prevedono la leadership strategica del Comando NATO del Sud Europa (JFC Naples), che dalla sede storica di Bagnoli, si è trasferito da dicembre 2012 nel mega- Quartier Generale di Lago Patria (Giugliano-NA), sotto la guida d’un ammiraglio che, guarda caso, è anche a capo del Comando U.S. Navy per l’Europa e l’Africa [1].

Se si sfogliano i quotidiani più importanti, infatti, non c’è quasi traccia dell’incalzante processo di trasformazione di un comando periferico nel polo del rilancio della strategia bellica della NATO sull’Europa mediterranea, i Balcani e l’Africa. Eppure non si tratta di piani top secret da non divulgare, visto che gli stessi siti web del JFC Naples e del Comando Europeo [2] non fanno certo mistero dei suoi progetti, ma piuttosto ne esaltano la portata con trionfalistici comunicati stampa e perfino con video promozionali [3].

L’unica notizia che abbia vagamente a che fare con l’ulteriore consolidamento delle strutture militare nell’area napoletana è apparsa in questi giorni su Il Mattino [4] e riguarda l’ampliamento della storica Accademia della Nunziatella, che si candida a diventare “Scuola Militare Europea” .

Un chiaro segnale di ‘normalizzazione’ del sistema militare, presentato peraltro dalla giunta de Magistris come una pura e semplice ‘permuta’ con un altro immobile, banalizzandone la portata.  Ma mentre l’accademia militare della Nunziatella [5] – particolarmente cara al capo di gabinetto del Sindaco di Napoli, che ne è ex allievo – sfratta una caserma della Polizia per allargarsi ancor di più sulla Palepoli di Pizzofalcone, a poche decine di chilometri, nel giulianese, i molto più informali militari della NATO – senza spadino e cappellino borbonico – si esercitano incessantemente alla pratica dei loro giochi di guerra, sempre più teleguidati e ipertecnologici.

  1. CONTAMI-NATO

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    Veduta dall’alto del complesso JFC , presso Lago Patria (Giugliano NA)

     

Ciò che risulta strano è che anche quelli che ritengono che la NATO sia un imprescindibile baluardo della democrazia e della sicurezza in questi mesi non si siano spesi nel tessere le lodi delle operazioni militari che stanno rendendo Napoli e la Campania la succursale del Pentagono sullo scacchiere strategico sud-orientale. Nulla. E’ come se un avveniristico complesso di 7 piani (2 dei quali interrati), spalmato su 330.000 mq di superficie, progettato per un numero di militari che va da 2.500 a 5.000 unità e che ospita il secondo comando supremo dell’Alleanza Atlantica dopo quello di Bruxelles [6] fosse una struttura qualsiasi, magari un po’ ingombrante ma priva di particolare importanza.

Eppure, dal dicembre 2012 in cui il nuovo quartier generale è stato inaugurato, i due comandanti che si sono susseguiti non hanno certo nascosto la loro intenzione di “far ruggire il leone” che fa da stemma al JFC Naples , trasformandolo sempre più in un “warfighting headquarters”, un vero e proprio comando per operazioni belliche [7].

Eppure non è che due anni e mezzo di manovre militari e di operazioni sul mare per terra e nel cielo potessero passare inosservate, anche se politici nazionali, amministratori locali ed operatori dei media preferiscono nascondere la testa nella sabbia. Da anni, infatti, essi si guardano bene dall’informare i cittadini di quel che succede nel triangolo della morte compreso fra Capodichino, Licola e Gricignano, di cui ho parlato in un mio precedente articolo [8], sicuramente non meno pericoloso della famigerata Terra dei fuochi con cui, guarda caso, in parte coincide.

Eppure è da sedici anni (1999) che dall’ex Comando dell’AFSouth di Bagnoli (Allied Forces Southern Europe) si sono dirette le operazioni militari della Kosovo Force (6000 uomini di 29 paesi aderenti alla NATO [9].

Eppure è da un decennio (2005) che, dal Quartier generale di Napoli, la stessa NATO offre benevolmente il suo supporto militare anche all’Unione Africana, per “costruire la sua architettura di sicurezza” [10]. Per non parlare di altre ‘missioni’ pilotate dal comando napoletano, come la Stabilisation Force (SFOR-IFOR) che da altrettanti anni essa guida a Sarajevo [11] , con collegamenti anche con l’Ufficio di Collegamento NATO di Skopje [12] e quello di Belgrado [13], al cui vertice dal 2014 c’è un generale italiano.

Eppure, dalla fine del XX secolo a questi 15 anni del successivo, il Comando Sud-Europeo della NATO è stato a capo di ben 11 operazioni ‘alleate’, dietro i cui fantasiosi nomi si celavano minacciose esercitazioni belliche, volte a consolidare il controllo su tutta l’area mediterranea balcanica ed africana.[14]  Sforzo attivo, Protettore unificato, Raccolto essenziale, Garante determinato, Occhio d’aquila, Guardiano congiunto e simili non erano infatti titoli di videogiochi, ma i retorici nomi in codice di quei dispendiosi giochi di guerra della NATO.

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    Stemma dell’esercitazione NATO”Trident Juncture 2015″

D’altra parte, l’ultima operazione si è appena conclusa il mese scorso. Essa, per la prima volta, ha visto il JFC di Napoli addirittura in trasferta a Cincu, una cittadina della Romania centrale, dove un migliaio di soldati ‘alleati’ hanno partecipato – dal 17 al 28 giugno –  all’operazione Trident Joust 15 (Torneo del Tridente ‘15). Il suo scopo era: “…mettere alla prova l’abilità del Comando Interforze di Napoli nel condurre un’operazione di difesa collettiva per conto dell’Alleanza”, come ha dichiarato l’Amm. Ferguson, Comandante  sia il JFCNP sia il CNE-CNA [15].  Ed ecco che, subito dopo le meritate vacanze estive, i vertici della NATO hanno  pensato bene di aprire il nuovo anno bellico con un’altra spettacolare operazione interforze: “…la più vasta esercitazione militare dal 2002, che metterà insieme più di 36.000 persone d’una trentina di paesi, alleati e partners, così come organizzazioni internazionali e non-governative nei tre paesi del suo fianco sud (Spagna, Portogallo ed Italia […] Dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989 e dalla fine della Guerra fredda, la NATO aveva progressivamente abbandonato l’organizzazione di grandi esercitazioni in Europa, privilegiando la preparazione delle di forze di ‘spedizione’ per intervenire su crisi lontane, come in Afghanistan, dove ha diretto per tredici anni la forza internazionale d’assistenza alla sicurezza (ISAF) .”[16]

Nonostante l’importanza quasi storica di questa nuova avventura militare, gli organi di (dis)informazione non se ne sono per nulla occupati, fatta ovviamente eccezione per i pochi giornalisti che ci mettono al corrente delle ‘grandi manovre’ pianificate e svolte dai nostri cari Alleati, con la partecipazione della nostra Repubblica che, pur ‘ripudiando la guerra’, è sempre in prima fila nelle loro sedicenti operazioni di peace-keeping.

E’ il caso degli articoli che Manlio Dinucci pubblica regolarmente su il manifesto ed altri giornali cartacei ed online, per aggiornarci sull’escalation delle operazioni NATO.

Già all’inizio di giugno, infatti, egli sottolineava la portata della nuova operazione Trident Juncture 2015 (‘Giuntura del Tridente 2015’), scrivendo che “…il Jfc Naples svolge il ruolo di comando ope­ra­tivo della «Forza di rispo­sta» Nato, il cui comando gene­rale appar­tiene al Coman­dante supremo alleato in Europa (sem­pre un gene­rale Usa nomi­nato dal Pre­si­dente). La pro­ie­zione di forze a sud va ben oltre il Nor­da­frica: lo chia­ri­sce lo stesso Coman­dante supremo, il gen. Breed­love, annun­ciando che «i mem­bri della Nato svol­ge­ranno un grande ruolo in Nor­da­frica, Sahel e Africa subsahariana» [17]

In un successivo servizio – apparso sempre su il manifesto – Dinucci ci spiegava che quella che si terrà dal 28 settembre al 6 novembre prossimi non è un’esercitazione come le altre, se si tiene conto della forza militare impegnata (“oltre 230 unità ter­re­stri, aeree e navali e forze per le ope­ra­zioni spe­ciali di oltre 30 paesi alleati e part­ner, con 36 mila uomini, oltre 60 navi e 140 aerei da guerra, più le indu­strie mili­tari di 15 paesi per valu­tare di quali altre armi ha biso­gno l’Alleanza”) [18], ma anche delle sue finalità strategiche  (“In tale qua­dro si inse­ri­sce la «Tri­dent Junc­ture 2015», che serve a testare la «Forza di rispo­sta» (40mila effet­tivi), soprat­tutto la sua «Forza di punta» ad altis­sima pron­tezza ope­ra­tiva. La TJ15 mostra «il nuovo accre­sciuto livello di ambi­zione della Nato nel con­durre la guerra moderna con­giunta», pro­vando di essere «una Alleanza con fun­zione di guida»[19].

  1. MARI-NATO 

campania armata

“Campania Bellatrix” – elaborazione grafica di E. Ferraro

Dalle aspre montagne dell’Afghanistan, quindi, lo scenario bellico si è spostato sempre più a sud, nel bacino del Mediterraneo,  dove la NATO deve fronteggiare nuove sfide, alcune delle quali peraltro sono frutto proprio della disgraziata politica imperialistica degli USA, che ha profondamente destabilizzato i precari equilibri preesistenti.

Ecco allora che la militarizzazione crescente della Campania – insieme ovviamente a quella della Sicilia – rientra in un ben preciso piano di controllo dell’area mediterranea ed africana. Questo redivivo Regno delle Due NATO mantiene infatti la sua indiscussa capitale nella Città Metropolitana di Napoli (in cui ricadono lo stesso capoluogo ma anche l’intera area domiziano-giulianese), ma si allarga fino a comprendere le basi alleate e statunitensi sparse nella Trinacria, da quella aerea principale di Sigonella al MUOS di Niscemi, passando per Augusta, Trapani, Pantelleria e Lampedusa [20].

Ma noi Italiani siamo troppo impegnati a seguire le peripezie del fu-centrosinistra e del fu-centrodestra per occuparci di queste sciocchezze.  Non c’è dubbio che l’aumento dell’IVA o un ulteriore slittamento dell’età pensionabile siano questioni che attirano molta più attenzione di quelle concernenti la trasformazione del meridione della penisola in un’incontrollabile portaerei, sul cui ponte di comando c’è saldamente il solito ammiraglio americano con due berretti [21].

E’ però impossibile ignorare l’ingombrante presenza di quell’esercito di occupazione che, dalla fine della seconda guerra mondiale, continua a ‘proteggerci’ , da Aviano  fino a Trapani. Così come dovrebbe essere difficile non notare che l’Italia stessa, anche a prescindere dalle truppe USA e NATO che vi si sono stanziate, è già uno di per sé uno dei paesi più militarizzati al mondo, recentemente sceso al 67° posto, ma sempre davanti ad altri Paesi europei come la Polonia (74°), la Spagna (84°), il Belgio (85°), la Germania (87°) o l’Irlanda (108°) [22].

L’Indice Globale della Militarizzazione – che assomma i dati relativi alle spese militari, al personale impiegato nel settore ed agli armamenti dispiegati – vede non a caso nella sua assai poco lodevole Top Ten, al 9° posto, nientemeno la Grecia, con la vicina Turchia piazzata al 24° posto a livello globale.  Forse con un po’ di attenzione avremmo capito qualcosa in più della recente crisi greca, che è sicuramente di natura economica, ma che ha pesato assai più sul piano politico-strategico, visto il ruolo chiave che la repubblica ellenica occupa nella NATO.

Però parlare di queste cose è poco trendy. Giornali e radio-televisioni preferiscono il gossip politicante e le veline governative su come tutto va per il meglio nel nostro Bel Paese.  A quanto pare bisogna lasciare le notizie sulle guerre prossime venture ai ‘gufi’ di professione e ad altri profeti di sventura, che spesso sono gli stessi che mettono in guardia anche contro i cambiamenti climatici e le loro cause o denunciano il nostro devastante modello di sviluppo, energivoro ed antiecologico.

Certo: in una decina di giorni di Settembre una trentina di Paesi, compreso il nostro,  manderanno allegramente in fumo milioni di preziose risorse economiche – probabilmente con gravi ricadute anche ambientali – solo per dar prova della propria capacità di distruzione e di controllo del territorio, del mare e del cielo. Ma cosa rappresenta questo di fronte alla ripresa dell’anno scolastico, alle riforme costituzionali, all’IMU sulle scuole parificate ed alle alleanze per portare l’Italia alla ‘crescita’?

Stiamo attenti, però, che il minaccioso ‘Tridente’ brandito dal mitologico dio NATO non laceri solo l’economia – come ha già fatto con la Grecia – ma anche la nostra stessa sicurezza.

NOTE

[1] http://cne-cna-c6f.dodlive.mil/

[2] www.jfcnaples.nato.int/  – http://www.jfcbs.nato.int/trident-juncture.aspx

[3] http://www.ac.nato.int/page5931922/the-air-part-of-nato-joint-exercise-ttrident-juncture-2015.aspxhttps://www.youtube.com/watch?v=9f_w3MWbm-U

[4] http://www.ilmattino.it/NAPOLI/CRONACA/nunziatella_scuola_militare_napoli/notizie/1485546.shtml

[5] http://www.esercito.difesa.it/organizzazione/aree-di-vertice/comando-per-la-formazione-specializzazione-e-dottrina-dell-esercito/Accademia-Militare/Nunziatella

[6] Ermete Ferraro, Un preoccupante Neo-Nato (30.4.2012) > https://ermeteferraro.wordpress.com/2012/04/30/lago-patria-un-preoccupante-neo-nato/ ),

[7] Idem , Fa’ ruggire il leone (11.5.2012) > https://ermeteferraro.wordpress.com/2012/05/11/fa-ruggire-il-leone/

[8] Idem, Campania Bellatrix (20.3.2013) > http://www.pacedisarmo.org/pacedisarmo/articles/art_11270.html

[9] http://www.aco.nato.int/kfor.aspx

[10] http://www.jfcnaples.nato.int/current_operations/ns2au.aspx

[11] http://www.jfcnaples.nato.int/hqsarajevo.aspx

[12] http://www.jfcnaples.nato.int/hqskopje.aspx

[13] http://www.jfcnaples.nato.int/operations_mlo_belgrade.aspx

[14] http://www.jfcnaples.nato.int/page71815316.aspx

[15] JFC Naples will for the first time base out to another location – the Shooting Range at Cincu >   http://actmedia.eu/daily/jfc-naples-will-for-the-first-time-base-out-to-another-location-the-shooting-range-at-cincu/58532 (traduz. mia). Vedi anche: Nato trasferisce il il quartier generale sud da Napoli in Romania > http://it.sputniknews.com/italia/20150507/357678.html#ixzz3h6qP0sKy

[16]  http://www.7sur7.be/7s7/fr/1505/Monde/article/detail/2395316/2015/07/15/L-Otan-sur-le-pied-de-guerre.dhtml (traduz. mia)

[17] Manlio Dinucci, La NATO lancia il tridente (16.6.2015 ) > http://ilmanifesto.info/la-nato-lancia-il-tridente/  

[18] Idem , La U.E. si arruola nella NATO (21.7.2015) > http://ilmanifesto.info/la-ue-si-arruola-nella-nato/

[19] Ibidem

[20] Cfr. Mappa delle basi militari in Italia > http://www.ansuitalia.it/Sito/index.php?mod=read&id=1266847177  e http://www.difesaonline.it/index.php/it/13-notizie/mondo/2720-la-sicilia-sta-per-diventare-la-base-piu-importante-della-nato . Vedi pure l’articolo di Antonio Mazzeo, Al via la campagna contro le basi NATO e Usa in Sicilia > http://www.disarmiamoli.org/index2.php?option=com_content&do_pdf=1&id=335

[21] Sulla questione del “Two hats Commander” cfr. http://www.dtic.mil/dtic/tr/fulltext/u2/a526085.pdf

[22] Fonte: Jan Grebe, Global Militarization Index 2014 > https://www.bicc.de/uploads/tx_bicctools/141209_GMI_ENG.pdf – Sulla militarizzazione della Grecia cfr. anche: Σε ρόλο ΝΑΤΟικού εκπαιδευτή οι Ενοπλες Δυνάμεις  (Le forze armate nel ruolo di formatore NATO) > http://www.rizospastis.gr/story.do?id=8515264  10.7.15

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© 2015 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

La colomba verde e il califfo nero

Resistenza a terrorismo ed integralismo islamista: una prospettiva nonviolenta ed ecopacifista   di Ermete Ferraro (*)

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1 – Guerra all’ISIS: la mistificazione degli interventisti

E’ molto difficile che in Italia si parli di nonviolenza e, specificamente, di difesa nonviolenta come forma di resistenza pacifica e non armata. E’ ancora più raro che si affronti apertamente questo argomento in un contesto che si riferisca all’escalation del terrorismo islamista ed ai preoccupanti focolai di guerra di cui abbiamo sentiamo parlare quasi ogni giorno, ma sempre secondo i consueti schemi mentali di una cultura che conosce poco e male l’alternativa nonviolenta e per la quale l’unica difesa possibile resta comunque quella militare.

