L’ARPIA BIRMANA

                                       di Ermete Ferraro 

Potenza dei media! In pochi giorni siamo riusciti a scoprire tre cose: 1) che esistono ancora i Birmani; 2)  che da 45 anni sono sottoposti a una dittatura militare inesorabile e 3) che c’è voluta una rivolta nonviolenta, guidata da migliaia di monaci perché questo fosse possibile…

E’ dai tempi della rivoluzione gandhiana che l’umanità ha scoperto e chiarito l’incredibile forza della resistenza nonviolenta ad un regime ingiusto e repressivo, eppure sono ancora troppo pochi quelli che sono riusciti a superare il banale stereotipo del rifiuto della violenza e della lotta armata come vigliaccheria o rinuncia a reagire, riuscendo invece a percepirne l’enorme potenzialità come strategia alternativa e costruttiva.

In questi giorni, le colorate ed incerte immagini via internet della strabiliante processione pacifica dei monaci buddisti birmani per le strade della capitale del Myanmar –  uno stato di cui molti, diciamolo, ignoravano perfino l’esistenza – sembrano aver improvvisamente risvegliato nelle nostre coscienze un’idea che l’attuale esasperante appiattimento dei valori e delle convinzioni tende invece a cancellare. Non si tratta solo della nostalgica riscoperta del fatto che, come si scandiva un tempo nei cortei, “el pueblo unido jamas sarà vencido!”, ma soprattutto dell’evidenza di una ferrea volontà di opporsi alla violenza e all’ingiustizia, rifiutandosi di accettarla e di collaborare con essa.

Certo, il regime militare di Myanmar  – dopo giorni di attonita sorpresa – ha brutalmente reagito, reprimendo violentemente la pacifica manifestazione di centinaia di migliaia di Birmani che non intendono rassegnarsi, e che vedono in quei monaci buddisti il segno di una riscossa morale e civile. La fin troppo prevedibile repressione di una dittatura che circa venti anni fa aveva già fatto quasi 3000 morti, si è quindi scatenata, colpendo innanzitutto quegli uomini di pace e poi chiunque cercasse di portare in tutto il mondo le immagini di un popolo che non si lascia intimidire e che vuole sfidare la violenza brutale del regime militare su un terreno profondamente diverso e per lei impraticabile.

Ora nulla può restare più come prima e – al di là della solidarietà verbale, un po’ ipocrita e impacciata al popolo di Myanmar –  la comunità internazionale non ha più nessuna scusa per far finta di niente, lasciando che quell’ottusa dittatura continui ad avere compiacenti coperture, con la scusa che si tratta di “affari interni” di quello sventurato paese, o peggio che goda dell’assenza d’informazione e di libertà, finora essenziali per non essere disturbata da intromissioni.

Nel 1956 uscì nelle sale cinematografiche, e fu presentato a Venezia, un film giapponese che si rivelò un capolavoro e diventò un classico: il suo titolo era “L’arpa birmana” (The Burmese Harp). Raccontava di un soldato giapponese – anima umile e mite e da sempre contrario alla guerra –  che era solito accompagnare le loro canzoni col suono triste della sua arpa. Mizushima, dopo la disfatta militare del suo paese in Birmania, decide di dare una svolta radicale alla sua esistenza. Diserta e diventa monaco buddista, consacrandosi totalmente alla missione di dare raccogliere i poveri resti dei caduti in battaglia, per dar loro sepoltura e, con quel gesto di religiosa pietà, per lanciare anche un inequivocabile messaggio di pace e di riconciliazione.

Le drammatiche – ma per certi versi epiche – immagini che ci sono giunte in questi giorni da Myanmar mi riportano alla mente quel famoso film, ridando nuova centralità alla forza della verità e all’efficacia indiscutibile della lotta nonviolenta, quel satyagraha di cui Gandhi è stato non solo il massimo teorico, ma anche il più importante ed efficace sperimentatore.

