Lingue regionali: liberate ma…sotto tutela

Un dotto convegno di linguisti e dialettologi

Che Napoli sia diventata il ‘palcoscenico’ per un convegno con la partecipazione di una decina di autorevoli docenti universitari, venuti da tutta l’Italia per confrontarsi sul tema della salvaguardia dei patrimoni linguistici regionali nelle diverse sfaccettature locali, è senza dubbio cosa buona e giusta. E in effetti è stato proprio un palcoscenico, quello dello storico Teatro Nuovo di Montecalvario, ad ospitare la due-giorni promossa dal Comitato scientifico per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano, operante dal 2020 in seno al Consiglio Regionale della Campania [i]. Su quella ribalta si sono affrontate questioni importanti, prima con qualificate relazioni accademiche e poi con un panel allargato ad un’esponente di quel Consiglio Regionale e ad un rappresentante degli enti locali. Era ora, d’altronde, che sulla tutela e valorizzazione delle espressioni linguistiche dei vari territori si accendessero i riflettori dell’opinione pubblica e dei media, facendo uscire questo dibattito dall’ambito esclusivamente universitario.

Il problema, semmai, è che i faretti del Teatro Nuovo – proseguo nella metafora – si sono accesi ancora una volta solo sugli studiosi, lasciando al buio (e non solo metaforicamente) il pubblico cui questi si rivolgevano. Un pubblico, in gran parte giovanile, che ha seguito in religioso silenzio gli interventi, non si sa quanto coinvolto dai sottili distinguo circa la bontà o meno di iniziative che, pur riguardanti coloro che ancora parlano le lingue locali e talvolta si arrischiano a scriverle, non li vedono affatto protagonisti del processo.

Eppure, oltre ad aprire un reale dialogo coi potenziali fruitori dei progetti di tutela e rivitalizzazione delle espressioni linguistiche locali, sarebbe stata l’occasione più opportuna per avviare un reale confronto con quelli che, volontaristicamente ed investendoci tempo e risorse personali, da più di 20 anni svolgono a Napoli corsi formativi, fanno ricerche, pubblicano contributi, promuovono iniziative culturali e si battono per ridare al Napolitano – come ad altre espressioni dialettali della Campania – la dignità di oggetto di studio e d’insegnamento.

Purtroppo tutto ciò non è accaduto e, ancora una volta, il mondo accademico ha dato l’impressione di voler ribadire il proprio ruolo, preoccupandosi di erigere autorevoli steccati nei riguardi di siffatte iniziative di base, considerate spontaneistiche ed ingenue se non deleterie, nonché di difendere la propria esclusiva relazione con le istituzioni politico-amministrative, stimolate ad investire risorse finanziarie nelle ricerche ‘scientifiche’.

Sotto i riflettori del Teatro Nuovo si sono alternati interventi autorevoli ed interessanti su cosa meriterebbe di essere ‘salvaguardato’ e sui soggetti e le modalità più idonee a tutelare il patrimonio linguistico delle regioni italiane. Da larga parte di essi – in particolare da alcuni docenti della Campania – è però apparsa in modo palese la diffidenza nei confronti dei ‘profani’ e del dilettantismo ingenuo negli interventi di formazione linguistica svolti in ambito extra-accademico, ed ancor di più verso una loro possibile, ma a quanto pare deprecabile, deriva socio-politica ‘identitaria’.

Il ruolo della linguistica, è stato ribadito più volte, sarebbe infatti quello di studiare oggettivamente i fenomeni, col necessario distacco dell’osservatore non partecipante, privilegiando un metodo descrittivo più che un approccio normativo. La lingua, si è detto, è qualcosa di vivo ed in evoluzione e i processi di cambiamento non sono arginabili. Il che è vero, se ci si riferisce ai mutamenti linguistici fisiologici nel tempo e nello spazio, ma suona quasi un pretesto laddove la naturale evoluzione di alcune lingue locali è stata condizionata dalle spinte di un centralismo autoritario e classista e da atteggiamenti conseguentemente repressivi o anche di autocensura. Decenni di studi storici e sociolinguistici rischiano così di essere sopravanzati da un’impostazione che manifesta tuttora dubbi sull’equazione tra la subalternità socio-economica e quella culturale, soprattutto nel caso del Mezzogiorno d’Italia, cercando di esorcizzare ogni forma di conflittualità tra lingua nazionale ed espressioni linguistiche identitarie territoriali, in nome di una sospetta ‘pax linguistica’, che contraddice l’affermazione dell’assenza di un vero conflitto.

Da qui il martellante ritornello sull’inesistenza di qualsivoglia connotazione spregiativa nell’utilizzo del termine ‘dialetto’, peraltro in contraddizione con gli interventi di alcuni studiosi che di tale ‘dialettofobia’ hanno viceversa portato attestazioni anche recenti. Da qui anche la pretesa di stabilire ‘ex cathedra’ chi sarebbe qualificato ad insegnare cosa e, soprattutto, dove quando e perché.  Alle risposte offerte da questa sorta di 5W dell’insegnamento dei dialetti nelle scuole, infatti, sono stati dedicati vari interventi del Convegno, esprimendo rispettabili ed autorevoli pareri, ma senza aver aperto preventivamente un confronto con quei soggetti che di tale controversa materia si occupano comunque già da molti anni.

Se sia opportuna o no una simbolica ‘ora di dialetto’ nelle realtà scolastiche, oppure se ci si debba occupare delle espressioni locali solo sul piano della condivisione delle tradizioni popolari (e quindi su un piano più folkloristico che di studio e apprendimento), sono questioni legittime. Meno legittimo mi sembra invece l’atteggiamento un po’ supponente di chi mostra di aver già deciso ciò che va bene o va scartato, indirizzando unilateralmente l’operato dei comitati cui le amministrazioni regionali si sono affidate.

Non a caso, già nella conferenza stampa di presentazione del Convegno – tenuta nella sede regionale – si era affermato che il suo compito era quello di “…definire gli ambiti linguistici, geografici e culturali del patrimonio linguistico napoletano, individuare modalità per la valorizzazione di un patrimonio linguistico e delineare le possibili iniziative per veicolare conoscenze adeguate sulla storia linguistica italiana e sulla variegata articolazione dell’area regionale campana[ii].  Una terminologia che già nei verbi usati (definire, individuare, delineare) tradiva la volontà di frapporre precisi paletti, delimitando preventivamente il terreno di tale sperimentazione.

Sul sito della Federico II si legge che: “…il Convegno proporrà tra l’altro una riflessione su come nella scuola italiana del XXI secolo possa delinearsi – senza antagonismi con la lingua italiana – uno spazio per il dialetto, con una consapevole attenzione verso le manifestazioni culturali e artistiche legate ai patrimoni linguistici locali” [iii].  Ma, più che una riflessione sul ‘come’ salvaguardare i patrimoni linguistici delle nostre regioni, dal convegno sembra essere scaturita una vera e propria ricetta, anticipando le ‘linee guida’ che il Comitato sembrerebbe voler dare non solo al suo operato, ma anche alle realtà informali che agiscono sul campo. Ad esempio privilegiando palesemente l’attenzione verso le manifestazioni artistico-culturali più ‘popolari’ ma mostrando diffidenza nei confronti dello studio scolastico delle caratteristiche lessico-grammaticali e fonetico-ortografiche dei vari dialetti, attività considerata forse foriera di spiacevoli ‘antagonismi’ con la lingua italiana… Oppure insistendo nell’affermazione che le legislazioni regionali in materia tendono a privilegiare le espressioni linguistiche delle principali metropoli (si tratti di Venezia come di Napoli, di Roma come di Palermo), ipotizzando quindi sedicenti lingue regionali o addirittura elaborando linguaggi artificialmente standardizzati. Tendenze che, pur presenti in alcune normative in vigore, non nascono tanto dagli orientamenti di chi opera sul terreno, quanto dai condizionamenti politici degli organi legislativi.

Il caso della Campania: una legge mutilata

È successo ovviamente anche nel caso della Legge regionale della Campania n. 14/2019 (vedi testo), frutto d’un difficile compromesso tra la proposta avanzata dai Verdi (che io stesso ero stato incaricato di articolare) e quella presentata dalla Destra. La risposta a molte delle obiezioni e perplessità espresse nel corso del Convegno sta proprio in questa ambiguità di fondo, che ha di fatto tradito alcune istanze presenti nella prima proposta. Già nel titolo, ad esempio, si notano le differenze. Quella partorita 3 anni e mezzo fa dal Consiglio Regionale della Campania (il cui organismo attuatore è proprio il Comitato Scientifico organizzatore del Convegno) annuncia sbrigativamente “Salvaguardia e valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano”, laddove il progetto originario parlava più latamente di “Norme per lo studio, la tutela e la valorizzazione della Lingua Napoletana, dei Dialetti e delle Tradizioni Popolari della Campania”. 

Le differenze proseguono all’articolo 1, laddove tra le finalità nel testo vigente leggiamo che: “2. La Regione Campania valorizza il suo patrimonio culturale, promuove e favorisce la conservazione e l’uso sociale dei beni culturali linguistici, etnomusicali e delle tradizioni popolari, con particolare riguardo alla salvaguardia e valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano”. Da questo articolo, pur citando la Dichiarazione Universale dell’UNESCO sulla diversità linguistica, è sparito invece l’iniziale riferimento alla Carta Europea delle Lingue Regionali, approvata nel 1992 dal Consiglio d’Europa, che è molto più chiara sulla finalità di facilitarne l’uso orale e scritto “agevolandone lo studio e l’insegnamento”.  Conseguentemente, è stato cassato anche l’art. 3 del progetto di legge originario, dove si prevedeva esplicitamente che “la Regione Campania tutela e valorizza il patrimonio storico-culturale e letterario connesso alla lingua napoletana anche mediante il suo insegnamento – e la conoscenza degli altri idiomi della Campania – nelle scuole di ogni ordine e grado”. Nella legge in vigore, conseguentemente, è rimasto solo un generico riferimento ad “iniziative rivolte alla popolazione scolastica”.

Le premesse della proposta di legge, pertanto, erano molto più articolate di quanto emerge dal testo poi approvato, riferendosi al principio – democratico ed ecolinguistico – del rispetto della diversità linguistica in tutte le sue manifestazioni, senza affatto ipotizzare la preminenza di un idioma su un altro.  Appare allora un po’ pretestuosa l’osservazione di chi – in un articolo sul quotidiano Il Mattino – ha scritto : “…si pensa che tutti i dialetti siano, individualmente e nel loro insieme, testimoni di storia e di una tradizione linguistica ricca proprio perché variegata? Oppure si pensa che la salvaguardia debba riguardare solo alcuni dialetti proclamati unici o migliori?” [iv]   Domanda retorica che prelude alla successiva obiezione: “Si parla spesso di introdurre i dialetti nella scuola. In questo campo più che mai sono indispensabili obiettivi chiari: qualcuno crede che la scuola, con didattica normativa, dovrebbe impartire agli scolari la capacità di usare fluentemente il dialetto? Oppure si vuole insegnare solo la grafia di un dialetto a scolari che in futuro vorranno scrivere poesie, canzoni o altre opere? In entrambe le prospettive (tra loro diverse), bisognerebbe precisare quale dialetto scegliere tra i tanti di una regione…”. [v]

Il punto centrale della contestazione portata avanti da alcuni esponenti del mondo accademico (e sintetizzata in quell’articolo) riguarda le finalità stesse di un eventuale insegnamento dei dialetti nelle scuole, manifestando un atteggiamento sospettoso verso ipotetici obiettivi di contrapposizione di essi alla lingua comune e ufficiale.

Molti, se si considera ciò che si legge in giro e in rete, credono che tutti i dialetti abbiano subito torti gravissimi e volontari a causa della diffusione dell’italiano, tanto che a volte l’idea di salvaguardia sembra abbinata a un senso di rivalsa […] Anche nella didattica, con insegnanti che abbiano padronanza della materia, si potrà in ogni luogo prevedere, in rapporto all’età dei discenti, un’attenzione verso il dialetto […] ma senza esaltazioni e senza l’idea che qualcuno abbia messo in atto oppressioni o deprivazioni a danno di altri”. [vi]

Ecco il punto: esorcizzare ogni potenziale intenzione di ‘rivalsa’ sembrerebbe più importante che promuovere lingue locali che hanno subito viceversa un’innegabile riduzione a parlate ‘volgari’, da confinare semmai in ambito familiare perché inadatte ad esprimere contenuti ‘alti’. La decisa negazione di ogni forma di “oppressioni o deprivazioni” cozza inoltre contro decenni di studi sociolinguistici che hanno messo in evidenza quanto la marginalità socio-economica della gente del Sud comportasse anche la deprivazione delle loro specifiche espressioni linguistiche. Non si tratta di perseguire ‘rivalse’ o di una sorta di revanscismo culturale o politico, ma della legittima affermazione della pari dignità di tutte le espressioni linguistiche, evitando che quelle più marginalizzate vengano ridotte a manifestazioni folkloristiche minoritarie su cui fare solo ricerche. La rivitalizzazione delle lingue locali è quindi manifestazione d’identità culturali particolari che non si contrappongono necessariamente a quella nazionale, ma restituiscono dignità e diritti a chi per troppo tempo ha subito la marginalizzazione di un processo unitario di stampo coloniale. Come ho già scritto in proposito: “Tutelare il diritto delle minoranze etnolinguistiche si è rivelato più agevole che salvaguardare e garantire un futuro a lingue considerate ‘minoritaie’ o ‘regionali’, che non rischiano l’estinzione bensì l’accantonamento, lo snaturamento e la corruzione sul piano lessicale, grammaticale ed ortografico” (E.Ferraro, Grammatica ecopacifista, Pisa, Centro Gandhi Edizioni, 2022, p. 92).

Il paradosso, semmai, è che la rivendicazione di un’autonomia linguistica vera e propria – sul modello delle battaglie per la rivitalizzazione del catalano, del provenzale o dello scozzese – non proviene affatto dalle regioni meridionali che più hanno sofferto il peso della subalternità socio-economica e culturale, bensì da quelle ricche e forti del Nord, come la Lombardia e il Veneto. A noi del Sud basterebbe che le lingue locali delle nostre genti non fossero più mortificate, consentendo di recuperare e valorizzare espressioni idiomatiche e culturali del tutto originali. Uno dei modi per marginalizzare i cosiddetti dialetti è stata la loro riduzione a strumenti utili solo per la comunicazione familiare, o anche in ambiti esterni ma limitati come il teatro popolare, la poesia vernacolare o le canzoni.  L’insistenza – ancora una volta – sull’opportunità di confinarne lo studio esclusivamente nel recinto “delle tradizioni e (del)la storia (nomi di luogo, usi gastronomici, etimologie, letteratura, altri usi artistici[vii] mi sembra quindi che confermi il diffuso pregiudizio sulla loro inadeguatezza in altri ambiti comunicativi (ad es. giornali ed altri media, ma anche produzioni in prosa o ricerche di altro genere).

L’autoreferenzialità di un mondo accademico che dialoga con se stesso, ignorando il confronto con chi, sul terreno concreto, da decenni si sta battendo per ridare dignità agli idiomi locali, non è un segnale positivo di apertura al dialogo. Nel caso della Campania, la banalizzazione della proposta di legge iniziale per renderla utile solo ad elargire finanziamenti a manifestazioni folkloristiche ed a ricerche accademiche, è stato un altro segnale negativo. Fatto sta che chi si spende ogni giorno per difendere e promuovere il Napolitano ed altre espressioni linguistiche campane continuerà a farlo sempre e comunque. Malgrado che da questo convegno sia emersa la preoccupazione, più che di salvaguardare queste lingue, di porre la loro promozione  sotto l’autorevole ‘tutela’ degli esperti…


Note

[i]  https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/convegno-salvaguardare-un-patrimonio-linguistico/31069 . Su finalità, composizione e attività del Comit. cfr. https://cr.campania.it/comvalnap/

[ii] https://www.lapilli.eu/3.0/agenda/4069-salvaguardare-e-valorizzare-il-patrimonio-linguistico-napoletano-idee-fatti-e-prospettive

[iii] https://www.unina.it/-/34934236-salvaguardare-un-patrimonio-linguistico

[iv] Nicola De Blasi, Dialetti, ecco le iniziative per il patrimonio linguistico napoletano: difendiamo i dialetti (anche) dalle fake news, IL MATTINO, 13/12/2022

[v] Ibidem

[vi] Ibidem

[vii] Ibidem

© 2022 Ermete Ferraro

A rotta di…protocollo

Intendere l’Intesa, analizzandone il linguaggio

Fonte: Weekly Magazine

Non è stato facile, ma alla fine ci siamo riusciti. Ho finalmente davanti agli occhi il testo del protocollo d’intesa Comune-Esercito approvato dalla Giunta Comunale di Giugliano in Campania -NA (D.G. n. 183 dell’8/11/2021), sottoscritto in pompa magna, pochi giorni dopo, dal Sindaco dott. Pirozzi e dal gen. Tota, Comandante delle Forze Operative Sud dell’Esercito Italiano. Di questa curiosa intesa tra un’amministrazione comunale e un’istituzione militare per fare educazione ambientale nelle scuole mi ero già occupato in un precedente articolo[i], sottolineando l‘assurdità (e pretestuosità) dell’iniziativa, attivata in una Città già ampiamente militarizzata, in quanto ‘ospita’ da un decennio il Comando NATO di Lago Patria per Sud Europa e Africa.  I media locali avevano riportato ampiamente quella notizia, riferendo inoltre che in un Circolo didattico giuglianese già il 3 dicembre l’Esercito aveva già ‘incontrato’ trionfalmente i bambini nel corso d’un evento ispirato al suddetto protocollo[ii].

Restava però la curiosità di leggere che cosa fosse effettivamente scritto in quel documento, che stranamente non risultava allegato alla delibera che lo approvava. Consultare un documento ufficiale, si sa, non è come leggere un testo narrativo o descrittivo. Nel caso specifico, inoltre, era prevedibile che il burocratese della pubblica amministrazione, unito alla ridondanza retorica dei militari, rendesse quel testo poco scorrevole e non del tutto chiaro. In effetti, sia la delibera di giunta sia il testo del protocollo partivano da premesse generali e difficilmente contestabili (ad esempio, la volontà di “contrastare l’abbandono dei rifiuti  e favorire una corretta e consapevole gestione dei rifiuti” oppure di attivare il “piano d’azione per il contrasto  dei roghi dei rifiuti”), ma per motivare un’anomala intesa tra un’istituzione civica ed una militare su un terreno diverso: “un rapporto di collaborazione per la…formazione sul problema della gestione dei rifiuti”.

In un saggio precedente[iii] ho spiegato perché l’analisi critica del discorso e l’indagine sulle ‘storie’ che linguisticamente modellano la nostra realtà in senso anti-ecologico rendono l’ecolinguistica uno strumento utile per approfondire l’aspetto comunicativo del progetto ecopacifista di cui il Movimento Internazionale della Riconciliazione si è fatto promotore col suo recente libro La colomba e il ramoscello [iv].

Uno dei principali teorici dell’approccio ecolinguistico spiega che le narrazioni della realtà sono spesso viziate da elementi deformanti, come ideologie, inquadramenti, metafore, valutazioni implicite, identità, convinzioni, cancellazioni ed evidenziazioni[v]. Si tratta di espedienti comunicativi che l’analisi critica dei discorsi ci aiuta a demistificare.

Anche in questo caso mi sembra che si tratti di una ‘storia’ che merita un’analisi ecolinguistica, poiché il degrado ambientale di un territorio come la c.d. ‘Terra dei fuochi’ e lo smaltimento errato e/o abusivo dei rifiuti sono diventati il pretesto per un’operazione piuttosto ambigua, che finisce col confermare il ruolo ‘civile’ delle forze armate e la loro funzione di ‘presidio’ a tutela dell’ambiente.

È probabile che i cittadini/ed i dirigenti e docenti degli istituti scolastici di quel territorio (avvelenato per decenni dagli sversamenti illegali delle ecomafie e dalla micidiale pratica dei roghi tossici) non abbiano letto il testo integrale del protocollo. D’altra parte, anche gli articoli prodotti nel merito si saranno attenuti al comunicato che è stato diramato dal COMFOPSUD dell’Esercito[vi], sorvolando disinvoltamente su alcuni aspetti sui quali penso invece che sarebbe stato interessante soffermarsi.

È esattamente ciò che provo a fare con questo mio contributo

Incongruenze e contraddizioni comunicative

Inizio appunto analizzando un brano centrale di quel comunicato stampa.

«Lo scopo del Protocollo è educare i ragazzi, attraverso la formazione degli insegnanti negli Istituti scolastici, sul tema della gestione dei rifiuti, con particolare riferimento alla raccolta e al loro conferimento. Tale progetto si inserisce nelle attività collaterali svolte dall’Esercito nell’ambito dell’Operazione “Terra dei Fuochi”, con l’obiettivo di sensibilizzare le giovani generazioni alla prevenzione dei reati ambientali. La testimonianza diretta del personale dell’Esercito, impegnato quotidianamente nella “Terra dei Fuochi” per garantire un ambiente più sicuro e salubre per la popolazione, fornirà un importante contributo educativo per arginare il fenomeno». 

Salta agli occhi la contraddizione tra il ruolo inizialmente indiretto dei militari nell’educazione degli alunni (attraverso la formazione degli insegnanti) e la successiva previsione di un loro intervento attivo nelle scuole (che affiora dall’uso del verbo “sensibilizzare” e dall’espressione “testimonianza diretta”).

La seconda incongruenza nasce dall’intenzionale sovrapposizione di finalità diverse, in quanto la formazione alla corretta raccolta differenziata ed il conferimento ordinario dei rifiuti non c’entra con la sensibilizzazione dei minori alla prevenzione di veri e propri reati ambientali (sversamenti abusivi e pericolosi, roghi tossici…).  Dal comunicato del COMFOPSUD, quindi, emerge una immagine piuttosto opaca delle finalità di questa insolita ‘intesa’.