Si accenna talvolta anche ad una terza via, quella classicamente definita ‘diplomatica’, che vede impegnate le cancellerie dei vari stati coinvolti in una trattativa che punta ad una mediazione accettabile tra le parti in conflitto,  così come non manca chi ipotizza piuttosto un uso maggiore dei cosiddetti servizi, cioè del controspionaggio, in funzione sia di collegamento ufficioso e supporto alla diplomazia, sia di vere e proprie azioni di ‘intelligence’.

Quel che è certo è che il bombardamento mediatico ci fa sentire sotto assedio, sempre più direttamente coinvolti in conflitti che, ormai da un po’, sembrerebbero sfuggire ad ogni tradizionale logica geo-politica, proprio perché al terrorismo islamista si è ormai sovrapposta una strategia bellica  vera e propria, e per di più a distanza ravvicinata dalle nostre coste.

Questo, ovviamente, offre sempre più frequenti occasioni di proclami bellicisti ad una destra che va caratterizzandosi in senso nazionalista e xenofobo, ma anche di una sedicente sinistra decisionista ed inguaribilmente filo atlantica.

Da parte sua, il movimento pacifista italiano, cronicamente indebolito dalla frammentazione dei gruppi e dall’incapacità di uscire dalla pura e semplice testimonianza, stenta a dare una risposta a questa tendenza all’utilizzo dei media per diffondere paura e luoghi comuni, facendo il gioco dei terroristi e disseminando la sensazione della quasi ineluttabilità d’un coinvolgimento del nostro Paese in azioni militari, in risposta alla minaccia islamista.

Certo, dopo che già ci siamo cascati in altre circostanze, e soprattutto dopo gli evidenti risultati negativi di quelle esperienze, perfino alla stampa ed alle emittenti radio-televisive riesce ormai difficile parlare di azioni di “peacekeeping”. L’ipocrisia della ‘neolingua’ dei politici non riesce più a nascondere, ad esempio, che un intervento armato in Libia – come quello ventilato recentemente – sarebbe fatalmente un’azione di guerra.

Il fatto che colpisce maggiormente è che questa demistificazione delle finte azioni di pace, in passato definite perfino ‘umanitarie’ – viene proprio da chi sa esattamente di che cosa si sta parlando, cioè dai militari. Non è un caso, infatti, che un ex-Capo di stato maggiore della Difesa, il gen. Mario Arpino, si sia associato ad alcuni suoi autorevoli omologhi statunitensi nel criticare  la sconcertante approssimazione dei politici nel trattare di questi problemi.

 «Sulla scottante questione libica prevale la tesi per cui è meglio evitare interventi militari esterni, altrimenti la situazione potrebbe diventare ingestibile. Eppure certi Paesi come la Francia mandano verso quei territori le loro portaerei dando l’impressione di volersi muovere.
“Sì, ecco, la Francia. Un’altra minaccia secondo me è proprio la Francia. Ogni volta che si muove fa disastri. […] Dietro la foglia di fico del voler proteggere qualcosa o qualcuno, probabilmente si cela sempre l’intento di fare i fatti propri. Ci hanno trascinato in un conflitto destabilizzando il padrone del momento, Mu’ammar Gheddaffi, dipinto come poco democratico, ma stiamo scoprendo quanto sia inutile cercare padroni democratici in Medio Oriente. Anzi, forse è impossibile trovarne. Il rischio è continuare a dare in pasto all’Isis e ai suoi simili argomenti e motivi per crescere e prosperare, di fornire ciccia al cane”.

Si parla in compenso di soluzione politica, cosa può significare in concreto?

[…] Soluzione politica significa qualunque cosa che non sia guerra. Bisogna allora stabilire se ci sono le condizioni per far colloquiare almeno i principali responsabili. Ed è ciò che sta facendo, tutto sommato, l’Onu in particolare con l’inviato speciale Bernardino Leon per la creazione di un governo di unità nazionale.» [i]

D’altra parte, se solo non ci si fa prendere la mano dalla propaganda interventista e si ritorna col pensiero ai miserandi risultati delle precedenti ‘spedizioni’ militari italiane, non si può fare a meno di constatare  che, anche prescindendo dal tragico bilancio dei morti, dei feriti e dei danni provocati da quelle azioni armate, non si può assolutamente affermare che esse siano servite ad arginare il pericolo islamista o a ridimensionarne l’impatto sull’Europa.

Spiega Loretta Napoleoni, economista ed esperta di terrorismo internazionale:

«L’Occidente dovrebbe smetterla di agire d’impulso e usare di più la diplomazia. Abbiamo fatto la guerra in Iraq nel 2003 e oggi ci ritroviamo i jihadisti dieci volte più forti. L’unica strada è quella indicata dal Papa: dialogo e azione sotto traccia per capire gli obiettivi dello stato islamico […] »Abbiamo  già visto che la guerra ha prodotto destabilizzazione sia in Iraq che in Libia a meno che non sia un intervento militare di lunghissimo periodo e questo significa tornare a una forma di neo colonizzazione  e questo è impossibile dal punto di vista politico e inaccettabile dalla popolazione occidentale. L’unica strada è quella prospettata da papa Francesco qualche mese fa: dialogo e diplomazia». [ii]

Il guaio è che dire la verità, mostrare quanto è nudo il re della guerra, è considerata una possibilità da scartare, sia per non disturbare i balbettii spesso contraddittori dei politici, sia perché si teme di passare per disfattisti, per filo-islamici o semplicemente per inguaribili ingenui.

Eppure, come dichiara in un’intervista un ex generale della NATO come Fabio Mini, è innegabile che un coinvolgimento diretto dell’Italia in uno scenario come quello libico (di per sé evocante  gli spettri del colonialismo) ci costerebbe davvero molto caro, cioè circa 50 morti alla settimana…

« È una guerra e non una missione di pace» precisa ancora Mini. Una guerra per cui servirebbero «come minino 50 mila uomini per controllare il territorio, fermare le auto, sorvegliare gli spostamenti, schedare le persone». «Gli interventi aerei servono a garantire le basi» è la strategia, «e non a colpire in maniera indiscriminata, seguendo quanto sta facendo l’Egitto, perché in quel caso, in territori dove non tutti ci sono ostili hai solo la certezza di farti odiare da tutti. Perché se a uno che non ti sta combattendo uccidi un famigliare, anche per sbaglio, quello dal giorno dopo sarà un tuo nemico».[iii]

Una guerra, dunque, e per di più sanguinosa, destinata a farci odiare da tutti e senza speranza di risolvere nulla. Ma allora perché non tentare strade diverse, alternative alle solite carneficine spacciate per operazioni di ‘polizia internazionale’ o, peggio ancora, per ‘missioni di pace’?

2 – Fallimento delle soluzioni armate contro terrorismo e integralismo 

Il gioco è sempre lo stesso, mistificatorio come la soluzione bellica che propugna. Basta  colpevolizzare chi è contro  gli interventi militari sbandierando il solito argomento della sicurezza nazionale minacciata. Eppure basterebbe replicare che, finora, l’unico risultato delle prodezze  belliche francesi, inglesi e statunitensi è stato l’innegabile rafforzamento dei movimenti islamisti e la loro conversione dalla strategia terrorista ad una aperta sfida armata ad un generico Occidente.

La nostra martellante propaganda anti-jihadista, da parte sua, paradossalmente è riuscita a partorire un estremismo islamico ancor più feroce e combattivo, evocando un assurdo clima da crociate, di cui hanno fatto le spese in particolar modo le minoranze cristiane dei paesi arabi.

La radicalizzazione del conflitto, però, non è stata un indesiderabile ‘effetto collaterale’ della escalation militare degli ultimi anni. E’ stata piuttosto la logica conclusione di una serie di scelte sbagliate, affrettate e miopi da parte di un sistema che, dipendente com’è dal complesso militare-industriale, alimenta nuove guerre, utilizzando anche l’arma della guerra psicologica. Alle cosiddette “psy-ops” ho già dedicato in passato un approfondimento, soffermandomi appunto sulle “armi di disinformazione di massa” cui corpi speciali delle forze armate addestrano i loro agenti, nell’intento di manipolare le menti e di ‘adattare’ la realtà alle affermazioni su di essa.

«Il guaio è che la principale vittima di questi corpi militari scelti è proprio quella “verità” di cui essi vorrebbero farsi scudo ma che, per essere tale, non può né deve essere sottoposta ad un trattamento finalizzato a persuadere la gente, a cambiare i fatti e ad influenzare le opinioni. Non pensiamo, d’altra parte, che questa specie di “psycological warfare” riguardi esclusivamente i militari statunitensi ed il Pentagono. L’Italia, infatti, non ha mai smesso di far parte di quell’Alleanza Atlantica alla quale resta tuttora vincolata in tutti i sensi, al punto che la sua stessa sovranità nazionale me risulta pesantemente limitata ed il territorio ed il mare italiani sono costantemente sottoposti al ferreo controllo della NATO.» [iv]

Non è un caso che alla violenza della guerra si associ regolarmente quella della propaganda e della manipolazione delle menti. E’ l’esatto contrario della nonviolenza, la cui caratteristica è di essere invece “la forza della verità” (il significato del gandhiano “Satyagraha”), perché  – al contrario della pace che è sempre aperta e costruttiva – la guerra si nutre di odio, diffidenza e paura.

Recentemente sono apparsi alcuni articoli, prevalentemente sui media anglosassoni, riguardanti la possibilità e fattività di una resistenza nonviolenta alla minaccia dell’integralismo islamico ed alle strategie guerrafondaie dell’ISIS. Tra le voci che si sono levate in tal senso c’è quella di Erin Niemela, direttrice della rivista Peace Voice (organo dell’Oregon Peace Institute), che si è fatta promotrice di “Strategie di controterrorismo nonviolente” nei confronti del cosiddetto “Stato Islamico”, proprio a partire dal palese fallimento di quelle militari.

«Adesso basta. Tutte le politiche d’intervento violento di controterrorismo sono completamente fallite. Stiamo seminando e raccogliendo una tragedia perpetua con questa macchina di violenza e le sole persone che ne beneficiano se ne stanno sedute su una montagna  di denaro, nell’industria del conflitto […] E’ tempo di un grande cambiamento nelle strategie di gestione dei conflitti. Possiamo finalmente iniziare ad ascoltare i tanti ricercatori e gli studi con strategie scientificamente supportate per un antiterrorismo nonviolento?» [v]

Già, perché quello che la stragrande maggioranza delle persone non sa è che l’alternativa non è affatto fra l’intervento armato ed un vile e miope disimpegno. La vera alternativa è tra la risoluzione violenta e nonviolenta dei conflitti, utilizzando nel secondo caso un comportamento che è tutt’altro che passivo, in quanto si tratta di adottare una resistenza attiva e mirata. La via nonviolenta, infatti, non solo è eticamente preferibile, ma è anche molto più efficace, come hanno mostrato con chiarezza vari studi comparativi sulle soluzioni adottate ad un secolo di conflitti.

« Erica Chenoweth e Maria Stephen, nel loro innovativo studio del 2011, intitolato “Perchè la resistenza civile funziona” , hanno rilevato che “tra il 1900 ed il 2006, le campagne di resistenza nonviolenta hanno avuto quasi il doppio delle probabilità di raggiungere un successo pieno o parziale,rispetto alle loro controparti violente ” Inoltre, delle campagne di resistenza nonviolenta di successo hanno meno probabilità di degenerare in guerra civile e più possibilità di raggiungere obiettivi democratici.» [vi]

gandhiPer oltre un secolo – come si ricava dalla ricerca delle due studiose statunitensi – le campagne di resistenza civile si sono rivelate molto più efficaci di quelle militari, coinvolgendo l’attivismo dei cittadini e rendendoli protagonisti della difesa. Tutto questo, quindi, è già capitato in Polonia, in Birmania, in Iran, nelle Filippine e nella stessa Palestina. Si tratta di casi che si aggiungono a quelli, storici, di resistenza civile in Sud Africa, in Danimarca ed anche in Italia.

Insomma, non si propone né di incrociare le braccia ed attendere lo sviluppo degli eventi, adottando una discutibile neutralità fra le parti in conflitto, né di affermare un principio esclusivamente morale, senza tener conto della sua realizzabilità ed efficacia pratica. Ciò che andrebbe perseguito è piuttosto un modello di resistenza civile, non armata e popolare, che utilizzi strategie e tecniche ispirate alla nonviolenza attiva e sia capace di coinvolgere direttamente i soggetti in causa.  Questo, ovviamente, non esclude affatto interventi esterni – ad esempio quelli d’interposizione nonviolenta e perfino di tradizionale peacekeeping  da parte dell’ONU. Soprattutto, non costituisce assolutamente uno sgravio di responsabilità, scaricando l’onere della difesa esclusivamente sui diretti interessati.

E’ infatti evidente che le cause dei conflitti attuali vanno cercate negli equilibri strategici internazionali, in un sistema saldamente radicato sul complesso militare-industriale ed in una corsa all’appropriazione delle risorse naturali, in particolare energetiche, da parte di alcune superpotenze. Ecco perché interventi militari in zone calde – come la Siria o la Libia – risultano quanto meno sospetti, se sollecitati e condotti da soggetti interessati strategicamente ed economicamente a quei territori ma, soprattutto, essi sono comunque destinati a non sortire risultati reali e stabili di pacificazione, come sottolinea una studiosa italiana.

