Le Quattro Giornate di Napoli come difesa civile e popolare

imagesSettant’anni dopo…

Che cosa rimane nell’immaginario collettivo, a distanza di settant’anni, di un glorioso episodio di resistenza popolare e civile alla violenza di una dittatura militare ? Me lo sono chiesto in questi caldi giorni di fine settembre,  mentre si sta celebrando il 70° anniversario delle Quattro Giornate di Napoli, alternando le solite commemorazioni ufficiali con eventi culturali diffusi sul territorio. Che cosa significa per i napoletani di oggi quell’incredibile pezzo di storia patria – come si diceva una volta –  e, visto che si continua a ripetere che la storia è “magistra vitae”, quale insegnamento  ci ha lasciato?  A dire il vero la frase completa  della citazione ciceroniana era : Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis (De Oratore II, 9) e perciò, anche in questo caso, viene da chiedersi: di quali tempi quella storia è testimonianza, quale verità illumina ed a quale memoria ridà la vita di cui dovrebbe appunto essere “maestra”, non limitandosi ad essere “messaggera del passato” ?

Se scorriamo velocemente le pagine dei giornali delle quattro giornate di questo 2013, l’impressione è che quell’insegnamento ha lasciato una traccia molto esigua.  L’unico fatto registrato dalle cronache cittadine che ci riporta inopinatamente a quei giorni di 70 anni fa è stato il ritrovamento nella zona orientale di Napoli di un ordigno bellico inesplosa della seconda guerra mondiale. Probabilmente una delle migliaia di bombe sganciate a quei tempi sulla città dagli anglo-americani, provocando oltre 25.000 vittime civili, di cui 3.000 persone morte nel solo bombardamento ‘alleato’ del 4 agosto 1043.  Fatta eccezione per questo macabro souvenir di quei drammatici giorni, le pagine dei nostri quotidiani c’informano piuttosto sugli assassini collettivi di oggi, che non sganciano più bombe dal cielo ma nascondono rifiuti tossici sotto terra oppure conservano in ambienti inadatti e malsani tonnellate di cibi avariati da riciclare. Certo, si riferisce anche delle celebrazioni delle storiche giornate della Liberazione della città, ma la vera cronaca ci racconta ben altro e di tutt’altro discutono tra loro i napoletani. Che si tratti della querelle sul destino dello stadio partenopeo o della situazione esplosiva delle carceri; dei ritrovamenti di armi e droga nascoste o delle solite truffe e rapine ai già pochi turisti, viene proprio da chiedersi che n’è stato di quel popolo che 70 anni fa seppe trovare il coraggio di opporsi, con la forza della disperazione, al più potente esercito del mondo, facendolo battere in ritirata.

Ho letto  sul “Corriere del Mezzogiorno”  l’intervista di Mirella Armiero a Gabriella Gribaudi,  docente ordinaria di Storia Contemporanea  al Dip. to di Scienze Sociali della Federico II di Napoli, autrice fra l’altro del libro: Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte meridionale 1940-44, Torino, Bollati Boringhieri, 2005. Ebbene, l’aspetto che mi ha colpito della sua interpretazione delle “Quattro Giornate di Napoli” è racchiuso già nel sottotitolo dell’intervista e riguarda la natura autenticamente popolare e ‘dal basso’ di questo primo e glorioso episodio della liberazione dell’Italia dal nazifascismo.  Ammettiamolo: la nostra storiografia ama poco questo approccio, preferendo di solito restare nell’ambito rassicurante delle interpretazioni politicamente connotate,  tendenti ad enfatizzare determinati aspetti e ad espungerne altri,  laddove non rientrino nella tesi da dimostrare. E’ altrettanto innegabile il rischio di cadere, viceversa, in narrazioni venate di fastidioso populismo e stucchevolmente folcloristiche, che non sono però meno politiche ed unilaterali.

Credo  che il principale esempio di lettura unilaterale delle vicende che portarono Napoli – la prima città d’Europa  a liberarsi  da sola dal gioco nazista – sia stato il fatto stesso di puntare i riflettori solo sulle “quattro giornate”  in senso stretto (27-30 settembre 1943), trascurando d’inquadrare questo episodio in un contesto storico e sociologico più ampio, che potrebbe invece fornire utili elementi d’interpretazione.  In un mio contributo  di venti anni fa, infatti, sottolineavo che la resistenza all’opprimente regime che schiacciava Napoli è già leggibile  nella dura repressione  della manifestazione pacifista degli studenti, convocata a piazza del Plebiscito  il 1° settembre,  per cui ho provocatoriamente intitolato un altro mio scritto “Le Trenta Giornate di Napoli” (in: AA.VV., La lotta non-armata nella Resistenza, Roma: Centro Studi Difesa Civile – Quaderno n.1).