Il divieto di assembramento introdotto dalla giunta militare, come vediamo giorno per giorno,  non è riuscito affatto a fermare studenti e monaci buddisti. Al contrario, stanno aprendosi crepe all’interno della stessa giunta di governo e dell’esercito sulla repressione violenta della protesta disarmata di migliaia di birmani, che continuano anche in queste ore a mettere in pericolo la propria incolumità, affollando vie e piazze per protestare contro i militari. Intanto si è finalmente mossa l’ONU, col suo inviato, ed i governi dei vari paesi stanno valutando prudentemente – dopo anni di complice silenzio – se fare qualcosa in più che inviare equivoci messaggi di solidarietà.

Ciò che conta, però, è che la mostruosa dittatura militare – quella che nel titolo ho chiamato, con un gioco di parole,  "l’arpìa birmana" – è ormai in crisi, priva di unità al suo interno ed incapace di spegnere l’incendio pacifico che divampa a Myanmar, e che non può più essere nascosto.

Sarebbe tragico se quello cui stiamo assistendo non fosse di nessun insegnamento anche per noi, qui e ora. Per spezzare la rassegnazione all’inevitabilità della violenza e della guerra dobbiamo allora leggere quello che sta succedendo nell’ex-Birmania come un potente richiamo alla forza della resistenza nonviolenta, nella convinzione che riguarda anche noi e ricordando che, come affermava Gandhi:

"La non-violenza e la viltà vanno male insieme. Posso immaginare un uomo completamente armato che in fondo sia un vile. Il possesso delle armi sottintende un elemento di paura, se non di viltà. Ma la vera non-violenza è impossibile, se non si possiede un autentico coraggio."
 

LINGUE LIQUIDATE E LINGUE SOFFOCATE…

di Ermete Ferraro

 

Fra tante notizie stravaganti, inutili o di scarso interesse, sui giornali di oggi ne è comparsa, stranamente, una su una questione di cui i “media” abitualmente si occupano molto poco.

 “Nel mondo muoiono due lingue al mese”, strilla il titolo di un diffusissimo quotidiano gratuito nazionale, spiegando che l’allarme dei linguisti si riferisce ad una ricerca svolta dal “National Geographic”, in collaborazione col “Living tongues institute for endangered languages”).

Ebbene sì: anche se pochi lo sanno – e soprattutto ben pochi ne parlano- ogni due settimane scompare definitivamente una lingua, insieme con l’ultima persona in grado di parlarla. Si tratta di una strage silenziosa (e mai aggettivo fu più adatto…), le cui vittime non sono, come si potrebbe credere, stranissimi linguaggi di luoghi sperduti e disabitati, bensì interi repertori di civiltà, interi patrimoni culturali prima marginalizzati e poi spazzati via dalla globalizzazione galoppante.

Ovviamente, le lingue più fragili sono quelle prive di qualsiasi documentazione scritta, che assomigliano tanto a quei poveri barboni che vengono trovati morti per strada, senza niente che ne permetta almeno l’identificazione o la comprensione del perché sono finiti così tristemente.

Basti pensare alle 231 lingue aborigene australiane o alle 113 della tradizione andina ed amazzonica, la cui sopravvivenza è seriamente minacciata dalla predominanza dell’inglese.

Come cercano inutilmente di farci sapere da decenni sia gli studiosi dell’Istituto citato dal quotidiano  (www.livingtongues.org), sia tanti altri importanti centri di ricerca e di azione eco-linguistica (cito solo il noto “Ethnologue”: www.ethnologue.com, prezioso repertorio linguistico frutto del lavoro del S.I.L  www.sil.org ), non si tratta però di fatalità né di fatti privi d’importanza.

Le lingue minoritarie sono costantemente rimpiazzate da quelle dominanti, sotto il profilo politico, economico e socio-culturale. Ecco perché i due idiomi che scompaiono ogni mese si portano via con sé centinaia di generazioni di conoscenze tradizionali, codificate in quelle lingue definite “ancestrali”. Il risultato di questa strage di saperi è che, allo stato, la metà circa delle lingue presenti attualmente sul nostro pianeta sono destinate a dissolversi nel nulla entro il prossimo secolo, ad una velocità che supera quella di estinzione di qualsiasi altra realtà vivente, come risulta evidente dalla tabella che accompagna lo studio di David Harrison “When Language Die”, pubblicato nel 2007 dalla S.I.L.