Più avanti il gen. Tota dichiarava: «…è fondamentale sviluppare la consapevolezza sulla gestione dei rifiuti nei giovani, del rispetto dell’ambiente in cui vivono, perché […] attraverso corretti comportamenti, potranno contribuire a ridurre e risolvere il problema”». Ma il progetto nato da questa inedita ‘collaborazione’ ha la pretesa di coinvolgere le scuole su un terreno che non dipende solo da “corretti comportamenti”, in quanto accrescere nei giovani la “consapevolezza sulla gestione dei rifiuti” non basta a “ridurre e risolvere il problema”, che ha tutt’altre cause e responsabilità.

Ma veniamo alle affermazioni della controparte ‘civile’ dell’istituzione militare, a partire dalla delibera della Giunta Comunale di Giugliano. Anche in questo caso appare evidente il tentativo di razionalizzare a posteriori una decisione assunta altrove. Nell’atto amministrativo, ad esempio, tre pagine di sovrabbondanti “premesse” e “considerazioni” servono a giustificare poco più di tre righe della parte deliberativa. Nella relazione istruttoria, ricordando che si tratta della famigerata ‘Terra dei fuochi’, si afferma l’intento dell’A.C. di «fronteggiare e contrastare l’abbandono dei rifiuti e favorire una corretta e consapevole gestione dei rifiuti», ma anche quello di svolgere «attività d’informazione e formazione…mirate sia all’educazione ambientale degli allievi, sia alla formazione degli insegnanti».  Citando la fonte militare, si ribadisce che:

«l’Esercito Italiano…concorre al presidio del territorio del Comune di Giugliano in Campania, per prevenire e contrastare i reati ambientali, al fine di garantire un ambiente più sicuro e salubre per la popolazione».  Si dichiara poi che Comune ed Esercito hanno manifestato la «volontà di avviare un rapporto di collaborazione tramite l’attivazione di un tavolo tecnico, finalizzato a promuovere un progetto condiviso di educazione ambientale».

Ma cosa c’entra il ruolo di monitoraggio e repressione dei reati ambientali con l’educazione ambientale dei bambini delle scuole elementari? Se quella formativa è una ‘attività collaterale’ dell’Esercito, perché in questo protocollo diventa così centrale

Sicurezza e salute: un binomio sospetto…

Fonte: Anteprima 24

Le forze armate ci tengono ad accreditarsi come istituzione democratica, ‘civile’ ed attenta alle esigenze del territorio e dei suoi abitanti. Tale narrazione fa parte dell’operazione di trasformismo mimetico dei militari [vii]e cerca di renderne l’immagine più accettabile e rassicurante, dando una spennellata di ‘verde’ alla mission del sistema militare, che viceversa ha una pesante impronta ecologica sull’ambiente.

 La comunicazione che sostituisce la retorica bellicista con quella ambientalista tende ad accostare sicurezza e salute, come se la seconda dipendesse dalla prima e se la ‘sicurezza’ fosse quella che si garantisce con un controllo poliziesco e/o militare del territorio e delle comunità che vi abitano. Il fatto è che in questa parola si sovrappongono due concetti ben distinti nella lingua inglese: security e safety.

«La ‘security’ si riferisce alla protezione di individui, organizzazioni e proprietà contro le minacce esterne che possono causare danni […] generalmente focalizzata sull’assicurare che fattori esterni non causino problemi o situazioni sgradite all’organizzazione, agli individui e alle proprietà […] D’altra parte, la ‘safety’ è la sensazione di essere protetti dai fattori che causano danni» [viii].

Nelle ‘politiche securitarie’ ci si riferisce al primo dei due vocaboli inglesi, che sottolinea l’aspetto del controllo e della repressione anziché quello della prevenzione dei danni alla salute o all’ambiente. Ma nella delibera citata i due piani si confondono, mescolando aspetti preventivi (sensibilizzazione degli adulti e educazione ambientale dei minori) con quelli repressivi (‘presidio’ del territorio e ‘contrasto’ degli ecoreati).  Un terzo aspetto – la ‘gestione’ in sé della raccolta e smaltimento dei RSU – ricade nelle specifiche responsabilità dell’amministrazione comunale e non ha niente a che fare con l’esercito.

Ma anche nel testo dello stesso Protocollo d’intesa [ix] si ha l’impressione che ci si arrampichi sugli specchi per legittimare una collaborazione abbastanza opinabile. Nelle due pagine e mezza di premesse si citano normative europee, nazionali e regionali e perfino il Codice Militare e le relative disposizioni regolamentari. Si afferma di voler «favorire l’assunzione di un ruolo attivo per la salvaguardia del territorio da parte dei cittadini» e di considerare gli insegnanti «canale preferenziale per trasferire la sensibilità ambientale ai ragazzi sul tema dell’educazione alla gestione dei rifiuti». Non manca naturalmente anche l’elogio dell’Esercito «che quotidianamente è alle prese con le problematiche connesse all’abbandono incontrollato dei rifiuti».

Questa pletorica e retorica premessa dovrebbe introdurre all’esplicitazione delle finalità del protocollo e delle azioni concrete che con esso si intende avviare, che viceversa restano assai vaghe (“problema della gestione dei rifiuti”, “necessità sempre più impellenti d’impegnarsi a fondo nelle operazioni di conferimento e nella raccolta differenziata”). Tant’è che all’art. 2 del documento hanno sentito il bisogno di aggiungere questa frase: «L’idea generale è quella di porre l’attenzione su alcuni punti del territorio con rifiuti abbandonati e quindi richiamare l’attenzione su comportamenti dei singoli che troppo spesso vengono fatti ricadere sulla P.A. che non gestisce il territorio».

Dal brusco cambio di registro espressivo – che da burocratico diventa quasi discorsivo – sembra trasparire una excusatio non petita più che un’effettiva precisazione su ambiti e limiti dell’intesa del Comune con l’Esercito. Non prendetevela con l’Amministrazione – si lascia intendere – poiché non si tratta di carenze istituzionali ma di comportamenti incivili ed irresponsabilità di singoli soggetti…

Narrazioni pseudo-ecologiche e ‘greening’ delle forze armate

Fonte: Scisciano Notizie

La frase appena evidenziata esemplifica una narrazione sulla ‘Terra dei Fuochi’ che rischia di cancellare tante inchieste ed analisi sulle responsabilità delle ‘ecomafie’ che pur si afferma di voler combattere. Soprattutto, si finisce col minimizzare l’impatto di un modello di produzione e distribuzione di per sé antiecologico, in quanto energivoro, fondato su un consumismo sfrenato e produttore di un’ingestibile mole di rifiuti, spesso tossici per l’ambiente.  Comportamenti poco responsabili o addirittura illeciti dei singoli hanno sicuramente un peso sulla tragica vicenda dell’inquinamento di quel territorio. Sarebbe però una pericolosa banalizzazione della realtà se si alimentasse solo quella ‘storia’, sorvolando sulle enormi responsabilità di chi, da decenni smaltisce illegalmente rifiuti tossici e di chi non ha saputo rispondere adeguatamente ad un’emergenza ambientale e sanitaria che si è di fatto trasformata in un ‘biocidio’.

«Ne è nata una mappa di rischio nei 38 Comuni di quel circondario dove più alta è stata l’incidenza degli sversamenti illeciti. Nei centri interessati dall’indagine, che insistono su 426 chilometri quadrati e su cui è competente la Procura di Napoli Nord, sono stati individuati 2.767 siti di smaltimento illegale. Più di un cittadino su tre – nel dettaglio il 37% dei 354mila residenti nei 38 Comuni – vive ad almeno 100 metri di distanza da uno di questi siti, esponendosi a una “elevatissima densità di sorgenti di emissioni e rilasci di composti chimici pericolosi per la salute umana”.»[x]

Per quanto riguarda l’impegno delle Parti (art. 3 del Protocollo cit.), i cinque punti a carico del COMFOPSUD sono:

«a)organizzare, presso le istituzioni scolastiche che saranno indicate dal Comune di Giugliano, attività d’informazione attraverso la testimonianza diretta di personale militare impegnato nell’Operazione ‘Terra dei Fuochi’ per sensibilizzare gli studenti sul tema delle buone pratiche ambientali […]illustrare l’azione svolta dall’Esercito per il contrasto e il contenimento del fenomeno dei roghi e dello sversamento illecito dei rifiuti […] b)concorrere, mediante seminari di approfondimento, a formare gli insegnanti sulle attività educative relative alla gestione dei rifiuti…».

I tre punti successivi (c – d – e) si riferiscono ad attività collaterali dell’Esercito (compresa la ‘promozione’ del progetto attraverso i propri canali di comunicazione istituzionale).

Ebbene, leggendo il brano citato emerge ancora una volta l’ambigua sovrapposizione di due ruoli formativi ben diversi – uno diretto e l’altro indiretto – che sarebbero dovuti rimanere distinti. Da un lato, infatti, si prevede un discutibile intervento dei militari dentro le scuole, qualificato come ‘testimonianza’ ma sostanzialmente un’auto-promozione. Dall’altro si parla di ruolo nella formazione degli insegnanti, ma attraverso un soggetto terzo: tre docenti dell’Università di…Padova.

In questa Intesa il ruolo del Comune di Giugliano appare piuttosto scialbo e meramente burocratico. Si tratta d’individuare i plessi scolastici dove svolgere le attività progettuali; di promuovere la partecipazione del personale scolastico coinvolto; di diffondere tali “opportunità educative e didattiche” e le finalità del Protocollo a livello locale e, ovviamente, di partecipare al Tavolo inter-istituzionale. Compiti prevalentemente amministrativi, dai quali traspare che il progetto per il quale si è sottoscritta un’intesa con l’Esercito è calato dall’alto più che rispondente alle reali esigenze manifestate dal mondo della scuola.

Considerazioni e valutazioni ecopacifiste

Fonte: Report Difesa

Come si vede, l’analisi critica di un testo – pur poco appassionante come un protocollo d’intesa… – può comunque servire a chiarire il ‘discorso’ cui tale iniziativa sembrerebbe funzionale. Mentre l’amministrazione comunale prova ad arroccarsi in una posizione difensiva di ‘autotutela’ (come se il suo compito istituzionale fosse il semplice coordinamento dell’intervento altrui), dal documento emerge per contro il ruolo proattivo dell’Esercito, che propone una narrazione accattivante di sé, come soggetto imprescindibile nella tutela della sicurezza ambientale, in entrambi le accezioni del termine.  

L’analisi critica del discorso, finalizzata ad una lettura in chiave ecolinguistica di questo specifico caso in esame, ne mette in evidenza alcuni aspetti che rischiano di essere trascurati se ci si ferma al fatto in sé. Provo quindi a sintetizzare – utilizzando le categorie tipiche dell’analisi ecolinguistica – quanto è emerso finora dall’analisi dei documenti relativi ad un’intesa apparentemente banale tra il Comune di Giugliano ed il Comando Sud dell’Esercito Italiano.

  • IDEOLOGIA: credo che questa operazione faccia parte d’una complessiva strategia (espressione non casuale…) che afferma la centralità dell’intervento degli organi preposti al compito di ristabilire l’ordine di far rispettare le leggi. Ma poiché in una società democratica la prevenzione e l’educazione dovrebbero prevalere sulle azioni di natura repressiva, ecco che ad occuparsi dell’aspetto formativo si propongono quegli stessi organi – giudiziari e militari – votati al presidio in armi e al law enforcement. L’idea di fondo cui s’ispirano è che l’autorevolezza dell’intervento – anche quello preventivo – sarebbe garantita solo da un soggetto in divisa, con una veste ‘ufficiale’, abilitato a passare se necessario anche alla fase due, quella repressiva.
  • INQUADRAMENTI: Stibbe chiama framings le narrazioni che utilizzano un ‘pacchetto di conoscenze’ relative ad un certo ambito della nostra vita per strutturare ed ‘inquadrarne’ un altro. Nel caso in esame, al tradizionale framing delle forze armate come istituzione garante della sicurezza (security) da nemici e pericoli esterno, viene sovrapposta strumentalmente la loro pretesa funzione ‘civile’ di garanti anche della sicurezza (safety) dei cittadini, nonché della salubrità del loro ambiente di vita.
  • METAFORE: nel comunicato stampa, nella delibera e nel protocollo d’intesa non compaiono vere e proprie metafore, trattandosi di documenti scritti con un codice politico-amministrativo e non certo narrativo. Ciò nonostante, si coglie la ricorrente immagine retorica dei militari come ‘testimoni’ diretti, impegnati quotidianamente nell’azione, e perciò stesso considerati formatori credibili e affidabili.
  • VALUTAZIONI: sono quasi sempre presentate in forma implicita, ma pesano molto sul discorso. Nel nostro caso, dai testi affiorano inespressi elementi valutativi riferibili sia alla popolazione locale, sia agli operatori della scuola. I cittadini, infatti, andrebbero ‘sensibilizzati’ alla corretta raccolta e smaltimento dei rifiuti, lasciando intendere che la loro sensibilità in materia sia piuttosto limitata. Nei confronti dei giovani, in particolare, si afferma che bisogna svilupparne la ‘consapevolezza’, dando quindi per scontato che essa non sarebbe ancora sufficiente. Nei riguardi degli insegnanti, infine, si sostiene la necessità della loro ‘formazione’, sottintendendo che il loro impegno nell’educazione ambientale non sarebbe abbastanza rilevante, ragion per cui necessiterebbe di ulteriori stimoli e di un ‘tutoraggio’ esterno.
  •  IDENTITÀ: dalla cooperazione tra Comune ed Esercito ipotizzata dal Protocollo d’intesa, come si è visto, emerge piuttosto sbiadita l’immagine identitaria del primo come garante istituzionale della salute e dell’igiene della comunità amministrata, laddove invece risulta sottolineata l’identità ‘civica’ everdedel secondo, cui si riconosce di fatto un ruolo centrale anche nella difesa della sanità pubblica, peraltro già ampiamente esaltata dall’emergenza pandemica.
  • CONVINZIONI: nell’analisi ecolinguistica si tratta di convincimenti radicati, che strutturano ‘storie’ secondo le quali “una particolare descrizione del mondo è vera, incerta oppure falsa”[xi]. Essi sono generalmente impliciti, come quello secondo il quale chi è impegnato in prima persona in azioni rischiose come quelle militari lo fa solo per spirito di servizio alla collettività, per cui va ascoltato e rispettato. Un secondo convincimento insidioso, ma purtroppo diffuso, è che la responsabilità dei danni ambientali vada ascritta allo scarso civismo di tante persone, in secondo luogo alle intenzioni criminali di alcuni delinquenti e, solo per ultimo, ad un modello economico dato come imprescindibile, che si basa sullo sfruttamento delle risorse ambientali ma di cui si preferisce condannare solo la negatività degli ‘eccessi’.
  • CANCELLAZIONI: le ‘storie’ che ci vengono propinate da chi detiene il potere e condiziona pesantemente la comunicazione pubblica sono viziate anche dalla tendenza ad espungere strumentalmente alcuni aspetti ‘scomodi’. Nel caso del complesso militare-industriale, ad esempio, si sottace che è uno dei maggiori inquinatori a livello globale e che la sua impronta ecologica – in guerra come in pace – è semplicemente disastrosa. Però il fatto che uno dei principali autori della devastazione ambientale si presenti come garante della salute e dell’integrità ambientale sarebbe inaccettabile, per cui si preferisce ‘cancellare’ quelle storie di distruzione ed inquinamento, per contro esaltando retoricamente l’improbabile ruolo ‘ambientalista’ dei militari.
  • EVIDENZIAZIONI: sono l’altra faccia della medaglia. L’insistenza dei documenti citati su verbi come ‘formare’, ‘prevenire’, ‘sensibilizzare’ e ‘testimoniare’ fa da ovvio contraltare al colpevole silenzio su aspetti assai meno edificanti della presenza delle forze armate, come la crescente militarizzazione del territorio, l’elusione dei controlli sul rispetto delle norme ambientali ed il pesante inquinamento dell’aria, del suolo, dei mari e perfino dell’etere. Per non parlare della sottrazione di risorse utilizzabili per finalità collettive e della pretesa di sostituirsi (o comunque sovrapporsi) ad istituzioni civili in funzioni di natura non militare.

Concludendo, va precisato che la vicenda illustrata in questo mio contributo non è certo un caso isolato né una storia più assurda e paradossale di altre, caratterizzate dalla progressiva invasione militare di terreni una volta solo ‘civili’, col risultato di una strisciante militarizzazione della società e della cultura. L’intervento sempre più frequente di esponenti delle forze armate dentro le istituzioni – come pure la tendenza di molte autorità scolastiche ad autorizzare ‘visite didattiche’ egli allievi/e a basi militari, caserme ed impianti comunque di natura bellica – è uno degli aspetti più riprovevoli di questa pesante impronta militare.

La Campagna Nazionale ‘Scuole Smilitarizzate’[xii] – rilanciata nel 2020 dal Movimento Internazionale della Riconciliazione e da Pax Christi Italia – si propone appunto di denunciare e contrastare l’invadenza delle realtà militari. Ma senza la collaborazione attiva del mondo della scuola ciò sarà molto difficile. Ecco perché partire dall’analisi linguistica e dalla comunicazione può essere un importante stimolo in tal senso.

Ecco perché partire dall’analisi linguistica e dalla comunicazione può essere un importante stimolo in tal senso, contrapponendo al suo interno programmi di educazione alla pace e veri percorsi di educazione ecologica.


NOTE

[i] E. Ferraro, “Giugliano, provincia di NATOLI”, Contropiano, 31.12.2021. https://contropiano.org/news/politica-news/2021/12/31/giugliano-provincia-di-natoli-0145316

[ii] “L’Esercito incontra i bambini a scuola nel napoletano”, Anteprima24.it, s.d. https://www.anteprima24.it/napoli/esercito-scuola-napoletano/?fbclid=IwAR2eWWAxKxKxuzC3C_YxNym8uRdCGwUaMPPxd8V9KQt0twm9pBIY68k-TUc

[iii] E. Ferraro, Ecolinguistica. Un campo inesplorato da coltivare, Academia.edu, 2020. https://www.academia.edu/44801861/Ermete_Ferraro_Ecolinguistica_un_campo_inesplorato_da_coltivare_

[iv] Cfr. Movimento Internazionale della Riconciliazione, La colomba e il ramoscello, Torino, Ediz. Gruppo Abele, 2021

[v] Cfr. A. Stibbe, The Stories We Live By – a free online course in ecolinguistics. https://www.storiesweliveby.org.uk/TheCourse

[vi] COMFOPSUD, Esercito e Comune di Giugliano per un ambiente più sano e sicuro, 11.11.2021. https://www.esercito.difesa.it/comunicazione/Pagine/esercito-e-comune-di-giugliano_211112.aspx

[vii] Cfr. E. Ferraro, “Credere, rinverdire e combattere”, Ermetespeacebook, 18.11.2018. https://ermetespeacebook.blog/2018/11/18/credere-rinverdire-e-combattere/

[viii] “Difference Between Safety and Security”, differencebetween.net. http://www.differencebetween.net/language/words-language/difference-between-safety-and-security/

[ix] Il testo del Protocollo d’Intesa sottoscritto dal Sindaco di Giugliano e dal Comandante COMFOPSUD può essere scaricato online dall’indirizzo seguente: https://servizi.comune.giugliano.na.it/openweb/pratiche/dett_registri.php?id=14084&codEstr=P_OP&fbclid=IwAR0DjvMJ-GMt1VTNAw5w4JZo41ji2xyNH2nWufMxNm74MGJLs7PfkwigtMw

[x]  A. Averaimo, “Terra dei fuochi. Di rifiuti si muore. Ecco i dati e la mappa di rischio che lo provano“, Avvenire, 11.02.2021. https://www.avvenire.it/attualita/pagine/numeri-e-tumori-della-terra-dei-fuochi

[xi] Cfr. Stibbe, op. cit.

[xii] Per maggiori informazioni nel merito, cfr. la pagina https://www.facebook.com/scuole.smilitarizzate

© 2022, Ermete Ferraro

Etica militare? Siamo… a cavallo

La ‘annunziatella’ del Mattino

Il Sindaco de Magistris tra i col. Cristofaro e Barbaricini (Ref. la Repubblica e IL MATTINO)

Il quotidiano ‘Il Mattino’ – come anche la Repubblica – ha recentemente pubblicato questa notizia: “Napoli, protocollo d’intesa tra Comune e Nunziatella per etica, sport e inclusione”. [i]  Se dal titolo non riesce facile cogliere il nesso tra l’accordo sottoscritto e quelle tre nobili parole, neanche la lettura dell’articolo sembra fornire lumi per capire che cosa c’entri un addestramento alle mansioni di scuderia e di mascalcia, che consentiranno un graduale avvicinamento al cavallo e all’equitazione” con le proclamate finalità educative e sociali del progetto. Il principale quotidiano del Sud ci ha resi edotti che il sindaco della terza città d’Italia ha firmato un protocollo d’intesa col comandante della storica scuola militare partenopea, grazie al quale otto studenti di un istituto superiore statale di Napoli saranno inseriti nella “attività formativa” che si terrà dal 2 al 13 marzo presso il Centro Ippico della ‘Nunziatella’.  Lo storico accordo è stato ratificato nella Sala Giunta di Palazzo San Giacomo, alla presenza – oltre i sottoscrittori Luigi de Magistris e col. Amedeo Gerardo Cristofaro – dell’Assessore Clemente, del col. Barbaricini (capo progetto per la valorizzazione del comparto equestre dell’esercito) e della Dirigente Scolastica Palmira Masillo, accompagnata da una delegazione di studenti dell’I.S.I.S. ‘Alfonso Casanova’.