Resistenza al nazifascismo o ribellione spontanea ?

Il nodo intorno al quale si è avviluppata in questi decenni la lettura storica delle Q.G. è sempre stato quello di far rientrare quella vicenda nelle tradizionali categorie della insurrezione spontanea oppure delle rivoluzione organizzata e strutturata. Il problema è che, come scrivevo allora: “…sia i testi d’ispirazione liberaldemocratica, sia quelli ideologicamente orientati in senso marxista, non si differenziano poi di molto quando affrontano la guerra e la violenza, o meglio, quando fanno praticamente dipendere l’evoluzione della civiltà umana da una sequela di battaglie e rivoluzioni, di cui i popoli restano sostanzialmente spettatori e vittime, mai protagonisti reali. Una chiave di lettura più politica o più economicista non modifica, infatti, i rapporti emergenti dai manuali di storia, lasciando negli studenti la netta sensazione che senza ‘leaders’ e senza generali non si faccia storia…”  (Ermete Ferraro, “La resistenza napoletana e le ‘quattro giornate’: un caso storico di difesa civile e popolare”, in: a cura di A. Drago e G. Stefani, Una strategia di pace:la difesa popolare nonviolenta, FuoriTHEMA, 1993, pp.89-95). La versione delle Q.G. che la prof.ssa Gribaudi accredita nell’intervista citata sembra fortunatamente andare contro corrente, restituendo alla gente di Napoli il ruolo di protagonista troppo spesso attribuito a quadri politici e militari o, sul versante opposto, ad una massa indistinta di popolani e scugnizzi.

«L’interpretazione delle Quattro giornate è sempre stata politicizzata. La sinistra però le ha mitizzate fino a un certo punto. In un certo modo se n’è impadronita e ha cercato di enfatizzarle come primo episodio della Resistenza, ma al tempo stesso il moto non rispondeva ai modelli della lotta comunista e quindi è stata considerata una rivolta di serie B. In realtà le Quattro giornate sono davvero una rivolta dal basso, avvenuta quando non c’era ancora il Comitato di liberazione nazionale. La ribellione ai tedeschi si organizzò in base ai quartieri e alle strutture di base della città. Parteciparono i soldati e anche gli studenti che erano larvatamente antifascisti. Ma bisogna considerare che l’antifascismo ancora non esisteva in forme organizzate». http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/arte_e_cultura/2013/13-settembre-2013/ricordo-4-giornate-napolitanogribaudi-letture-sono-troppo-politiche-2223077009042.shtml

La verità è che i napoletani hanno cominciato a reagire all’arroganza militarista dei tedeschi già nei primi giorni di settembre del ’43 e che in quella resistenza c’era un po’ di tutto: dai soldati sbandati dopo l’armistizio agli studenti liceali ed universitari, infiammati da alcuni professori antifascisti; dagli uomini direttamente minacciati dai feroci diktat nazisti alle loro famiglie, donne in testa, che fecero il possibile e l’impossibile per evitarne il rastrellamento. In questo senso la Gribaudi parla di “moto insurrezionale”, sottolineando però anche l’insubordinazione massiccia dei napoletani al proclama del col. Schöll ed alle intimidazioni dei fascisti locali (su 30.000 giovani precettati se ne presentarono solo 150). Quella che scattò allora, a mio avviso, fu un’autentica “auto-difesa” di una Napoli umiliata e offesa, colpita nella dignità ma in primo luogo negli affetti più cari. Dietro questa rivolta c’erano stati momenti di coordinamento ed una sorta di strategia, ma personalmente vedo affiorarne soprattutto la forza antica e disperata d’un popolo con alle spalle secoli di oppressione straniera, di occupazioni militari e di regimi dispotici, e che non è più disposto ad “obbedir tacendo e tacendo morir”

Il luogo comune che vorrebbe ridurre la rivolta della gente di Napoli a quattro giorni di combattimenti è poi lo stesso movente della riduzione del numero delle sue vittime a poche decine, mentre la prof.ssa Gribaudo riferisce di 663 morti – 69 dei quali donne- riscontrati nei registi dei morti del Comune di Napoli. Si tratta di un numero che lascia pensare ad una partecipazione abbastanza diffusa della popolazione civile, il cui inquadramento politico e militare era comunque piuttosto esile e le cui motivazioni sono ideologizzabili fino ad un certo punto.

