di Ermete FERRARO
Nel suo artico
lo di fondo su IL MATTINO di domenica 4 maggio, Mauro Calise offre ai lettori una serie di spiegazioni sul "perché la sinistra arretra", a partire dal crollo del partito laburista britannico alle ultime amministrative, in cui scorge un parallelismo con la débacle del centrosinistra in Italia, seguita dal passaggio del Comune di Roma – come ora succede nella City of London – nelle mani di un esponente della destra.
Se un po’ tutta l’Europa, eccezion fatta per la Spagna di Zapatero, sta passando bruscamente, ma nettamente, a governi ed amministrazioni locali conservatrici o peggio, sostiene Calise, non basta prendersela coi pur evidenti errori dei leaders, dimostratisi incapaci "d’intercettare i mutamenti nel clima di opinione e nella base sociale dei rispettivi paesi". C’è qualcosa di più profondo ed importante, dice, e passa ad elencare le cause della disfatta di quelle socialdemocrazie europee che, 15 anni fa, avevano invece interrotto il decennio conservatore dominato dall’asse Reagan-Tatcher.
Il primo fattore- sostiene Calise – sarebbe la scomparsa delle storiche "fratture" socio-economiche su cui si era fondato allora il consenso dei partiti socialisti e socialdemocratici. Il secondo motivo è individuato nel passaggio dalle "salde radici popolari" dei partiti storici alle più "volubili motivazioni populiste" degli elettori attuali. Il terzo, e decisivo, elemento sarebbe infine la ricerca di soluzioni rapide e radicali alle sfide e contraddizioni della globalizzazione, preferibilmente "affidandosi alle qualità taumaturgiche di un leader". Mentre non risulta del tutto estranea alla sinistra storica anche una tendenza latente al populismo, proprio contro lo scoglio della mancanza di una "leadership autorevole e indiscutibile di un capo" – storica prerogativa della destra – sarebbero invece andate ad infrangersi le coalizioni di centrosinistra in Europa.
Sostiene Calise, insomma, che la sinistra avrebbe perso la sfida con le rinascenti forze di destra sostanzialmente perché: (1) i suoi esponenti non hanno saputo accorgersi che le vecchie barriere ideologico-territoriali sono cadute da un bel po’; (2) sono rimasti radicati ad un modello tradizionale e popolare di partito, in un mondo sempre più caratterizzato dal populismo e, (3) non hanno a disposizione "capi" autorevoli e credibili da contrapporre a quelli esibiti dalla destra, notoriamente più proclive ad affidarsi a "guide" indiscusse.
Confesso che dopo quest’acuta analisi mi sento ancora più confuso di prima. Pensate: nella mia ingenuità ritenevo che la batosta della sinistra italiana fosse imputabile al fatto che, proprio per mimetizzarsi troppo con la realtà circostante, non riuscisse a porsi come credibile ed autentica alternativa ad un sistema economico responsabile, a livello planetario, di catastrofi ecologiche, conflitti bellici e spaventose ingiustizie sociali . E invece no – sostiene Calise – la sinistra ha perso perché è rimasta ancorata alle vecchie ideologie, non si è mostrata abbastanza opportunista e populista e, soprattutto, non ha saputo far leva su autentici "capi", come richiederebbe la realtà attuale, caratterizzata al tempo stesso da "volubili motivazioni" ma portata ad affidarsi a "uomini forti", dotati di un’indiscutibile e taumaturgica leadership.
Pensate: prima credevo addirittura che la sfida del partito democratico al centro-destra fosse fallita perché è piuttosto improbabile, oltre che poco coerente, pretendere di sconfiggere i neoliberisti proprio sul loro terreno, sbandierando slogan su progresso, ordine e riduzione del peso normativo dello stato, ma finalmente ora capisco che il centro-sinistra ha perso perché non è stato abbastanza bravo ad "intercettare i mutamenti nel clima di opinione e nella base sociale dei rispettivi paesi", un simpatico giro di parole per dire che non è stato sufficientemente trasformista e opportunista.
Figuratevi un po’: mi ero convinto che la vera e propria liquefazione della sinistra comunista ed ambientalista – e della stessa coalizione arcobaleno che pretendeva di rappresentarla – fosse ascrivibile all’assenza di un vero progetto che riuscisse finalmente a far comprendere come giustizia, pace ed ecologia sono ingredienti di un’unica alternativa all’arroganza di quel complesso militare-industriale che non esita a scatenare guerre senza fine pur di salvaguardare a tutti i costi il ruolo di consumatori illimitati e sfrenati detenuto dal 25% del genere umano, a danno del restante 75%. E invece ecco che Calise lascia intendere che la crisi della sinistra è ormai fatale, visto che – dopo il crollo dei due blocchi di riferimento economico e politico – la sua tradizionale "riserva di caccia…si è ridotta al lumicino", per cui non si comprende più il senso di un’opzione rivoluzionaria, e perfino di quella riformista, in un contesto che, evidentemente, gli appare il migliore dei mondi possibili…
Eppure fuori dall’Italia, e perfino nella stessa culla del capitalismo globalizzato, le analisi sono piuttosto diverse, se è vero che l’autorevolissima rivista TIME – fatto rivoluzionario nella sua lunga storia editoriale – è uscita nell’ultimo numero di Aprile contornata di verde – anziché del tradizionale colore rosso – con un’efficace copertina dedicata all’approfondito servizio di Bryan Walsh su: "Come vincere la guerra contro il riscaldamento globale". Ad un futuro più verde e più pulito sono dedicati anche altri servizi dalla Germania, dal Giappone e dagli stessi Stati Uniti d’America, tutti centrati sull’assoluta necessità di dare priorità a scelte inequivocabilmente ed irrevocabilmente volte alla lotta ad un disastro ambientale frutto di scelte sbagliate e miopi. Mentre da noi i Verdi spariscono quasi del tutto, diluiti in una coalizione che non li ha visti né protagonisti né capaci d’iniziativa, le massime organizzazioni multinazionali – alcune delle quali responsabili di scelte rivelatesi catastrofiche – si stanno spudoratamente dipingendo di verde, cercando di dimostrare che combattere il global warming non equivale affatto a recessione economica, blocco dello sviluppo e degli stessi profitti, perché basta maggiore efficienza e lungimiranza per riparare i danni fatti finora da quello stesso modello di sviluppo.
Prosperità economica ed azioni in difesa dell’ambiente – sostiene il ministro tedesco dell’ambiente- non sarebbero quindi affatto in contraddizione, bensì "mutualmente dipendenti". In nome del "futuro del pianeta", d’altra parte, si sfidano gli stessi contendenti alla nomination presidenziale negli USA, cercando di rimediare a decenni di sdegnoso disinteresse per le conseguenze mondiali di un modello di sviluppo energivoro e consumistico. Di "Guerra Giusta" in nome dell’ambiente parla addirittura il Segretario Generale dell’ONU, che nel suo articolo su TIME afferma che un pianeta più verde sarà anche un pianeta più giusto e pacifico, dal momento che "il fondamento della pace e della sicurezza per tutti i popoli sta nella sicurezza economica e sociale, ancorata ad uno sviluppo sostenibile […] Più che mai prima, le soluzioni devono collegare il locale ed il globale".
E allora? A noi Italiani tocca inseguire l’evaporazione delle ideologie classiche in nome del pragmatismo trasformista di una società sempre più priva di riferimenti e convinzioni e sempre più alla ricerca di capi da seguire, oppure cogliere la nuova sensibilità mondiale sui problemi dell’ambiente per rilanciare un’alternativa vera, evitando anche che il cinismo corrente finisca col presentarci Shell, Toyota ed altre multinazionali come i veri leaders di un ambientalismo che promette spudoratamente botti piene e mogli ubriache? Vogliamo lasciarci trascinare dal provincialismo leghista e neofascista di chi accomuna gli immigrati ed i parassiti meridionali in nome di una riscossa di chi sta bene e vuole stare sempre meglio, alla faccia di chi resta indietro, oppure vogliamo provare nuovamente a ritessere i fili di un progetto di sviluppo più equo e solidale, dove la necessaria scelta della "decrescita" non deve suonare come un inutile autolesionismo, ma piuttosto come una volontà di cambiare davvero le regole del gioco? Vogliamo forse lasciarci irretire da nuovi, improbabili, "uomini della Provvidenza" che ci rassicurino e ci evitino di scegliere da soli, oppure vogliamo costruire dal basso una nuova democrazia, più condivisa e partecipativa e fondata sullo spirito comunitario?
A noi la scelta. ma non dimentichiamo mai che il primo principio di una vera ecologia è quello della responsabilità personale e che nessun "capo" né tendenza culturale né organizzazione ci esime dal ragionare con la nostra testa e dal decidere secondo coscienza.
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