A questo punto il lettore, incuriosito dal convenire di amministratori ed alti ufficiali, si sarà chiesto quale finalità abbia questa nuova intesa tra vertici di enti locali, amministrazioni militari e presidi d’istituti scolastici pubblici. Le risposte fornite dal giornale sono le seguenti: “un approccio all’attività sportiva equestre militare ed ai valori ad essa legati […] La tradizione equestre militare è, oggi più che mai, veicolo di valori quali l’inclusione sociale e l’etica dello sport” […] Il Centro Ippico Militare offre l’opportunità di vivere un ambiente educativo e formativo che, pur preservando i propri scopi istituzionali principali, si rivela essere una risorsa polifunzionale per il territorio”. [ii]  Ma il motivo per coinvolgere degli studenti “in attività di scuderia e di mascalcia” è enunciato nelle affermazioni seguenti: “Il progetto si prefigge lo scopo di offrire l’opportunità di compiere un percorso formativo improntato alla legalità che si sviluppa in seno all’etica militare e che consentirà agli studenti coinvolti di conoscere meglio se stessi, mediante l’interazione naturale con il cavallo, rapportarsi e relazionarsi con altri che hanno scelto di vivere al servizio del proprio Paese in uniforme e acquisire il valore delle regole attraverso il riscontro giornaliero dei risultati conseguiti grazie all’applicazione disciplinata degli insegnamenti ricevuti”. [iii]

Il “percorso formativo” oggetto dell’intesa, insomma, sarebbe imperniato su queste quattro parole-chiave: (a) educazione alla “legalità” come naturale sviluppo della (b) “etica militare”, a sua volta fondata sulla scelta di svolgere un (c) “servizio al proprio Paese” e (d) dare valore alle “regole”, applicando con “disciplina” gli insegnamenti ricevuti.

Ippica etica e legalità

Attività di equitazione militare

Non sappiamo se tali dichiarazioni rientrino nel testo del protocollo firmato dal Primo Cittadino di Napoli (dichiaratasi per Statuto “Città di Pace”) o se riferiscono solo i commenti dei vertici militari. In ogni caso, saltano agli occhi tre sconcertanti elementi: (1) il divario fra reboanti affermazioni ed il ben più esile oggetto di quello che è solo un altro dei tanti accordi stipulati tra forze armate ed istituti d’istruzione, a conferma della strisciante ma incalzante militarizzazione della scuola; (2) l’insistenza sulla retorica di ‘valori militari’ come servizio e disciplina, accostati a concetti di bel altro spessore democratico, quali: etica e legalità; (3) l’incongruenza tra un progetto formativo che offrirà ad otto studenti la ‘opportunità’ di trascorrere dieci giorni di formazione nelle scuderie d’un centro ippico militare e le dichiarate finalità educative per i giovani, che vanno dalla ‘conoscenza di sé’ alla ‘relazione’ coi loro disciplinati coetanei in uniforme, fino alla citata ‘educazione alla legalità’. Il tutto grazie alla full immersion dei fortunati prescelti…nel mondo dei cavalli.

L’I.S.I.S. ‘Casanova[iv] è uno dei più antichi istituti superiori napolitani, che offre ai suoi studenti percorsi sia professionali (servizi socio-sanitari, manutenzione ed assistenza tecnica, produzioni industriali ed artigianali), sia tecnici (grafica e comunicazione, meccanica, meccatronica ed energia), nonché una sezione di liceo artistico ad indirizzo audiovisivo-multimediale. La sua offerta formativa raggiunge mediamente 1.200 studenti, seguiti da poco meno di 200 docenti. Nella pagina di presentazione del suo sito web, si precisa che: “La vision dell’Istituto Casanova fa riferimento ad un modello di istituzione scolastica aperta alla realtà culturale ed economica in cui opera […] un’istituzione sensibile verso le problematiche sociali, promotrice di una cultura di pace e di solidarietà contro ogni fenomeno di violenza e di prevaricazione sociale e culturale, attenta alla formazione culturale, così come a quella professionalizzante”. [v]  A proposito della mission di questa istituzione scolastica si citano tanti obiettivi, tra cui: “successo formativo […] lotta alla dispersione scolastica […] equità, coesione sociale, cittadinanza attiva e dialogo interculturale […] competenze professionali e inserimento nel mondo del lavoro, eccellenza, creatività innovazione, imprenditorialità […] cultura della sicurezza…” [vi] e via discorrendo. Ma è difficile trovare tra i motivi ispiratori ed i traguardi formativi qualcosa che giustifichi l’adesione di quell’istituto scolastico ad un progetto così poco conforme ad essi, in particolare quando si parla di “cultura della pace e della solidarietà” e di “cittadinanza attiva”. A meno che non si confonda l’equità con… l’equitazione.

Eppure si direbbe che né l’amministrazione comunale di Napoli né la dirigenza scolastica abbiano trovato nulla da eccepire sul progetto proposto dai vertici della ‘Nunziatella’ che, in attesa di veder coronato il loro sogno di dar vita alla prima scuola di guerra europea, fanno parlare di sé in occasione dei solenni e plateali giuramenti dei nuovi cadetti, tramite compiacenti servizi giornalistici e televisivi su questa sedicente ‘eccellenza’ partenopea o, appunto, grazie al bislacco percorso formativo alla legalità svolto nelle scuderie del loro centro ippico di Agnano. Sarebbe davvero interessante sapere che cosa pensano gli altri assessori e consiglieri della Città di Napoli, ma anche docenti genitori e studenti del ‘Casanova’, di questo accordo stipulato al vertice, che sembra confermare quanto poco abbiano a che fare etica e legalità con istituzioni militari il cui fine, come spiega il motto della ‘Nunziatella’, è piuttosto: “preparo alla vita e alle armi”.

Cavalli civici vs cavalli militari

Stemma araldico del Sedile di Nilo

La Città di Napoli, fin dalle sue origini, ha avuto un cavallo come simbolo. È dal XIII secolo – ricordava Angelo Forgione nel 2014 – che il destriero rampante rappresenta “l’indomito popolo napoletano”. Già nel 1253, infatti, i Napolitani avevano opposto una strenua resistenza alla conquista della città da parte dell’imperatore svevo Corrado IV, il quale però: “entrò, vinse e volle dimostrare di aver domato il popolo partenopeo facendo mettere un morso in bocca alla colossale statua del “Corsiero del Sole”, un cavallo imbizzarrito di bronzo posto su un alto piedistallo marmoreo”.[vii]  Dal periodo aragonese, il cavallo ha continuato a rappresentare il simbolo dei ‘Sedili’ di Capuana e Nilo, due delle sei storiche istituzioni amministrative della città di Napoli, ed è tuttora – dopo esserlo stato a lungo della soppressa  Amministrazione Provinciale –  il ‘logo’ della Città Metropolitana di Napoli. Lo stesso cavallo imbizzarrito e scalciante (in araldica: ‘inalberato’) lo troviamo anche nello stemma della scuola militare partenopea, dove è stranamente definito “puledro allegro di nero”. [viii]  Il riferimento, però, è più al cavallo come animale da battaglia che alle virtù civiche del popolo napolitano ed alla sua fiera resistenza alle invasioni straniere, l’ultima delle quali è rappresentata dalla gloriosa pagina delle Quattro Giornate del 1943.

Premesso che, secondo il protocollo, gli studenti del ‘Casanova’ saranno destinati a “mansioni di scuderia e di mascalcia, che consentiranno un graduale avvicinamento al cavallo e all’equitazione”, è legittimo chiedersi: perché mai attività proprie di quelli che una volta si chiamavano “mozzi di stalla” e “maniscalchi” dovrebbero rappresentare un percorso formativo adeguato ai bisogni di giovani che studiano da odontotecnico, meccatronico o web-designer?Quali “competenze professionali e inserimento nel mondo del lavoro” dovrebbe fornir loro questo “graduale avvicinamento al cavallo e all’equitazione”? Perché mai dieci giorni trascorsi tra equini e cadetti in divisa dovrebbero migliorare il loro senso della legalità e promuoverne il “successo formativo”?  E poi: in che modo un’istituzione che forma alla ferrea disciplina militare dovrebbe sviluppare nei giovani la “cultura della pace e della solidarietà” auspicata dalla loro scuola? Ovviamente a tali interrogativi non c’è risposta se non l’arrogante e autoreferenziale visione di una casta militare che cerca di nobilitare la sua funzione che è appunto “preparare alle armi”.

Si direbbe che il vero scopo di quest’imbarazzante farsa travestita da proposta formativa sia quello di continuare a tener viva l’attesa per l’attuazione del progetto di annessione della caserma ‘Bixio’ della Polizia di Stato alla scuola militare contigua, quel piano pomposamente chiamato “Grande Nunziatella”, cui lo stesso Mattino ha dedicato parecchi articoli ed al quale il Sindaco ed il suo Richelieu stanno puntando da diversi anni, anche a costo di spericolate operazioni amministrative, ripetutamente denunciate dal comitato Napoli Città di Pace ad un’opinione pubblica ignara e ad un Consiglio colpevolmente inerte. [ix]

Stemma araldico
della ‘Nunziatella’

Per la città di Napoli è prevista anche la realizzazione della Grande Nunziatella, che vedrà l’antica accademia militare, con sede a Palazzo Parisi a Monte di Dio, diventare una scuola europea, grazie all’acquisizione della vicina Caserma Bixio. Una riqualificazione dell’intero promontorio di Pizzofalcone, che unirebbe le due strutture, a oggi separate l’una dall’altra, con un intervento architettonico, ma anche paesaggistico”.[x]

Ma noi alla “riqualificazione” dell’area popolare che si fa istituendovi la scuola di guerra europea non crediamo per niente, proprio come al fatto che mandare degli studenti in un centro ippico militare ne forgi lo spirito di legalità. In entrambi i casi, in questa sconcertante partita a scacchi, all’impetuosità bellicosa del ‘cavallo’ continueremo opporre la ‘torre’ della resistenza civile e della nonviolenza.

© 2020 Ermete Ferraro


Note

[i] “Napoli, protocollo d’intesa tra Comune e Nunziatella per etica, sport e inclusione”, IL MATTINO, Napoli, 26.02.2020 > https://www.ilmattino.it/napoli/politica/nunziatella_napoli_etica_sport_inculsione-5076298.html. Vedi anche: https://napoli.repubblica.it/cronaca/2020/02/26/news/firmato_protocollo_d_intesa_tra_comune_e_nunziatella_per_il_progetto_etica_sport_ed_inclusione_-249633835/

[ii] Ibidem

[iii] Ibidem (sottolineatura mia)

[iv] Fonte: http://www.istitutocasanova.edu.it/

[v] http://www.istitutocasanova.edu.it/presentazione/ (sottolineatura mia)

[vi] Ibidem

[vii]  Cfr.  https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/arte_e_cultura/2014/4-dicembre-2014/cercasi-logo-la-citta-metropolitanasi-scelga-cavallo-imbizzarrito-simbolo-xiii-secolo-230670461662.shtml?refresh_ce-cp

[viii] Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Stemma_della_scuola_militare_Nunziatella

[ix] Sulla campagna di controinformazione lanciata da ‘Napoli Città di Pace’ (v. pagina facebook) cfr., fra gli altri: https://napoli.repubblica.it/cronaca/2019/01/23/news/napoli_scuola_militare_nella_caserma_bixio_i_pacifisti_attaccano_de_magistris-217228391/?refresh_ce ; https://www.ildenaro.it/monte-echia-via-la-polizia-la-caserma-bixio-sara-accorpata-allo-storico-edificio-della-nunziatella/ ; https://www.cantolibre.it/scuola-di-guerra-a-napoli-un-enigma-da-chiarire/ ; https://www.popoffquotidiano.it/2019/05/11/napoli-no-alla-scuola-di-guerra-di-de-magistris/

[x] Cfr. https://www.ilmattino.it/napoli/cronaca/esercito_piano_caserme_verdi-4865242.html

Educazione alla guerra? No, grazie!

Visita alla J.F.C. Naples delle SS.M.SS. “Don S. Vitale” di Giugliano e “M: Beneventano” di Ottaviano
Credit: https://jfcnaples.nato.int/newsroom/news/2019/students-and-teachers-from-middle-schools-got-a-taste-of-nato-life

Continua a dare frutti la ‘strategia dell’attenzione’ dei militari del Comando NATO di Lago Patria (Giugliano in Campania-NA) nei confronti delle strutture educative del territorio. Il Joint Forces Command (il cui ambito d’intervento riguarda l’intero bacino del Mediterraneo, dalla penisola iberica all’Africa ed ai Balcani) esercita infatti un’indubbia attrattiva, grazie alle sue avveniristiche (e costosissime) strutture multipiano integrate da bunker sotterranei, inaugurate nel 2004 non lontano dall’antica Liternum, dove si ritirò il celebre generale Scipione l’Africano.

Con una certa regolarità, infatti, scuole della zona e dell’intera area metropolitana, continuano a portare le loro classi in visita a questa pur segretissima struttura operativa di guerra, presentata però nella sua veste accattivante, per impressionare gli studenti con l’avanzata tecnologia e col sorriso compiaciuto di chi accoglie i visitatori locali come se li ospitasse a casa sua. Tali ‘visite d’istruzione’, pur sollecitate dal Comando J.F.C., fanno comunque parte d’un più generale processo di militarizzazione delle scuole italiane, delle università e del mondo della ricerca. Una strategia che va avanti già da molti anni, assecondata da governi di opposta tendenza ma uniti dall’indiscussa devozione e/o soggezione verso la casta militare ed i suoi assai poco virtuosi interessi.

Quando non sono bersaglieri, carabinieri ed altri corpi scelti ad entrare in pompa magna nelle nostre scuole per portarvi il loro discutibile contributo formativo, ecco che sono dirigenti scolastici e zelanti docenti a portare le loro scolaresche in visita a caserme, aeroporti, accademie militari o, come in questo caso, addirittura a comandi operativi dell’Alleanza Atlantica. Onestamente sfugge quale competenza o conoscenza si propongano di sviluppare nei ragazzi queste ‘visite’, ma è evidente che l’indiretta promotion delle forze armate e della cultura militarista è diventata sempre più frequente e…invadente. L’accento di chi illustra tali indiscutibili strutture di guerra tende ovviamente a spostarsi sulla loro funzione ‘civile’ e ‘solidarista’, ma spesso si è trattato anche di vere e proprie ‘iniziazioni’ alla vita militare ed al suo rude e bellicoso fascino.

Nel caso dei giovani visitatori del Comando NATO di Lago Patria si punta solitamente sulle sue tecnologiche attrezzature informatiche, sulle sale multimediali e sugli altri gadget che hanno trasformato la guerra che l’Italia ripudia in una specie di grande wargame. Di recente anche gli alunni/e della scuola media giulianese ‘Don Salvatore Vitale’ e della ‘Beneventano’ di Ottaviano hanno fruito di questa bizzarra ‘offerta formativa’, nel corso della visita fatta al J.F.C. lo scorso 3 dicembre. Immagini e commenti relativi alla trasferta erano apparsi online su www.puntomagazine.it, ma, ritornando al link dell’articolo, la cronaca risultava poi stranamente scomparsa. Ritegno? Autocensura? Probabilmente si preferisce evitare di suscitare polemiche su questo genere d’iniziative. In ogni caso, grazie ad una ricerca sul sito web del J.F.C. Naples, è stato possibile reperire l’articolo in inglese, curato dal solerte ufficio Public Affairs,guidato da Diana Sodano, per ammirarne la sottile retorica propagandistica. (https://jfcnaples.nato.int/newsroom/news/2019/students-and-teachers-from-middle-schools-got-a-taste-of-nato-life ). 

(vedi sopra)

L’incontro dei 100 ragazzi con lo stato maggiore del più importante comando ‘alleato’ dell’Europa sud-orientale, come si nota dalle fotografie, ne ha calamitato l’attenzione, forse già opportunamente  ‘stimolata’ dai compiaciuti docenti che li accompagnavano. Non si spiegherebbe altrimenti che una tredicenne giulianese abbia rilasciato ai microfoni quest’entusiastica dichiarazione:

Grazie alla visita ho imparato un sacco sulla NATO. Ad esempio, ho capito che la NATO non è uno strumento di guerra ma, al contrario, che la missione della NATO e di relazionarsi con gli altri stati per mantenere la pace e la sicurezza”.

Oppure che un dodicenne della scuola di Ottaviano abbia commentato: “Sono stupito vedendo tante differenti nazionalità nel Quartier generale, tutta questa gente da così tanti paesi che lavora insieme. […] Prima di venire qui, mi aspettavo un maggior numero di soldati in armi e veicoli blindati, ma mi sbagliavo”.

Lo stesso servizio propaganda della J.F.C. non avrebbe saputo fare di meglio… Il titolo apposto all’articolo (“Studenti ed insegnanti delle scuole medie ‘assaggiano’ la vita della NATO”) è un altro significativo esempio di come il sistema militare intenda intervenire sui giovani, offrendo loro ‘assaggi’ a premio (tipo la c.d. “mini-naja” di 6 mesi, che frutterà 12 crediti formativi)così da attrarli e ‘fidelizzarli’ verso le forze armate e sue le ‘opportunità’ lavorative.

A questo progressivo brainwash guerrafondaio, però, da alcuni anni docenti e studenti si stanno ribellando, come nel noto caso di alcune classi di un liceo veneziano, che hanno fatto obiezione ad una manifestazione paramilitare, organizzata a scuola per il 4 novembre. In tutta Italia si sta quindi diffondendo un vivace movimento di opposizione all’incalzante militarizzazione della scuola e della formazione universitaria e stanno circolando appelli e documenti contro tale pericoloso fenomeno.  Anche a Napoli si registra la convergenza operativa di varie realtà antimilitariste, pacifiste e nonviolente, per denunciare tale fenomeno e ribadire che “la scuola ripudia la guerra”, ragion per cui insegnanti e studenti non intendono rassegnarsi a quest’assurda deriva guerrafondaia.

© 2020 Ermete Ferraro

Disarmiamo la nostra scuola.

L’avanzata della ‘cultura militare’

Molti speravano che il nuovo anno scolastico – iniziato poco dopo l’esordio del governo Conte II – avrebbe mostrato segnali di discontinuità rispetto alla crescente invadenza dei militari nei confronti della pubblica istruzione. Si trattava solo d’un auspicio, poiché il nuovo alleato del M5S è il PD, che quel processo aveva contribuito a promuovere, spalleggiando le pretese autonomistiche dell’ultra-regionalismo lombardoveneto-romagnolo, che ha nel controllo dell’educazione uno dei punti di forza. È bastato l’approssimarsi della fatidica ricorrenza del 4 novembre – giornata dell’unità nazionale e delle forze armate – perché quella speranza si rivelasse poco fondata. È stata sufficiente la mancata partecipazione di alcune classi di un liceo veneziano alle iniziative patriottico-militaresche, prima imposte ma poi solo proposte dal suo dirigente, perché si sollevasse un’ondata di polemiche, proteste sdegnate e perfino interrogazioni parlamentari. Particolare virulenza ha avuto la reazione indispettita e minacciosa dell’assessore regionale veneta all’Istruzione Elena Donazzan, che nella sua biografia cita Tolkien ed Almirante e ama farsi ritrarre affiancata da alpini ed ufficiali vari [i] e che è giunta a dichiarare:

«…questi docenti non meritano d’insegnare in una scuola italiana! Il loro atteggiamento è sovversivo: contestare la presenza delle Forze Armate ad un’iniziativa sul 4 novembre significa disobbedire alle leggi e mancare di rispetto a chi indossa la divisa. Chiederò un’ispezione a questo istituto, perché la scuola non può essere utilizzata per dar voce a propagande ideologiche». [ii]

A fare propaganda ideologica nella scuola, evidentemente, basta e avanza la sempre più folta truppa di esponenti delle forze armate che in ogni occasione si propongono a bambini ragazzi ed adolescenti sia dentro le aule, sia mediante ‘visite’ a caserme, navi, accademie militari, poligoni e stand opportunamente allestiti nelle piazze.  Tre anni fa osservavo che un insidioso aspetto della c.d. buona scuola renziana era l’introduzione nel percorso educativo del modello militare – che peraltro già governi precedenti avevano cercato d’inserire – promovendo la ‘cultura’ militare all’interno della programmazione didattica.

«…nel 2014 questo processo è culminato nel Protocollo d’Intesa sottoscritto da MIUR e Min. Difesa, nel quale si sancisce il discutibile principio secondo il quale nella scuola c’è bisogno di attivare: “…un focus sulla funzione centrale che la ‘Cultura della Difesa’ ha svolto, e continua a svolgere, a favore della crescita sociale, politica, economica e democratica del Paese”, per cui si propone la: “…ricerca [di] soluzioni comunicative interattive espressamente rivolte alle nuove generazioni, per affermare la conoscenza e il ruolo della Difesa al servizio della collettività e divulgare le opportunità professionali e di studio riservate alle fasce giovanili di riferimento”. La rinnovata intesa tra “libro e moschetto” – paradossalmente presentata come attuazione dei principi costituzionali e di quelli ispiratori dell’ONU – ha ufficializzato una collaborazione ‘formativa’ interministeriale, sulle cui motivazioni mi sembra giusto ed opportuno interrogarsi». [iii]

A distanza di cinque anni dalla sua sottoscrizione, il protocollo firmato dalle bellicose ministre Giannini e Pinotti si direbbe tutt’altro che sorpassato. Negli istituti scolastici della Repubblica che “ripudia la guerra” continuano infatti ad aggirarsi sempre più personaggi in divisa, per illustrare il “ruolo che le Forze Armate svolgono al servizio della crescita, sociale, economica e democratica del Paese”, come recitava la circolare applicativa, esaltando così la funzione di quegli eccezionali promotori dei valori costituzionali…

E le scuole stanno a guardare…le stellette

A forza di indossare le ‘mimetiche’, i militari tentano di mimetizzarsi nei vari ambienti nei quali vengono proposti in funzione di formatori. Ecco allora che spuntano un po’ dovunque, ora per insegnare la sicurezza stradale, ora per promuovere la protezione dell’ambiente, ma anche per parlare esplicitamente di difesa nazionale e perfino di nuovi ritrovati tecnologici in funzione di quelli che vengono presentati come wargames piùche come strumenti di guerra. Centinaia di migliaia di studenti, di ogni ordine e grado, sono stati coinvolti in dibattiti, visite guidate ad installazioni militari, simulazioni di volo e perfino esercitazioni di tiro. Purtroppo le voci di dissenso sono state finora sporadiche, spesso tacitate dalla retorica patriottica di gran parte dei media, tanto che la recente ‘obiezione’ di docenti e discenti del liceo veneziano ha suscitato un vespaio, mentre da parte del Governo non si è registrata una presa di distanza verso la grottesca accusa di ‘sovversione’, scagliata nei loro confronti da esponenti della destra veneta e nazionale.