«Le operazioni militari, comportando la minaccia all’uso della violenza, spingono le parti in conflitto a interrompere la guerra solo per paura che l’intervento armato si concretizzi[…] Di conseguenza, la cessazione delle ostilità viene raggiunta tramite l’imposizione esterna di un accodo. Una soluzione di questo tipo è temporanea in quanto non affronta le problematiche che hanno provocato il conflitto. L’intero militare esterno viene poi vissuto dalle popolazioni in lotta come un’aggressione straniera da parte di altri paesi…» [vii]

Rifiutare la logica perversa della violenza, quindi, vuol dire aprire prospettive nuove ed avviare soluzioni costruttive e più stabili.

3 – ‘Give peace a chance!’: resistenza nonviolenta ed integralismo islamico

 Recentemente, sull’Huffington post è apparso un articolo di Eli S. McCarthy, docente di studi sulla pace all’Università di Georgetown, dal titolo: “ISIS: Nonviolent Resistance?” [viii] , in cui lo studioso statunitense, come la citata Irin Niemela, parte dalla constatazione che i metodi di contrasto che s’ispirano alla nonviolenza sono statisticamente più efficaci e durevoli delle azioni di guerra, comunque si pretenda di definirla.

« Abbiamo bisogno di fornire finanziamenti e formazione per gli attori della società civile locali nella vasta gamma di metodi di resistenza nonviolenta. Gli attori della società civile locali devono decidere quali tattiche sarebbero molto probabilmente efficaci, adattarle  alla loro cultura e mettere in luce la dignità umana.. . » [ix]

McCarthy passa poi a proporre otto punti fondamentali perché si possa credibilmente avviare una strategia di resistenza civile e non armata, che ha la sua concreta attuazione in operazioni di ‘Protezione Civile Disarmata’ e di ‘peacebuilding’, ossia di ricostruzione del terreno adatto alla ricostruzione ed alla ‘riconciliazione sociale’.

« a. Diminuire le risorse umane: ciò può comprendere gli sforzi fatti localmente per incoraggiare la gente a non unirsi all’ISIS e per offrire opportunità che si venga incontro, con altri mezzi, ai loro bisogni, come: il lavoro, l’istruzione, il rispetto per la religione, l’influenza politica, la cura dei traumi, l’avventura etc.. Questo potrebbe anche comprendere la creazione di linee di comunicazione con membri dell’ISIS a vari livelli, al fine di costruire relazioni tali da indurli ad una diminuzione del loro sostegno o ad una loro uscita dall’ISIS […]

b. Ridurre le persone con competenze e conoscenze-chiave : ciò comporterebbe uno sforzo più focalizzato sul creare linee di comunicazione con persone, all’interno dell’ISIS, che possiedano competenze-chiave […]

c. Ridurre la loro capacità di sanzioni: ciò potrebbe comprendere un coinvolgimento diretto a livello locale con la polizia  o i soldati nell’ ISIS,  per incoraggiarli continuamente a danneggiare meno,  come un modo per mantenere al meglio il loro ordine. […]Questo potrebbe includere anche la creazione di gruppi di controllo di quartiere come un’alternativa che ISIS può consentire e che avrebbe gradualmente ridurre i danni alle persone nella comunità, determinando così  più spazio di manovra alla società civile per organizzarsi.

d. Ridurre la loro autorità e legittimazione : ciò potrebbe comprendere un dibattito discreto e forse riunioni di piccolo gruppi, che sollevino questioni circa la loro autorità e legittimazione […]

e. Ridurre gli intoccabili:ciò potrebbe comprendere […] per esempio, l’uso dell’Islam, l’insostenibilità della rivoluzione e del controllo violento, ed il loro trattamento nei confronti delle donne e di altre minoranze. Questo può essere fatto sia a livello locale e internazionale. […]

f. Ridurre le risorse materiali: ciò sarebbe impegnativo, ma al momento opportuno e quando la gente del posto lo decide, potrebbe includere il ritardare strategicamente un pagamento o versare solo parte del pagamento di una certa imposta / tassa per l’oppressore.[…]

g. Istituzioni alternative: al momento giusto,ciò potrebbe comprendere la creazione di comitati locali – di strada, di quartiere o di città –come fu fatto in Sud Africa per l’Apartheid […]

h. Interruzioni diffuse: questo sarebbe stato difficile ma, al momento giusto e quando la gente del posto lo decide, potrebbe comprendere l’organizzazione di rallentamenti nel lavoro per cinque minuti /un’ora /mezza giornata,  o l’organizzazione di  rallentamenti nei viaggi, come nel caso dei  veicoli per le strade, ecc.»

Come si vede, buona parte delle strategie proposte rientrano nel tradizionale repertorio della resistenza nonviolenta, codificate negli scritti di M.K. Gandhi, ma soprattutto attuate nel corso della rivoluzione nonviolenta che portò alla liberazione dell’India dal dominio coloniale inglese. Si tratta di tecniche – basate prevalentemente sulla disobbedienza civile, la non-collaborazione, il boicottaggio, ma anche sulla capacità di dar vita ad organizzazioni parallele ed alternative – che il fondatore della nonviolenza in Italia, il filosofo Aldo Capitini, racchiuse nel suo fondamentale manuale apparso nel 1967 [x].

Come sottolinea opportunamente Antonino Drago in un suo libro dedicato alla storia ed alle tecniche della Nonviolenza, non si tratta di manifestare la propria obiezione di coscienza o di dare una testimonianza morale,  bensì di determinare attraverso quelle strategie effettivi risultati, ai fini della risoluzione del conflitto.

«Per tale scopo, alla nonviolenza si chiede di saper proporre azioni che siano: 1) comprensibili in termini universali, 2) comunicabili da una persona all’altra non con un lungo processo di adattamento, ma secondo un linguaggio compartecipato collettivamente e 3) efficaci sulla struttura sociale.» [xi]

Recentemente, il quotidiano cattolico francese “la Croix” ha pubblicato un articolo di Étienne Godinot (Presidente dell’Institut de Recherche sur la Résolution Non-violente des Conflits- IRNC), in cui egli si sofferma proprio sull’esigenza di passare ad un modello civile di difesa, anche quando si tratta di fronteggiare crisi internazionali come quella attuale.

« La difesa civile nonviolenta è una politica di difesa contro ogni tentativo di destabilizzazione, di controllo e d’occupazione della nostra società, coniugando, in maniera civile preparata ed organizzata, delle azioni nonviolente collettive di non-collaborazione e di confronto con l’avversario, in modo che egli sia messo nell’incapacità di raggiungere gli obiettivi della sua aggressione : l’influenza ideologica, la dominazione politica, lo sfruttamento economico.» [xii]

Tornando a McCarthy, egli chiude il suo contributo sull’ipotesi di resistenza nonviolenta all’ISIS  dichiarando che spetta alle comunità locali scegliere come e quando sperimentare dei metodi alternativi di lotta, per una trasformazione nonviolenta dei conflitti. L’appello è anche ad evitare che la propaganda mediatica ci porti a considerare gli appartenenti all’ISIS come esseri non umani, con cui non sarebbe quindi possibile altra risposta che quella armata. Alternative valide agli scontri armati ci sono, mentre abbiamo ormai ampia esperienza dell’inutilità e distruttività delle soluzioni militari.

4 – Una  prospettiva ecopacifista per l’azione nonviolenta
ulivo girasoleIn un opuscoletto dal titolo “L’ulivo e il girasole”  ho cercato di tracciare un percorso operativo per chi è già convinto che le battaglie per la pace sono strettamente correlate a quelle in difesa dell’ambiente violato, o comunque si sia reso conto che è difficile scindere fenomeni diversi, ma che hanno quasi sempre cause e moventi comuni.  Sto parlando di quella visione ecopacifista che in Italia, purtroppo, è ancora poco diffusa, e che invece potrebbe coniugare le istanze ecologiste con quelle di chi cerca un’alternativa alla guerra. Una delle cose che ho cercato di puntualizzare in quello scritto sono i suoi principi teorici, che così sintetizzavo:

«(i) L’ecopacifismo non è la pura e semplice sommatoria di obiettivi programmatici e di azioni pratiche relative alla lotta per la difesa degli equilibri ecologici e per l’opposizione al militarismo ed alla guerra. […]; (ii) L’ecopacifismo non è una dottrina politica ma neppure una semplice strategia d’azione. Sullo sfondo della proposta ecopacifista, infatti, si delinea un ben preciso modello di convivenza e di sviluppo economico e sociale […]; (iii) Il patrimonio ideale dell’ecopacifismo racchiude e coniuga varie idee-chiave che bisogna approfondire e trasformare in azione: pace positiva, giustizia sociale, democrazia dal basso, difesa della diversità culturale e linguistica, salvaguardia della biodiversità…» [xiii]

Ebbene, se si esamina la situazione attuale dello scenario in cui opera l’ISIS, è evidente che una strategia alternativa a quella degli interventi militari deve tener conto sia degli attuali equilibri geo-politici in quella regione, sia delle cause economiche di quegli infiniti conflitti e della parallela crescita del traffico di armi. Entrambi, infatti, sono stati sempre determinati dall’arrogante pretesa di  controllare le risorse energetiche ed hanno, d’altra parte, provocato enormi e persistenti danni all’ambiente naturale oltre che alla popolazione civile ed alla loro stessa possibilità di lavoro e di sopravvivenza.  Come ribadiva un documento della Rete della Conoscenza – pubblicato lo scorso agosto sul suo sito – è necessario interrompere il circolo vizioso per cui le armi alimentano i conflitti e questi ultimi richiedono l’uso di sempre nuovi armamenti.

« Le potenze occidentali hanno gravissime responsabilità nella determinazione dell’attuale situazione in Medio Oriente. La definizione di confini coloniali (quasi mai corrispondenti a identità collettive), la formazione di classi dirigenti locali strettamente legate nella loro ascesa ai partner occidentali, politiche interventiste spregiudicate a tutela dei propri interessi geo-politici ed energetici a geometria variabile hanno per decenni pesato come macigni sulla possibile affermazione di forme di auto-governo, sull’autodeterminazione delle popolazioni e sulla convivenza pacifica fra etnie e religioni diverse.» [xiv]

Ma i problemi non sono solo quelli storici di un conflitto che si trascina da decenni. Le continue azioni di guerra in Medio Oriente – si rileva in un articolo del 25 marzo scorso che cita organismi internazionali come la Croce Rossa –  stanno anche provocando catastrofi ambientali ed umanitarie,:

« Il consumo di acqua in una regione instabile, con l’aumento della popolazione era già a livelli insostenibili in molti zone colpite da basse precipitazioni record e dalla siccità, ma le guerre hanno spinto sistemi “vicino al punto di rottura”, ha detto l’agenzia assistenziale. Militanti in Siria, Iraq e Gaza hanno usato anche l’accesso all’acqua e alla corrente elettrica come “armi tattiche o come merce di scambio”, ha dichiarato in un rapporto il CICR (Comitato Internazionale della Croce Rossa).[…] “Pesanti combattimenti e la pratica del bersaglio diretto hanno distrutto condutture dell’acqua e linee elettriche, privando di  questa risorsa vitale centinaia di milioni di persone, che sono a grande rischio di malattie legate all’acqua”, ha detto Robert Mardini, capo delle operazioni del CICR per il Nord Africa e il Medio Oriente[xv]

Ecco perché è praticamente impossibile scindere le considerazioni politiche da quelle ecologiche, visto che le catastrofi umanitarie corrispondono quasi sempre a quelle ecologiche, essendo frutto della stessa violenza cieca ed irresponsabile.

“La crisi idrica globale sta provocando raccolti falliti, fame, guerra e terrorismo” – sintetizza il giornalista e ricercatore Nafeez Ahmed, che così prosegue: Il mondo sta già sperimentando la scarsità d’acqua, provocata dall’uso smodato,dalla scarsa gestione del territorio e dal cambiamento climatico […]  E’ una delle cause delle guerre e del terrorismo in Medio Oriente e oltre, e se non riusciamo a rispondere agli allarmi  (che ci sono state) prima di noi, ancor maggiori carenze di cibo e di energia affliggeranno presto  gran parte del globo, alimentando fame, insicurezza e conflitti» [xvi].

Occorre quindi una grande mobilitazione del movimento ecologista internazionale anche sulle problematiche connesse al dilagare dei conflitti armati nello scenario mediorientale, per denunciare sia la grande truffa di un falso modello di sviluppo, radicato saldamente sulle fonti energetiche fossili, sia le devastanti conseguenze di una crisi ecologica globale, determinata dalla mancata risposta ai cambiamenti climatici. Allo stesso tempo, occorre combattere la logica militarista e bellicista che sta provocando catastrofi umanitarie ma anche enormi e persistenti danni a territori già martoriati e compromessi. C’è bisogno allora d’un rinnovato impulso ad azioni comuni delle organizzazioni ambientaliste ed antimilitariste/pacifiste, perché il vero nemico da battere è la guerra, con le sue logiche distorte e le sue terribili conseguenze .

Non è certo un caso che tra gli obiettivi strategici del movimento verde internazionale c’è un ben preciso collegamento tra queste due dimensioni e che la ‘nonviolenza’ sia uno dei quattro ‘pilastri’ su cui si basano i Verdi [xvii]  che, anche a livello europeo, ribadiscono il principio del “lavorare per la pace” nel loro manifesto. [xviii]

Non dobbiamo neppure dimenticare che il complesso militare-industriale non solo è dietro i conflitti che stanno infiammando un mondo sempre più globalizzato e lottizzato – e quindi dietro le guerre, più o meno dichiarate, che stanno divampando nei vari scenari – ma è anche fonte di una diffusa militarizzazione e nuclearizzazione del territorio e dei mari, ingenerando gravi danni all’ambiente naturale, serie minacce alla biodiversità e rischi per la salute delle comunità locali.

Maxi-installazioni di potentissimi radar (come nel caso del MUOS in Sicilia); incontrollabili poligoni per esercitazioni armate in cui si usano anche proiettili con uranio impoverito, come in quello sardo di Salto di Quirra; pericolosissimi sottomarini e portaerei a propulsione nucleare che solcano indisturbate i nostri mari ed attraccano nei nostri porti; ampi terreni sottratti alle attività agricole e produttive. Sono solo alcuni dei problemi ambientali connessi non solo alle operazioni di guerra, ma anche alla crescente  militarizzazione del territorio italiano, il cui monitoraggio e controllo viene arbitrariamente sottratto alle autorità civili e sottoposto a secretazione.