Questo non significa che si sia trattato di una rivolta spontaneistica da nuovi ‘masanielli’ o che si possa enfatizzare interessatamente la c.d. “rivolta degli scugnizzi”, insistendo sulla retorica perversamente folcloristica del ‘bambino-soldato’, immortalato da dozzine di fotografie che ritraggono nugoli di ragazzini dei vicoli che stringono fucili più alti di loro. Il risultato di questo contrapporsi di versioni negazioniste o troppo ideologizzate è stato – come giustamente sottolinea la storica nell’intervista citata- che “…destra e sinistra hanno fatto sì che l’insurrezione di Napoli fosse tirata di qua o di là politicamente senza analizzarla sul serio. […] Nell’immaginario collettivo si diffonde non la Napoli che disobbedisce ma quella delle prostitute e del mercato nero, che conferma gli stereotipi già esistenti sulla città. […] La città viene sempre ricordata per i suoi atteggiamenti compromissori, per la scarsa politicizzazione. Invece quell’episodio racconta un’altra storia di Napoli”.

Oltre negazionismo, riduzionismo e retorica partigiana: una lettura delle Q.G. come resistenza civile

A settant’anni da quegli eventi storici penso che sia giunta l’ora di dismettere la retorica e di analizzarli seriamente, senza pregiudizi e senza tesi precostituite. Purtroppo la scarsa diffusione del pensiero nonviolento e delle varie teorie esistenti sulla difesa civile non consentono di valutare adeguatamente l’importanza d’un episodio significativo come le Q.G. di Napoli. Un libro recente come quello di Antonino Drago (Le rivoluzioni nonviolente dell’ultimo secolo. I fatti e le interpretazioni, Roma, Edizioni Nuova Cultura,2010) risulta quindi  particolarmente utile a chi voglia comprendere la diffusione di esperienze di difesa popolare, nonviolenta, sociale e comunque non armata , di cui 67 censite nel solo periodo dal 1972 al 2005. Le domande formulate dagli studiosi partecipanti al convegno di Oxford del 2007 sono comunque utili per analizzare anche episodi precedenti di resistenza civile. Esse riguardano gli attori principali di queste rivolte, le motivazioni delle coalizioni, gli strumenti utilizzati, la politica risultante, le effettive ripercussioni sul sistema politico e se i resistenti abbiano subito violenza e in che misura.

Lo studio più completo e recente in proposito ha rivelato che nel secolo scorso ci sono state nel mondo ben 323 rivoluzioni. Di quelle che hanno presentato una caratterizzazione latamente non violenta si è rivelata vittoriosa 1 su 1, mentre nel caso delle rivoluzioni violente il successo è riscontrabile solo in 1 caso su 4. Secondo l’analisi di A. Drago, le caratteristiche di queste fondamentali esperienze, di cui troppo poco si parla, sono sostanzialmente. (a) la consapevolezza che nonviolenza non vuol dire passività; (b) la trasformazione creativa e non violenta della realtà; (c) il coinvolgimento di persone di ogni classe ed età; (d) l’utilizzo di reti di persone che propongono una trasformazione profonda della società. E’ questo, ribadisce Drago, che ha consentito alle rivoluzioni nonviolente di “frantumare la forza della repressione”.

Ebbene, se rileggiamo la liberazione di Napoli del 1943 alla luce di queste considerazioni, è possibile riscontrarvi l’utilizzo di tutte le tecniche della resistenza non violenta: dalla disobbedienza civile alla creazione di organi di governo paralleli; dalla solidarietà con le altre vittime dell’oppressione alla non-collaborazione con gli oppressori; dal boicottaggio nelle sue varie forme all’impiego di altre forme di opposizione non armata. Stando ai parametri sopra elencati, appare chiaro che la consapevolezza di questa lotta popolare e civile non fu sicuramente alta né diffusa, ma è innegabile che le Q.G. abbiano coinvolto in una resistenza per nulla passiva persone di ogni età ed estrazione, creando reti territoriali di coordinamento della resistenza e di diffusa solidarietà sociale.