La pesante coperta grigioverde che sta calando sulla scuola dovrebbe indurci a reagire a questa strisciante pubblicizzazione del mondo militare, di cui ovviamente si esaltano gli aspetti ‘eroici’ di tipo civile, sorvolando invece sul ruolo che 6000 soldati italiani svolgono in giro per il mondo, nelle sedicenti “missioni di pace”. Come osserva Matteo Saudino:

«Sempre più, negli ultimi anni, infatti, la scuola ha aperto le sue porte a uomini e donne delle forze armate, i quali via via hanno iniziato a propagandare una immagine del soldato e della carriera militare in cui sono del tutto scomparse la guerra, la morte, la violenza, le spese per le armi e le alleanze politiche con stati che si macchiano di crimini e violazione dei diritti umani. Tale mistificazione della realtà ha raggiunto l’apice con le celebrazioni della vittoria di Vittorio Veneto e della fine della prima guerra mondiale».[iv]

Dalle ‘visite didattiche’ a porti aeroporti e poligoni alle conferenze sulle nuove tecnologie per il controllo delle informazioni, il repertorio proposto a scuole ed università è molto ampio. In più, si presenta ai giovani – che sempre più vedono profilarsi davanti a sé lo spettro della disoccupazione – con allettanti richiami di tipo professionale, veicolati da alcuni progetti di “alternanza scuola-lavoro”.  Ma ormai molti docenti e studenti non ci stanno e, a Venezia come in tante altre città d’Italia, rifiutano di accettare passivamente questo subdolo indottrinamento, contrabbandato paradossalmente come formazione didattica alla “cittadinanza e costituzione”.

«Intanto, proprio a Venezia ha preso avvio la campagna “Per una scuola libera da guerre e militarismi” voluta da un gruppo di associazioni che, partendo dal capoluogo veneto, intendono portare il messaggio a livello nazionale. Il gruppo ha steso una sorta di manifesto con le sei regole da applicare per quei docenti che non vogliono militari a contatto con dei ragazzi. Nel documento, che anticipa le regole con cui “escludere dall’offerta formativa ogni attività” in cui sia previsto l’incontro con i militari, si parla di scuole sempre più “militarizzate a causa dell’aumento di eventi che coinvolgono membri delle forze armate e realtà promotrici della carriera militare in Italia e all’estero”.[v]

Del resto risale al 2013 la campagna “Scuole smilitarizzate”, lanciata da Pax Christi Italia con l’efficace slogan “La scuola ripudia la guerra”, per opporsi a tale invasione e per promuovere l’alternativa dell’educazione alla pace e alla nonviolenza. A distanza di sei anni sembra giunto il momento di rilanciarla, coordinando gli sforzi in tale direzione, a partire da sempre più efficaci ed incisivi interventi di controinformazione.

Una campagna per smilitarizzare le scuole

Nel testo della presentazione della campagna troviamo queste parole:

«I giovani di Pax Christi ritengono sia urgente riaffermare che la scuola deve educare alla nonviolenza e alla pace come espressione di quella cittadinanza attiva sempre presente nelle indicazioni ministeriali, per formare costruttori di pace, tessitori di dialogo e di relazioni tra i popoli, nella ricerca di risoluzioni autenticamente pacifiche dei conflitti. Al contrario, quando nella realtà formativa dei ragazzi entrano le attività promozionali dell’Esercito italiano, della Marina militare e dell’Aeronautica militare, si promuove un militarismo che educa all’arte della guerra piuttosto che alla costruzione della pace con mezzi pacifici e attraverso il rispetto per l’altro. […] Per questo i giovani di Pax Christi Italia propongono la Campagna Scuole Smilitarizzate ai docenti e agli studenti delle scuole superiori, affinché, senza aggiungere un altro progetto didattico, siano provocati ad evidenziare la dimensione dell’educazione alla pace e alla risoluzione nonviolenta dei conflitti». [vi]

Non si può che condividere questi propositi, soprattutto alla luce di quanto è successo a Venezia e dei palesi segnali di continuità fra l’attuale governo e quelli che l’hanno preceduto, soprattutto tenendo conto della preoccupante ondata di nazionalismo e neo-fascismo che si sta diffondendo in Italia, come anche in Europa ed a livello ancor più ampio. È chiaro che una campagna nonviolenta non punta a rifiutare i militari in quanto persone, ma piuttosto ad obiettare alla cultura militarista e bellicista che in ogni modo cercano di propagandare nelle nostre scuole. Alle comunità scolastiche, pertanto, si chiede in primo luogo di adottare risoluzioni collegiali che esprimano adesione allo specifico ‘manifesto’ [vii], non solo escludendo iniziative – dentro e fuori gli istituti – che siano promosse dalle forze armate, ma impegnandosi anche a promuovere una cultura di pace e la conoscenza delle tecniche di risoluzione nonviolenta dei conflitti. Non va sottovalutato inoltre l’impatto dei progetti scolastici che prevedano un partenariato con strutture militari e/o aziende che si occupino di produzione di armamenti ed altri strumenti di tipo bellico, in quanto, soprattutto nelle regioni meridionali, fatalmente attraggono il consenso dei tanti giovani che sono preoccupati per il loro futuro lavorativo.

«Dobbiamo difendere il sistema scolastico italiano dall’ingerenza di un sistema militare-industriale che è lo stesso che alimenta la “guerra mondiale a pezzi” denunciata dal Papa e che minaccia la stessa convivenza civile e democratica. Ci siamo purtroppo già abituanti ai soldati in mimetica e mitra fuori ai tribunali ed alle autoblindo nelle piazze […]. Il rischio è che ora ci abituiamo passivamente anche alla presenza di militari in uniforme nelle scuole ed a bambini in grembiule nelle caserme…» arrivato il momento di reagire e di contrapporre valori alternativi…». [viii]

Al di là delle petizioni lanciate recentemente per esprimere solidarietà ai docenti e studenti veneziani, bisogna puntare alla creazione d’una rete nazionale d’insegnanti ‘obiettori’, per rilanciare la campagna già esistente e per diffonderla in tutte le regioni. Il MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione) [ix] sta infatti realizzando un’intesa in tal senso con Pax Christi Italia, ma è auspicabile che il progetto di smilitarizzazione della scuola sia sostenuto anche da altri soggetti da coinvolgere, come organizzazioni studentesche, sindacati della scuola e movimenti giovanili.  Altrimenti ci toccherà rassegnarci al fatto che ad insegnare cittadinanza e costituzione siano sempre più spesso – e paradossalmente – soggetti in uniforme e tanto di ‘stellette’…

Strategie comuni dei militari in Europa

Nel Regno Unito, il governo ha speso “… oltre 45 milioni di sterline in progetti che si occupano di ‘ethos militare’ nelle scuole inglesi […] Essi sono rivolti spesso a giovani ‘disimpegnati’ nelle scuole delle aree più povere…” [x]

La stessa strategia è messa in atto anche dal gigantesco apparato militare degli USA, che molto più esplicitamente punta al reclutamento di giovani nelle forze armate:

«Secondo i dati del Comando per il Reclutamento dell’Esercito degli S.U., ottenuti grazie alla richiesta degli autori sulla base della Legge sulla Libertà d’Informazione, mentre le scuole superiori nei distretti scolastici suburbani benestanti limitano generalmente le visite dei reclutatori solo a due o tre visite all’anno, in alcune comunità urbane a basso reddito i militari sono presenti nel campus due o tre volte alla settimana…» [xi]

Nel precedente articolo avevo rilevato come in alcune scuole medie della Federazione Russa si sia giunti all’addestramento paramilitare [xii], ma è innegabile che l’ondata grigioverde abbia raggiunto anche le scuole francesi, dove già aleggiava uno stile formativo nazionalistico, come ci conferma un impegnato blogger ecopacifista di quel Paese.

«E così, ugualmente, ci sono dei protocolli Esercito-Istruzione che hanno come obiettivo promuovere ‘l’educazione alla difesa’ all’interno della scuola […] “Per il suo promotore, Charles Hernu, non solo i giovani dovevano arrivare all’esercito ‘preparati dalla scuola’, ma la scuola doveva essere il luogo di uno ‘spirito di difesa’ largamente condiviso, mirante a promuovere le rappresentazioni militari sul mondo e sulla società. È proprio questa concezione globalizzante e totalitaria che è esposta dall’ultimo protocollo, in data 20 maggio 2016, che include esplicitamente nell’educazione alla difesa (e dunque nei programmi scolastici e negli esami ufficiali) “l’insieme del campo della difesa militare e della sicurezza nazionale…» [xiii]

Insomma, per mutuare un vecchio proverbio, potremmo dire: paese d’Europa che vai, militarizzazione della scuola che trovi… Basta infatti una ricerca in Internet per vedere come pure gli studenti belgi si preparino ad addestrarsi alla difesa armata già dal 5° e 6° anno della scuola secondaria [xiv], o come nella RFT la mai sopita tradizione militarista stia contagiando le scuole tedesche, scambiate per piazze di reclutamento.

«Ciò si riflette anche nell’approccio della Bundeswehr tedesca. Come scrive Michael Schulze von Glaßer in Broken Rifle n. 88: “Se i giovani non potessero essere persuasi a prendere l’arma con le proprie mani, dovrebbero almeno essere convinti del significato degli interventi militari: la leadership militare e il governo vogliono che il Bundeswehr diventi un attore globale e cerchi una base politica stabile a lungo termine nella popolazione. […] E il ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg (CSU) sa dove trovare i giovani: “La scuola è il posto giusto dove raggiungere i giovani“…» [xv]

Ecco perché dobbiamo quanto prima unificare le forze disponibili, per contrastare questo sconcertante fenomeno. A livello internazionale esistono già molte organizzazioni operanti in tal senso, dalle statunitensi Veterans for Peace [xvi]e National Network Opposing the Militarization of Youth [xvii] alla britannica Peace Pledge Union [xviii]edalla spagnola Alternativa Antimilitarista-MOC  [xix], giungendo poi alle reti internazionali come la War Resister’s Int’l [xx].

Educazione e militarizzazione sono concetti antitetici, per cui un’educazione civica svolta dai militari è un autentico ossimoro. È il momento di fare obiezione e di voltare decisamente pagina.


Note

[i] V. il sito web dell’Assessore Donazzan: http://www.donazzan.it/

[ii]  Cfr. gli articoli: https://www.nextquotidiano.it/elena-donazzan-contro-i-docenti-sovversivi-che-non-vogliono-i-militari-a-scuola/?fbclid=IwAR2mgPKoDrdUnQQOarNfpWNF2qB738wUOUCptstm9unjx8rq8kQPfOgDyRk  e https://corrieredelveneto.corriere.it/venezia-mestre/cronaca/19_ottobre_29/quattro-novembre-venezia-professori-studenti-non-incontrano-militari-4336329e-fa61-11e9-b1d3-8ef4db66594d.shtml?refresh_ce-cp 

[iii] Ermete Ferraro, “Ma che bellica scuola!” (12.03.2016), Ermetespeacebook > https://ermetespeacebook.blog/2016/12/03/ma-che-bellica-scuola/

[iv] Matteo Saudino,” Il quattro novembre a scuola” (03.11.2019), Comune.info > https://comune-info.net/il-4-novembre-a-scuola/ -vedi anche l’articolo di Antonio Mazzeo “Che nelle scuole si torni a disobbedire ad ogni guerra” > https://www.scomunicando.it/notizie/antonio-mazzeo-che-nelle-scuole-si-torni-a-disobbedire-ad-ogni-guerra/

[v] Alex Corlazzoli, “Venezia, prof e studenti boicottano incontro con Forze Armate al liceo…” (31.10.2019), Il Fatto Quotidiano > https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/10/30/venezia-prof-e-studenti-boicottano-incontro-con-forze-armate-al-liceo-assessore-regionale-docenti-sovversivi-come-allepoca-delle-br/5541115/

[vi] Pax Christi Italia, Presentazione del progetto ‘Campagna Scuole Smilitarizzate’ (26.04.2013) >http://www.paxchristi.it/wp-content/uploads/2013/04/1_Presentazione-Campagna-Scuole-Smilitarizzate1.pdf

[vii]  Vedi: http://www.paxchristi.it/wp-content/uploads/2013/04/3_Manifesto-di-una-Scuola-Smilitarizzata1.pdf

[viii]  Ferraro, “Ma che bellica scuola!”, cit.

[ix]  Vedi: https://www.miritalia.org/

[x]  Peace Pledge Union, Militarism in schools > https://www.ppu.org.uk/militarism/militarism-schools  (trad. mia) ) – Vedi anche: https://www.independent.co.uk/news/education/education-news/underage-soldiers-in-britain-the-militarisation-of-schools-in-the-uk-a7529881.html

[xi]  S. Kershner & S. Harding, “Militarism goes to school “(25.07.2019), Critical Military Studies – Vol. 5, 2019, issue 3 > https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/23337486.2019.1634321?scroll=top&needAccess=truetrad   (trad. mia). Molto interessante è anche il saggio: Galavitz B., Palafox J., Meiners E., Quinn Th., “The Militarization and Privatization of Public Schools”, Berkeley Review of Education, 2 (1), 2011

[xii]  Cfr. Simon Shuster, “Inside Russia’s Military Training Schools for Teens”, TIME (Oct.19,2016) > http://time.com/4516808/inside-russias-military-training-schools-for-teens/

[xiii] Alain Refalo, “La militarization de l’école est en marche” (28.11.2018), Blog d’Alain Refalo > https://alainrefalo.blog/2018/11/28/la-militarisation-du-systeme-educatif-est-en-marche/  Vedi anche il suo libro “Hierarchie et désobeissence à l’ecole” (2018): https://alainrefalo.files.wordpress.com/2019/08/hic3a9rachie-et-dc3a9sobc3a9issance-c3a0-lc3a9cole.pdf

[xiv]  Claire Sadzot et Catherine Vanzeveren, “Bientôt une option ‘préparation militaire’en 5e et 6e secondaire”,  (29.07.2019), RTL Info >  https://www.rtl.be/info/belgique/societe/armee-ecole-option-5e-6e-secondaire-1144830.aspx (trad. mia)

[xv]  Andreas Speck, “Gegen die Militarisierung der Jugend” (30.05.2012), War Resister’s International > https://wri-irg.org/en/story/2012/countering-militarisation-youth-0?language=de (trad. mia)

[xvi] https://educationnotmilitarization.org/

[xvii] https://nnomy.org/en/content_page/item/653-the-militarization-of-american-public-schools.html

[xviii] https://www.ppu.org.uk/everyday-militarism

[xix] https://www.antimilitaristas.org/Insumissia-somos-asi-que-le-vamos-a-hacer.html

[xx]  https://wri-irg.org/en

© 2019 Ermete Ferraro

UNA PACE DA COSTRUIRE (*)

international_day_of_peace-900x450 Ci siamo scordati la pace?

Il 21 settembre è la data in cui dal 1981, per iniziativa dell’O.N.U., si celebra la Giornata Internazionale della Pace [i]. E’ però evidente che in Italia tale iniziativa ha avuto ancora una volta scarso rilievo, sia mediatico sia in termini di eventi. Basta infatti consultare un qualsiasi motore di ricerca su Internet per accorgersi che, fatta eccezione per l’emittente televisiva di San Marino, Radio Monte Carlo, il tg di Sky24 e qualche rivista specializzata, ben pochi quotidiani, radio e televisioni hanno recepito e ricordato tale data. Oltre alla mostra ‘Colors of Peace’ all’esterno del Colosseo, una mostra di libri sulla pace a Cervia, una biciclettata ambiental-pacifista a Foggia, una sessione di Yoga a Padova ed un incontro pacifista a Palermo, si sono conseguentemente registrate ben poche iniziative riconducibili a questa ricorrenza.

Sarà forse l’infausta (ma significativa…) coincidenza di data dell’International Peace Day  con la Giornata Mondiale dell’Alzheimer, ma la sensazione che se ne ricava è che l’interesse e l’impegno per l’educazione alla pace – come avviene del resto anche con la ricerca sulla pace e con la stessa azione per la pace – stia progressivamente calando.  E’ senz’altro cosa buona e giusta che si ponga in primo piano il fenomeno della preoccupante diffusione a livello mondiale del morbo di Alzheimer  (un tipo di demenza che provoca gravi problemi con la memoria, il pensiero ed il comportamento), aggiornando le nostre conoscenze sui possibili interventi preventivi e terapeutici per fronteggiarlo. Mi sembra invece assai meno positivo che ragionare sulla pace coinvolga sempre meno persone, anche in ambito formativo, alimentando la strana sensazione che riguardo ad una questione così centrale per l’intera umanità si registri una preoccupante tendenza alla perdita della memoria sulla tragedia dei conflitti bellici, alla carenza di riflessioni sulla pace e ad una ridotta attenzione alla promozione di comportamenti di pace.

Il rispetto di ricorrenze, celebrazioni ed anniversari, si sa, non è necessariamente indice di un crescente investimento della società, della cultura e delle istituzioni educative sui quegli specifici temi. Paradossalmente, anzi, potremmo trovarci di fronte all’ipocrita esaltazione una tantum di valori che nei fatti, nella vita quotidiana, non trovano invece un reale apprezzamento né un’effettiva valorizzazione. Ciò premesso, penso che non dobbiamo sottovalutare il peso di questo innegabile calo di tensione nella formazione delle nuove generazioni a pensieri, sentimenti e comportamenti che mettano al centro la pace ed il superamento dei conflitti in chiave nonviolenta. Dopo la stagione della superficialità e del qualunquismo ideologico – che ha fatto registrare nei decenni scorsi la diffusione nelle scuole di progetti di educazione alla pace spesso raffazzonati e contradittorii –  ci troviamo oggi nella fase in cui le problematiche della pace stanno quasi scomparendo dall’orizzonte educativo, dominato da ben altri obiettivi e dallo sviluppo diversi ‘skills. E’ infatti dal 2006 che l’U.E. ha indicato a tutti i paesi membri quali dovrebbero essere le otto “competenze chiave per l’apprendimento permanente” [ii] :   1) comunicazione nella madrelingua;  2) comunicazione nelle lingue straniere;  3) competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia;  4) competenza digitale;  5) imparare a imparare;  6) competenze sociali e civiche; 7) spirito di iniziativa e imprenditorialità;  8) consapevolezza ed espressione culturale.  Ma che fine hanno fatto le conoscenze e le competenze riguardanti la pace?

Competenze nei conflitti o conflitti di competenze ?

 imagesE’ abbastanza evidente che – fatta eccezione per le ‘competenze sociali e civiche’ , quelle che chiamiamo ‘di cittadinanza’ –  nell’elenco delle priorità formative manca un riferimento esplicito a quelle che abbiano a che fare con la crescita della consapevolezza della natura dei conflitti e con la promozione della pace come alternativa concreta alla violenza personale e strutturale che affligge la nostra realtà. Leggendo con attenzione i documenti del Ministero dell’Istruzione italiano (MIUR), ed in particolare le famose ‘Indicazioni’ del 2012, apprendiamo certamente  che la formazione scolastica dovrebbe sviluppare negli studenti adeguate competenze civico-sociali, ma non si va oltre la genericità di tali affermazioni.

«L’educazione alla cittadinanza viene promossa attraverso esperienze significative che consentano di apprendere il concreto prendersi cura di se stessi, degli altri e dell’ambiente e che favoriscano forme di cooperazione e di solidarietà. Questa fase del processo formativo è il terreno favorevole per lo sviluppo di un’adesione consapevole a valori condivisi e di atteggiamenti cooperativi e collaborativi che costituiscono la condizione per praticare la convivenza civile. Obiettivi irrinunciabili dell’educazione alla cittadinanza sono la costruzione del senso di legalità e lo sviluppo di un’etica della responsabilità, che si realizzano nel dovere di scegliere e agire in modo consapevole e che implicano l’impegno a elaborare idee e a promuovere azioni finalizzate al miglioramento continuo del proprio contesto di vita, a partire dalla vita quotidiana a scuola […] È attraverso la parola e il dialogo tra interlocutori che si rispettano reciprocamente, infatti, che si costruiscono significati condivisi e si opera per sanare le divergenze, per acquisire punti di vista nuovi, per negoziare e dare un senso positivo alle differenze così come per prevenire e regolare i conflitti». [iii]

Si tratta senz’altro di obiettivi importanti e sicuramente positivi per la crescita umana e civica dei nostri ragazzi. Magari non particolarmente congruenti con le altre sette competenze chiave – che invece ribadiscono il primato di una società che esalta la comunicazione in senso mediatico, le tecnologie informatiche e perfino l’imprenditorialità, ma sono pur sempre validi riferimenti per l’educazione della persona e del cittadino. Valori come l’attenzione all’ambiente, la solidarietà, la legalità ed il senso di responsabilità, in effetti, rimangono molto importanti nello sviluppo di quella che viene chiamata educazione alla ‘convivenza civile’. Fatto sta che alla conflict resolution si accenna solo nell’ultima parte del testo citato ed il discorso sembra ristretto ai pur fondamentali aspetti del ‘dialogo’ interpersonale e del ‘rispetto’ reciproco, facendo solo un fugace riferimento alla questione che è invece centrale: come “prevenire e regolare i conflitti”. [iv]

Educazione vs maleducazione alla pace?