Più del 40% delle lingue attuali sarà scomparso tra cento anni, mentre  percentuali molto minori di tipologie in via d’estinzione riguardano i pesci (5%), le piante (8%), gli uccelli (11%) ed i mammiferi (18%).  Ma attenzione, se facciamo benissimo a preoccuparci della sparizione progressiva di queste forme di vita animali e vegetali, e quindi dell’allarmante perdita di biodiversità che minaccia la sopravvivenza del nostro stesso pianeta, non possiamo pensare che la scomparsa di intere tradizioni e patrimoni etno-linguistici sia del tutto ininfluente nell’economia generale degli equilibri mondiali.

Da anni, non a caso, ho cercato di approfondire questo aspetto particolare dell’ecologia – chiamato appunto “ecologia linguistica” – nella profonda convinzione che sottovalutare questi fenomeni di cancellazione delle identità culturali sia un grave errore. Un errore che, purtroppo, conferma la frattura esistente tra una visione esclusivamente scientifica dell’ecologia (che si ferma allo studio della perdita di diversità biologica ed a soluzioni da contrapporvi per riequilibrare il carico ambientale del pianeta) ed una che, invece, potremmo chiamare “ecologia umana”, a sua volta comprensiva di quella “social ecology” di cui abbiamo tanto bisogno.

Ho affrontato questo aspetto in un mio breve saggio e per leggerlo, essendo inedito, basta accedere alla pagina della bio-biblio-sitografia del mio website (www.ermeteferraro.it/aboutme.htm ) e cliccare sul titolo “Voci soffocate”(2004). In questo scritto ho chiarito quello che credo sia un impegno prioritario per chiunque abbia a cuore che la predominanza massificante ed omogeneizzante di un unico modello socio-culturale non spazzi via ogni diversità culturale ed ogni possibilità stessa di pensiero divergente da quello dominante.

Nello stesso saggio ho sottolineato, poi, che non ci sono solo le lingue che il SIL definisce “moribonde”, ma anche quelle messe in pericolo e/o seriamente danneggiate dalla globalizzazione dei cervelli, prima ancora che delle merci.  E’ il caso di lingue anche importanti e per nulla “minoritarie”, come il nostro Napoletano, per le quali è indispensabile una legge di tutela e di valorizzazione, senza la quale continueremo ad assistere al tragico declino di un intero mondo di pensieri, di sentimenti e di comportamenti, e non solo ad un mucchio di parole “dialettali”.

Ma questa è un’altra storia, e ne parlerò un’altra volta.

Chi voglia approfondire subito questo problema, può comunque consultare il sito dell’Istituto Linguistico Campano (www.ilc.it ), leggendo e commentando anche gli articoli "postati" sul suo blog.

 

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NON FIORONI, MA OPERE DI BENE…

                                                                                            di Ermete Ferraro

 

E’ francamente sconcertante constatare che la c.d. riforma “progressista” della scuola  – che segue a ruota la precedente riforma c.d. “conservatrice” – riesca a produrre ulteriore confusione e contraddizioni nella mente di chi anche questo settembre è andato a scuola convinto di essere un insegnante, scoprendo però che sono nuovamente cambiate le regole del gioco. E’ sicuramente apprezzabile che chi guida la scuola italiana si preoccupi di evitare l’invecchiamento – e relativa sclerosi – del cervello dei docenti, mantenendolo costantemente sveglio e in esercizio con questi giochini di attenzione e di prontezza.

A Napoli, l’attitudine che probabilmente si vorrebbe suscitare nei docenti con questi “test” sarebbe sintetizzata più efficacemente citando il detto popolare: “attaccà ‘o ciuccio addò vô ‘o patrone”, visto che l’aggiornamento previsto per un docente sembra consistere principalmente nell’adeguamento del proprio lessico professionale alle direttive del Ministro in carica.