“Il 1° ottobre, quei carri armati che avevano sfilato minacciosamente contro i giovani pacifisti abbandonano per sempre una città che li ha saputi scacciare con la sua forza d’animo prima ancora che con moschetti e bombe a mano. I 47 ostaggi in mano ai tedeschi, nel campo sportivo del Vomero, vengono liberati in cambio della vergognosa fuga di Schöll. L’uomo che avrebbe dovuto ridurre Napoli “fango e cenere” ne fugge in un’auto chiusa, che ostenta fazzoletti bianchi in segno di resa…” (E. Ferraro, op.cit. , p. 93)

In questi giorni, ricercando su Internet immagini di archivio sulle Q.G., ho dovuto constatare con disappunto che rappresentavano al 95% barricate di giovani armati, vittime crivellate dai colpi del ‘nemico’ oppure spavaldi scugnizzi con improbabili elmetti sulle teste rasate ed enormi fucili tra le esili braccia. Ovviamente questo è un altro frutto della solita retorica della resistenza armata, ma rappresenta anche un oggettivo dato storico-documentario. E’ ovviamente molto più facile raffigurare scene di guerriglia e di lotta armata anziché episodi di resistenza civile, fondata sulla non-collaborazione o sulla disobbedienza. Sappiamo bene che la solidarietà, la fermezza, la dignità non sono fotografabili come una barricata fumante o un ribelle che lancia una bomba a mano. Questo però non dovrebbe mai farci dimenticare la lezione di tante rivoluzioni civili e, nel caso specifico, non deve ridurre le Q.G. di Napoli ad un episodio della liberazione dell’Italia dal 4 giornate 2013nazifascismo da enfatizzare retoricamente o da ridurre in modo caricaturale.

La resistenza dei Napoletani è stata e resta un eccezionale modello di opposizione vincente ad un feroce regime militare. Rappresenta dunque un fondamentale esempio di difesa civile ed autenticamente popolare che, a distanza di 70 anni, sarebbe inutile ed ipocrita rievocare, se non c’è la volontà di trarne spunto per una nuova resistenza contro l’ingiustizia sociale, la devastazione ambientale, l’occupazione militare del territorio e la narcotizzazione della coscienze che produce rassegnazione.

© 2013 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

21 settembre, Giornata internazionale della pace

1185067_720472841312856_467797743_nUn appello a riflettere e ad impegnarsi per la pace

E’ sempre positivo che qualcuno ci richiami alla mente che non esistono solo le nostre preoccupazioni quotidiane, i disagi vissuti in prima persona, i problemi nei quali siamo immersi.

E’ un bene che qualcuno ci ricordi ogni tanto che i problemi non sono soltanto quelli di cui ci parlano continuamente – talvolta in modo ossessivo –  i media e che, anche in quei casi, il ruolo  che possiamo giocare nella loro soluzione è molto più che essere passivi spettatori di eventi più grandi di noi e sui quali non possiamo influire in alcun modo.

Il messaggio del Segretario generale dell’O.N.U. in occasione della Giornata internazionale della Pace – 21 settembre 2013, ([1]) al di là della ritualità tipica di qualsiasi celebrazione periodica, quest’anno sembra assumere una particolare importanza. A nessuno sfugge, infatti, che nei giorni scorsi si è pericolosamente sfiorata una drammatica crisi, non solo nell’area interessata direttamente o indirettamente dal conflitto siriano, ma addirittura a livello mondiale.

Allo stesso modo, credo che a nessuno sia sfuggito quanto sia stato di capitale importanza, in tale frangente, l’accorato appello contro la guerra lanciato da Papa Francesco, simile a quelli lanciati in passato dai suoi predecessori eppure reso incisivo ed efficace da una concretezza ed autorevolezza del tutto particolari.

Il richiamo alla riflessione, personale e collettiva, sull’educazione alla nonviolenza da parte del Segretario delle Nazioni Unite – un organismo percepito sempre meno all’altezza del suo ruolo di garante della sicurezza e della pace sul nostro pianeta – potrebbe suonare come una conferma dell’impotenza di un organo di arbitrato paralizzato da veti contrapposti e poco autorevole. Eppure ritengo che l’appello a riaffermare la fiducia nei mezzi pacifici di risoluzione delle controversie internazionali – “ripudiando” la guerra come soluzione, come c’impone di fare proprio la Costituzione Italiana – non sia un segno di debolezza , bensì l’affermazione di una visione della pace che non sia solo il contrario di quella guerra, ma un processo più ampio e globale, che coinvolga tutti/e, a tutti i livelli ed a partire dal basso.