Già nel 2008 mi era capitato di approfondire l’approccio nostrano a tali problematiche e le mie riflessioni erano confluite in un saggio, il cui significativo titolo è lo stesso di questo paragrafo. [v] Purtroppo, dopo dieci anni la situazione non mi sembra migliorata, per cui la quasi totalità delle osservazioni che facevo allora possono essere riproposte ancor oggi. Con l’aggravante che se allora bisognava stare attenti alle mistificazioni di quella che definivo ‘maleducazione alla pace’, adesso l’interesse nei confronti di tali problematiche da parte delle istituzioni scolastiche – e ahimè degli stessi docenti… – appare ulteriormente scemato.

imagesNella ‘scuola Pon-Pon’ , tutta presa dalla digitalizzazione dell’insegnamento [vi], dalla diffusione del c.d. ‘pensiero computazionale’ e dal martellante consolidamento a suon di test della priorità di alcune discipline-chiave sulle altre, restano evidentemente sempre meno spazio tempo e risorse da dedicare a percorsi formativi riguardanti la risoluzione dei conflitti in chiave nonviolenta. Viceversa, non ci sono certo mancati in questi anni gli inviti all’esaltazione retorica degli anniversari della ‘Grande Guerra’ e si è manifestata la sempre più invadente presenza dentro le istituzioni scolastiche di realtà che fanno capo al sistema militare e ad una concezione esclusivamente bellica della ‘difesa’.[vii]  E’ chiaro allora che su questo terreno accidentato – anche a causa della progressiva scomparsa di solidi fondamenti ideologici che contrastino col pensiero unico liberista ed ora anche nazionalista –  i progetti che puntano sull’educazione alla pace stentano ad attecchire, seppur non mancano iniziative significative come quella sulle “scuole smilitarizzate” lanciata nel 2013 da Pax Christi [viii], con l’appoggio di altre realtà cattoliche come i Missionari Saveriani [ix] dei movimenti nonviolenti e di altre voci libere.

Il problema di fondo è che in Italia manca una cultura diffusa su queste problematiche; diventano sempre di meno le realtà formative ed accademiche che si occupano di peace research;  troppo spesso la stessa educazione alla pace è stata spesso confusa con una moralistica educazione alla convivenza civile o, peggio, con la formazione dei giovani ad evitare i conflitti, piuttosto che ad affrontarli in modo alternativo e creativo. Nel saggio del 2008, dunque, mi era parso necessario puntualizzare che:

« L’educazione per la pace è orientata soprattutto agli esiti del processo formativo, cioè alla realizzazione di comportamenti individuali e di gruppo che consentano relazioni nonviolente e, in generale, un progressivo superamento della violenza nei rapporti, dal micro al macro livello.

L’educazione alla pace si occupa maggiormente della formazione ad una cultura pacifica alternativa, intesa sia come insieme di conoscenze e tecniche specifiche, sia come repertorio di tematiche e spunti per un lavoro educativo che si proponga il superamento della distruttività dei conflitti.

La pace nella educazione ­ secondo il noto studioso norvegese Magnus Hassvelsrud ­ è un processo di miglioramento delle inter­relazioni in ambito specificamente educativo, all’interno di un profondo cambiamento delle strutture socio­educative, così da poter parlare di “educazione alla pace” senza cadere in contraddizione». [x]

Fermo restando che tutti i tre approcci andrebbero perseguiti, mi rendo conto che nella scuola italiana di oggi sarebbe forse opportuno puntare soprattutto al primo. Educare per la pace, infatti, non richiede un investimento di tempo e risorse particolarmente gravoso né implica la presenza di formatori altamente qualificati. L’attenzione prevalente agli esiti della formazione (relazioni prive di violenza, consapevolezza della violenza indiretta e strutturale oltre che di quella diretta ed immediatamente percepibile) potrebbe infatti coinvolgere docenti di varie materie in progetti collettivi ed interdisciplinari, assecondando anche l’impulso al coordinamento dell’azione educativa e finalizzandola a comportamenti pacifici.

Competenze di pace vs spinta alla competizione

 E’ evidente che una società sempre più competitiva, iniqua e violenta non asseconderà mai davvero un’educazione alla pace che formi le nuove generazioni alla cooperazione, alla solidarietà ed al superamento della violenza. La scuola – dobbiamo esserne consapevoli – è lo specchio dei modelli di sviluppo e di convivenza presenti nella società, ma ciò non ci deve impedire d’inserirci nelle contraddizioni insite in tale rapporto. Ecco perché, per evitare di scadere in un moralismo generico quanto improduttivo, credo sia utile rifarsi anche in questo ambito alle sei ‘competenze per l’E.P.’ proposte nel 1999 dall’UNICEF, citate nel mio saggio e riproposte nel 2012 dalla stessa organizzazione. [xi]:  

  • Identificare ed implementare soluzioni per risolvere i conflitti;

  • identificare ed evitare situazioni a rischio;

  • dare una valutazione critica delle soluzioni violente proposte ordinariamente dai media;

  • opporre resistenza ai condizionamenti da parte di coetanei e adulti a fare ricorso a comportamenti violenti;

  • diventare mediatori nelle situazioni di conflitto;

  • contrastare ogni forma di pregiudizio ed accrescere l’accettazione e l’apprezzamento della diversità». [xii]

Ebbene, se nelle nostre aule riuscissimo a seguire, anche parzialmente, questo percorso educativo credo che si farebbero molti passi avanti nella costruzione di una scuola diversa, capace di mettere in crisi dal basso l’ipocrisia di chi promuove nei fatti una mentalità competitiva e selettiva e, di conseguenza, comportamenti miranti all’individualismo, al successo, all’affermazione dell’io sul noi, alla scissione dell’educazione formale dalle scelte etiche.

Mi sembra quindi che sia arrivato il momento di rimboccarci le maniche, perché nessuna riforma della scuola (si autodefinisca o meno ‘buona’…) potrà impedirci di svolgere il nostro autentico ruolo di educatori, troppo spesso sopravanzato dalle preoccupazioni derivanti da un insegnamento che, alla faccia della sbandierata ‘autonomia’, diventa sempre più standardizzato, tecnologizzato ed eterodiretto. Basta documentarsi opportunamente, collegarsi ad altri docenti che lavorano in tal senso e promuovere nuove occasioni formativi e di confronto delle esperienze, come quella realizzata due anni fa nel piccolo e virtuoso comune di Monteleone di Puglia, [xiii] , in occasione della quale ho dato il mio piccolo contributo, con una presentazione sulla comunicazione nonviolenta [xiv] e successivamente sull’approccio ecopacifista.

nonviolenza Concludo riportando quanto scrivevo dieci anni fa, tuttora valido, a proposito della metodologia più idonea al perseguimento di un’educazione alla pace che non resti sconnessa dal contesto formativo, ma caratterizzi il nostro lavoro di docenti e lasci una traccia effettiva nei nostri studenti.

« 1) L’E.P. dovrebbe sempre essere presentata come educazione alla gestione positiva dei conflitti, proprio per non cadere nell’equivoco che la violenza è il prodotto naturale del conflitto e che per vivere pacificamente dobbiamo far finta che i conflitti non esistano, col rischio di alimentare l’idea un po’ manichea che la colpa sia sempre dei “cattivi” di turno.

2) La prima cosa da fare, per dimostrarsi davvero nonviolenti, credo che sia dichiarare apertamente (i latini usavano il verbo “con­fiteri”) le proprie convinzioni, ideologiche o religiose che siano, da cui scaturisce la nostra proposta educativa. In caso contrario, si cade nell’illuministica concezione che la verità sia auto­evidente, alla luce della ragione, e che basti quindi “spiegare” i diritti dell’uomo, oppure la negatività delle guerre o anche i meccanismi di sfruttamento dell’uomo e della natura, perché ne derivino conseguenze positive. Su un pensiero “debole” o un relativismo etico, ne sono convinto, non si costruisce una credibile educazione per la pace, che ha bisogno di solide convinzioni. Tutt’al più, si promuove una generica ed un po’ superficiale cultura pacifista.

3) Si dovrebbe evitare di presentare l’E.P. solamente come una questione di relazioni pacifiche, poiché un rapporto più rispettoso, armonico ed equilibrato tra individui è sicuramente il fondamento di una modalità pacifica di convivenza civile, ma non esaurisce certo le potenzialità di un’alternativa nonviolenta, che investe anche il livello intermedio (gruppi, comunità, relazioni fra individui e istituzioni) ed il macro­livello (relazioni internazionali,modelli di sviluppo, sistemi di difesa.  4) Un altro errore da non compiere è quello di scindere le questioni riguardanti la pace da quelle concernenti l’ambiente, dimenticandosi che i disastri ambientali sotto gli occhi di tutti sono frutto della stessa logica predatoria e di dominio che scatena i conflitti bellici, e che questi ultimi trovano spesso un movente nella pretesa di accaparrarsi fondamentali risorse naturali, dal petrolio alla stessa acqua…».

Le risorse per documentarsi non mancano, a partire dall’esaustiva biblio-sitografia (sia pur in inglese) cui rinvia la rubrica ‘Get involved’ del sito ufficiale della Giornata Internazionale della Pace.[xv]  Possiamo poi utilizzare manuali come il testo di Gabriella Falcicchio sui ‘profeti scomodi’ della Nonviolenza [xvi],  raccolte di esperienze come il libro ‘Percorsi di Pace…dal Sud’ [xvii],  la sezione bibliografica specifica curata dal Centro Sereno Regis di Torino [xviii] oppure testi come quelli di Daniele Novara sulla trasformazione nonviolenta dei conflitti. [xix]

Beh, se per il 21 settembre non siete riusciti ad organizzare qualcosa anche nella vostra classe, non preoccupatevene. Vuol dire che la Giornata Internazionale della Pace è comunque servita a ricordarci che abbiamo altri 364 giorni all’anno per fare qualcosa che serva ad educare i nostri ragazzi/e a costruire, insieme, alternative pacifiche, dal micro al macro livello.[xx]


N O T E

[i] Info su: https://internationaldayofpeace.org/

[ii] Vedi: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=LEGISSUM%3Ac11090

[iii] Cfr. https://dida.orizzontescuola.it/news/competenze-chiave-l%E2%80%99apprendimento-permanente-e-di-cittadinanza

[iv]  Cfr. Ermete Ferraro, Quali competenze di chiede l’Europa? (2015) > https://ermetespeacebook.com/2015/03/15/quali-competenze-ci-chiede-leuropa/

[v]  Ermete Ferraro, “Educazione vs maleducazione alla pace?” (2008), Peacelink >https://www.peacelink.it/pace/docs/2873.pdf

[vi]  Ermete Ferraro, Un’impronta digitale sulla scuola (2016) > https://ermetespeacebook.com/2016/11/13/unimpronta-digitale-sulla-scuola/

[vii] Sulla questione della ‘militarizzazione della scuola’ vedi, tra gli altri, i seguenti articoli:  https://www.articolo21.org/2018/04/loccupazione-militare-delle-scuole/https://www.agoravox.it/Scuole-e-militarizzazione-La-lunga.html  – https://ilmanifesto.it/diciamo-no-alla-militarizzazione-della-scuola-pubblica/

[viii] Vedi il progetto “Scuole militarizzate” > http://www.paxchristi.it/?p=6983

[ix]  Franco Ferrario, “Smilitarizziamo le scuole!” (2014), Missione Oggi > https://saveriani.it/missioneoggi/archivio-m-o/item/smilitarizziamo-le-scuole

[x]  E. Ferraro, Educazione vs maleducazione… cit., p. 2

[xi] UNICEF, Violence prevention and peace building (2012) > https://www.unicef.org/lifeskills/index_violence_peace.html

[xii]  Ferraro, op. cit. p. 3

[xiii]  Vedi il volume: Raffaelo Saffioti, Piccoli Comuni fanno grandi cose! Il Centro internazionale per la la Nonviolenza ‘Mahatma Gandhi’ di Monteleone di Puglia, Pisa, Gandhi Edizioni, 2018 > https://www.peacelink.it/pace/a/45595.html

[xiv] Ermete Ferraro e Anna De Pasquale, Una grammatica della pace per comunicare senza violenza (2018) > https://ermetespeacebook.com/2018/02/17/una-grammatica-della-pace-per-comunicare-senza-violenza/

[xv] Vai alla pagina > https://internationaldayofpeace.org/get-involved/

[xvi]  Gabriella Falcicchio, Profeti scomodi, cattivi maestri – Imparare a educare con e per la nonviolenza, Bari, La meridiana, 2018

[xvii]  Rosaria Ammaturo, Gianpaolo Petrucci, Eugenio Scardaccione, Percorsi di Pace… dal Sud, Bari, Edizioni dal Sud, 2014

[xviii] http://serenoregis.org/archivio/educazione-alla-pace/

[xix] Daniela Novara, La grammatica dei conflitti. L’arte maieutica di trasformare la contrarietà in risorse, Sonda, 2011

[xx] A tal proposito, vedi anche il Manuale: La pace – S’insegna e s’impara – Linee guida per l’educazione alla pace ed alla cittadinanza glocale,  a cura di: Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, MIUR, Coordinamento Enti Locali per la Pace, Scuole per la Pace, Tavola per la Pace > https://www.usr.sicilia.it/attachments/article/955/Linee%20Guida%20Pace%20Cittadinanza.pdf


 (*) ERMETE FERRARO (Napoli 1952) è stato operatore sociale di gruppo e di comunità e dal 1984 insegna lettere nelle scuole medie, dove è stato anche referente per la legalità, l’educazione alla pace ed il disagio.  Primo obiettore di coscienza nonviolento a Napoli, ha svolto (1975-77) il servizio civile alternativo presso la ‘Casa dello Scugnizzo’, di cui è stato successivamente anche amministratore. Da allora è impegnato nella ricerca per la pace, l’educazione alla pace e l’azione per la pace, come attivista di varie organizzazioni nonviolente (L.O.C. , M.N., ),  membro e ricercatore dell’I.P.R.I. e referente nazionale per l’ecopacifismo di V.A.S. Onlus-APS.  Attualmente è referente per Napoli e consigliere nazionale del M.I.R. (Movimento Internazionale della Riconciliazione).  E’ autore di un libro sull’educazione linguistica per la pace , di vari saggi sulla difesa popolare nonviolenta e di molti altri articoli su: disarmo, smilitarizzazione e nonviolenza attiva. > www.ermeteferraro.org

Viaggio numerologico sulla Route 66

“Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati. Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare.” Jack Kerouac, On the Road

imagesAlla fine il momento è arrivato. Questo 9 marzo ho compiuto 66 anni, approssimandomi al giro di boa costituito del termine della mia carriera lavorativa. Permettetemi allora di divagare un po’ a partire da questo 66 che, oltre ad evocare la citazione di Kerouac, è un numero palindromo particolarmente significativo e simbolico, che coi due 6 che occhieggiano appaiati mi trasmette un senso di stabilità e al tempo stesso di dinamismo.  In effetti si tratta di una divagazione piuttosto strana ed insolita per uno come me, che ha sempre avuto problemi con la matematica e non è neanche appassionato di ‘numerologia’ e dottrine cabalistiche. Eppure mi sembra sia innegabile che esista una certa ‘magia’ dei e nei numeri, per cui essi…contano davvero. Preso dalla curiosità, quindi, mi sono un po’ documentato in materia,  attingendo da internet alcuni spunti.

  • Gli anni da me compiuti sono la ripetizione di un numero particolarmente significativo, il 6, che parlerebbe di ‘armonia’ e di ‘scelta’. Esso corrisponde nella Qabbalah alla sesta lettera dell’alfabeto ebraico, il ‘vav’, che significa ‘estensione’ ma anche ‘connessione’, rinviando a relazioni durevoli e a progetti fondati sulla collaborazione. Numerologicamente, 6 indica anche il concetto di ‘scelta’, e perciò stesso di decisioni da assumere. [i]
  • Va precisato che il numero 66, nella stessa Cabala ebraica, evocherebbe però l’incompletezza, il peccato, il disordine, essendo di un’unità inferiore al 67, indicante invece stabilità, sicurezza e tranquillità. [ii]
  • Nella tradizione islamica, invece, il 66 è un numero sacro, in quanto rinvia direttamente al nome della Divinità. “Allah significa Iddio. Esso è composto da quattro lettere dell’alfabeto arabo la cui somma è pari a 66. Alif=1 Lam=30 Lam=30 Ha=5 quindi 1+30+30+5=66” […] Poco conosciuto è che il numero di Allah, possiede un proprio quadrato magico. La somma verticale, orizzontale o diagonale dei suoi addendi ci dà sempre 66. Analizzandolo e meditandolo è possibile individuare la direzione consona al proprio processo di purificazione. Il quadrato magico di Allah è di ordine 3 e comprende i nove numeri in sequenza compresi tra il 18 e il 26.”  [iii]
  • Un’altra interpretazione simbolica che viene data di questo numero ‘doppio’ (o ‘maestro’) è la seguente: “66 = Adempiere alle nostre responsabilità in maniera creativa e gioiosa.” [iv] .

Ebbene, al di là della suggestività – ma anche dell’indubbia irrazionalità – di tali visioni numerologiche della vita, devo ammettere che da queste due cifre appaiate mi deriva comunque una sensazione positiva. Tutti i significati citati, infatti, sembrano rinviare a concetti che ritengo fondamentali, come connessione e collaborazione, decisionalità, senso di responsabilità. Perfino il senso cabalistico di ‘mancanza’ ed ‘incompletezza’ sembrerebbe alludere all’anno che ancora mi manca dal pensionamento… Adesso però continuo questo ‘gioco’ numerologico utilizzandolo come spunto semiserio per qualche rapido flash-back sui 66 anni che mi sono appena lasciato alle spalle.

  • DIVISIONE

1200px-Napoli_-_Antignano_Dazio_100_4668Dividendo 6 per se stesso si ottiene naturalmente 1, numero che mi fa tornare indietro al mio primo anno di vita, nel 1953, quando una foto dell’epoca mi ritrae con dei riccetti biondi in testa ed un sorriso beato sulla faccia. Allora la mia famiglia abitava a via Luca Giordano, in un palazzotto adiacente la storica villa ottocentesca che ricorda quella con parco, di quattro secoli precedente, dove dimorava l’umanista Gioviano Pontano, che si affacciava sull’antico borgo di Antignano. Di quel remoto periodo naturalmente non ricordo quasi nulla. Dei miei primi anni mi restano soltanto vaghe memorie dei suoni e degli odori che promanavano dal vivace e rumoroso mercatino ortofrutticolo sottostante, cuore popolare di un quartiere borghese sorto in epoca umbertina dove una volta dominavano le coltivazioni di broccoli e dove cantavano, strofinando i panni, le ‘lavandaie’ del Vomero immortalate in una delle più antiche testimonianze canore napolitane. Mi tornano alla mente solo le pittoresche ‘voci’ dei venditori di allora, l’odore penetrante di una vicina torrefazione di caffè ed il profumo delle broches appena sfornate da una vicina pasticceria. Era l’anno in cui Totò portava sugli schermi il suo spassoso ‘Un Turco napoletano’ [v], mentre era al suo esordio Virna Lisi, nell’ingenuo musical partenopeo ‘…e Napoli canta’ [vi]. Ma era ancora troppo presto perché il piccolo Ermete potesse appassionarsi al cinema ed apprezzare la rutilante comicità del Principe della risata…

  • RADICE QUADRATA

180713506-b79abaaa-f8c7-4729-95f5-cc35cbec7d96La radice quadrata di 66 è 8,124…Semplificando a 8, questo numero mi fa risalire al mio ottavo anno di età, nel 1960. Era il periodo della scuola elementare e, più precisamente, del penultimo anno in cui ho frequentato l’austero edificio della ‘Luigi Vanvitelli’, con le sue aule alte e solenni ed i banchi neri di legno, per poi trasferirmi alla luminosa ed allora modernissima scuola ‘ Quarati’, più vicina alla mia nuova abitazione di via Francesco Cilea, dove la mia famiglia si trasferì nel ‘62. Di quel biennio delle elementari ovviamente ricordo assai poco, a parte il primo impegno per sostenere l’esame d’idoneità, allora previsto per passare alla terza classe. L’Ermete di allora, più alto della media e rigorosamente rivestito del classico grembiule nero con fiocco colorato a seconda della classe frequentata, era sicuramente molto studioso e piuttosto timido, ma amichevole con tutti. Uno degli ultimi ricordi che ho della ‘Vanvitelli’ è un concerto di fine d’anno durante il quale, non sapendo quale strumento farmi suonare, mi consegnarono un bel triangolo ed una bacchetta con cui percuoterlo, possibilmente a tempo con la musica…Purtroppo quella fu la prima ed ultima mia esibizione come suonatore di strumento, il che è piuttosto paradossale se si considera che da anni insegno lettere proprio in una sezione musicale…