A tal proposito, due ricercatrici dell’Università di Berkeley (California) hanno curato un’utilissima bibliografia delle fonti documentarie concernenti, appunto, “Guerra, Militarizzazione ed Ambiente”, nella quale si prendono in esame le varie forme d’impatto ecologico dei conflitti armati e dell’occupazione militare.  In tale documento si afferma chiaramente :

« Una vittima  degna di nota – spesso nascosta – della militarizzazione e della guerra è l’ambiente naturale. Quando ecologisti e geologi tornano a paesaggi sfregiati dai conflitti, tragedie ambientali a lungo termine iniziano ad accompagnare le tragedie umane immediate della guerra. Molto spesso le guerre sono state combattute nel contesto di un preesistente degrado ambientale o do un’intensiva estrazione di risorse naturali, portando alcuni ricercatori a indagare sulle complesse cause ambientali della guerra.» [xix]

Come nel caso delle problematiche inerenti la pace, si avverte un’estrema necessità che vengano coniugate le tre dimensioni della ricerca, dell’educazione e dell’azione anche nei confronti dei problemi ecologici derivanti dalla guerra e dal militarismo. In Italia un movimento eco pacifista deve ancora svilupparsi, ma basterebbe cominciare dal coordinamento operativo delle organizzazioni ambientaliste e pacifiste preesistenti, facendo controinformazione e stimolando la nascita o la crescita di comitati di cittadini attivi. Dare una possibilità alla pace è anche questo. [xx]

Note: —————————————————————————————————

[i]  Ignazio Dessi, Libia, il generale Arpino: Un’altra minaccia è la Francia, a volte fa disastri. Sullo sfondo c’è il petroliohttp://notizie.tiscali.it/articoli/interviste/15/02/libia-isis-generale-arpino-intervista.html

[ii]  Antonio Sanfrancesco, Napoleoni: “L’ISIS fa paura ma la guerra non serve”   > http://www.famigliacristiana.it/articolo/isis-in-libia-napoleoni-lisis-fa-paura-ma-la-guerra-non-serve.aspx

[iii]  Luca Sappino, Libia, guerra costerebbe 50 morti a settimana > http://espresso.repubblica.it/attualita/2015/02/17/news/guerra-in-libia-ci-costera-50-morti-a-settimana-1.199978

[iv] Ermete Ferraro, Spy-Ops: quando la guerra si fa con le parole  > https://ermeteferraro.wordpress.com/2012/02/04/psy-ops-quando-la-guerra-si-fa-con-le-parole/

[v]  Erin Niemela, Before the next ISIS, We Need Nonviolent Counterterrorism Strategies > http://www.peacevoice.info/2014/07/06/before-the-next-isis-we-need-nonviolent-counterterrorism-strategies/  (trad mia)

[vi]  Ibidem – La ricerca cui si fa riferimento, il cui testo è stato pubblicato solo in inglese, è: Erica Chenoweth and Maria J. Stephan, Why Civil Resistance Works – The Strategic logc of nonviolente Conflict, New York, Columbia University Press, 2012 > http://cup.columbia.edu/book/why-civil-resistance-works/9780231156820

[vii]  Giulia Zurlini Panza (a cura di), Dalla guerra alla riconciliazione, Pisa, Centro Gandhi ed., 2013, pp.44-45

[viii]  Eli McCarthy, ISIS: Nonviolent Resistance?  > http://www.huffingtonpost.com/eli-s-mccarthy/isis-nonviolent-resistanc_b_6804808.html  (trad. mia)

[ix]  Ibidem

[x] Aldo Capitini, Le tecniche della nonviolenza, ed. dell’Asino, 2009 ; il testo è difficilmente reperibile, se non nelle biblioteche. Una sintesi è pubblicata sul sito: http://www.panarchy.org/capitini/nonviolenza.html

[xi]  Antonino Drago, Storia e tecniche della nonviolenza, Napoli 2006, p.23. Vedi anche:Idem, Difesa popolare nonviolenta – Premesse teoriche, principi politici e nuovi scenari, Torino, E.G.A, 2006

[xii]  Étienne Godinot, De la résistance civile à la défense civile, in : la Croix, 12.03.2015 > http://www.la-croix.com/Articles-du-Forum/De-la-resistance-civile-a-la-defense-civile-2015-03-12-1290300

[xiii]  Ermete Ferraro, L’ulivo e il girasole, Napoli, VAS,  2014 (il manuale in formato e-book può essere scaricato su:  http://issuu.com/ermeteferraro/docs/manuale_ecopacifismo_vas_2_83d43f9735930d

[xiv]  “Iraq: altre armi non sono la risposta ai danni delle politiche occidentali” > http://www.retedellaconoscenza.it/2014/08/iraq-armi-non-sono-risposta-danni-delle-politiche-occidentali/

[xv]  Stephanie Nebehaye, War in the Middle East is pushing vital water plants ‘close to the breaking point’, Business Insider-UK > http://uk.businessinsider.com/war-in-the-middle-east-is-pushing-vital-water-plants-close-to-the-breaking-point-2015-3?r=US

[xvi]  Nafeez Ahmed, Global water crisis causing failed harvest, hunger, war and terrorism, in: The Ecologist, Mar-Apr. 2015 > http://www.theecologist.org/News/news_analysis/2803979/global_water_crisis_causing_failed_harvests_hunger_war_and_terrorism.html

[xvii]  Cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Four_Pillars_of_the_Green_Party

[xviii]  Cfr. http://europeangreens.eu/content/egp-manifesto  – “Working for Peace”,  p. 29

[xix]  Marisa N. Mitchell and Linda E. Coco (eds), War, Militarization and the Environment – Bibliography B o4-8, Berkeley, Institute of International Studies, University of California, June 2004 > http://globetrotter.berkeley.edu/bwep/greengovernance/papers/Bib/B08-MitchellCoco.pdf

[xx] Cfr., a tal proposito, anche un importante testo francese: Ben Cramer, Guerre et paix et écologie – Les risques de la militarisation durable, Gap, Edit. Yves Michel, 2014 > http://lavieenvert.ek.la/guerre-et-paix-l-ecologie-ben-cramer-a112820918

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(*) Ermete Ferraro, obiettore di coscienza nonviolento, ricercatore-educatore ed attivista per la pace, è referente per l’ecopacifismo dell’associazione nazionale di protezione ambientale VAS (APS “Verdi Ambiente e Società” onlus)

DALLA TARTARUGA VERDARCOBALENO ALLA SPIRALE BIO-SOLARE

  1. TURTLE 2Vent’anni di sodalizio

Il compito che mi è stato affidato – al di là del ricordo più complessivo del mio grande maestro ed amico Antonio d’Acunto, cui ho già dedicato uno scritto subito dopo la sua scomparsa[1]– è quello di sintetizzare una fase fondamentale del suo percorso umano e politico, successiva al termine del suo mandato di rappresentante dei “Verdi Arcobaleno” al Consiglio Regionale della Campania.

Ma se questo è il riferimento a quo di quella tappa, è più difficile  indicarne il termine ad quem. Essa, infatti, racchiude l’intensa attività dell’associazione regionale “Verdarcobaleno” ed anche quella del circolo Napoletano e del Coordinamento Campano di VAS (Verdi Ambiente e Società – onlus), saldandosi strettamente anche con l’ultima fase dell’azione di D’Acunto, quella della “Rete” da lui promossa per far sottoscrivere, approvare e soprattutto attuare la legge d’iniziativa popolare sul Solare in Campania, di cui è stato estensore e primo firmatario.

Da testimone sia di quel lungo percorso – che spazia dal 1995 al 2013 –  sia della fase successiva tuttora in atto, mi è facile riscontrare una serie di elementi che ne mostrano la profonda continuità d’idee e di azioni, conferendo ad entrambi l’impronta inconfondibile del grande ‘visionario’, che ha saputo coinvolgere tante soggettività ed esperienze diverse in un ambizioso progetto di radicale cambiamento, sempre e comunque dal basso, della nostra società dei suoi valori e delle sue priorità.

Tutto cominciò quasi 20 anni fa, con una telefonata che Antonio mi fece subito dopo la mia ‘defenestrazione’ dalla Federazione dei Verdi, al termine del mandato di consigliere provinciale per quel movimento politico che avevo contribuito a far nascere a Napoli nel 1987. Era lo scotto che mi toccava pagare per la mia costante e manifesta opposizione alla linea politica dell’l’indiscutibile e imprescindibile ‘califfo verde’ di quel partito, che se lo era cucito addosso come un abito su misura. D’Acunto mi manifestò la sua solidarietà e mi propose subito di candidarmi nella lista dei Verdi “Arcobaleno” per le successive provinciali, affiancandolo nella difficile battaglia per riconquistare il seggio alla Regione ed iniziando una stagione di collaborazione.

Fino a quel momento, lo ammetto, non si era stabilito un particolare feeling tra me ed Antonio, le cui battaglie in Consiglio Regionale pur condividevo ed apprezzavo. Dall’esterno, mi risultava un po’ rigidamente ideologico, così come mi era apparso eccessivamente ostile ad un processo di unificazione con i Verdi, la cui negazione peraltro lo aveva lasciato da solo a combattere. Mi appariva poi diffidente verso i suoi ‘compagni di strada’ e poco disponibile a far fronte comune, peraltro in una situazione di profondo degrado del quadro ambientale e politico della Campania.

Dopo quella telefonata, però, compresi che avrei dovuto ricredermi. Iniziò allora un sodalizio che solo la sua morte, due mesi fa, ha bruscamente e dolorosamente spezzato, interrompendo quel rapporto di stima ed affetto che ci ha visti fianco a fianco per l’ultimo ventennio della sua vita.

Ripercorrerlo non è facile, ma cercherò di tratteggiarne i momenti fondamentali.

  1. La tartaruga verdarcobaleno e l’ecologia della politica

Lo slogan che contrassegnò la campagna elettorale condotta insieme nel 1995 – e che campeggiava nei volantini sotto il nuovo simbolo con una margherita e la scritta “verdi” – era quella ecologia della politica che riassumeva le tradizionali battaglie dei Verdi Arcobaleno per l’ambiente, i diritti, il lavoro e la solidarietà, insieme a quelle ecologiste e pacifiste che mi avevano caratterizzato, inquadrando entrambi alla luce d’una nuova visione della politica, intesa come impegno collettivo e dal basso per un autentico e profondo cambiamento.

Ovviamente le elezioni regionali e provinciali (che vedevano D’Acunto e me come candidati alla Presidenza di quei due enti) non si ponevano un obiettivo realisticamente raggiungibile – dato il quadro politico e la totale mancanza di una referenza nazionale – ma servirono comunque a far parlare di questo movimento ed a cementare l’alleanza, ideale prima ancora che operativa, che ci permise di far sentire forte e chiara la nostra voce alternativa.

Inoltre, come consigliere e capogruppo rieletto nella lista dei Verdi per un secondo mandato (1992-97), avevo l’opportunità di svolgere gli ultimi due anni alla Circoscrizione Vomero come rappresentante dei rinati Verdi Arcobaleno. Questo ruolo mi vedeva affiancato da altri due validi consiglieri di quartiere (Enzo Delehaye e Dario Cerchia) e da tanti amici e compagni della nuova Associazione “Verdarcobaleno” che avevamo deciso di costituire in quello stesso anno, scegliendo come simbolico logo una verde tartaruga, animale notoriamente lento ma tenace…

La sua identità, definita nello Statuto, era quella di un: “…soggetto politico, culturale e sociale…un movimento… pluralista e partecipativo…aperto al dialogo con tutte le associazioni e organizzazioni, a partire da quelle di base…con una impostazione democratica e nonviolenta” [2].

Di quel documento costitutivo era parte integrante la “Carta delle Finalità”, nella quale si sancivano i principi-guida dei Verdarcobaleno. Il primo luogo quelli fondamentali della giustizia e della solidarietà”, cui venivano affiancati lo sviluppo sostenibile ed eco-compatibile”, ma anche l’affermazione del “diritto al lavoro inteso come premessa al benessere della collettività”, nonché la scelta della “nonviolenza, intesa come fine e come mezzo, nella prospettiva di una società più giusta e pacifica”[3].

L’etica dell’economia, la conversione ecologica, la scelta di un modello federativo ed autogestionario di democrazia, insieme con l’ecopacifismo, erano dunque il terreno su cui lavorare, insieme con tanti altri, per cambiare dal basso Napoli e la Campania.

Nell’editoriale del primo numero di quello stesso notiziario, Antonio D’Acunto ricordava non solo il suo ruolo di “voce fuori dal coro” in consiglio regionale ma, tenuto conto dei voti comunque ricevuti alla consultazione elettorale, rivendicava anche il diritto di proseguire nel ruolo di stimolo e proposta anche all’esterno del parlamentino della Campania.

“ Rispetto alle istituzioni questo ci legittima ad operare come se fossimo presenti al loro interno, svolgendo una funzione sia di controllo sia di proposizione […] per far attuare importanti leggi del Gruppo già esecutive (quali quelle sui parchi, sullo sviluppo dell’architettura biologica, sulla condizione delle carceri, sugli immigrati, sulla tutela degli animali d’affezione…”[4].

Il taglio della nuova Associazione era ulteriormente chiarito poco più avanti, quando egli, ribadendone la natura aperta, ne sintetizzava la ‘filosofia’ in queste significative parole:

Una realtà interessata ad arricchirsi d’interessi, di valori, d’idee; a rappresentare e difendere bisogni, diritti negati, libertà; a riproporre la democrazia e la politica come categorie primarie di riferimento per la partecipazione dei cittadini e quali ragion d’essere dell’esistenza stessa delle Istituzioni…” [5]

La sede associativa era in piazza Pignasecca, cuore pulsante e popolare della vecchia Napoli. Lì la “tartaruga verdarcobaleno” mosse i suoi primi passi, aggregando nuovi soci e lanciando diverse campagne eco-sociali e culturali. In parallelo, il Gruppo Verdarcobaleno alla Circoscrizione Vomero, costituitosi nel giugno 1995, portava avanti le sue battaglie sul terreno della valorizzazione dei trasporti pubblici, dello sviluppo di una mobilità eco-sostenibile e della promozione ambientale, artistica e culturale del quartiere, in un’ottica di decentramento e di partecipazione, come veniva sintetizzato in un successivo numero del foglio informativo Ecopolis [6].

A partire dal mese di ottobre 1996, l’associazione Verdarcobaleno iniziò un’altra appassionante ed intrigante avventura. Con la collaborazione tecnica ed il coordinamento dell’emittente napoletana Antenna Vesuvio (can.37) fu infatti progettata, prodotta e diffusa una serie di trasmissioni che – col suggestivo titolo “Ecopolis: La città che viviamo”, intendeva affrontare in modo incisivo molte tematiche ambientali e sociali della città. I servizi televisivi –  da noi autogestiti – erano proposti in diretta tutti i martedì alle ore 21,00 , aprendo poi su ciascuno di essi un dibattito con degli invitati in studio e, telefonicamente, col pubblico dei telespettatori, ed erano replicati ogni sabato alle 19,30. Le questioni affrontate erano sempre spinose ed attuali, a partire dalla variante urbanistica di Bagnoli, passando per una serie di storiche “incompiute” (fra cui la sopraelevata di Corso Novara e la fermata della Circumvesuviana del CDN),  trattando anche altre questioni ambientali, dagli alberi abbattuti all’inosservanza dei passaggi pedonali, dalle ‘oasi protette per autoblù’ alla condizione dei cani abbandonati. Non mancavano anche ‘finestre’ su altre problematiche aree urbane di Napoli (Quartieri Spagnoli, Sanità, Secondigliano, Camaldoli… ) e di altre città della provincia (fra cui Pozzuoli ed Ercolano), così come erano affrontati importanti temi civili e sociali, come quelli relativi alla trasparenza delle sedute consiliari, alle disabilità, al commercio equo e solidale.

Ma fu proprio l’aver trattato con franchezza uno di quei delicati argomenti – l’effettiva tutela del diritto allo studio degli studenti universitari – che segnò la brusca fine di quella coinvolgente esperienza mediatica, che è rimasta comunque un eccezionale strumento per analizzare la realtà urbana, rispecchiandone i pesanti problemi ma anche le grandi potenzialità.