Tra le vittime dei conflitti armati – sulle quali Ban Ki-moon c’invita a riflettere – ricordiamoci che in qualche modo ci siamo anche noi, nella misura in cui la prima guerra che ci colpisce tutti/e indistintamente è quella contro la verità, la giustizia e la solidarietà umana. Lottare per diffondere e migliorare l’istruzione non basta, anche se è indispensabile. In un mondo avvelenato da menzogne e mistificazioni della realtà non è sufficiente saper leggere e scrivere, per cui l’educazione di cui parla il Segretario dell’O.N.U. non può essere banalizzata come una pura e semplice istruzione. Essa richiede invece un insegnamento molto più profondo, perché affonda nelle nostre coscienze e ci propone un modello di vita dove i conflitti non spariscono per magia, ma sanno cercare e percorrere soluzioni creative anziché distruttive.

Ecco perché ai nostri figli e nipoti abbiamo sì il dovere d’insegnare i valori non negoziabili della pace, della tolleranza, del rispetto reciproco, dell’inclusione e dell’equità – come egli ci ha suggerito di fare – ma dobbiamo soprattutto praticare, qui e ora, queste grandi virtù, al tempo stesso laiche e profondamente religiose.

“Combattere” per la pace, per “difendere” l’importanza di risoluzioni non armate ai conflitti, non comporta alcuna contraddizione in termini. La pretesa delle forze armate di mantenere il monopolio sul concetto stesso di “difesa” – anche in Italia dove sul piano teorico e normativo si erano fatti grandi passi avanti – è infatti alla base della generale ignoranza nei riguardi delle pur numerosissime e spesso vincenti esperienze di difesa civile, popolare e nonviolenta.

Ritengo che plagiare l’opinione pubblica, insistendo ostinatamente sul ricatto secondo il quale l’unica alternativa agli interventi armati sarebbe un colpevole disinteresse per le vittime di quei conflitti, sia la prima e manifestazione di una diffusa mentalità bellicista che debba essere  “combattuta” da chi crede nella nonviolenza attiva e nell’educazione alla pace.

In un mondo che – come aveva lucidamente profetizzato George Orwell 65 anni fa ([2])– utilizza sempre più una subdola Neolingua, per farci credere che le operazioni di guerra sono ‘missioni di pace’ e che garantire con le leggi privilegi e disparità piuttosto che parità e giustizia si configuri come una ‘riforma’ , non c’è da meravigliarsi se la mente delle persone rischia di essere contagiata dal ‘bispensiero’  che rende razionali anche le cose più assurde.

Nessuna meraviglia, inoltre, anche che il movimento per la pace appaia sempre meno adeguato a fronteggiare le sfide di una pervasiva militarizzazione del territorio e della società e di quei conflitti armati che sono il frutto velenoso del crescente peso del complesso militar-industriale sulle scelte economiche e politiche mondiali.

Premesso questo preoccupante quadro generale, c’è ancora qualcosa che possiamo fare?

L’ecopacifismo come risposta al militarismo ed allo sfruttamento ambientale

Già alcuni anni fa sono tornato sulla necessità di riproporre l’Ecopacifismo come un gandhiano “programma costruttivo”, capace di costituire un’alternativa sia a quel “Military-Industrial Complex” di cui si parla apertamente dal secondo dopoguerra, sia al modello di sviluppo antropocentrico, predatorio, energivoro  ed iniquo che caratterizza la maggioranza delle nostre società. In quell’occasione scrivevo:

“I tragici avvenimenti di questi anni ci hanno dimostrato  che il disastro ambientale e la persistenza e diffusione delle guerre sono strettamente connesse tra loro. Le politiche di consumo e di produzione degli stati e quelle relative alla c.d. ‘sicurezza nazionale’ sono ormai talmente collegate da mettere a serio rischio la sopravvivenza stessa del Pianeta. Ciò premesso, diventa ancor più inspiegabile la banalizzazione e frammentazione del movimento ambientalista e la sua mancata alleanza con quello pacifista, contro la guerra e per il disarmo e la smilitarizzazione del territorio.” ([3])