Vero è che oggi non va più di moda parlare di “direttive” e di “programmi” in senso prescrittivo, ma piuttosto  – senz’altro più elegantemente e democraticamente…- di “indicazioni nazionali ”.  La sostanza, però, non cambia ed anche io – come migliaia di docenti vecchi e nuovi, esperti o incerti, stagionati o alla prima esperienza – in questi giorni mi sono trovato a spendere parecchie ore nella lettura, interpretazione e commento del Documento del Ministro della P.I.      Ebbene, al di là della condivisione di alcune premesse ed affermazioni generali e dell’ovvia soddisfazione per il superamento di alcune “trovate” della precedente responsabile dell’Istruzione (tornata pubblica, se non altro nell’intestazione del Ministero), lo sconcerto mi ha assalito ben presto, di fronte a queste ennesime indicazioni. Lasciando stare le possibili considerazioni critiche sul suo impianto generale e sulla strutturazione dei cicli, mi colpisce la sconcertante incongruenza tra premesse dichiarate e proposte avanzate.

Già il precedente governo di centrodestra era stato capace di partorire una riforma della scuola italiana che, ben lungi dall’enfatizzare valori tradizioni e specificità nazionali, aveva addirittura ridotto le ore d’insegnamento della lingua italiana, cancellato di fatto la storia antica dalla scuola media e sbriciolato la vecchia “Educazione Civica” in una miriade di “educazioni” frammentarie, da ospitare, non si sa come, in un curricolo orario che non le prevedeva affatto.

Il Ministro Fioroni, invece, aveva esordito presentando la sua riforma della riforma con alcuni suggestivi slogans, fra i quali tutti ricordano quello sul ritorno all’apprendimento della grammatica, della storia e della geografia, in sostituzione delle “tre I” morattiane.  Molti docenti, allora, avevano tirato un bel sospiro di sollievo, sperando di tornare ad una centralità di saperi e competenze meno artificiosamente tecnologiche e globalizzanti e più vicine al contesto reale di tanti nostri alunni. Un contesto, non dimentichiamolo, in cui non l’Inglese, ma l’Italiano, continua troppo spesso ad essere la prima lingua straniera comunitaria; in cui l’Informatica s’identifica per tanti studenti quasi solo con i videogiochi del computer, per non parlare poi dell’Impresa, che a molti fa venire in mente, più che la creazione di qualificati posti di lavoro, la quasi eroica sfida che un sacco di persone devono affrontare ogni giorno per trovarlo, un lavoro qualsiasi…

Ecco, però, che se vai a leggerti bene le Indicazioni Nazionali dell’onorevole Fioroni, scopri invece che alla scuola media la grammatica è già data per appresa dagli alunni durante gli anni delle elementari; che l’unica storia che sembra oggetto di studio alle medie e quella che va dal Medioevo ad oggi, dedicando al ‘900 addirittura l’intero terzo anno, e che la revisione dei programmi di geografia di un governo “progressista” ha addirittura messo in ombra gli aspetti più specificamente “economici” di tale disciplina.

Dopo aver parlato tanto della centralità della “grammatica”, nei programmi del triennio delle medie sembrano sparite del tutto la fonologia, la morfologia e l’analisi della struttura e delle funzioni della frase semplice.  Vogliamo davvero far finta che siano già state imparate alle elementari, quando la realtà quotidiana ci presenta sempre più casi in cui occorre partire dall’alfabetizzazione di base degli alunni?

E poi, si dedica ben poco spazio alle evoluzioni lessicali della lingua italiana ed allo studio del processo comunicativo e dei suoi disturbi, finendo col mettere definitivamente in soffitta l’impostazione che vedeva nello studio delle lingue soprattutto l’occasione per una più generale educazione alla comunicazione.