  1. VAS… dove ti porta il cuore VAS

Porta la data del 17 aprile 1998 il comunicato stampa con cui si annunciava che l’assemblea dei Verdarcobaleno – di cui D’Acunto era Presidente – aveva sancito l’adesione all’associazione ambientalista nazionale VAS (Verdi Ambiente e Società), vedendola come logico sviluppo di un progetto che avrebbe conservato come temi centrali: “…la specificità Mezzogiorno-Ambiente-Lavoro, la questione urbana [città vs megalopoli], l’educazione ambientale, l’ecologia umana, i diritti dei cittadini, l’alimentazione e le altre medicine, la solidarietà con gli altri esseri viventi e con le generazioni future” [7].

Il presidente nazionale – l’ex senatore Guido Pollice – ricordò a sua volta l’importanza che VAS dava ad una forte presenza dell’associazione in Campania, iniziata già con i circoli di Procida e di Sorrento e rappresentata finalmente anche nel capoluogo, dove si combattevano battaglie di grande interesse nazionale, come quella per il recupero ambientale di Bagnoli.

La sede di piazza Pignasecca, da quel momento, diventò quella del circolo di Napoli e del Coordinamento Regionale VAS della Campania, cui nel tempo si aggregarono altri circoli della provincia di Napoli (Ercolano, Pompei, Vico Equense) e di Salerno (Battipaglia, Eboli, Caposele, Camerota, Pagani). Ci fu poi il trasferimento nella nuova sede in calata Trinità Maggiore, nei pressi di piazza del Gesù Nuovo, dove il gruppo napoletano trovò una centralità ancora maggiore.

In un documento del luglio 2000 – il cui titolo è stato mutuato per questo paragrafo [8]– ho  tratteggiato la storia dei primi due anni di VAS Napoli, che aveva raccolto un centinaio di adesioni e che si era impegnata sia nelle importanti campagne nazionali dell’Associazione (Mai dire mais, Diritti al mare, Bastamianto!…) sia in una serie d’impegnative iniziative territoriali. Esse avevano una netta connotazione eco-sociale e marcavano una netta autonomia rispetto alla c.d. giunta ‘rosso-verde’ di Bassolino, soprattutto nei confronti di alcune sue discutibili scelte urbanistico-ambientali.

La lotta all’inquinamento elettromagnetico, alla diffusione degli OGM, alla privatizzazione del mare e delle spiagge, così come la promozione dell’educazione ambientale dentro e fuori la scuola, erano già tematiche comuni a tutti i VAS. C’erano però questioni che assumevano una loro specificità e cui il circolo napoletano volle dare un particolare rilievo, dal recupero delle città inghiottite dalla metropoli e private della loro dignità, alla tutela dei beni artistici e storici della Napoli negata.

Il progetto “Oltre Spaccanapoli: Riattaccanapoli” si rivelò un ottimo esempio di questo approccio, improntato com’era all’ecologia urbana e caratterizzato dall’impegno associativo sulle scelte urbanistiche strategiche, come le Varianti al PRG per Bagnoli e per la zona orientale; il piano per il Centro Storico e per il lungomare; la chiusura del Cinodromo e del Giardino Zoologico di Fuorigrotta; la necessità di frenare il dissesto idrogeologico dei Camaldoli, e così via.

L’approccio del gruppo VAS è stato fin dall’inizio caratterizzato sia dall’intervento culturale (assemblee pubbliche, seminari formativi sul pensiero ecologista, coordinamento d’insegnanti, visite guidate ai tesori nascosti della Città), sia da quello più propriamente politico (battaglie. anche legali, contro il rischio amianto e quello da elettrosmog; proposte urbanistiche alternative per la salvaguardia ambientale e l’archeologia industriale di Bagnoli; il progetto di pedonalizzazione e saldatura del lungomare partenopeo alla Villa Comunale, etc.).

L’associazione VAS, in tal modo, si fece ben presto conoscere ed apprezzare per la chiarezza delle sue critiche ma anche per la serietà costruttiva delle sue proposte, riuscendo ad ottenere una discreta copertura mediatica alle sue iniziative.

Sta di fatto che dietro di esse, al di là dell’entusiasmo e dell’attivismo del gruppo, c’era sempre la determinazione e lucidità di Antonio D’Acunto, la cui ormai classica immagine – con gl’immancabili occhiali sulla fronte – campeggiava sempre più spesso sui principali quotidiani e nelle immagini dei telegiornali RAI e delle emittenti locali. Un’icona che era da sola la sintesi di un approccio profondamente diverso alla politica, intesa come opportunità di crescita comune e collettiva, come esercizio dei diritti ma anche come progetto per far diventare Napoli una città più vivibile, civile e solidale. In quegli anni la statura morale e politica di Antonio –  insieme con la sua vastissima cerchia di conoscenze precedenti – conferì all’azione di VAS un’ autorevolezza indiscutibile, frutto di quella coerenza ideale ed etica che lo ha sempre contraddistinto.

Le battaglie da lui guidate contro l’emarginazione sociale di alcuni quartieri centrali e periferici – come si legge in un foglio autogestito del Circolo – costituivano: “…l’appello ad un vero decentramento amministrativo, inattuato dopo oltre 20 anni, ma anche a coniugare la rinascita di Napoli con quella dei napoletani, grazie all’adozione sociale e collettiva dei beni culturali, in mezzo ai quali essi trascorrono un’esistenza spesso precaria e marginale[9].

A questa riappropriazione popolare e quasi catartica della ‘grande bellezza’ di Napoli furono dunque ispirate molte iniziative di riscoperta diretta di alcuni suoi luoghi tipici, come il Sedile di Porto, la città antica di Totò, quella verticale delle pedamentine e delle mille scalinate, anche grazie alla mirabile guida dello storico dell’arte Vincenzo De Pasquale.

Era su questo VAS…pensiero” – come lo definiva scherzosamente il titolo d’un altro documento del 1999, dedicato alle iniziative culturali del Circolo e del Coordinamento regionale – che si basavano tutte le attività allora messe in campo. Ed è proprio per diffondere questa “cultura ambientale per il terzo millennio” che Antonio si è sempre speso a fondo, coinvolgendo nel dibattito sia il mondo laico e comunista da cui egli proveniva ideologicamente, sia quello cattolico più impegnato, aperto a quella visione ecologica di matrice evangelica e francescana che da sempre lo aveva affascinato.

  1. Biodiversità, ecologia sociale, ecopacifismo

Ritengo che il principale merito di D’Acunto – manifestatosi anche nella lunga stagione della sua indiscussa  leadership come responsabile regionale per la Campania dell’associazione nazionale Verdi Ambiente e Società – sia stato quello di rappresentare un punto di sintesi tra il pensiero marxista e quello ecologista. Ciò lo ha indotto a teorizzare le linee-guida di quello che egli chiamava “marxismo ecologico” [10], riscontrabili nei sei articoli raccolti nell’omonima sezione del suo sito personale (http://www.terraacquaariafuoco.it/index.php/per-un-comunismo-ecologico).

La stessa centralità del lavoro, in quegli scritti, è stata riproposta attraverso la lente di una visione ecologista globale, per cui anche termini di uso corrente – come ‘sviluppo sostenibile’ , ‘progresso’  o ‘crescita’ – erano da lui messi sotto accusa per la loro ambiguità e sostanziale contraddittorietà coi principi stessi dell’ecologia.

L’orizzonte di un Comunismo Ecologico e di un’Ecologia Comunista è l’intrinseco, eccelso motore di idealità, finalità e programmi per la fine di ogni forma di imperialismo, sopraffazione e violenza, per il disarmo nucleare e batteriologico generalizzato, per una filosofia epicurea*, dei consumi, per l’impiego di risorse locali e rinnovabili e per il loro totale riciclo; per il lavoro quale processo di arricchimento dell’Umanità, per la territorialità dei modelli di produzione e lavoro, per istituzioni decisionali espressione compiuta della partecipazione dei cittadini*, per la piena tutela della Biodiversità, naturale e dei valori creati dall’Uomo nel percorso della sua storia, e per la sua cultura quale filosofia della vita. Il Comunismo Ecologico e l’Ecologia Comunista costituiscono essenza fondamentale e necessaria per un pensare nuovo dell’Umanità.” [11]

In queste parole – uno dei tanti periodi ‘manzoniani’ e pieni di maiuscole tipici dell’enfatica scrittura di Antonio – troviamo racchiusa in nuce quella filosofia politica che, ispirata da un’idealità alta, riusciva a ricapitolare in un discorso unitario le battaglie anticapitaliste ed antimperialiste, la proposta d’una rivoluzione energetica fondata su risorse ‘locali e rinnovabili’, la spinta al disarmo , l’impulso ad un modello di produzione ‘territoriale’, la ricerca costante di una partecipazione attiva e responsabile dei cittadini e, soprattutto, la tutela e valorizzazione massima di quella Biodiversità in cui si coniugava l’infinita varietà biologica della Natura con l’eccezionale ricchezza dei valori tipici della comunità umana.

biodiversita'Questo paradigma ideologico – grazie anche ad un costante confronto con quelli che collaboravano con lui a quel progetto ecologico-sociale – col tempo è diventato sempre più patrimonio comune dei VAS napoletani e di tanti compagni ed amici degli altri circoli della Campania.

Ed è grazie alla lucida visione di un’ecologia che non vuole confinarsi in un mero protezionismo ambientale ma aspira a diventare pensiero-guida per un modello alternativo di sviluppo e di società, che nel decennio 1998-2009 quest’associazione ha saputo conquistarsi sul campo un’autorevolezza considerevole, ma sicuramente anche molte e pesanti ostilità.

Sono stati infatti gli anni in cui VAS Campania ha condotto un’opposizione senza se e senza ma  agli scempi urbanistici, al colpevole silenzio sul rischio amianto, alla privatizzazione selvaggia delle spiagge, alla mancata tutela dei beni culturali ed ambientali, al persistente rischio idro-geologico ed alla piaga degli incendi boschivi, entrando in conflitto con poteri forti e compromessi istituzionali

D’altronde, a ciascuna delle critiche formulate, particolarmente in materia urbanistica, VAS – fin da quei primi anni – ha puntualmente contrapposto le sue proposte alternative, dalle quali emergeva con chiarezza la visione di una Napoli policentrica, che ipotizzava “cinque città nella città”, sì da combattere la “metastasi della megalopoli” da cui deriva sempre la marginalizzazione delle periferie, alle quali bisognava viceversa “ridare dignità”. Il secondo punto qualificante – che D’Acunto ribadiva spesso con forza – era la creazione di una “cintura verde” intorno a Napoli – da Bagnoli a San Giovanni a T. – sia arrestando il degrado delle aree naturali ancora presenti, sia “rinaturalizzando” quelle urbanizzate o comunque sottratte ai cittadini.

I quotidiani del tempo [12] riferiscono abbastanza fedelmente questa grande battaglia ambientalista, che si sostanziava in un vero e proprio “contropiano dei Vas” : Esso si proponeva infatti di sconfiggere ogni tentativo di nuove speculazioni, di disegnare un volto nuovo per la città di Napoli; di restituirle il suo mare ed il suo verde, ma soprattutto di sconfiggere l’emarginazione delle aree periferiche e di risanare e valorizzare le aree industriali dismesse e lasciate al degrado.

Proprio nel 2001 ebbe inizio uno dei momenti fondamentali di questa esplicitazione pubblica d’un ambientalismo alternativo. Si trattava d’un evento che richiese all’associazione un vero salto sul piano organizzativo. La “Festa VAS della Biodiversità”, patrocinata della Regione Campania, prese le mosse in quell’anno negli Spalti del Maschio Angioino, animando cinque giorni di dibattiti, mostre e concerti, non a caso a partire da quel 4 ottobre in cui si ricorda S. Francesco, patrono dell’ambiente.[13]

Dalla seconda alla quinta edizione della kermesse ecologista (svolte dal 2002-2005 nella splendida Villa Comunale di Napoli), si confermò ulteriormente l’alto livello della manifestazione e la sua apertura alle grandi tematiche legate al rapporto tra “Natura e culture del Mediterraneo” (sviluppo, alimentazione e salute, diritti umani, pace e disarmo), anche grazie alla collaborazione con prestigiose istituzioni scientifiche e culturali (Stazione Zoologica di Napoli “A. Dohrn”, Osservatorio Vesuviano, “Maison de la Mediterranée” della Fondazione Laboratorio Mediterraneo, etc.) ed al patrocinio del Comune di Napoli, di quello di Sorrento e, in seguito, della Camera dei Deputati, del Senato della Repubblica e della Presidenza della Repubblica.

Andava delineandosi in quegli anni la visione globale della “Biodiversità come filosofia della vita” di cui Antonio D’Acunto è stato il vate e che lo portò a dichiarare. “La diversità non deve essere elemento di conflitto, ma un valore da apprezzare[14].

La Festa VAS fu quindi l’occasione migliore – e con una spiccata visibilità – per lanciare un progetto complessivo, capace di coniugare la salvaguardia della varietà naturalistica con quella delle multiformi culture umane, a partire dallo storico quanto travagliato crocevia del bacino del Mediterraneo. Una visione di cui resta come sintesi grafica il bellissimo logo della variopinta  ‘spirale della Biodiversità’, tuttora simbolo della nostra Rete per la “Civiltà del Sole”.

Le cinque edizioni di quella riuscita manifestazione – alternando conferenze e discussioni con momenti musicali e spettacolari – contribuì sicuramente a diffondere tale fondamentale concetto, ma anche a rilanciare le tradizionali battaglie di VAS: da quella sui parchi e la ‘green belt’ cittadina alla tutela della risorsa-mare; da quella contro ogni genere d’inquinamento e di minacce alla salute (gas di scarico, amianto, elettromagnetismo…) fino alla proposta di un’alimentazione sana e liberata della minaccia di organismo geneticamente modificati.

  1. Una leadership come esempio e servizio

“Un uomo mite, generoso, umile, un passionario, un gran combattente. Un uomo perbene. Un amico.” [15] .  Con queste parole il Sindaco de Magistris ha efficacemente sintetizzato la figura di Antonio D’Acunto, cui Antonio E. Piedimonte ha dedicato un bellissimo articolo, che ne tratteggia il lungo percorso umano e politico.[16]

Concludendo questa sommaria analisi del fondamentale segmento di tale percorso – che lo ha visto alla guida dell’associazione Verdarcobaleno e poi di VAS Campania nel quasi ventennio 1995-2014 – io vorrei invece sottolineare la particolare natura della sua leadership. Essa si estrinsecava soprattutto nella sua indiscutibile autorevolezza morale e politica, frutto di una lunga storia di combattente per la giustizia sociale, i diritti civili e la difesa dell’ambiente, ma anche nella sua esemplare coerenza con un pensiero forte, che ha costantemente precorso i tempi.

La visionarietà di Antonio era quella che contraddistinguono tutti i profeti autentici, che non solo riescono mirabilmente a leggere con chiarezza ciò che per la maggioranza rimane oscuro, ma si sentono spinti da un’irrefrenabile impulso a pre-dicarla ovunque ed a tutti. [17]

Il ‘verbo’ che egli non si è mai stancato di trasmettere a tutti – con parole e scritti ma soprattutto col suo eccezionale esempio – non era quello evangelico ma richiamava ugualmente ad una profonda ‘metànoia’, intesa come conversione a modelli di sviluppo e stili di vita alternativi a quelli attuali, ma anche come ri-conversione di un intero sistema (produttivo e genericamente economico), che si rivela sempre più ecologicamente insostenibile.