Impegnarsi contro una globalizzazione basata sulla conferma delle disparità e sulla ‘monocoltura delle menti’ prima ancora che dei campi, mi sembrava e continua a sembrarmi il modo migliore per lavorare per la pace e per il rispetto delle diversità biologiche, ma anche culturali. La proposta che scaturiva da quell’articolo di due anni fa risentiva dell’attualità e partiva non a caso dalla lotta al nucleare – civile ma anche militare – per suggerire un percorso comune al movimento ambientalista ed a quello pacifista e nonviolento. I temi dell’etica ambientale (tutela della biodiversità, difesa della Terra dall’aggressione di uno sviluppo suicida, lotta ad ogni inquinamento, compreso quello elettromagnetico…) si armonizzano bene con quelli dell’opposizione ad un sistema dominato dalle “banche armate”, che militarizza la società e la ricatta contrabbandando come fonte di “sicurezza” quelli che sono solo apparati di morte. Ecco perché mi sento di riproporre con forza un ecopacifismo che sappia coniugare l’impegno per il disarmo e la difesa nonviolenta con quello per un mondo che riscopra la Terra come un bene inestimabile da custodire e non da sfruttare.

In quell’articolo ricordavo la testimonianza a tal proposito – proprio in occasione di un precedente 21 settembre – di Giorgio Nebbia, il quale scriveva: Se ci si volta indietro, nei sessantasei anni trascorsi dalla pace del 1945, quando finì l’ultima “grande guerra”, non c’è stato un solo giorno di vera pace nel mondo, non un solo giorno in cui, da qualche parte, le truppe di stati o le milizie o gruppi armati non abbiano fatto sentire il rumore di cannoni o di mitragliatrici. […]Dietro le scuse “ufficiali” di difesa di diritti politici o umani o dietro motivi religiosi o con la scusa di assicurare a qualcun altro la libertà da qualche cosa, c’è sempre stata la volontà di impossessarsi di beni territoriali o ambientali “altrui”: la conquista di terre fertili, o di spazio, o di risorse naturali o il controllo dell’acqua dei fiumi.[…]
3000 miliardi di euro all’anno sarebbe perciò il “valore monetario” della pace, soldi che potrebbero essere investiti nelle armi della pace: anche la pace, infatti, ha le sue armi che sono scuole, ospedali, abitazioni, acqua, servizi igienici, sicurezza nelle proprie terre e nei propri campi, cibo e miglioramento dell’ambiente, occupazione. Ma non ci sarà mai pace fra gli esseri umani e con l’ambiente naturale senza una equa distribuzione dei beni che la Terra offre e che sono grandi e sarebbero sufficienti per tutti; la pace è figlia della giustizia, lo diceva anche il profeta Isaia, tanti anni fa, e, parafrasandolo, si può ben dire che l’ambiente è figlio, a sua volta, della pace”. [[4]]

Oggi –  in un clima ancora pervaso dagli isterismi bellicisti di coloro che sembrano ispirarsi all’opzione opposta – in cui la guerra è figlia dell’ingiustizia e di un modello di sviluppo che distrugge l’ambiente – quello che possiamo augurarci, aderendo all’appello del Segretario Generale dell’O.N.U., è che l’umanità prenda finalmente coscienza del tragico connubio fra militarismo e sfruttamento dell’uomo e del Pianeta in cui vive.

E’ quello che abbiamo espresso ancora una volta, come ecopacifisti di VAS e come attivisti della Rete Campana per la Civiltà del Sole e della Biodiversità, partecipando alla manifestazione contro la guerra che si è tenuta lo scorso 7 settembre, davanti alla chiesa Cattedrale di Napoli (vedi foto).  La strada da percorrere è ancora lunga e le forze in campo sembrano insufficienti, ma non dobbiamo dimenticare che, come diceva Gandhi: “Non esiste una via alla pace, la pace è la via”. A chi, come l’attuale ministro italiano della “difesa” ha neolinguisticamente affermato che “per amare la pace bisogna armare la pace”  dobbiamo contrapporre la determinazione di chi sa bene che – per citare il Papa – “la guerra porta alla guerra” e che l’impegno quotidiano per la pace, la giustizia e la salvaguardia dell’ambiente è la sola e vera alternativa.

© 2013, Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

 


USA ‘CONDANNATI’ ALLA PREPOTENZA?