  • ADDIZIONE

Escludendo da queste operazioni la sottrazione delle due cifre gemelle (che mi porterebbe ovviamente ante Ermetem natum…), passo quindi all’addizione.  Poiché 6 più 6 fa 12, questo numero mi riporta al 1964, quando ho compiuto il mio dodicesimo anno. Allora ero un ragazzino bruno, alto e magro che frequentava con buoni risultati la seconda media proprio nella scuola vomerese dove attualmente sto svolgendo il mio penultimo anno d’insegnamento. In una vecchia foto di classe mi rivedo in giacca e cravatta, piuttosto ‘serio’ ed un po’ distaccato dal gruppo dei coetanei, coi quali in verità condividevo ben poco, a partire dalle partite di pallone e dalla loro vivacità un po’ caciarona. Ricordo che già allora i numeri non erano proprio il mio forte, mentre mi piaceva molto leggere, scrivere e disegnare. Da ragazzo ero piuttosto introverso, sebbene mai asociale, e questo mi portava ad essere (ma non a sentirmi) piuttosto solo, sebbene attraversassi una fase della vita in cui dovrebbe prevalere lo spirito di gruppo. E’ stato allora, forse, che ho iniziato a sviluppare il mio senso di autonomia, che non voleva essere autosufficienza spocchiosa bensì capacità di stare bene in compagnia di me stesso, pur senza rinunciare all’amicizia. Questa foto in bianco e nero di me dodicenne mi riporta quindi ad un’età di transizione precoce ad una maturità più adulta e consapevole, sebbene carente di altri aspetti positivi, come la spensieratezza, la spinta al gioco ed alla collaborazione con i coetanei. Due anni dopo, nel 1966 appunto, ero invece impegnato aimages (1) concludere il biennio ginnasiale al prestigioso Liceo Classico ‘Jacopo Sannazaro’, esibendo una capigliatura più folta ed un’ombra di baffetti, ma restando sempre piuttosto schivo. Sono stati gli anni dell’approccio con il latino e greco, dominati per un terzo delle ore di scuola dalla figura della mia esigente docente di lettere, che però riuscì a farmi amare i ‘Promessi sposi’. Lo stesso successo non arrise però all’ironica e spicciativa professoressa di matematica. Ricordo invece con una certa simpatia l’anziano e bizzarro prof di francese, con le sue inesorabili ‘tre frasi alla lavagna’ e con la pretesa di farci sciroppare intere tragedie di Corneille e Racine. Era quello l’anno della tragica alluvione di Firenze, la cui cronaca fu uno dei primi esempi di diretta televisiva che colpì centinaia di migliaia d’Italiani, spingendo molti giovani a diventare volontari a fianco della traballante protezione civile del tempo. Era anche un anno culminante della rivoluzione culturale in Cina e, venendo al cinema, quello del celebre western all’italiana di Sergio Leon e  ‘Il Buono, il Brutto e il Cattivo’ , ma anche del raffinato  “Uccellacci e uccellini” di Pasolini. [vii]   

  • MOLTIPLICAZIONE

Se si moltiplicano i due 6 della mia età si ottiene 36, per cui questo viaggio a ritroso fa tappa nel 1988. A quel tempo ero al mio secondo anno d’insegnamento presso la scuola media ‘ Maglione’ di Casoria, in provincia di Napoli, dopo aver vinto il concorso a cattedre. Avevo già prestato due anni di servizio civile come obiettore di coscienza alla ‘Casa dello scugnizzo’ di Materdei, dove avevo poi svolto altri  otto anni di lavoro come volontario, animatore di gruppo e poi assistente sociale. Ricordo con piacere quel primo biennio d’impegno da docente in un istituto scolastico in cui si respirava una positiva atmosfera di collaborazione e di confronto e dove ho insegnato lettere anche in una sezione a tempo prolungato, svolgendo con un suolo gruppo-classe l’intero orario di 18 ore. E’ stato un periodo molto vivace e creativo, dove ho sperimentato vari approcci educativo-didattici ed ho  fatto interessanti esperienze interdisciplinari con i colleghi di corso. L’atmosfera che si respirava soprattutto nella parte vecchia di Casoria mi torna ancora piacevolmente alla mente, insieme al ricordo dei miei primi allievi e delle loro famiglie, con le quali la mia precedente esperienza di operatore sociale mi spingeva a mantenere rapporti abbastanza diretti e regolari, anche con visite domiciliari. candidoIn quegli stessi anni, infatti, sono stato poi referente d’istituto per l’educazione alla legalità e successivamente ‘funzione-obiettivo’ per l’area del c.d. ‘disagio’, cercando di mettere a frutto gli anni di lavoro e ricerca sociale anche nella mia attività di docente. Nel 1988 stavo approssimandomi anche al matrimonio con Anna, conosciuta un anno e mezzo prima in occasione della formazione della prima Lista Verde a Napoli, che mi permise di diventare il primo consigliere circoscrizionale ambientalista al Vomero e d’iniziare un nuovo percorso, che non è ancora finito.

A questo punto però devo fermarmi, sia perché sono finite le operazioni aritmetiche, sia perché non vorrei dare l’impressione che compiere 66 anni mi abbia portato a…dare i numeri. Concludo dunque con un aforisma che sento di poter fare mio, una volta giunto a questa età, ad un anno dalla fine del mio lungo viaggio sulla ‘route’ della scuola. Si tratta di una bella citazione tratta da un libro di Primo Levi:

«Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione alla felicità sulla terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono. » [viii]

Felice viaggio a tutti/e !

—- N O T E ——————————————————————————————————
[i] Cfr. “Il significato numerologico del numero 6” > http://numerologica.it/project/significato-numerologico-del-numero-6/
[ii] Cfr. https://www.camelott.it/Varie/numeri.htm#66 sessantasei
[iii]  “Il numero di Allah, il suo quadrato magico e la purificazione” > http://www.tradizionesacra.it/il_numero_di_Allah_il_suo_quadrato_magico_e_la_purificazione.htm
[iv]  “Qual è il significato dei numeri doppi? Ecco cosa sono i numeri angelici di Doreen Virtue  >  https://www.panecirco.com/significato-numeri-doppi-angelici-doreen-virtue/
[v]  “ Un Turco napoletano” , regia di Mario Mattoli  (1953) > https://www.youtube.com/watch?v=YtyDq6lj0uA
[vi]…e Napoli canta” , regia di Armando Grottini (1953) > https://www.youtube.com/watch?v=Jk6RonZF4MI
[vii]Uccellacci e uccellini”, regia di Pier Paolo Pasolini (1966) > http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=26072
[viii] La citazione è tratta da: Primo Levi, La chiave a stella (1978)

“Al cor gentil rempaira sempre amore…”

Elogio della gentilezza

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Illustrazione dell’articolo su TIME ( Jan. 15, 2018)

Circondati come siamo dagli echi di stragi, vendette, ostilità e polemiche a tutti i livelli,  può  sembrare bizzarro che si parli della gentilezza e della sua importanza. Siamo talmente abituati all’aggressività ed alla violenza  che risalta dalla realtà quotidiana che essa ci suona come una parola fuori dal tempo, una virtù ormai in desuetudine, un atteggiamento arcaico ed obsoleto.

Il titolo che ho scelto cita infatti l’incipit della nota ‘canzone’ di Guido Guinizzelli, manifesto stilnovista che ci ricorda la perduta gentilezza. Eppure lo spunto per questa mia riflessione è assai più recente, trattandosi di un articolo pubblicato sul numero del 15 gennaio di TIME magazine, il cui titolo augurale è: “One hope for the new year: a kinder culture” [i].  L’argomento sul quale l’autrice, Kristin van Ogtrop, ha voluto richiamare la nostra attenzione – presa prevedibilmente da ben altro… – è proprio la speranza che il nuovo anno ci renda più consapevoli di quanto sia importante impegnarsi, a partire dalla scuola, per sviluppare e diffondere una ‘cultura più gentile’.  Non si tratta certamente della ducentesca visione del ‘cor gentil’ in cui si rifugia l’amore, come un uccello tra le foglie di un albero, bensì dell’esperienza attuale e diretta del figlio dell’autrice, al primo anno come maestro elementare in una scuola pubblica statunitense. Egli si dichiarava sorpreso di quanto  i suoi alunni di 8-9 anni si trattassero male l’uno con l’altro ma, al tempo stesso, manifestassero il bisogno di ricevere quella gentilezza di cui essi non sono però portatori.

«Sul piano quotidiano, essi inciampano in tre ostacoli: mancanza di controllo degli impulsi, incoscienza e difficoltà a perdonare o a lasciar perdere” – osserva la Ogtrop, precisando che ciò non dipende dagli stessi bambini, ma piuttosto dal modello socio-culturale che essi assorbono dagli adulti – Nella nostra ricerca del successo, siamo diventati troppo individualisti, troppo egoisti, restii ad ammettere di essere dipendenti da qualcuno. Ma Phillips e Taylor credono che ci sia ancora speranza nei bambini, se noi adulti non li roviniamo. Essi scrivono: “Il riflesso virtuale della preoccupazione e dell’impegno che i bambini mostrano per gli altri fin troppo facilmente si perde crescendo; e tale perdita, quando si verifica su scala abbastanza ampia, è un disastro culturale”» [ii]

Giunto ormai quasi al termine della mia esperienza educativa, dopo 10 anni di lavoro socio-culturale di base ed altri 33 d’insegnamento nelle scuole medie statali, ammetto di essere stato colpito dall’articolo e dagli interrogativi che esso pone. Col passare del tempo, infatti, registro anch’io un diffuso deterioramento del rapporto interpersonale fra i ragazzi, caratterizzato da una crescente aggressività – più psicologica che fisica – e da un alto tasso di polemicità ed intolleranza reciproca. Maniere gentili,  disponibilità ed empatia – sebbene oggi nella scuola se ne parli più di prima – sembrano essere stati sostituiti sempre più spesso da atteggiamenti egocentrici, insofferenza verso i compagni e tendenza all’affermazione personale a tutti i costi. Ma che cos’è che spinge bambini, ragazzi ed adolescenti dei nostri tempi a scordarsi delle buone maniere e ad assumere comportamenti che talvolta rasentano la prevaricazione? E, soprattutto, come mai quegli stessi soggetti in altri momenti appaiono fragili, maledettamente sensibili all’aggressività altrui e bisognosi di comprensione e protezione?

Senza dubbio un grosso peso in questo logoramento dei rapporti tra pari lo ha l’atmosfera sociale in cui i nostri ragazzi vivono quotidianamente, respirando a pieni polmoni l’individualismo, l’egoismo e l’incapacità di sentirsi dipendenti dagli altri che caratterizza i rapporti fra gli adulti, come sottolineava la Ogtrop. Il fatto è che è venuta progressivamente meno la spinta alla ricerca di un bene davvero comune. Si sono estinti a poco a poco i legami parentali ed amicali che tenevano insieme le comunità di una volta. Si è, insomma, esaurita quasi del tutto la carica solidaristica derivante sia dalla ‘fraternità’ della morale cristiana, sia dall’etica laica motivata da una visione socialista. E non si può negare che i risultati sul piano relazionale – e quindi sotto il profilo psicosociale – siano sotto gli occhi di tutti.

Diffidenza, paura, aggressività, diffidenza, paura…

images (3)Il Mahatma Gandhi – della cui morte si celebra il 70° anniversario – ci invitava ad “essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo”. E’ una delle sue frasi più famose e citate, ma forse oggi dovremmo interrogarci preliminarmente se noi adulti siamo ancora capaci di perseguire una visione del mondo che ci porti a quel cambiamento cui dovremmo improntare i nostri comportamenti.  Non si tratta, secondo me, soltanto dell’abituale  incoerenza tra fini e mezzi – che ha sempre finito col giustificare la violenza – ma di una più sostanziale perdita di una prospettiva che ci motivi davvero al cambiamento. Sappiamo bene che ogni forma di aggressività nasce in qualche modo dalla diffidenza, dalla paura, dalla difesa del sé, dal rifiuto dell’idea stessa che gli altri c’impongano la loro volontà. In assenza di certezze sulla solidità dei legami che dovrebbero unirci, questa paura dell’altro è quindi diventata ancora maggiore, alimentata da diffidenze , egoismi e meccanismi di autodifesa, capaci di trasformarsi anche in strumenti di offesa preventiva.

Eppure  – almeno a livello mentale – dovremmo essere più consapevoli ormai che la gentilezza è un’ottima arma difensiva, nella misura in cui smonta l’aggressività altrui e disarma con la forza della mitezza chi ci voglia attaccare. Non mi riferisco ad una filosofia astratta, ma a principi che perfino i bambini imparano quando iniziano a praticare arti marziali, ad esempio il rispetto, la determinazione, la pazienza, la resistenza, la flessibilità, l’adattabilità, la fiducia e, soprattutto, l’autocontrollo. Sono tutte qualità che, viceversa,  spesso difettano ai nostri ragazzi, soprattutto il controllo degli impulsi distruttivi, che è poi il fulcro di una nonviolenza da costruire giorno dopo giorno ed a partire da se stessi. Bisogna ammettere, d’altra parte, che si tratta di un’impresa non facile in una società che sempre più frequentemente presenta come modelli da imitare persone arroganti, maleducate, urlanti, offensive e costantemente in posizione d’attacco.  Non dobbiamo però disperare, perché – anche a prescindere da insegnamenti morali e religiosi – l’umanità sta lentamente riscoprendo che, in fondo, essere gentili ci aiuta, che può essere un reale vantaggio.

« Per fortuna, come spesso avviene nelle crisi specie quando sono veramente grandi, il cambiamento passa per lo stretto sentiero dell’utilità. E così lentamente, sottotraccia, stiamo scoprendo che essere gentili conviene (tra l’altro non costa nulla) e non esserlo è uno spreco in termini di qualità della vita, sentimenti e salute compresi. Piero Ferrucci, filosofo e psicologo, in un famoso libro intitolato La forza della gentilezza (edizioni Mondadori), scrive: «La gentilezza non è un lusso, ma una necessità». Un concetto che oggi circola molto attraverso il canale di Internet, dove si stanno moltiplicando le condivisioni dei comportanti ispirati alla cortesia, le associazioni come Il “Movimento italiano per la Gentilezza” (www.gentilezza.it), e perfino i corsi sul web delle buone maniere, quelle che nella scuola reale sono state cancellate. Tempo al tempo e vedrete che la gentilezza tornerà di moda, di gran moda…» [iii]

Educare alla gentilezza, di conseguenza, dovrebbe essere una preoccupazione per ogni docente, se non altro per stemperare il clima competitivo e assai poco solidaristico che troppo spesso si avverte nelle nostre aule scolastiche. Bisogna educare alla gentilezza perché – citando ancora Guinizzelli – l’amore trova rifugio solo nei cuori gentili, per cui una seria educazione all’affettività è indispensabile alla formazione umana e civile degli studenti. Ma bisogna farlo anche perché la gentilezza non è affatto un punto di debolezza bensì di forza nello sviluppo umano dei singoli, ed inoltre contribuisce a sviluppare un clima più armonico e costruttivo nelle comunità in cui viviamo.

Gentilezza autentica, non ipocrita cortesia formale

images (1)Ovviamente quando faccio questa affermazione mi riferisco alla gentilezza autentica, che viene dal cuore e dalla mente, non alle generiche ‘buone maniere’, che ne costituiscono un’etichetta esteriore ed un po’ ipocrita, sebbene parzialmente da riscoprire in tempi di arroganza e volgarità.

« Ancora oggi, per la verità, quando parliamo di «gentilezza» cadiamo nel tranello semantico: gentile vs maleducato. E forse la Giornata Mondiale della Gentilezza (che è ricorsa ieri come ogni 13 novembre) è stata creata apposta per rivendicare un po’ di sacrosanta buona educazione. Naturalmente in un mondo essenzialmente maleducato, scorbutico, brutale come il nostro la gentilezza così intesa sarebbe già tanto, ma non è tutto. Perché, lungi dall’essere l’equivalente della cordialità zuccherosa, la gentilezza è, insieme ad altre virtù, un cardine della «grammatica dell’interiorità», come direbbe uno studioso dei sentimenti qual è Antonio Prete.» [iv]

E’ evidente che a portare avanti questa ri-educazione alle gentilezza  non basta la pur importante formazione scolastica, se la nostra vita quotidiana – e quella dei nostri figli –  resta improntata a relazioni scostanti, conflittuali, talvolta decisamente aggressive. Non serve insegnare la gentilezza reciproca dentro le aule scolastiche se tali imput educativi si scontrano regolarmente con maniere brusche, pretese egoistiche ed incapacità di esprimere sentimenti come il rispetto delle esigenze e sensibilità altrui, la consapevolezza dei nostri limiti ed il senso di gratitudine per ciò che gli altri fanno per noi.

« In pochi anni nelle nostre case, secondo una ricerca dell’associazione Gentietude che promuove uno stile di vita fondato sulle buone maniere, in quasi la metà delle famiglie italiane sono state rimosse le parole Grazie, Per favore, Posso? Cancellate. A rimetterle in campo ci ha dovuto pensare Papa Francesco che con il suo linguaggio diretto ha invocato, non solo per i cristiani, l’uso di tre parole per dare longevità alla vita matrimoniale. Grazie, Permesso e Scusa. Tre vocaboli che non siamo più abituati a pronunciare, quando chiediamo un’informazione in strada, quando spintoniamo qualcuno per la fretta di raggiungere un luogo (ma dove corriamo ogni attimo della nostra esistenza?), quando interrompiamo chi sta provando a parlarci, a comunicare oltre il muro dell’autismo dei nostri pensieri autoreferenziali ed egocentrici.» [v]

E’ la stessa autoreferenzialità che si trasforma spesso nella presunzione di poter fare a meno degli altri, o addirittura nella convinzione che gli altri siano ostacoli alla nostra autoaffermazione. Entriamo quindi in una continua collisione con i corpi e le menti di chi ci sta intorno, perché non sappiamo più dare il giusto peso alla collaborazione, all’integrazione, allo sforzo comune per conseguire obiettivi che siano collettivi e non solo personali. E’ ciò che succede in famiglia, nei rapporti di vicinato, nelle relazioni di lavoro e perfino nella sfera virtuale degli spettacoli televisivi, cinematografici e delle stesse attività ludiche e ricreative, che tanta influenza esercitano soprattutto sui minori.  Gli effetti su personalità in formazione come quelle dei nostri figli e nipoti, infatti,  sono fin troppo evidenti.

Qualche giorno fa ho chiesto a degli alunni di terza media quali significati attribuissero al termine ‘gentilezza’, facendoli esprimere in un improvvisato brainstorm. Le risposte – anche se si tratta di una classe che non si contraddistingue propriamente per questa virtù – sono state pronte e significative. Buona educazione, bontà, generosità, disponibilità, empatia, rispetto, amicizia, gratuità sono solo alcuni dei termini che quei ragazzi hanno collocato nel campo semantico della ‘gentilezza’, dimostrando chiaramente come si possano avere le idee chiare in proposito, pur senza necessariamente comportarsi nella maniera delineata da questi termini. Riabituarci e riabituare i nostri ragazzi a modi meno sbrigativi ed autoreferenziali, pertanto, è l’unica strada per cercare di essere il cambiamento di cui pur avvertiamo il bisogno.

Per una ri-educazione sentimentale

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N. Drew – Ch. M. Tinari, Simple Tips for a Kinder  Middle School Culture, Free Spirt Publications

 

E’ esattamente lo sforzo che c’invitava a fare, cominciando già dalle piccole cose di ogni giorno, Massimo Gramellini in uno dei suoi ironici corsivi.

«La defunta [gentilezza] non richiedeva sacrifici particolari e nemmeno eroismi. Solo un po’ di educazione e, prima ancora, di umanità. Era una forma mentale. Talvolta ipocrita, e però utile ad ammorbidire le asprezze della vita quotidiana. Grazie, prego, passi pure, mi scusi, ma si figuri, non me n’ero accorto, ha bisogno?, c’era prima il signore, non si preoccupi, disturbo? Ciascuna di queste espressioni, e dei gesti che spesso le accompagnavano, era una pennellata di grasso sugli ingranaggi esistenziali. Un balsamo che non migliorava le cose, ma consentiva di affrontarle per quel che erano, senza dovervi aggiungere lo sconforto che sempre ci assale quando abbiamo la sensazione di andare contromano […] L’idea che nelle relazioni umane sia ancora possibile mettersi nei panni degli altri è considerata bizzarra. Ma non me ne vengono in mente di migliori per uscire da una crisi che ha spolpato i portafogli solo perché da tempo aveva già corroso i cuori.» [vi]

Un mezzo indispensabile per svolgere una efficace formazione alla gentilezza è, a mio avviso, la educazione alla comunicazione nonviolenta, cioè all’utilizzo di un linguaggio costruttivo e non distruttivo, che contribuisca a costruire ponti anziché muri. E’ dalla metà degli anni ’80 che mi sono cimentato in questo percorso, ipotizzando una ‘educazione linguistica nonviolenta’ che aiuti i nostri ragazzi ad uscire dalla violenza – manifesta ma spesso subdola – di una comunicazione aggressiva, ambigua e fonte di ostilità e di divisioni. [vii]  E’ innegabile che si tratta di un lavoro didattico  molto più impegnativo di quello di trasmettere conoscenze o meglio, come si preferisce adesso, costruire competenze.  E’ però un obiettivo che non possiamo permetterci di mancare, pena la perdita di quelle doti essenziali che hanno consentito all’umanità di sopravvivere alla sua stessa strenua lotta per la sopravvivenza.  Si tratta infatti di riscoprire quella ‘humanitas’ tanto lodata dagli antichi ma che si presenta come una virtù complessa, che racchiude in sé gli ideali di attenzione, comprensione, cura reciproca e benevolenza. In una parola, si tratta di aiutare i più giovani a ricercare ciò che ci unisce e ci fa sentire fratelli e solidali.  In un contesto più vicino a noi, si tratta insomma di rendere centrale l’ammonizione di don Milani, che sulla parete della sua scuola aveva fatto apporre il cartello ‘I CARE’ «…il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. E’ il contrario del motto fascista “Me ne frego”

In un momento in cui tornano ad avvertirsi, cupi e minacciosi, gli echi del nazionalismo, del razzismo e del disprezzo per chi è diverso, dunque, sarebbe opportuno ricordarci del monito del Priore di Barbiana e ridare il giusto peso a quel semplice motto. Esso certamente prefigurava una disposizione d’animo che va ben oltre la semplice gentilezza, ma di cui la vera gentilezza è un sicuro segnale. Essa va accompagnata da una più complessiva educazione al rispetto degli altri, all’autocontrollo personale, alla disposizione al perdono ed alla riconciliazione. I nostri ragazzi dovrebbero imparare in primo luogo – dagli insegnamenti ma soprattutto dal nostro esempio – l’importanza di utilizzare più spesso semplici espressioni come quelle suggerite da Papa Francesco: grazie, permesso, scusa. E non solo per apparire più educati e corretti, ma perché le lacerazioni dell’animo e le ferite psicologiche non si guariscono ferendo e lacerando anche la sensibilità degli altri. E’ l’esercizio delle virtù che il catechismo cattolico definisce ‘cardinali’, cioè: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Sembrerebbero termini fuori corso, concetti desueti, espressioni ormai prive di senso. Eppure – secondo il Vangelo – non c’è agàpe (la fondamentale virtù teologale della ‘carità’) se non si comincia ad assumere atteggiamenti e comportamenti improntati a quelle quattro qualità basilari. In particolare la fortezza  ci parla di una grande forza interiore, che è  poi l’esatto contrario della ‘debolezza’  che si attribuisce erroneamente a chi è gentile.

images (2)Si tratta di un addestramento quotidiano, attraverso il quale i ragazzi possano comprendere – praticandola –  che la gentilezza non ci sminuisce, non ci rende più fragili ed esposti, ma piuttosto ci fortifica interiormente, ci apre all’altro e ne smonta l’aggressività. La mitezza evangelica [viii] – una delle beatitudini – parte dall’amore per il prossimo e genera amore nel prossimo. Non è mai passività, rassegnazione o resa al male, bensì reazione costruttiva e non distruttiva, resistenza nonviolenta.  E allora recuperiamo questo basilare insegnamento, che troviamo anche in altre culture, a partire da quelle orientali, per le quali una pratica importante è quella del mantra, la ripetizione mentale di una frase che racchiuda un insegnamento. Anche antiche popolazioni hawaiane utilizzavano una pratica del genere, che è stata recentemente riproposta a noi occidentali di oggi.