Certo, la leadership di D’Acunto risultava lo spontaneo e naturale risultato della sua statura culturale ed etico-politica, ma gli ha comunque richiesto un costante impegno a sviluppare la sua forte personalità – istintivamente determinata e sicura di sé – verso una maggiore capacità di ascoltare e comprendere gli altri, di valorizzarne le idee e le capacità, di dare spazio e visibilità a tutti quelli che collaboravano al comune progetto.

Fare sintesi e mantenere gli equilibri, pur senza negare le inevitabili diversità, è il compito del vero leader e Antonio lo ha esercitato nel modo migliore, riuscendo a trascinare chi lo circondava col suo entusiasmo contagioso – unito alla sua grande carica affettiva –  in imprese che nessuno avrebbe mai pensato di affrontare.  Il suo indiscutibile carisma , inoltre, ha contrassegnato ampiamente la vicenda cittadina, regionale e nazionale di VAS in questi ultimi sedici anni, dando impulso ed autorevolezza alla sua azione per quell’ “ambientalismo in movimento” che ne è diventato lo slogan, come ha peraltro attestato anche il Presidente Nazionale, Guido Pollice.[18]

D’Acunto ha dato moltissimo all’ambientalismo italiano, che ha cercato costantemente di far uscire dalle secche di battaglie parziali e locali per ricondurlo ad un saldo pensiero globale, ma ha anche saputo, con umiltà rara, ricevere e valorizzare i contributi di chi lo ha affiancato in questi anni.

Io stesso gli sono debitore di quella visione complessiva, ma anche di una pratica quotidiana che non trascurava nessuno spunto, anche di cronaca, per rilanciare e modulare quel messaggio.

Mi sento perciò orgoglioso di aver potuto affiancarlo negli ultimi vent’anni della sua attività, condividendo con lui e gli amici di VAS e della Rete Solare anche il mio impegno per la nonviolenza e l’ecopacifismo. Un altro aspetto in cui penso di averlo ‘contagiato’ è stata la mia impostazione eco-teologica che, di recente, lo ha spinto a scrivere a papa Francesco, auspicando una sua enciclica sull’etica ambientale, in una prospettiva non più antropocentrica ma aperta alla tutela di ogni essere vivente e di quella preziosa ma delicata biodiversità che ne è il segno tangibile.[19]

downloadE’ evidente che la fase ultima – contrassegnata dalla proposta di legge popolare su “Cultura e diffusione dell’energia solare in Campania” e dalle battaglie perché fosse approvata in Consiglio Regionale ed effettivamente attuata – risulta indissolubilmente saldata alla sua esperienza negli anni delle battaglie nel PCI contro il nucleare ed a quelle federaliste ed ecologiste come consigliere regionale dei Verdi Arcobaleno. Ma è altrettanto evidente che essa è stata alimentata anche dalla stagione delle battaglie che, con gli amici e compagni di VAS, Antonio ha portato avanti per salvaguardare e valorizzare la Biodiversità e per restituire ai cittadini ed alle comunità locali quelle risorse e quel potere che si cerca sempre più di sottrarre loro, in nome dei miti della crescita, della governabilità e di un rinato decisionismo centralista.

La Civiltà del Sole, di cui egli è stato il profeta, è anche questo, E chi oggi rimane a proseguire sulla strada da lui segnata ha il non facile compito non soltanto di andare avanti, ma di mantenersi all’altezza del suo eccezionale esempio, umano e politico.

© 2015 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

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[1] Vedi: https://ermeteferraro.wordpress.com/2014/12/31/ciao-antonio/

[2] Ermes Ferraro, “Dove va la tartaruga? Principi e orientamenti di un movimento”, Ecopolis (notiziario dell’associazione ‘Verdarcobaleno’),  N° 0, Napoli, 1995 (r.i.p.), p. 1

[3] Ivi

[4] Antonio D’Acunto, “Una voce fuori dal coro – Dal gruppo consiliare alla Regione alla Associazione”, in Ecopolis, cit., p. 1

[5] Ivi

[6] Ferraro, Delehaye, Cerchia, “Tanti auguri, tartaruga! – I Verdarcobaleno festeggiano un anno di battaglie al Vomero”, Ecopolis, Napoli, Giugno 1996 (r.i.p.), p. 1

[7] Cfr. Comunicato Stampa n. 1 del 17.04.1998

[8] Ermes Ferraro, VAS…dove ti porta il cuore – Due anni di attività del Circolo VAS di Napoli, Napoli, luglio 2000 (r.i.p.)

[9] D’Acunto – Ferraro, “‘Riattaccanapoli’ e altro… – Iniziative di VAS per la cultura e la tutela dell’ambiente”, la Vaspubblica – notiziario VAS Napoli, n° 5, ott.-Nov. 1999, (R.I.P.), p.1

[10] Antonio  D’Acunto, Per un comunismo ecologico > http://www.terraacquaariafuoco.it/index.php/per-un-comunismo-ecologico/29-per-un-comunismo-ecologico-per-un-ecologia-comunista-per-una-nuova-ecologia-politica-per-una-nuova-politica-dell-ecologia

[11] Ivi

[12] Cfr.: “Prg, cinque città nella città” (Cronache di Napoli – 13.06.2001): “Prg, rush finale per presentare le osservazioni”, Il Mattino – 16.06.2001;  “Un Prg che serve solo ai padroni del cemento”, Roma-GdN – 16.06.2001)

[13] Cfr.: “Biodiversità, gran festa sugli spalti”, Il Mattino, 01.10.2001; “Verdi ambiente e Società. Al via la festa della ‘Biodiversità’ “, Roma-GdN, 20.09.2001; “Festa della Biodiversità”, Nuova Stagione, 07.10.2001

[14] Rosa Savarese, “Biodiversità, una filosofia di vita”, Roma-GdN, 08.10.2003

[15]  V. in: http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/14_dicembre_27/scompare-antonio-d-acunto-dei-primi-leader-ambientalisti-0b2b13fe-8dd5-11e4-9853-b3ac6340f997.shtml

[16] Antonio E. Piedimonte, http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/14_dicembre_29/quel-guerriero-sorridente-che-regalo-campania-l-energia-solare-7a875576-8f5d-11e4-958d-cb5be19f6659.shtml

[17] Cfr. il celebre versetto evangelico: “Quello che Io vi dico nelle tenebre, ditelo nella luce; e ciò che udite dettovi all’orecchio, predicatelo sui tetti”. (Matteo 10:27).

[18] Cfr. http://www.vasonlus.it/?p=10166#more-10166 ed anche la sintesi degli articoli sulla morte di A.D. in http://www.vasonlus.it/?p=10193

[19] Cfr. la pagina tematica del sito web della RCCSB > http://www.laciviltadelsole.org/etica-ambientale.html#/

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© 2015 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

KRISIS: E’ TEMPO DI SCEGLIERE

CRISISNon ho sottoscritto l’appello “Campania e crisi. Per un nuovo protagonismo dei popoli del mediterraneo” [i] , lanciato dal nascente movimento che ha deciso di denominarsi “Maggio” –  né sono riuscito a partecipare alla sua prima assemblea napoletana.

Fra i suoi firmatari ritrovo più di una decina di amici e compagni, ma temo che ciò non sia sufficiente a farmi aderire a questo appello dal nome così suggestivo, ma che mi sembra ancora molto esile, in quanto frutto di una certa alchimia fra più ‘anime’ politiche, che hanno in comune l’avversario più che un vero progetto.

Non vorrei però essere ingeneroso con chi si sta sforzando di riprendere il filo del discorso interrotto alle scorse elezioni europee, dovendo peraltro tener conto della frammentazione del quadro politico della sinistra c.d. ‘antagonista’ e delle caratteristiche  ben diverse di una consultazione elettorale regionale. Ecco perché ho provato a rileggere più volte il documento, evidenziandone alcuni passi salienti e certe parole d’ordine con colori differenti.

Il risultato è un testo in cui prevale ovviamente il rosso dell’opposizione alle politiche neoliberiste  contro i lavoratori, con alcune pennellate di azzurro (il colore che ho simbolicamente attribuito alla componente neo-meridionalista della coalizione) e di arancione (questione ‘beni comuni’ ed aziende pubbliche). Il colore verde dell’ecologia, per continuare nella metafora, compare invece solo in due passi dell’appello, quando si parla degli interessi camorristici su smaltimento di rifiuti tossici e gestione delle bonifiche e, poco più avanti, quando si fa cenno alle politiche regionali favorevoli all’incenerimento dei RSU.

Non che mi aspettassi un quadro più policromo, ma non posso accontentarmi di una pura e semplice giustapposizione di coloriture politiche, in cui l’ambientalismo (io preferisco chiamarlo ecologia sociale) è ancora una volta ridotto a componente aggiuntiva e poco significativa di questa ‘alternativa’. Non si tratta neppure di spazio ed importanza di certi temi che ovviamente mi stanno a cuore. Il fatto è che tra i quattro colori citati non c’è alcuna reale armonizzazione né tanto meno una effettiva fusione. Altrettanto generico, poi, risulta il riferimento al protagonismo dei popoli del Mediterraneo, sebbene tale obiettivo sia inserito nel titolo stesso dell’appello.

Certo, anche un importante riferimento politico come SYRIZA [ii] dopo oltre 10 anni – rimane sostanzialmente ciò che dichiara di essere (Synaspismòs vuol dire infatti ‘coalizione’). Ancora una volta la scienza etimologica ci viene incontro per chiarirci che ‘coalizione’ non significa solo mettersi insieme contro qualcosa e/o qualcuno, bensì ‘crescere insieme’ (dal lat. co-alesco). Temo però che quest’ultimo decennio – nonostante le pesanti lezioni subite… – non abbia insegnato molto alla c.d. sinistra antagonista. Direi che la tendenza prevalente resta purtroppo quella di perseguire obiettivi di piccolo cabotaggio, alleanze puramente tattiche, raggruppamenti solo strumentali e, proprio per questo, estremamente deboli e privi di radicamento.

Ma una sinistra che ambisca ad essere radicale – nel senso originario, greco, del termine – dovrebbe invece seminare di più e più in profondità, cercando non solo di costruire alleanze tanto per sopravvivere, bensì di volare alto, di farsi portatrice di una vera alternativa, che non può che essere globale e radicata nel comune sentire della gente.

Ammettiamolo: la pretesa di raccogliere dove non si è seminato (il mondo del volontariato sociale e del terzo settore, i cristiani orientati verso un socialismo evangelico, gli ambientalisti che non si occupano solo di fiori e di uccelli, i gruppi antimilitaristi e pacifisti, i marginali e gli emarginati delle nostre periferie, etc.) risulta oggettivamente poco credibile. E, si badi bene, quando parlo di ‘seminare’ mi riferisco al recupero di una modalità di azione politica di base, ad una ‘grass-roots action’ di cui si sono perse le tracce, e che lascia invece campo libero al populismo di destra e di sinistra. Con la citata espressione d’origine anglosassone, quindi, non mi riferisco alla sopravvivenza di demagogici movimenti di piazza, il cui scopo è blandire il solito sottoproletariato o i migranti con promesse irrealizzabili, ma piuttosto ad una Politica altra e alta, che valorizzi le risorse locali, i momenti di partecipazione dal basso, gli organi di decentramento amministrativo (ora ridotti a vuote scatole da spartirsi).

La stessa idea di ‘crisi’ esclusivamente come contingenza negativa, economicamente e socialmente oltre che politicamente, suona piuttosto banale e priva di slancio in positivo. L’etimologia di questa parola greca (krisis) ci riporta piuttosto ad una situazione in cui occorre valutare, giudicare, scegliere, separando (in gr. krìno) gli aspetti negativi dalle potenzialità buone. La crisi è un’occasione per operare ciò che il lessico cattolico chiamerebbe un opportuno ‘discernimento’, per poi finalmente assumere delle valide decisioni (de-cidere in latino significa appunto: risolvere un conflitto, un contrasto).

La crisi della Campania è un dato oggettivo e fin troppo evidente. Attribuirne le cause alla sola gestione Caldoro ed al centro-destra campano sarebbe sciocco, oltre che poco credibile, per cui dovrebbe emergere dall’appello una ben più netta condanna delle politiche consociative e neoliberiste di PD ed associati, che sono riuscite in breve tempo a fare oggettivamente più danni di quanti ne abbiano fatti Berlusconi & Co. nel suo lungo periodo di egemonia.

Mi va benissimo, inoltre, il recupero della questione meridionale e della bandiera della riscossa del Sud dalla macroscopica truffa perpetrata da un secolo e mezzo ai danni della gente delle regioni meridionali. E’ innegabile che “Il Mezzogiorno vive sulla pelle delle sue popolazioni tale diseguaglianza e le scelte del governo Renzi stanno aumentando il divario con il Nord Italia” e mi sembra quindi sacrosanta la protesta contro questo “federalismo truccato” che ruba ai poveri per dare ai ricchi. Non credo però che la mai risolta questione meridionale possa essere liquidata con un paio di slogan né che sventolare bandiere nostalgiche possa risolvere i problemi di un Sud dove i suoi stessi ‘figli’, politicamente parlando, si sono troppo spesso dimostrati figli di ben altra genitrice…

Insomma: un programma per le regionali non può ridursi al solito, triste e monotono “cahier des doléances”. Fare una semplice sommatoria di guasti e problemi (dalle disuguaglianze al controllo sociale; dalla ‘desertificazione’ industriale ed agricola al malaffare camorristico che ci taglieggia e ci avvelena; dalle privatizzazioni alle politiche di austerità ed ai tagli ai servizi sociali) non produce risultati positivi, ma solo sconforto e desolazione.

D’altra parte, penso che un nuovo modello di sviluppo e di società non può essere caratterizzato solo dal rifiuto del liberismo imperante e della ‘gabbia dei sacrifici’  cui ci costringono le politiche di austerità europee e nazionali.

Allora, a costo di essere tacciato di ‘benaltrismo’ sento di dover dire che, appunto, ci vuole…ben altro. Ci vogliono idee guida, principi solidi, visioni prospettiche di un futuro che non può essere ridotto alla pura e semplice aspirazione a fare meno sacrifici, magari per continuare a perseguire quell’assurda ‘crescita’ che troppo spesso viene contrapposta ad ‘austerità’.

Da ecopacifista antimilitarista, inoltre, in questo appello non ho trovato neppure una riga dedicata all’opprimente militarizzazione e nuclearizzazione del territorio e del mare della Campania, al servizio esclusivo di NATO ed USA, dei cui effetti ben pochi sembrano rendersi conto.