US new SEALStavo dando una rapida scorsa a “la Repubblica” di sabato 31 agosto – mentre ero affaccendato nei preparativi per il ritorno a Napoli dopo la pausa della vacanza al mare – quando mi è capitato sott’occhio un articolo di Vittorio Zucconi intitolato: “Odiata e indispensabile: la condanna dell’America a finire in prima linea”.  A questo punto non ho potuto fare a meno di mollare ciò che stavo facendo per immergermi nella lettura del corsivo dell’autorevole  politologo italo-statunitense, imperniato su una tesi decisamente originale. Il senso ne è condensato nell’incipit : “Stanno conducendo di nuovo gli Stati Uniti verso un’azione che nessuno a Washington davvero vuole, ma che tutti sanno essere ormai inevitabile” e trova una spiegazione verso la fine dell’articolo: “La prepotenza americana è l’indicatore inverso della impotenza altrui. Di fronte al vuoto di volontà, di determinazione, di semplice capacità d’azione, Washington si lascia risucchiare ancora e ancora”. Qualcuno potrebbe chiedersi, a questo punto, perché mai la prima superpotenza economico-militare sia talmente fragile alle suggestioni e così maledettamente esposta alle carenze del resto del mondo. A quel qualcuno Zucconi risponde da par suo, con una frase degna di un epitaffio: “Ma l’America non può fare a meno di essere l’America, di sentirsi chiamata a rispondere e ad indossare la responsabilità di essere insieme il protettore e la vittima, il poliziotto e il killer nella viltà del mondo… Non c’è un’altra America, ma soltanto questa, la somma di tutti i successi e i disastri della storia contemporanea, sempre più sola, sempre meno amata, sempre più indispensabile.”.

Che dire: mi sono venuti i brividi di fronte a questa prosa dalla tragicità quasi eschilea, che evoca un fato ineludibile contro cui nessuno, neanche il potente Presidente USA, può far nulla… “Neppure Zeus al suo fato può sfuggire” faceva dire infatti Eschilo al suo Prometeo incatenato e confesso che questa immagine del Nobel per la pace Obama,  anche lui “incatenato” al terribile destino di un’America che non può che essere se stessa, mi ha quasi commosso…

Fa male Giorgio Cattaneo – in un suo pungente articolo su “Globalist” dal titolo “Obama, Cappuccetto Rosso e altre fiabe” –  a sbeffeggiare Vittorio Zucconi, definendolo “favoliere” e ridicolizzandone la tesi secondo cui sarebbe l’inerzia del resto del mondo a ‘condannare’ gli americani ad un interventismo che non è certo una novità. Non siamo di fronte ad una fiaba, ma a pura tragedia greca. Le Moire – lo preciso per quei pochi che di Moira conoscono solo la Orfei – erano le tre mitiche dee del destino, che stavano dietro l’ineluttabilità cieca che conduceva i destini degli umani, cui nessuno poteva resistere. Cloto ‘filava’ , Lachesi ‘fissava la trama fatale e Atropo rappresentava la fatalità conclusiva e definitiva: quella della morte.  Ebbene, a quanto pare, anche dietro l’irresistibile e fatale “condanna” degli USA a fare, loro malgrado, da gendarmi del mondo, secondo Zucconi ci sarebbe lo zampino delle tre dannate vecchiacce.

Ogni altra spiegazione, per il nostro politologo made in USA, non avrebbe senso e sarebbe viziata dal solito, vieto, antiamericanismo: «La spiegazione di comodo, quella che la faciloneria dell’ideologismo antiamericano sta risfoderando anche in questi giorni, è che l’interventismo Usa sia soltanto il braccio armato degli interessi commerciali, industriali e oggi finanziari degli americani, mentre una piccola, ma tenace setta di allucinati arriva ad accusarli addirittura di creare gli incidenti che giustificano l’azione armata, dalla distruzione delle Torri Gemelle fino alla fornitura di gas ai ribelli siriani per “autogasarsi” e così provocare la spedizione punitiva contro Assad».

Ma come diavolo ci si può lasciar andare a tesi “complottiste”, sostenendo che dietro decenni di guerra fredda prima e di guerre poi – tutte combattute per iniziativa e sotto la guida degli Stati Uniti – possano nascondersi interessi economici ed ambizioni imperialistiche? La tragica verità, ci spiega magistralmente Zucconi, è che se gli USA continuano fatalmente a “lasciarsi risucchiare in azioni armate” è solo perché l’America è sempre l’America, e non può permettere che il male prevalga sul bene!