« Ho’oponopono è un metodo di pulizia mentale e spirituale, una purificazione dalle paure e dalle preoccupazioni […] Ogni volta che qualcosa ci disturba, che percepiamo di essere in una disarmonia, che riconosciamo un conflitto o un problema, possiamo fare Ho’oponopono. 1. Preghiamo di ottenere conoscenza, coraggio, forza, intelligenza e calma. 2. Descriviamo il problema e poi cerchiamo nel nostro cuore il modo in cui abbiamo contribuito a crearlo. Il nostro contributo può essere per esempio un giudizio, un determinato comportamento o un ricordo che va guarito. 3. Perdoniamo incondizionatamente e pronunciamo le quattro frasi magiche: mi dispiace; perdonami; ti amo; grazie. 4. Ringraziamo, ci fidiamo e lasciamo andare.» [ix]

oponoCostruiamo insieme, dunque, una cultura della gentilezza, utilizzando gli insegnamenti della saggezza antica ed i precetti morali della religione, ma anche quello che c’insegna la psicologia. Ce n’è tanto bisogno e non possiamo limitarci ad aspettare che siano gli altri a prendere l’iniziativa. Ecco perché, gandhianamente,  dobbiamo sforzarci di diventare il cambiamento che vorremmo vedere nel mondo. Facciamolo però senza sentirci superiori agli altri, anzi perdonandoci la nostra stessa debolezza, praticando in tal modo la gentilezza prima verso noi stessi.

N O T E ——————————————————————————

[i] Kristin van Ogtrop, “One hope for the new year: a kinder culture” TIME, Jan. 15,2018  > http://time.com/5087376/one-hope-for-the-new-year-a-kinder-culture/

[ii] Ibidem  ( il testo citato dall’autrice è : Adam Phillips, Barbara Taylor, On Kindness, 2009 > https://www.amazon.com/Kindness-Adam-Phillips/dp/0374226504/ref=mt_hardcover?_encoding=UTF8&me=

[iii] Antonio Galdo, “Importanza della gentilezza e dell’educazione, due valori importanti da non sprecare “ , Non sprecare.it (13.11.2017 )> http://www.nonsprecare.it/essere-educati-conviene-elogio-della-gentilezza?refresh_cens

[iv]  Paolo Di Stefano, “Elogio della gentilezza: ecco perché ne abbiamo bisogno”, Corriere della Sera, 17.11.2014 > http://www.corriere.it/cronache/17_novembre_14/elogio-gentilezza-giornata-bisogno-6cb8371e-c8b0-11e7-83f4-5d7185c8c90c.shtml

[v]  A. Galdo, op. cit.

[vi] Massimo Gramellini, “Della gentilezza”, La Stampa, 27/02/2009 > http://www.lastampa.it/2009/02/27/cultura/opinioni/buongiorno/della-gentilezza-dj6Hg0JAK2i6GKXzQ1D1kO/pagina.html

[vii] Ermete Ferraro, Grammatica di Pace. Otto tesi per l’Educazione Linguistica Nonviolenta, Torino, Satyagraha, 1984; vedi anche l’articolo sul mio blog: https://ermetespeacebook.com/2010/03/04/educazione-linguistica-nonviolenta/ ed il fondamentale testo di Marshall Rosemberg, Manuale pratico di comunicazione nonviolenta per lo studio individuale o di gruppo del libro «Le parole sono finestre (oppure muri)» , 2014, Esserci .

[viii]Beati i miti, perché erediteranno la terra” (Mt 5, 5). Lo stesso Gesù si auto-definisce “mite e umile di cuore” (Mt 11, 29), ed in entrambi i casi l’evangelista Matteo utilizza il vocabolo greco πραΰς , che significa appunto: gentile, umile, dolce.

[ix] Ulrich Emil Duprée, Che cos’è lo Ho’Oponopono? – Estratto dal libro: Ho’Oponopono – La forza del perdono > https://www.macrolibrarsi.it/speciali/che-cos-e-ho-oponopono-estratto-dal-libro-ho-oponopono-la-forza-del-perdono.php

NON FATE I ‘BONUS’, SE POTETE

UN APPELLO PER SALVARE LA SCUOLA ITALIANA

L’ultima riforma della scuola è l’apice di un processo pluridecennale che rischia di svuotare sempre più di senso la pratica educativa e che mette in pericolo i fondamenti stessi della scuola pubblica. Certo la scuola va ripensata e riformata, ma non destrutturata e sottoposta ad un processo riduttivo e riduzionista, di cui va smascherata la natura ideologica, di marca economicistica ed efficientista. La scuola è e deve essere sempre meglio una comunità educativa ed educante. Per questo non può assumere, come propri, modelli produttivistici, forse utili in altri ambiti della società, ma inadeguati all’esigenza di una formazione umana e critica integrale. È quanto mai necessario “rimettere al centro” del dibattito la questione della scuola.[i]

images (2)E’ questo l’incipit dell’Appello per la Scuola Pubblica, che ho appena sottoscritto e che invito tutti/e a leggere con grande attenzione.[ii] E’ stato pubblicato solo pochi giorni fa ma è circolato molto velocemente online, raccogliendo in poco tempo quasi 7.000 firme tra docenti, genitori e studenti Esse si aggiungono a quelle degli otto docenti che lo hanno redatto e dei primi illustri proponenti, fra cui: Salvatore Settis, Massimo Cacciari, Tomaso Montanari, Umberto Galimberti, Nadia Urbinati, Michela Marzano, Romano Luperini, il filosofo Roberto Esposito, gli storici Giovanni De Luna e Adriano Prosperi, il sociologo Alessandro Dal Lago, i pedagogisti Benedetto Vertecchi, Massimo Baldacci e tanti altri educatori e professori universitari, insegnanti e critici letterari e dell’arte.

Basta la premessa appena citata a comprendere che si dà finalmente voce a tantissime persone che vivono quotidianamente la scuola pubblica, con ruoli diversi ma con la stessa amara sensazione di un progressivo degrado del modello d’istruzione che ci ha consegnato la nostra Costituzione, che troppi fanno solo finta di celebrare nella ricorrenza del suo 70° anniversario. Non è certo un caso, infatti, che l’appello sia centrato su sette punti ben precisi, sui quali è più evidente il tradimento dei principi costituzionali, con particolare riferimento agli art. 3 (“E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana “, 33 (“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.” e 34  “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita….” .

I ‘sette peccati capitali’ della sedicente #BuonaScuola  si riferiscono ad altrettanti ambiti in cui la mutazione genetica della scuola italiana ha subito maggiormente il contagio della mentalità efficientistico-aziendale che una volta credevamo patrimonio della destra liberista di stampo berlusconiano, salvo poi ritrovarci con una riforma scolastica di centro-sinistra ancora più esplicita in tal senso. Tali punti nodali sono così sintetizzati nei titoli del documento:  1. Conoscenze vs competenze; 2.  Innovazione didattica e tecnologie digitali; 3. Lezione vs attività laboratoriale; 4. Scuola e lavoro; 5. Metrica dell’educazione e della ricerca; 6. Valutazione del singolo, valutazione di sistema; 7. Inclusione e dispersione. Mi soffermerò pertanto su alcune questioni sollevate dall’Appello, che sono quelle su cui la mia personale esperienza di docente di scuola media mi spinge a riflettere maggiormente.

NELLA ‘BUONA SCUOLA’ C’E’ UN ‘BONUS’ PER OGNI ESIGENZA…

Ho usato l’espressione ‘scuola media’ non certo per un vezzo rétro, ma per sottolineare che uno dei modi in cui si sta a poco a poco snaturando il triennio successivo alla scuola elementare mi sembra proprio la sua collocazione ‘propedeutica’ ed ancillare rispetto a quella superiore, cancellandone così l’originaria caratteristica ‘mediana’, di fondamentale ponte fra due modelli, oltre che gradi, d’istruzione. L’impressione è che il mantra  incalzante del c.d. ‘curricolo verticale[iii]  (concetto che risale peraltro al 1997 ed i cui ultimi riferimenti normativi sono riscontrabili nelle Indicazioni Nazionali del 2012 e nelle circolari esplicative del 2013) sia un chiaro indice dell’orientamento dominante a trasformare l’ex scuola media in un selettivo trampolino verso una specie di college di stile anglosassone. Le ‘riforme’ targate USA arrivano nel nostro Belpaese generalmente con un quarto di secolo di ritardo. E’ il caso anche della legge che nel 1992 introdusse nell’istruzione pubblica degli States un nuovo approccio organizzativo :

“Le charter schools (letteralmente “scuole del prestito”), nel sistema scolastico degli Stati Uniti, sono delle scuole, soprattutto primarie o secondarie, che godono di un particolare statuto di autonomia, legato a un sistema di finanziamento misto al quale contribuiscono fondi pubblici e privati. Esse, infatti, oltre a donazioni private ricevono finanziamenti pubblici (inferiori rispetto a quelli delle scuole pubbliche) in cambio di un assoggettamento ad un minor numero di regole, leggi e vincoli statutari. Pertanto, esse sono più autonome dei corrispondenti istituti pubblici e statali. Le charter school sono considerate, in genere, migliori delle scuole pubbliche in termini di risultati scolastici. Si possono frequentare in base all’espressione del principio della cosiddetta “libera scelta” nel campo dell’istruzione [iv]

images (1)E’ solo il nostro provincialismo italiota che non ci fa cogliere i nessi fra quello che ci sta capitando e le profonde – in alcuni case antiche – radici che sono all’origine di quello che ho chiamato ‘snaturamento’ della scuola. E’ da questa sua profonda ‘modificazione genetica’, infatti, che derivano le linee di tendenza che sono sicuramente tutte dentro le ultime riforme della scuola italiana – in particolare quella renziana – ma che, in modo più strisciante e progressivo, hanno inquinato fini, mezzi e modi dell’insegnamento, riconducendoli alla logica neo-liberista delle privatizzazioni, della selezione pseudo-meritocratica, della ‘managerialità’ dei dirigenti e della deregulation in ambito normativo,  per di più spacciando tutto ciò come attuazione della autonomia scolasticaSono questi i ‘modelli produttivistici’ cui l’Appello fa risalire la ‘destrutturazione’ della nostra scuola pubblica, denunciandone la matrice ideologica ‘economicista ed efficientista’.

Quello che anch’io sto vivendo nella scuola dove opero, dunque, è il frutto un po’ appassito d’un processo di trasformazione precedente, che però ora sta mettendo più apertamente in discussione gli stessi principi costituzionali democratici già citati. Pur volendo tacere della ormai consueta  violazione della ‘collegialità’ delle scelte didattico organizzative che caratterizza il nostro sistema scolastico, penso sia necessario denunciare certe operazioni di cui non molti colleghi sembrano rendersi conto. Il combinato disposto tra la logica ‘premiale’ che lusinga tanti nostri docenti ed il clima di crescente concorrenza fra istituzioni scolastiche sta infatti producendo risultati estremamente deteriori, improntati sempre e comunque alla progressiva privatizzazione della scuola pubblica. L’utilizzo anglofilo del c.d School Bonus previsto dalla ‘Buona Scuola’ e introdotto dal 2016 – che implica benefici fiscali per chi faccia donazioni alle scuole – è stato uno degli strumenti per agevolare questo processo di ‘charterizzazione’ dei nostri istituti che, con la scusa delle ‘erogazioni liberali’ di tali soggetti, crea le premesse per un controllo. [v]

La seconda ‘mossa’ di questo sconcertante ‘gioco di strategia’ governativo è stata, come accennavo prima, la rincorsa dei docenti all’allettante ‘albero della cuccagna’ del c.d. ‘bonus premiale’  (per il 2018 sono stati stanziati in bilancio ben 60 milioni). Col pretesto della ‘valorizzazione’ degli insegnanti, cioè, se ne premia in buona sostanza il conformismo e lo slancio produttivistico ed organizzativo, assoggettandoli mentalmente alla logica perversa della ‘squadra’ che circonda e supporta i dirigenti scolastici.  Il terzo anello della catena mi sembra la crescente tendenza ad introdurre una sorta di ‘pre-selezione’ nelle iscrizioni degli alunni della scuola media (pardon: scuola secondaria di 1° grado). Lo strumento operativo è quello che utilizza il sedicente ‘contributo volontario’ delle famiglie (un importo variabile determinato dai consigli d’istituto delle singole istituzioni scolastiche) non come attuazione della “scuola aperta a tutti […] obbligatoria e gratuita” sancita dalla Costituzione, bensì come subdola chiave di accesso o meno a corsi più qualificati ed appetibili. Basta stabilire che determinate sezioni di una scuola statale presentino una più consistente ed allettante offerta formativa aggiuntiva e/o curricolare, previo esborso di una vera e propria tassa d’iscrizione –  ed il gioco è fatto. In teoria si continua ad affermare che non si può scegliere la sezione cui iscrivere i figli, ma in pratica tale selezione degli alunni in entrata (prevalentemente in discipline come l’inglese di livello più alto e le tecnologie informatiche) pone le basi per ‘premiare’ quelli i cui genitori, oltre ad essere più ambiziosi, hanno il dubbio ‘merito’ di potersi permettere di pagare somme molto più onerose.

COMPETENZE, TECNOLOGIE DIGITALI, LABORATORI, SCUOLA-LAVORO

downloadQuando l’appello elenca i sette punti ‘caldi’ da tenere presenti se si vuole salvare quel che ancora rimane della scuola pubblica, risulta evidente che il processo che la sta “destrutturando” va proprio nella direzione delle charter schools d’oltre oceano. All’enfasi esagerata sulle competenze basilari e sulle tecnologie digitali, ad esempio, il documento giustamente contrappone una riserva:

Non [ha] senso misurare “livelli di competenza” degli studenti, da attestare in una sorta di fermo-immagine valutativo. Il sapere non si acquisisce mai definitivamente. È continuamente rinnovato dalla maturazione, consapevolezza, interiorità, ricerca singolare e plurale, approfondimento di contenuti e pratiche”.[vi]   Si afferma, inoltre: “Non sia il mero ingresso di uno smartphone in classe a migliorare l’apprendimento o l’insegnamento. In quel caso si potrà, certo, aderire a un modello, attualmente dominante: quello che sostiene l’equazione cambiamento=miglioramento e digitale=coinvolgimento.[vii]

 Personalmente, sul primo punto mi sono già espresso già nel 2015, in due articoli pubblicati sul mio blog, intitolati rispettivamente “Quali competenze ci richiede l’Europa”  [viii] e “La Buona Scuola che ci compete”  [ix], mentre sul secondo nel 2016 ho prodotto un intervento dal titolo “Un’impronta digitale sulla scuola” [x]. Per brevità, quindi, rinvio a questi miei precedenti contributi.

Altri due punti su cui il documento dei docenti ha voluto fare chiarezza hanno una radice comune. Attività laboratoriale e alternanza scuola-lavoro sembrano infatti ispirati dalla stessa logica pragmatica e produttivistica che sta cercando in ogni modo di snaturare la funzione educativa e socio-culturale dell’istruzione pubblica, liquidandola come retaggio di una superata cultura dei ‘saperi’ astratti e contrapponendo ad essa la funzione di prep school anglo-americana.[xi]  Fatto sta però che, come si ribadisce nell’Appello:

Non si va a scuola semplicemente per trovare un lavoro, non si frequenta un percorso di istruzione solo per prepararsi ad una professione. Dal liceo del centro storico al professionale di estrema periferia, la scuola era e deve restare, per primo, un “luogo potenziale” in cui immaginare destini e traiettorie individuali, rimettere in discussione certezze, diventare qualcos’altro dalla somma di “tagliandi di competenza” accumulati e certificati.” [xii]

Un’altra osservazione che condivido appieno è quella sullo ‘stile’ dell’insegnamento, sempre più orientato verso le attività ‘laboratoriali’, mandando in soffitta ogni approccio che abbia a che fare con la ‘lezione’ e che, conseguentemente, solleciti l’ascolto, sia pur attento e attivo – da parte dei discenti. Ma basta sfogliare una qualsiasi rivista per imbattersi in inchieste da cui si evince che i nostri ragazzi stanno diventando sempre meno capaci di ascoltare e di stare ‘attenti’, presi come sono dalla smania pseudo-operativa suscitata da smartphones e videogiochi e sensibili quasi esclusivamente a stimoli visuali o, al massimo, audiovisivi. Quella che oggi si esalta, del resto, non è certo la visione educativa attivistica e cooperativa dei pedagogisti di una volta.[xiii]  I presupposti ideologici di questa insistenza sulla ‘laboratorialità’, a mio avviso, affondano piuttosto in una concezione pragmatista, materialista ed economicista della società. Fanno bene, quindi, gli estensori dell’Appello a sottolineare che:

“Attenzione concentrata, aumento dei tempi di ascolto, siano condizioni per un “saper fare” come “agire intelligente”, che non si consegue assecondando l’uso delle tecnologie o seducendo gli alunni con dispositivi smart, ma in contesti di applicazione laboriosa, tempo quieto per pensare, discussione nel gruppo”.[xiv]

Anche su questi ultimi due aspetti – ed in particolare sull’inserimento nella scuola d’interessi produttivi o addirittura della propaganda militare – rinvio a ciò che mi è già capitato di scrivere in passato.[xv]

VALUTATION E SVALUTATION

images (1)Gli ultimi tre dei sette ‘peccati capitali’ della #BuonaScuola hanno a che fare col grande capitolo di ciò che gli autori dell’Appello chiamano “metrica dell’educazione e della ricerca”.

“Gli orientamenti internazionali delle politiche formative e di ricerca […] innescano una competizione globale in cui ranking internazionali (OCSE) e nazionali (INVALSI, ANVUR) comprimono gli scopi formativi e di studio sulla dimensione apparentemente neutra di “risultato”, oltre ad indurre a paragoni privi di rigore logico. Educazione e ricerca universitaria non sono riducibili ad un insieme di pratiche psicometriche globali, a cui sottoporsi in nome del principio di etica e responsabilità. Il futuro della Scuola e dell’Università sono questioni politiche nazionali, da collocare in un contesto europeo e interculturale di confronto e valorizzazione delle differenze, libero e democratico.” [xvi]  

Mi sembra che questa “ossessione quantitativa – che sarebbe imposta da obblighi comunitari o internazionali – sia piuttosto pilotata da interessi economici esterni alla scuola ed inoltre risponde a criteri ‘metrici’ spesso discutibili, o quanto meno parziali. Ecco perché non si può accettare supinamente l’imposizione di una didattica semplificata, schematizzata e valutabile solo mediante aridi questionari. Non è questa la nostra scuola e perfino nei paesi anglosassoni, dove i test strutturati sono la regola da decenni, ci si sta ribellando progressivamente a questa didattica standardizzata dove, è stato osservato, “si studia per i test, non con i test”. Anche su tale dimensione ho già avuto modo di pronunciarmi, per cui rinvio a due miei articoli del 2013 (“Fermate ‘sta pazzia!” e “Oltre i test, per far funzionare le teste”). [xvii]  Ecco perché non posso che associarmi all’Appello, quando si denuncia che:

La logica dell’adempimento e della competizione azzer(a)no il lavoro di personalizzazione nella formazione scolastica ed erod(o)no progressivamente spazi di progettualità libera nella ricerca universitaria (attraverso la sottomissione a criteri di valutazione non condivisi…”[xviii]

Ancor più sottoscrivibile, da parte di un educatore di matrice ecologista come me, è la successiva affermazione:

Le scelte operate da MIUR, INVALSI ed ANVUR, modific(a)no profondamente comportamenti e strategie nelle Scuole […], generando condotte di mero opportunismo metodologico-didattico e scientifico nonché la perdita di “biodiversità culturale”, strumento indispensabile per affrontare le complessità del futuro, oggi imprevedibili.” [xix]

La centralità del concetto di “valutazione” nella nostra didattica ‘riformata’ non è solo una mania, comprensibile in un mondo dove anche il sapere sembra che debba essere pesato e prezzato come qualsiasi altra merce. Il vero problema è che tale ossessione valutativa non sta portando affatto ad una scuola meritocratica bensì ad una selettività sempre più ‘a priori’. Ancora una volta, per citare don Milani: La scuola….è un ospedale che cura i sani e respinge i malati.” [xx]

In questo processo un ruolo non secondario – come osservavo negli articoli citati nella nota 17 – ha avuto ed ha un ruolo centrale l’INVALSI, sulla quale si appuntano gli strali anche degli estensori dell’Appello, sostenendo che:

Un’agenzia “terza” (INVALSI) non possa svolgere compiti di valutazione e di ricerca pedagogico-didattica orientanti programmi e curricola: la terzietà non è, inoltre, comparabile con gli incarichi affidati dal MIUR per la valutazione (diretta e indiretta) di docenti e dirigenti attraverso meccanismi di premialità. [xxi]

Già, perché oltre ad introdursi sul piano didattico come il classico elefante nella cristalleria, queste Agenzie stanno svolgendo un ruolo non secondario nella determinazione dei criteri per la valutazione non solo di singoli alunni, classi ed intere istituzioni scolastiche, ma indirettamente anche dei docenti e dei dirigenti. Fin nel 2012 mi sono espresso criticamente a proposito dei progetti di valutazione degli insegnanti (“Si VALES bene est. Ego valeo” [xxii]), reiterando il mio giudizio due anni dopo (“Il sistema di(sotto)valutazione dei docenti[xxiii]). Oggi la trama di questo piano appare ancora più evidente e sta producendo danni ancora maggiori, aizzando una in-sana competizione a tutti i livelli (tra docenti, tra classi di una scuola, tra istituti dello stesso territorio, etc.)