Non ho neppure riscontrato un minimo riferimento a quella che giudico la vera madre di tutte le rivoluzioni, quella energetica, che da anni – insieme col compianto Antonio D’Acunto – come Rete Campana per la Civiltà del Sole e della Biodiversità [iii] stiamo perseguendo con creatività e tenacia, per affermare appunto quella che abbiamo chiamato “Civiltà del Sole”. Nell’appello non si accenna neppure all’enorme potenziale – ecologico ma anche economico – di una netta svolta verso il solare e le altre fonti energetiche rinnovabili, né mi sembra di leggervi un sia pur vago cenno alla prima decisione da assumere se si vuole davvero ‘cambiare verso’, quella cioè di gettare a mare il modello attuale di sviluppo – iniquo ed energivoro – per imboccare risolutamente la strada della ‘decrescita felice’, eliminando sprechi e consumismo e recuperando la dimensione comunitaria, solidale e nonviolenta della società. [iv]

Syriza_2007_forestsNon ho incontrato neppure un riferimento chiaro ed esplicito ad uno dei peggiori reati politici che abbiano colpito la Campania, quel ‘biocidio’ in nome del quale pur erano scesi in piazza centinaia di migliaia di cittadini, ma che sembra ormai derubricato ad esclusiva competenza dei giudici antimafia e dei dipartimenti ambientali e sanitari, in vista dell’auspicata bonifica delle terre avvelenate dai rifiuti e dai roghi. Anche quando si parla di questioni ambientali, d’altra parte, la dimensione resta antropocentrica e non si avverte alcun reale interesse per la gravissima perdita di biodiversità (vegetale, animale ed anche culturale) che è invece una delle ricchezze della Campania.

Contrastare il “blocco di potere rappresentato dalla destra di Caldoro e dal PD” oppure opporsi, giustamente, al populismo razzista ed antimeridionalista di Salvini, sono affermazioni ovviamente sottoscrivibili, ma rischiano di restare battaglie di retroguardia, prive di un messaggio realmente alternativo, capace di accendere nei cittadini la speranza in un modo profondamente diverso di gestire la regione d’Italia che è terza per numero di abitanti e prima per densità abitativa. Quella Campania che, viceversa, potrebbe diventare non solo il centro di riscossa di un Meridione capace di recuperare la propria dignità culturale e sociale, ma anche la capitale della‘Civiltà del Sole’, i cui i pilastri sono nella scelta di fonti energetiche pulite diffuse e che non creano dipendenza, nel perseguimento del decentramento energetico, nella salvaguardia e valorizzazione della biodiversità e nella costruzione di un modello di sviluppo e di lavoro a misura d’uomo, ma anche compatibile con i delicati equilibri ecologici.

Concludo questa mia riflessione con le ispirate parole del carissimo Antonio D’Acunto, nella speranza che questo suo messaggio sappia farci uscire dalla banalità della politics e ci apra alla grandezza della Policy.

«Ma qui c’è anche l’assoluta necessità, che è anche la ragione ideale dei valori e  delle aspirazioni,  di un progetto politico  radicalmente alternativo al renzismo. Un progetto che, proprio perché parte dall’Ecologia e dalle sue leggi, affronta la crisi di oggi nelle cause di fondo che l’hanno generata, ricreando le condizioni per il benessere dell’Umanità nella sua globalità e del Pianeta, nell’infinita sua Biodiversità e Bellezza. Un progetto che parte dalla ricerca costante di  scelte e tecnologie per soddisfare i bisogni di oggi, che non solo non sottraggono valori al futuro, ma generano al contrario potenziali arricchimenti, cioè una Civiltà del Sole e della Biodiversità, costruita sull’Amore ed il Rispetto per il Pianeta,  per la sua Bellezza, e per  le sue forme di Vita,  e conseguentemente della sua limitatezza e delle necessità che essa impone; rinnovabilità e rigenerazione per ogni attività umana.» [v]

[i] http://contropiano.org/articoli/item/28497

[ii] http://syriza.net.gr/index.php/en/

[iii] http://www.laciviltadelsole.org

[iv] https://ermeteferraro.wordpress.com/2014/06/08/ecosocialismo-si-grazie/

[v]  Antonio D’Acunto, Un soggetto politico eco-progressista http://www.laciviltadelsole.org/interventi–documenti.html

DOV’E’ LA VITTORIA?

Nel tempo necessario per leggere questo post l’Italia sta spendendo oltre 51.000 euro per le spese della c.c. “difesa”. Nel 2010, infatti, sono stati già spesi 27 miliardi di euro, vale a dire 76 milioni ogni giorno, 3 milioni ogni ora e, appunto, oltre 51.000 euro al minuto!
In aggiunta a quest’enorme quantità di risorse economiche assegnate al Ministero della Difesa nello scorso anno, il Parlamento italiano – su proposta del Governo – ha approvato una spesa di altri 17 miliardi di euro nei prossimi anni, per l’acquisto di 131 caccia-bombardieri F35. Basterebbe rinunciare ad un solo cacciabombardiere e si potrebbero costruire 183 nuovi asili per 12.810 bambine e bambini…
La partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan ci costa tuttora 2 milioni di euro al giorno ed ha causato decine di migliaia di vittime, in maggioranza civili. L’ultima delle operazioni armata cui abbiamo partecipato, quella contro la Libia che in teoria si è appena conclusa, ci è finora costata 700 milioni di euro!
Ma siccome siamo un grande Paese industriale, nel 2009 l’Italia ha esportato armi per un circa 5 miliardi di euro, contribuendo ad alimentare focolai di guerra in tutto il mondo!
L’art. 11 della Costituzione della nostra Repubblica dichiara solennemente: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.” Ma i 27 miliardi all’anno già spesi ed i 17 previsti solo per i nuovi caccia F35 che cosa hanno a che fare con la “difesa della Patria” che – secondo l’art. 52 della stessa Costituzione – sarebbe “sacro dovere del cittadino” ? E le missioni armate cui abbiamo aderito supinamente, quelle passate e quelle attuali, non sono forse atti di quella guerra che, secondo la Carta costituzionale, dovremmo invece “ripudiare”?
Il Governo ha tagliato 8 miliardi alla scuola ed ai servizi sociali, però non vuol rinunciare neanche ad uno dei 131 bombardieri F35, il cui solo costo permetterebbe di realizzare ben 183 asili! Non ci resta, allora che protestare contro l’ipocrisia di chi vorrebbe contrabbandare il 4 novembre come una celebrazione civile e di unità nazionale, come se le Forze Armate avessero una mission diversa da quella di addestrarsi a fare la guerra.
L’alternativa c’è, e da molti anni. Decenni di lotte per l’0biezione di coscienza, il servizio civile nazionale e l’affermazione della difesa civile nonviolenta ci hanno portato ad una legislazione in teoria esemplare nel contesto dell’Unione Europea. Purtroppo si continua a fare propaganda strisciante ed ambigua nelle scuole, a vanificare le potenzialità del servizio civile e ad ignorare ogni reale alternativa alla difesa armata. Contro tutto questo è doveroso non solo indignarsi, ma lottare contro le mistificazioni militariste e per diffondere una cultura di pace e di nonviolenza attiva.
Ecco perché non c’è nessuna “vittoria” da festeggiare il 4 novembre, ma piuttosto l’esigenza di commemorare le centinaia di migliaia di morti delle tante “inutili stragi” della nostra storia ed un impegno comune perché l’Italia si “desti” sì, per cingersi la testa non dello “elmo di Scipio”, ma con una pacifica corona di foglie d’ulivo.
(C) 2011 Ermete Ferraro

ECOPACIFISMO: VISIONE E MISSIONE

di Ermete Ferraro (Referente Naz. VAS per l’Ecopacifismo)

1. Quale ecopacifismo ?

In occasione della IV Festa VAS della Biodiversità , nel 2004, fu pubblicato un mio articolo proprio con questo titolo. In quell’occasione, partendo dalla ricognizione sul significato dei concetti-base (ecologia, ecologismo, conservazionismo, ambientalismo, irenismo, antimilitarismo, pacifismo e nonviolenza), avanzavo poi la proposta di ciò che ritenevo un autentico ecopacifismo.
Anche se quindici anni d’impegno in VAS mi hanno offerto l’opportunità di fare qualcosa di concreto per l’attuazione del sano connubio tra ecologismo e pacifismo cui mi riferivo, devo onestamente riconoscere che il bilancio complessivo dei sette anni trascorsi da quell’articolo, per quanto concerne il nostro Paese, mi sembra tutt’altro che soddisfacente. Basta fare una veloce ricerca su Internet , infatti, per riscontrare la quasi totale assenza di questa proposta sullo scenario politico italiano ed internazionale. Qualche analisi e qualche esperienza organizzativa in tal senso, semmai, è riscontrabile nel mondo ispanico, dove di “ecopacifismo” si discute ancora, riconoscendogli un ruolo più chiaro nell’ambito del più complessivo movimento ecologista, verde, anticapitalista e terzomondista.
Ritengo che la carenza di un pensiero, ma ancor più di un’azione, specificamente “ecopacifista” sia frutto d’una concezione statica e sempre più pragmatica della politica, in cui le stesse ideologie ‘classiche’ hanno da tempo perso ogni capacità di attrarre e di aggregare, rimpiazzate da un movimentismo confuso e privo di prospettive, se non da correnti manifestamente antipolitiche. Lo stesso movimento pacifista d’impronta nonviolenta ha sempre stentato ad affermarsi in un panorama politico dove le uniche coordinate restavano quelle tradizionali (destra-centro-sinistra), pur essendo superate, nei fatti, dalla realtà di un quadro politico sempre meno ideologico. Una vera novità nel panorama di quest’ultimo trentennio è stato il movimento ecologista e verde, ma il suo incanalarsi nelle strettoie del partitismo e del leaderismo, ed il prevalere della tattica sulla strategia laddove esso è diventato elemento di governo, ne hanno eroso la capacità d’incidere davvero e di diventare una vera alternativa. Le organizzazioni di matrice antimilitarista e pacifista, da parte loro, in questi anni si sono ulteriormente frammentate di fronte all’incalzare di conflitti armati e di strategie geopolitiche sempre più aggressivamente militariste, cui non hanno avuto la forza di contrapporre non solo i tradizionali “signornò’, bensì una difesa alternativa, civile e nonviolenta.
Eppure questo trentennio ci ha offerto un quadro, desolante ma fin troppo chiaro, della fondatezza della proposta ecopacifista e della sua valenza non solo come netta opposizione al complesso militar-industriale ed ai suoi velenosi frutti in campo economico, politico e bellico, ma anche come possibile laboratorio di un gandhiano “programma costruttivo”.
I tragici avvenimenti di questi anni ci hanno dimostrato, infatti, che il disastro ambientale e la persistenza e diffusione delle guerre sono strettamente connesse tra loro. Le politiche di consumo e di produzione degli stati e quelle relative alla c.d. ‘sicurezza nazionale’ sono ormai talmente collegate da mettere a serio rischio la sopravvivenza stessa del Pianeta. Ciò premesso, diventa ancor più inspiegabile la banalizzazione e frammentazione del movimento ambientalista e la sua mancata alleanza con quello pacifista, contro la guerra e per il disarmo e la smilitarizzazione del territorio.
Non ha quindi senso, ad esempio, perseguire un’astratta eco-sostenibilità dell’economia, se essa continua ad essere assoggettata alla logica d’un capitalismo globalizzato e pervasivo, che ricorre sempre più spesso alla strategia bellica quando l’aggressione ‘pacifica’ e neocolonialista del mercato non basta più.
Allo stesso modo, mi sembra evidente che non basta manifestare contro guerre ed invasioni armate se non ci si sa opporre anche ad un modello di sviluppo predatorio, nemico della natura e dei suoi equilibri almeno quanto lo è della giustizia e della pace. Sarebbe una vera follia pensare che – come sottolinea uno studioso catalano – ci si possa opporre ad un’aggressione militare o a dittature pensando che ciò non abbia a che fare con la battaglia per modelli più sostenibili di energia oppure con un’agricoltura non più dominata dalle monoculture e dall’accentramento delle risorse alimentari del nostro pianeta.
Ecco perché, già sette anni fa, avevo proposto l’ecopacifismo come “…l’anello di congiunzione tra le lotte per l’ambiente e quelle per la pace, a partire dalla consapevolezza che […] entrambi si alimentano di una scelta etica, fondata sul rifiuto della violenza e del dominio come forze necessarie per il cambiamento e lo sviluppo”. La “triade” ambiente/sviluppo/attività militari – di cui aveva parlato Johan Galtung già negli anni ’80 – avrebbe richiesto una strategia unitaria ed una saldatura organizzativa, in modo da contrapporre al modello violento di economia e di società uno sviluppo equo, ecocompatibile e nonviolento.
Nel mio saggio, a tal proposito, ricordavo alcune interessanti impostazioni ed esperienze del movimento verde che lasciavano presagire una sensibilità in tal senso. Anche alcune serie proposte di “ecologia sociale”, diffuse in ambito europeo ed anche italiano , avrebbero lasciato sperare nel rilancio dell’opzione ecopacifista. Un’altra corrente di pensiero che avrebbe potuto alimentarne lo studio e la pratica è quella che fa riferimento al pensiero c.d. “ecoteologico” ed alla crescente sensibilità delle Chiese cristiane verso il trinomio “giustizia/pace/salvaguardia del creato”. Anche in questo caso, però, la profonda ed autorevole riflessione di tanti teologi e vescovi e lo stesso magistero degli ultimi tre pontefici non sembra aver coinvolto profondamente tali comunità. Esse stentano a far proprio il “principio responsabilità” di cui parlava Hans Jonas, insieme ad altri filosofi e teologi che hanno insistito sulla centralità di un’etica ambientale. Mi sembra, allora, che il pur affascinante progetto di conversione e di nuova evangelizzazione della nostra società, a partire dalla diffusione di “nuovi stili di vita” fondati sulla sobrietà e più equi e solidali , non sia riuscito ancora a permeare davvero il progetto per una “civitas” cristiana.

2 . Ecopacifisti: come e perché ?