Mi sembra assurdo che la presentazione delle vicende storiche e della loro lettura critica nella scuola media continui a dare per scontata la conoscenza delle civiltà antiche e classiche, come se bastasse un’infarinatura “elementare” su queste fondamentali epoche storiche, pressati dall’urgenza di focalizzare l’attenzione sul solo Novecento, anche a costo di non comprenderne le radici nel periodo illuminista e nelle varie “rivoluzioni” tecnologiche e nelle precedenti scoperte geografiche.

Ancora più paradossale è che questa nuova riforma della scuola di base finisca col mutilare la Geografia proprio del suo aspetto più stimolante e critico, cioè quello economico, non mettendo neppure in discussione il fatto che di modelli di sviluppo ce ne sono tanti e che scoprire le diversità geografiche non è solo una questione di differenze territoriali e/o culturali, ma anche di disparità e disuguaglianze stridenti.  E’ solo un caso, oppure si cerca di esorcizzare la constatazione che quello che accettiamo supinamente da un secolo è la causa prima delle ingiustizie, dei conflitti armati e dei disastri ambientali, trattati come fenomeni a parte, cui porre saggiamente rimedio, magari grazie al provvidenziale progresso tecnologico-scientifico?

Insomma, ci voleva proprio un governo di centrosinistra per dare la mazzata definitiva all’insegnamento dell’Italiano come “educazione linguistica”, a quello della Storia come percorso complesso e concatenato di cui la contemporaneità è solo il punto d’arrivo provvisorio, ed a quello della Geografia come introduzione ad una mentalità consapevole e critica sul concetto di sviluppo e sul problematico rapporto uomo-ambiente?

Ma, dopo tutto (per parafrasare una nota canzone di Bennato): Sono solo indicazioni…

 

 

 

 

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LAVAVETRI E LAVACOSCIENZE

                                   di  Ermete FERRARO

 

Ogni volta che apro il quotidiano, durante le vacanze estive, ho sempre la strana sensazione di trovarmi davanti il giornale dell’anno prima, o forse di qualche anno fa, tanto le notizie e la loro esposizione in versione “estiva” tendono ad assomigliarsi spaventosamente. Che so: i soliti incendi boschivi, i soliti delitti inspiegabili, il solito gossip sulle vacanze dorate dei VIPs, le solite polemiche balneari tra leaders di partito, e via discorrendo.

Eppure, anche in questo monotono e provinciale quadro della c.d. “informazione”, talvolta spunta qualche vicenda un po’ particolare o quanto meno originale. Naturalmente anche questo rientra nel teatrino sempre aperto della politica nostrana, il cui “cartellone” estivo non può fare a meno di prevedere il lancio improvviso di questioni serie, che in quel clima si trasformano però in “querelles” un po’ stupide, ma capaci di punzecchiare i vari esponenti della scena politica.

Ecco allora che questi si sentono di fatto costretti a dire la loro nel merito, salvo verificare subito dopo che si tratta di un punto di vista del tutto diverso, se non opposto, rispetto a quello di coloro che dovrebbero esserne gli alleati di coalizione o, addirittura, i compagni di partito: aspetto questo che lascia molto soddisfatti i giornalisti “provocatori”, ma un po’ meno quelli che credevano di aver scelto un’alleanza che avesse un minimo di coerenza al suo interno.

Beh, questa volta è toccato alla vicenda dell’assessore-sceriffo di Firenze, che ha deciso di bandire i lavavetro dagli incroci della sua città, probabilmente in nome della sicurezza nazionale e prospettando il loro immediato arresto, in flagranza di spugna insaponata ed aggeggio per detergere i parabrezza…

Per chi non mi conosce, mi tocca precisare che, sebbene io sia tollerante ed accogliente per natura e per scelta politica, non sono affatto dell’idea che ogni abuso o attività irregolare o illegale possa essere…lavata via utilizzando il comodo – ed ipocrita – detergente del buonismo giustificazionista che, anche in questo caso, è venuto a galla, sia tra gli amministratori ed esponenti di partito, sia tra la gente comune intervistata dai media.