L’ultimo capitolo del documento, dedicato a “inclusione e dispersione” cerca dunque di riportare l’attenzione degli insegnanti sul loro ruolo centrale, che non è certo quello burocratico di ‘certificatori’ di conoscenze o anche di competenze, ma di educatori. Anch’io, infatti, credo che:     

“ …non ci si possa limitare a chiedere alla Scuola di fare meglio solo con ciò che ha. Semplificare compiti e programmi, organizzare corsi di recupero pomeridiani che ricalchino quelli antimeridiani, medicalizzare le diversità, sono scorciatoie che restano agli atti come prove burocratiche di adempimenti amministrativi […] Dispersione scolastica e abbandoni precoci non sono solo capi d’imputazione su cui è chiamata a rispondere, ma problematiche che nelle attuali condizioni assorbe e subisce.” [xxiv] 

Facciamo in modo, dunque, che la ‘valutation’ standardizzata della #BuonaScuola non sia ancor di più uno strumento socioculturale – e quindi politico – di svalutation’ di chi non rientri in questi nuovi canoni didattici, per cui rischia di essere emarginato, o comunque costretto a seguire percorsi scolastici di seconda categoria.  La scuola che vogliamo non ha molto a che vedere con quella che ogni giorno ci viene proposta e spesso imposta. Muoviamoci allora, prima che sia troppo tardi… Sottoscrivere l’Appello è solo il primo passo di una lotta non facile, ma assolutamente indispensabile.

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[i] AA.VV., Appello per la Scuola Pubblica  > https://sites.google.com/site/appelloperlascuolapubblica/

[ii] Vedi:  Ilaria Venturi, “Moratoria sulla Buona Scuola. L’appello degli insegnanti firmato da intellettuali ed accademici”,  la Repubblica Scuola (30.12.2017) > http://www.repubblica.it/scuola/2017/12/30/news/_una_moratoria_sulla_buona_sucola_l_appello_degli_insegnanti_firmato_da_intellettuali_e_accademici-185485819/

[iii] Cfr.  Gianfranco Cerini, Saperi, curricolo, competenze > http://www.edscuola.it/archivio/riformeonline/saperi.html

[iv] “Charter School” in Wikipedia >

[v]  Cfr. http://www.notiziedellascuola.it/news/2016/settembre/school-bonus-benefici-fiscali-per-donazioni-alle-scuole

[vi] Appello per la scuola pubblica, cit.

[vii] Ibidem

[viii] Ermete Ferraro, Quali competenze ci richiede l’Europa?  (15.03.2015) > https://ermetespeacebook.com/2015/03/15/quali-competenze-ci-chiede-leuropa/

[ix]  Idem, La Buona Scuola che ci compete (12.09.2015) > https://ermetespeacebook.com/2015/09/12/la-buona-scuola-che-ci-compete/

[x]  Idem, Un’impronta digitale sulla scuola? (13.11.2016) > https://ermetespeacebook.com/2016/11/13/unimpronta-digitale-sulla-scuola/

[xi] Vedi definizione di ‘Prep(aratory)school ‘ in: https://dictionary.cambridge.org/it/dizionario/inglese/prep-school

[xii] Appello… cit.

[xiii] Cfr. ad es. le teorie pedagogiche di J. Dewey, C. Freinet, M. Montessori, A.S. Makarenko, R. Cousinet ed altri

[xiv] Appello, cit.

[xv] Vedi, ad es.: E. Ferraro, Profeti e professori (25.06.2017) > https://ermetespeacebook.com/2017/06/25/profeti-e-professori/ e Idem, Ma che ‘Bellica Scuola’ ! (03.12.2016) > https://ermetespeacebook.com/2016/12/03/ma-che-bellica-scuola/

[xvi] Appello, cit.

[xvii] E. Ferraro, “Fermate ‘sta pazzia!” (22.06.2013) > https://ermetespeacebook.com/2013/06/22/fermate-sta-pazzia/ e    Oltre i test, per far funzionare le teste (27.11.2013) > https://ermetespeacebook.com/2013/11/27/oltre-i-test-per-far-funzionare-le-teste/

[xviii] Appello, cit.

[xix]  Ibidem

[xx] Don Lorenzo Milani, Lettera ad una professoressa, Firenze, L.E.F. ,1996

[xxi] Appello, cit.

[xxii] E. Ferraro, Si VALES bene est. Ego valeo (18.02.2012) > https://ermetespeacebook.com/2012/02/18/si-vales-bene-est-ego-valeo/

[xxiii] Idem, Il sistema di (sotto)valutazione dei docenti (03.10.2014) > https://ermetespeacebook.com/2014/10/03/il-sistema-di-sottovalutazione-dei-docenti/

[xxiv]  Appello, cit.

MINORI…NON ACCOMPAGNATI

La buona scuola dei docenti-vigilantes

downloadNelle scuole italiane, da un po’ di tempo in qua, non si fa altro che discutere animatamente dello stesso argomento. Del rinnovo del contratto del personale, incredibilmente fermo da 10 anni?  Degli esiti della sedicente Buona Scuola renziana, che ci ha regalato presidi-manager e docenti-staffisti? Dell’atteggiamento schizofrenico di chi, dopo aver cancellato l’ora d’insegnamento dedicata alla ‘educazione civica’ l’ha rimpiazzata dapprima con un’indistinta girandola di educazioni (alla legalità, alimentare, sanitaria, etc.) e poi con l’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione all’interno di una delle due curricolari ore di storia e senza una valutazione specifica?  Oppure si discute della logica ‘premiale’ bonascolista, che tratta gli insegnanti come bambini che scrivono a Babbo Natale per mendicare umilmente bonus, ricompense e mance varie? O forse si parla  della aziendalizzazione spinta della scuola pubblica, pervasa da slogan efficientistico-imprenditoriali e sempre più invasa da postulanti privati a vario titolo (docenti di madre-lingua, istituti di certificazione linguistica, teatri e cinematografi, associazioni turistiche e culturali, club sportivi, providers informatici, formatori in cerca di pubblico e via discorrendo)?  Assolutamente no. Il problema-principe di cui si discetta nelle nostre scuole è l’uragano abbattutosi improvvisamente e improvvidamente su docenti stanchi, spesso avviliti e demotivati, ponendoli di fronte ad un obbligo ulteriore e mortificante. Quello cioè di attuare nella realtà vera di tutti i giorni – e soprattutto degli anni 2000 – una prescrizione normativa risalente al Codice Rocco, secondo la quale i ‘minori’ loro affidati dai genitori, all’uscita dalla scuola, dovrebbero essere individualmente consegnati a questi ultimi o a loro delegati.

A monte di questa incredibile querelle c’è la recente sentenza n.21593 della III sezione civile della Corte di Cassazione [i] che, a ben vedere (ma ovviamente pochi ne hanno davvero letto il testo), si limita a confermare principi giuridici preesistenti  ed un generale indirizzo estremamente rigoroso della giurisprudenza in materia di vigilanza sui minori. Ciò che molti distratti, poco informati o tendenziosi commentatori omettono, in riferimento all’ordinanza fonte del casus belli, è che la Corte suprema ha rigettato le obiezioni del ricorrente Ministero riferendosi ad una fattispecie per niente generalizzabile. Al punto 4.3. del documento, infatti, si legge: “Come rilevato dal primo giudice e implicitamente condiviso dalla Fiorentina, sussiste un obbligo di vigilanza in capo all’amministrazione scolastica con conseguente responsabilità ministeriale sulla base di quanto disposto all’art. 3 lettere d) ed f) del Regolamento d’Istituto. Le norme ora richiamate,infatti, rispettivamente pongono a carico del personale scolastico l’obbligo di far salire e scendere dai mezzi di trasporto davanti al portone della scuola gli alunni, compresi quelli delle scuole medie, e demandano al personale medesimo la vigilanza nel caso in cui i mezzi di trasporto ritardino. Sulla scorta di quanto prescritto nel richiamato regolamento scolastico il giudice di primo grado e quello di secondo grado hanno logicamente dedotto che l’attività di vigilanza della quale l’amministrazione scolastica era onerata non avrebbe dovuto arrestarsi fino a quando gli alunni dell’istituto non venivano presi in consegna da altri soggetti e dunque sottoposti ad altra vigilanza, nella specie quella del personale addetto al trasporto.” [ii]  E’ dunque chiaramente pretestuoso interpretare tale pronunciamento della Cassazione come se ne scaturisse l’incredibile quanto inattuabile imposizione d’un obbligo generalizzato nei confronti del personale della scuola, secondo il quale si dovrebbe riconsegnare ciascuno delle centinaia (in alcuni casi migliaia) di alunni nelle mani dei rispettivi genitori (o loro delegati), sì da adempiere l’obbligo di vigilanza sui minori affidati. Quelli che ritengono di sapere qualcosa di diritto e sono fautori del tradizionale motto romano “Dura lex sed lex”   obiettano però che in quest’obbligo sussisterebbe comunque, in quanto previsto dall’art. 2048 del Codice Civile. Ma che cosa c’è scritto effettivamente in questo basilare riferimento legislativo?

‘Minori non emancipati’ o studenti con doti ’imprenditoriali’?

imagesIl padre e la madre, o il tutore sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi (1). La stessa disposizione si applica all’affiliante. I precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. Le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto.” [iii]  Ebbene, dopo aver letto integralmente questo articolo del Codice Civile italiano – al di là della marginale notazione d’un linguaggio che ci riporta ad una società in cui la vita ed i rapporti familiari erano ben diversi – non mi sembra che si possa dedurne le conclusioni cui sono giunti la Ministra Fedeli, molti zelanti Dirigenti scolastici e perfino parecchi docenti che, a quanto pare, conoscono poco sia i loro diritti sia i loro doveri.  A parte il fatto che l’articolo in questione si riferisce a specifiche situazioni in cui la mancata vigilanza di genitori, tutori e precettori consenta che un minore loro affidato cagioni un danno a terzi – cosa ben diversa dalla tutela della sicurezza personale dello stesso –  è evidente che ci troviamo di fronte ad un quadro normativo che non ha più credibilità nel contesto socioculturale dei nostri tempi, in cui la stessa scuola, peraltro, ha il compito di educare i ragazzi all’autonomia personale e “ad agire in maniera matura e responsabile” [iv].   Ricordo, a tal proposito, che a noi docenti delle ex scuole medie è stato richiesto di svolgere un compito ulteriore rispetto a chi vi insegnava fino a pochi anni fa, quello cioè di provvedere collegialmente alla ‘certificazione delle competenze al termine del primo ciclo d’istruzione’.  Evito di entrare nel merito della retorica tecnocratica che esalta le ‘competenze’ rispetto a conoscenze ed abilità di cui la scuola dovrebbe farsi veicolo, ma non posso fare a meno di sottolineare che nel modello ministeriale di certificazione, sono state inserite anche la seguenti: “ 9) Dimostra originalità e spirito di iniziativa. Si assume le proprie responsabilità, chiede aiuto quando si trova in difficoltà e sa fornire aiuto a chi lo chiede. È disposto ad analizzare se stesso e a misurarsi con le novità e gli imprevisti.” […] “12) Ha cura e rispetto di sé, come presupposto di un sano e corretto stile di vita. Assimila il senso e la necessità del rispetto della convivenza civile. Ha attenzione per le funzioni pubbliche alle quali partecipa nelle diverse forme in cui questo può avvenire: momenti educativi informali e non formali etc.” [v].   E’ innegabile che la giurisprudenza ci presenta casi in cui, viceversa, si considera il minore affidato alla scuola come se non potesse considerarsi un soggetto autonomo e responsabile, ad esempio nel caso in cui la stessa alta Corte ha voluto ribadire: …il principio generale che l’istituto di istruzione ha il dovere di provvedere alla sorveglianza degli allievi minorenni per tutto il tempo in cui le sono affidati e quindi fino al momento del subentro almeno potenziale della vigilanza dei genitori o di chi per loro.”  [vi]  Ebbene, anche a prescindere dalle valutazioni palesemente contrastanti espresse in sede giurisizionale, si direbbe che legislatori, giudici, ministri e presidi non si rendano conto del fatto che trattare studenti medi come irresponsabili ed incapaci marmocchi, da affidare nelle mani di genitori o generici ‘adulti’ delegati, non è il modo migliore per sviluppare in loro l’autonomia, le “competenze sociali e civiche” e, men che meno, lo “spirito di iniziativa e imprenditorialità” cui la scuola dichiara di volerli formare. La stessa giurisprudenza, peraltro, sembrerebbe aver superato l’arcaico ‘tabu’ della vigilanza sempre e comunque dei minori, giungendo a conclusioni ben diverse, come in altri pronunciamenti della Cassazione, nei quali invece si sottolinea che gli insegnanti devono ovviamente tener conto del livello di maturità degli studenti.  D’altra parte , nella giurisprudenza specifica in materia di sorveglianza sui minori da parte del personale insegnante, risulta consolidato l’orientamento (cfr. Cass. Sez .III , 4.3.77 n. 894, Cass. Sez. II 15.1.80 n. 369 , Cass . Sez. III 23.6.93 n. 6937, Trib. Milano 28/6/1999 ) che tiene in considerazione il grado di maturazione degli allievi nel valutare il contenuto dell’obbligo di vigilanza” .[vii]   

Gli ‘unaccompanied minors’ sono ben altro…

images (1)Spesso i docenti  tendono a reagire d’istinto alle…sollecitazioni provenienti dall’alto, dimostrando  talvolta una limitata consapevolezza dei propri diritti e doveri. Bisogna ammettere, d’altra parte, che non passa anno che sul travagliato microcosmo scolastico non si abbatta qualche inopinata novità, che mette in discussione gli  equilibri organizzativi e introduce elementi innovativi nella stessa didattica, costringendo stagionati maestri e professori ad adeguarsi alla meglio ad essi. Come osservavo qualche anno fa in un altro articolo [viii], siamo di fronte alla diffusa sindrome del “non capisco ma mi adeguo”, per cui si tende ad accettare supinamente crescenti imposizioni dall’alto che, alla faccia dell’autonomia dell’Istituto e del singolo docente, stanno riducendo la scuola ad un terreno su cui i vari ministri si esercitano, anno dopo anno, in una interminabile partita tipo videogiochi. Il fatto è che la realtà virtuale percepita da alti burocrati, soloni accademici e  dirigenti-manager è sempre meno frutto di esperienza diretta e sempre più derivata da arzigogolate misurazioni di efficienza ed efficacia, sulla base di parametri pseudo-oggettivi di valutazione. La loro percezione di un istituto scolastico medio – che conti cioè da 500 agli 800 allievi – appare piuttosto generica e prescinde dalle dinamiche e problematiche delle vere classi, sempre più affollate di alunni e afflitte da problemi non solo di apprendimento, ma anche relazionali e socio-economici. E’ una realtà che ci mostra un’organizzazione lavorativa e familiare dei loro genitori oggettivamente messa in crisi dall’inusitata richiesta di prelevare i figli inferiori ai 14 anni all’uscita da scuola . Gran parte di loro, infatti, già da anni  vi entrano ed escono autonomamente; semmai, è stato notato che lo fanno ancora in misura piuttosto bassa (30-40%) rispetto ai loro compagni di altra nazionalità, il cui tasso di indipendenza raggiunge il 90%.   Non è peraltro un mistero che il Contratto del Comparto Scuola – risalente al lontano 1995 ma di fatto vigente sul piano normativo – prevedeva al 5° comma dell’art. 42 che Per assicurare l’accoglienza e la vigilanza degli alunni, gli insegnanti sono tenuti a trovarsi in classe 5 minuti prima dell’inizio delle lezioni e ad assistere all’uscita degli alunni medesimi.” [ix]. Ciò non significa però che da tale ruolo di ‘assistenza’ scaturisca per i docenti l’obbligo di consegnare i rispettivi allievi nelle mani di un genitore o suo delegato, né tanto meno di vigilare su ciò che avviene all’esterno della scuola ed in orario non più scolastico, cioè alla fine delle lezioni. F. De Angelis, ricordando che la stessa norma è ripresa dal comma 5 dell’art.29 del CCNL scuola, ha sottolineato a tal proposito che “ il docente dell’ultima ora di lezione ha l’obbligo di accompagnare gli studenti all’uscita della scuola, controllando, soprattutto in caso di studenti di scuola primaria, se all’uscita ci siano i genitori dei propri studenti per la consegna. Se ancora i genitori non si presentano, i docenti devono segnalare la situazione al dirigente o al vicario, che penserà alla situazione. E comunque, se di obbligo si deve parlare, certamente non è riservato ai docenti: infatti, il CCNL comparto scuola, sancisce esplicitamente che il profilo professionale di Area A del personale ATA, che corrisponde ai collaboratori scolastici, è tenuto a rispettare le “mansioni di accoglienza e sorveglianza degli alunni nei periodi immediatamente e antecedenti e successivi all’orario delle attività didattiche.” [x]

images (3)Il paradosso è che, anziché preoccuparsi davvero del grave problema dei veri “minori non accompagnati”,  ovvero i circa 30.000 ragazzi/e stranieri (dato 2016) che da soli hanno fortunosamente raggiunto il nostro Paese e per i quali sussiste un oggettivo diritto di accoglienza e protezione [xi] , il nostro governo preferisce mettere a subbuglio i delicati equilibri dell’istituzione scolastica, chiedendo al suo personale di svolgere anche le funzioni di ‘vigilantes extra moenia’. Chi vive la realtà quotidiana della scuola sa bene che si tratta di una richiesta irricevibile e sostanzialmente ipocrita, nella misura in cui non è effettivamente praticabile. Far controllare carte d’identità di adulti delegati alla già problematica uscita di 7-800 allievi sarebbe una follia e metterebbe seriamente a rischio proprio la sicurezza degli stessi ragazzi, oltre a quella dei lavoratori della scuola. Ecco perché dobbiamo respingere al mittente quest’assurdità, evitando di approvare qualsiasi deliberazione collegiale che ci vincoli in tal senso. Anche così insegniamo la cittadinanza attiva ai nostri ragazzi.

N O T E ————————————————————————————————————

[i]  La sentenza citata, del 19.09.2017,  è riportata integralmente in: http://www.ilsole24ore.com/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/ILSOLE24ORE/Online/_Oggetti_Embedded/Documenti/2017/09/19/21593.pdf

[ii]  Vedi testo dell’ordinanza cit. della CdC,  al punto 4.3

[iii] Codice Civile, art. 2048 > https://www.laleggepertutti.it/codice-civile/art-2048-codice-civile-responsabilita-dei-genitori-dei-tutori-dei-precettori-e-dei-maestri-darte

[iv]  V. MIUR, Indicazioni Nazionali per i Piani di studio personalizzati nella Scuola Secondaria di 1° grado(2012) , p. 4 > http://www.edscuola.it/archivio/norme/programmi/media_06503.pdf

[v]  MIUR, Scheda  per la certificazione delle competenze al termine del primo ciclo d’istruzione, in: http://www.indicazioninazionali.it/J/index.php?option=com_content&view=category&layout=blog&id=8&Itemid=102

[vi]  Cfr. Corte di Cassazione, sez. I, sentenza n. 3074 del 30/03/1999, riportata in https://www.snalsbrindisi.it/documenti/doc1/cassazione_3074.htm

[vii]  Maria Cristina Paoletti, “Vigilanza sul minore e responsabilità del docente “,  Educazione e scuola > http://www.edscuola.it/archivio/ped/vigilanza.html

[viii]  Ermete Ferraro, La buona scuola che ci compete (12.09.2015) > https://ermetespeacebook.com/2015/09/12/la-buona-scuola-che-ci-compete/

[ix]  C.C.N.L. del Comparto Scuola (04.08.1995) >    http://www.fnada.org/FNADa%20Web/Norme/OLD/ccnl4-8-95.htm#42

[x]  F. De Angelis, “Il docente è responsabile solo se è previsto dal regolamento d’istituto!” (17.10.2017) , La Tecnica della Scuola > https://www.tecnicadellascuola.it/vigilanza-docente-responsabile-solo-previsto-dal-regolamento-istituto

[xi]  Cfr. dati relativi su: https://www.unhcr.it/cosa-facciamo/progetti-europei/minori-non-accompagnati/accoglienza-dei-minori-stranieri-non-accompagnati