All’interrogativo “Quale ecopacifismo?” del mio precedente contributo avevo risposto proponendo: (a) alcune priorità programmatiche: disarmo e difesa alternativa, tutela della diversità ecologica e culturale, ecologia sociale applicata al quotidiano; (b) alcune strategie operative: rapporto col movimento antiglobalizzazione, con quello no-war e nonviolento e con le organizzazioni ecologiste e verdi; (c) un’ipotesi strategica: l’apertura, da parte anche dei movimenti più radicalmente laici, alla collaborazione con le comunità cristiane più sensibili ed inclini a coniugare la scelta per la pace con quella per la giustizia e la tutela dell’ambiente.
Sta di fatto, però, che la realtà politica attuale appare sempre più frammentaria, deprimente sul piano etico, dominata da un pensiero unico e ripiegata in una sorta di passiva rassegnazione. Peraltro, credo sia innegabile che negli ultimi tempi si siano moltiplicati movimenti spontanei, aggregazioni virtuali tramite i social networks, mobilitazioni giovanili a livello internazionale e perfino grossi movimenti di opposizione e di resistenza ai vari regimi ancora esistenti, soprattutto nell’area arabo-mediterranea. E’ mancato, però, un filo conduttore che desse a tali battaglie un respiro più ampio ed una strategia condivisa, coniugando l’opposizione sociale alla creazione dal basso di una vera alternativa economica, sociale, ambientale e difensiva.
Lo stesso movimento degli “indignados” dà il segnale chiaro e forte di uno scontento generale, però non lascia intravedere una visione strategica globale che segua la sacrosanta protesta contro i padroni dell’economia mondiale e l’inettitudine di una privilegiata casta politica.
“Il metabolismo della società determina gran parte della sua geopolitica, ed in particolare la violenza che essa trasmette sia all’esterno sia all’interno […] (questa) è una relazione sistemica essenziale che deve essere messa in luce e con cui bisogna confrontarsi, prima che sia troppo tardi. Ciò significa che i precetti della cultura della pace devono diventare parte dell’ambientalismo e quelli ambientali devono diventare parte del pacifismo e dell’antimilitarismo. La questione va ben oltre ciò che potrebbe essere un’alleanza tattica tra movimenti sociali per la giustizia globale.” .
“Prima che sia troppo tardi” non è un’espressione da “apocalittici” per dare la sveglia ai troppi “integrati”, per mutuare l’efficace antitesi proposta negli anni ’60 da Umberto Eco. E’ l’oggettiva constatazione del grave ritardo nella diffusione nell’attuale società dell’ecopacifismo non solo come ipotesi teorica, ma come strategia politica credibile ed efficace.
Un segnale d’allarme lo ha recentemente lanciato anche uno dei più qualificati studiosi italiani di ecologia, Giorgio Nebbia, quando in un editoriale sulla rivista di VAS ha sottolineato la fragilità del legame tra pace e ambiente nella comune percezione e coscienza:
“Se ci si volta indietro, nei sessantasei anni trascorsi dalla pace del 1945, quando finì l’ultima “grande guerra”, non c’è stato un solo giorno di vera pace nel mondo […]La violenza ha dominato e pervaso la storia umana. C’è motivo di ricordarlo anche in questa rubrica perché ogni conflitto, ogni scontro, ha avuto cause ed effetti ambientali. Dietro le scuse “ufficiali” di difesa di diritti politici o umani o dietro motivi religiosi o con la scusa di assicurare a qualcun altro la libertà da qualche cosa, c’è sempre stata la volontà di impossessarsi di beni territoriali o ambientali “altrui”: la conquista di terre fertili, o di spazio, o di risorse naturali o il controllo dell’acqua dei fiumi…”
Nebbia, ad esempio, ha opportunamente sottolineato il circolo vizioso che, nel proliferare di conflitti armati e relative ‘missioni di pace’, lega gli interessi economici dei militari e delle industrie belliche ai profitti connessi alla successiva “ricostruzione” di quanto quelle guerre, grazie agli stessi governi, hanno provveduto a distruggere. Questo cinico gioco al massacro del complesso militar-industriale ci costa, solo in termini economici, 3.000 miliardi di euro all’anno, sottratti ovviamente agli investimenti per lo sviluppo collettivo, per il risanamento ambientale e per il benessere sociale.
“[ Questo] sarebbe perciò il “valore monetario” della pace, soldi che potrebbero essere investiti nelle armi della pace: anche la pace, infatti, ha le sue armi che sono scuole, ospedali, abitazioni, acqua, servizi igienici, sicurezza nelle proprie terre e nei propri campi, cibo e miglioramento dell’ambiente, occupazione. Ma non ci sarà mai pace fra gli esseri umani e con l’ambiente naturale senza una equa distribuzione dei beni che la Terra offre e che sono grandi e sarebbero sufficienti per tutti. La pace è figlia della giustizia, lo diceva anche il profeta Isaia, tanti anni fa, e, parafrasandolo, si può ben dire che l’ambiente è figlio, a sua volta, della pace.”
L’interrogativo “ecopacifismo: come?”, allora, passa oggettivamente in secondo piano rispetto all’urgente necessità di chiederci, qui e ora: “ecopacifismo:perché?”. E’ una domanda che nasce dalla constatazione del tempo già perso, in attesa di una saldatura teorica tra le priorità dell’ecologismo e quelle del pacifismo. Un interrogativo, dunque, che richiede risposte immediate.

3. Che fare?

Una certa miopia dei movimenti ed la scarsa tendenza a mettere in pratica il classico slogan ambientalista “pensare globalmente, agire localmente”, ci costringono allora ad ipotizzare un’alleanza quanto meno operativa fra queste due dimensioni dell’agire politico. I terreni sui quali si possono sperimentare interventi comuni non sono certo pochi, a livello sia nazionale sia internazionale. Basti pensare all’assurdo tentativo del governo di riproporre agli Italiani l’opzione nucleare, sconfitta con un movimento referendario composito e dal basso più che grazie ai tatticismi dei partiti e di alcune associazioni ambientaliste, troppo istituzionalizzate per essere davvero incisive. Si pensi, inoltre, all’accresciuta e più diffusa sensibilità della gente in campo alimentare e contro l’uso degli OGM, un altro settore dove da decenni si esercita il ferreo controllo delle multinazionali, oppure alla vincente battaglia referendaria per l’acqua pubblica e gestita con criteri sociali, contro l’avidità delle grandi imprese internazionali che in parte già la controllano. In ambedue i casi, infatti, sono innegabili i risvolti non solo economici sociali e civili di quelle scelte, ma anche il loro collegamento col rifiuto d’un mondo assoggettato al potere delle multinazionali, della finanza e del complesso militar-industriale.
Mai come in questo periodo, del resto, sta crescendo nel cittadino medio la consapevolezza che la crisi finanziaria globale è strettamente connessa ad una strategia di controllo non solo dei mercati mondiali, ma anche delle risorse energetiche strategiche e degli equilibri geo-politici complessivi. A questo “capitalismo-avvoltoio” – com’è stata efficacemente definita negli stessi USA la complicità fra i grandi di Wall Street ed il complesso militar-industriale – bisognerebbe contrapporre una strategia altrettanto complessiva ed internazionalmente diffusa. Molti “indignati” che scendono in piazza contro chi vorrebbe accollare alla gente comune il debito pubblico fanno spesso riferimento ad alcune delle ‘teste’ di quella che Livergood definisce una vera e propria ‘idra’, fra cui la Banca Mondiale (W.B.) ed il Fondo Monetario Internazionale. (I.M.F.). Pochi di essi, però, si rendono conto dell’intreccio fra: (a) piani di delocalizzazione delle aziende voluti dalle multinazionali; (b) coperture governative e finanziarie a queste operazioni speculative, in primo luogo sullo scenario asiatico; (c) crescita delle esportazioni di armamenti a tali paesi come ulteriore leva di controllo anche sul piano militare; (d) acquisizione a prezzi stracciati, da parte del capitalismo-avvoltoio, di banche, fabbriche ed interi patrimoni, non appena gli stati-cliente cominciano ad ‘andare sotto’; (e) offerta di prestiti e finanziamenti – da parte di IMF e WB – alle economie più fragili, in cambio di drastiche misure di riduzione delle garanzie ai lavoratori ed ai pensionati; (f) ulteriori operazioni speculative sul piano finanziario e monetario ai danni di tali ‘economie fragili’, in questo modo ancor più assoggettabili.
Per un movimento ecopacifista – o che, quanto meno, abbia l’ecopacifismo tra i suoi principi ispiratori – non mancherebbero le occasioni per sottolineare queste perverse connessioni e per intraprendere battaglie che vadano ad incidere sulle tre dimensioni delle questioni citate. Difendere l’acqua come bene comune o sconfiggere il nucleare civile, come ho già accennato, sono state poste come scelte il cui peso andava ben oltre la difesa dell’ambiente, coinvolgendo molti altri aspetti.
Agli italiani/e più sensibili e consapevoli, infatti, non è certo sfuggito che i quesiti referendari ponevano con forza anche altre questioni: rivendicazione del diritto alla salute, autogestione delle risorse naturali, opposizione al nucleare di guerra, riaffermazione della democrazia dal basso e della partecipazione popolare, sfida alle multinazionali che da tempo stanno privatizzando e controllando i beni comuni, fuoriuscita da meccanismi di subalternità verso le scelte dei paesi economicamente, politicamente e militarmente egemoni.
Eppure bisognerebbe fare molto di più. Se soltanto facciamo una rapida rassegna dei principi fondativi delle più conosciute organizzazioni ambientaliste del nostro Paese, ad esempio, emerge chiaramente che solo poche coniugano nei loro statuti l’ecologia col perseguimento d’una società più giusta e più pacifica. Se tralasciamo il caso classico di Greenpeace , associazione internazionale ispirata da principi nonviolenti ed il cui ecopacifismo traspare dallo stesso nome , riferimenti espliciti li troviamo solo in alcune realtà associative. E’ il caso di Legambiente, nel cui statuto leggiamo, all’art. 2 comma 6: “È un’associazione pacifista e non violenta, si batte per la pace e la cooperazione fra tutti i popoli al di sopra delle frontiere e delle barriere di ogni tipo, per il disarmo totale nucleare e convenzionale” . Ciò è vero anche per l’associazione Verdi Ambiente e Società, nel cui documento statutario, all’art. 3, troviamo scritto che V.A.S. : “… (2) promuove e favorisce le iniziative che, nel rispetto dei valori e dei diritti umani civili e sociali e nella salvaguardia del patrimonio naturale e storico-culturale, consentano l’equo impiego delle risorse disponibili, per il superamento degli squilibri economici-sociali, delle sacche di sottosviluppo e delle contraddizioni esistenti tra uomo, natura ed ambiente; (3) promuove e favorisce la cultura ambientalista, eco-solidale ed eco-pacifista…”
Delle circa ottanta organizzazioni ambientaliste riconosciute dal governo italiano , solo un’esigua minoranza dichiara di perseguire finalità non circoscritte esclusivamente alla protezione dell’ambiente ma d’impegnare anche per un mondo più giusto e senza violenza. Se andiamo a scorrere l’elenco di queste associazioni, inoltre, si nota poi, a partire dalle stesse denominazioni, che gran parte di loro non si occupa nemmeno di ambiente a tutto tondo, bensì di questioni spesso specifiche se non settoriali (caccia, animalismo, urbanistica, ambiente alpino, tutela avicola, salvaguardia dei mari e delle coste, ciclismo etc.).
E’ evidente, pertanto, che di strada da percorrere ce n’è ancora molta e che, tenendo conto anche della crisi attuale del movimento pacifista in Italia, sempre più frammentato e privo di prospettive condivise di alternative alla guerra, si tratta oggettivamente di un percorso molto difficile. Esistono, però, alcune questioni sulle quali si potrebbe da subito cercare la convergenza operativa delle organizzazioni ecologiste e di quelle pacifiste. La prima è certamente quella relativa alle scorie nucleari ed al loro ritrattamento, finalizzato alla fabbricazione di armamenti atomici. La seconda è senz’altro la battaglia contro la presenza di natanti a propulsione nucleare in alcuni porti del nostro Paese. Un’altra potrebbe essere, inoltre, il rilancio del rischio ambientale connesso all’inquinamento elettromagnetico generato da mostruosi apparati (stazioni radar e per telecomunicazioni), massicciamente presenti in basi ed aeroporti militari collocati in aree densamente urbanizzate. Non dimentichiamo, poi, le campagne contro le c.d. “banche armate”, finanziatrici dell’industria bellica, cointeressate in molte imprese industriali multinazionali ed in speculazioni edilizie, anche se spesso ipocritamente atteggiate a benefattrici dell’umanità o perfino sponsor di progetti di recupero ambientale.
Se soltanto riuscissimo a coagulare intorno a queste quattro tematiche un nucleo di movimento ecopacifista, penso che sarebbe già un passo notevole verso la creazione di una realtà più qualificata, che non si limiti a fare “fronte comune” ma sappia pensare più globalmente.
Un tentativo in tal senso lo stiamo facendo da anni noi di VAS in Campania, aderendo ad una preesistente rete operativa (il Comitato Pace, Disarmo e Smilitarizzazione del Territorio) ed offrendo il nostro contributo fattivo sulla vertenza relativa al rischio nucleare nel porto di Napoli , ma anche sull’opposizione alla presenza di comandi strategici e basi militari – sia USA sia della NATO – nel cuore della città capoluogo (Bagnoli, Nisida, Capodichino) e nell’intera regione Campania (in primo luogo il nuovo Comando alleato presso il Lago Patria (Giugliano).
Rilanciare l’ecopacifismo come un vero e proprio “programma costruttivo” in alternativa ad un mondo sempre più militarizzato ed asservito alle multinazionali è però un obiettivo più grande ed ambizioso, cui tutti sono chiamati a dare un contributo. Prima che sia troppo tardi.

RIFERIMENTI:

1 V.A.S. è l’acronimo di “Verdi Ambiente e Società”, associazione – onlus riconosciuta dal Min. dell’Ambiente fin dal 1994 come ‘organizzazione nazionale di protezione ambientale’ (www.vasonlus.it ). La “Festa della Biodiversità” è stata organizzata a Napoli – dal 200 al 2004 – a cura del Coordinamento Regionale Campania di VAS.
2 Ermete Ferraro, Quale ecopacifismo? in “Biodiversità a Napoli” – suppl. a Verde Ambiente, anno xx, n. 2 (mar.-apr. 2004, pp. 21-27). Per altri contributi di E.F. cfr. la bio-bibliografia sul suo sito web: http://www.ermeteferraro.it .
3 Vedi: N. Bergantiños, P. Ibarra Guel, Eco-pacifismo y Antimilitarismo. Nuevos movimientos sociales… ; Ecopacifismo: unha proposta; E. Campomanes, Los Verdes del Estaso Español: ¿Reformismo politico o ecopacifismo radical? ; Cielo Abierto, ¿Que es el Eco-pacifismo?
4 D. Llistar i Bosch, Environmentalism and Peace, in http://www.visionofhumanity.org (nov. 2010)
5 E. Ferraro, Quale ecopacifismo? , cit, p. 24
6 Johan Galtung, Ambiente sviluppo e attività militari, Torino, E.G.A., 1984
7 Vedi, ad es., fra gli altri, gli interessanti contributi di Virginio Bettini, Paolo degli Espinosa, Giuliana Martirani, Giorgio Nebbia ed Antonio D’Acunto. Per quest’ultimo – col quale condivido da molti anni le battaglie eco pacifiste in Campania – visita anche il sito http://www.terraacquaariafuoco.it , che raccoglie i suoi principali contributi.
8 In questa prospettiva cfr. alcuni contributi di E. Ferraro: Laude della biodiversità , Napoli, VAS, 2005; Adam-adamàh: un’agape cosmica, Bologna, Filosofia Ambientale (gen. 2008); Il Salmo del Creato, Bologna, Filosofia Ambientale (mar. 2009) vedi: http://www.filosofia-ambientale.it
9 Cfr. E. Ferraro, Sobrietà, essenzialità e giustizia per una vera conversione ecologica, pubbl. a set. 2008 su http://www.scrivi.com; vedi anche i vari articoli postati sul mio blog “Pacebook” e riferibili al tema dell’ ecoteologia.
10 D. Llistar i Bosch, op. cit. (trad. mia).
11 G. Nebbia, Pace e ambiente, editoriale (set. 2011) su http://www.vasonlus.it
12 Ibidem
13 Vedi: Norman D. Livergood, Vulture Capitalism, in: http://www.hermespress.com (1999 ?)
14 “Our core values”, in: http://www.greenpeace.org/international/en/about/our-core-values/
15 Statuto di Legambiente: http://www.legambiente.it/sites/default/files/docs/statuto.pdf
16 Statuto di Verdi Ambiente e Società Onlus: http://www.vasonlus.it/chi-siamo/statuto
17 Vedi: http://www.isprambiente.gov.it/site/it-IT/ISPRA/Organizzazioni_ambientali/L’ambiente_in_Italia/Associazioni_ambientaliste/
18 Ermete Ferraro, A propulsione anti-nucleare (15 anni di lotte ecopacifiste di VAS per la sicurezza del cittadini e per la denuclearizzazione del porto di Napoli.