Non ho mai pensato che trincerarsi dietro il pietismo dei “poverino, che cos’altro potrebbe fare?” servisse a qualcosa, se non a perpetuare abusi e illeciti, includendoli nell’orizzonte rassicurante, ma piuttosto farisaico, di una “società civile” che non vuole prendersela con gli anelli più deboli della catena, ma che d’altra parte si guarda bene dal prendere di petto i burattinai e gli “anelli forti” delle varie attività illegali o marginali, che ci siamo ormai maledettamente abituati a considerare parte del panorama cittadino.

Sta di fatto, però, che questa “querelle” sui lavavetri – ovviamente dando per scontato che si tratti sempre e soltanto di “extracomunitari” o di etnie nomadi – puzza parecchio di demagogia xenofoba e, per il risalto che ha avuto sui media a causa della prevista imputabilità penale di chi compie tali attività, ha alimentato una giostra di cretinate amministrative e di assurdità giuridiche.

Ma come – si chiede giustamente il cittadino qualunque di una città come Napoli – viviamo in mezzo ad ogni tipo di abusi, illegalità e vere e proprie violenze quotidiane e c’è chi se la piglia con stranieri e zingari che cercano di fare soldi lavando i vetri delle auto ai semafori? E poi, addirittura arrestarli !…

Siamo assediati ogni giorno da grosse ed ingombranti auto che, dopo averci rubato l’aria, ci rubano anche i marciapiedi, i passaggi pedonali, gli scivoli per disabili ed ogni spazio rimasto libero, e noi ce la prendiamo con chi "estorce" qualche centesimo per lavare via insettini, polvere e fango dai loro preziosi parabrezza ?

Nelle nostre strade e piazze si compra e si vende abusivamente, si espongono alimenti senza precauzioni igieniche, si vendono cibi scaduti, si spaccia droga e si continua a praticare il parcheggio abusivo; si scippa e ci si lancia allegramente bottiglie tra ubriachi e c’è chi lancia l’allarme per le torme di rumeni e marocchini che presidiano i semafori con le loro spugne gocciolanti?

Dice: sì, ma dietro quei poveracci c’è il racket che ci si arricchisce! C’è la delinquenza organizzata che pianifica e spartisce il territorio fra quei dannati della terra, sfruttandone la miseria… Perbacco, che acume! Che inflessibile senso della legalità! Peccato, però, che Lorsignori se ne siano accorti solo adesso, dopo aver tollerato per decenni il contrabbando di sigarette, i parcheggiatori abusivi, lo spaccio, la vendita abusiva per strada di qualunque cosa immaginabile – dalle armi ai fuochi d’artificio, dai telefonini ed ai computers portabili rubati ad alimenti di dubbia origine ed igienicità…

Peccato che non si siano accorti, invece, di tutti gli onesti negozianti che non rilasciano gli scontrini fiscali; dei prestigiosi luminari della medicina che i soldi degli onorari – ovviamente non fatturati – li lasciano toccare solo alle loro segretarie; delle operazioni finanziarie di dubbia liceità, delle speculazioni edilizie e finanziarie e di mille altri traffici ed imbrogli sotto gli occhi di chi tutti.

A quanto pare, però, va tutto bene. Resta solo da fare pulizia dei lavavetro abusivi ai semafori ed abbiamo ristabilito la legalità…!

Ma perché non proviamo, invece, a lavare un po’ i vetri appannati e sporchi dei palazzi del potere? Perché non cominciamo a ristabilire innanzitutto un po’ di quella "trasparenza" amministrativa di cui troppo spesso si avverte la mancanza, tra privilegi di casta, compromessi, favoritismi e corruzione?  Il fatto è che alla "glasnost" di un’amministrazione pubblica intesa come "casa di vetro" tanti politici – e tanti cittadini che li hanno votati – preferiscono piuttosto "lavarsi la coscienza" con provvedimenti assurdi e improvvisati, oppure semplicemente "lavarsene le mani", cercando di non impicciarsi troppo di quello che gli succede intorno.

 

 

 

 

 

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