Oddìo, forse l’articolo non è del tutto chiaro in qualche punto. Ad esempio, non si capisce bene a chi si riferisca il giornalista quando scrive che “stanno conducendo di nuovo gli Stati Uniti verso un’azione che nessuno davvero vuole ma che tutti sanno essere ormai inevitabile”. Chi c’è dietro quel verbo alla terza persona plurale: le Moire greche o altre forze misteriose e trascendenti? E poi, chi si nasconde dietro quel “nessuno” che aborre così tanto la guerra, forse l’Outis omerico, il “Nessuno” nato dall’ingegno di Ulisse?

E chi sono mai quei “tutti” che, viceversa, la ritengono comunque “inevitabile”?

Questi particolari, però, nulla tolgono all’immagine davvero tragica di uno Stato che riesce ad essere, al tempo stesso, “protettore e vittima, poliziotto e killer”. Il destino cui gli USA devono fatalmente cedere, nonostante la loro potenza ed a costo di farla diventare prepotenza, è tratteggiato da Zucconi come un’ineludibile sentenza del Fato, che peraltro non le riserva neppure concreti vantaggi. Trattasi infatti, spiegail giornalista, di azioni «dalle quali non traggono né conquiste territoriali né bottini di guerra […] neppure l’antiamericano più allucinato può sostenere che dai 15 anni di emorragia in Vietnam, dai dodici in Afghanistan e dai dieci in Iraq, Washington abbia tratto vantaggi imperiali».

E’ questo l’elemento più rilevante di quella che – citando la nota opera scritta nel 1925 da Theodor Dreiser – potremmo definire la vera “tragedia americana”. Dietro portaerei e caccia americani non c’è nessuna sete di egemonia politica né di colonialismo economico, ma soltanto la dura necessità di evitare che la vigliaccheria degli altri paesi consenta al Male di avere la meglio. Tutto qua.
E, come sottolinea anche Cattaneo nel suo articolo: “…guai al povero Obama, che “non ha scampo”. Perché «non c’è un’altra America», ma soltanto questa, «sempre più sola, sempre meno amata, sempre più indispensabile». E’ lui il vero eroe tragico di quest’America paradossale:  isolata ma da tutti invocata, osteggiata ma di cui non si può fare a meno, combattuta come simbolo del complesso militare-industriale eppure regolarmente tirata in ballo da chi non ha il coraggio d’intervenire in difesa della libertà.

E’ quella stessa libertà cui inneggiano grandi e piccoli negli Stati Uniti quando, con la mano sul cuore, cantano in coro le solenni note del patriottico inno “America the Beautiful”:

“O beautiful for heroes proved / In liberating strife. / Who more than self their country loved / And mercy more than life! / America! America! / May God thy gold refine / Till all success be nobleness /And every gain divine!”.

E’ l’eroico destino di cui parla Zucconi che chiama l’America a quella “lotta liberatrice” che caratterizza “chi ha amato il suo Paese più di sé e la misericordia più della vita”.  Smettiamola quindi con la “faciloneria dell’ideologismo antiamericano” e rendiamoci conto di quale drammatico sacrificio stiamo ancora una volta chiedendo alla “nobleness” dell’America col nostro atteggiamento vile e con la nostra deprecabile “impotenza”. E, soprattutto, basta con la retorica pacifista e con gli attacchi a chi ha ricevuto in sorte un sì oneroso compito da svolgere.

Qualche anno fa Vittorio Zucconi ha efficacemente intitolato un suo libro: “L’Aquila e il Pollo Fritto. Perché amiamo e odiamo l’America (Milano, A. Mondadori, 2008). Scriveva già nel I sec. a.C. il poeta latino Catullo nel suo carme 85: “Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.  Nescio, sed fieri sentio et excrucior.”

Ebbene, anche noi siamo afflitti da questa contraddizione ma, a quanto pare, non c’è nulla da fare. Quest’odio-amore – ahime! – fa parte del destino anche degli Stati Uniti, di cui tutti gradiscono l’ottimo pollo fritto, ma assai meno l’aquila imperiale dello stemma, più disposta a lanciare le frecce che stringe nella zampa sinistra che a sventolare il ramoscello di ulivo che impugna con la destra. Anche il “pacifista” Obama farà così nei confronti della Siria? Lo sapremo presto ma, si sa, le tragedie finiscono sempre molto male…

© 2013 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )