#NapuLengua: insegnare il Napoletano a scuola per valorizzarlo

NapulenguaDopo la positiva esperienza dello scorso anno, anche per il 2015-16 ho deciso di riproporre nella scuola dove insegno Lettere un’attività extracurricolare consistente in un Corso di lingua e cultura napoletana. Una volta approvato dal Collegio dei docenti, il progetto “Napulitanamente” si avvia quindi a ripartire, con la previsione di 18 ore di laboratorio teorico-pratico, con certificazione finale delle competenze raggiunte da ciascuno dei partecipanti a questa innovativa esperienza. Il fatto che ne abbiano diffusamente parlato sia media radio-televisivi (fra cui addirittura il secondo canale della televisione francese France2 e la rete cattolica nazionale TV 2000), sia quotidiani e periodici a stampa ed online (ad es. Il Mattino, La Repubblica, Roma, Italia Oggi, Orizzonte Scuola etc.), ovviamente mi fa molto piacere. Mi avrebbe però fatto ancora più piacere se il mio esempio fosse stato seguito da altri docenti (di Lettere come me ma anche di altre discipline), così da allargare la cerchia degli studenti coinvolti in tale azione di salvaguardia e valorizzazione del Napoletano. Purtroppo a battersi per una sua regolamentazione grammaticale ed ortografica e per il riconoscimento della sua piena dignità di lingua si direbbe che siano rimasti solo gli appassionati della cultura napoletana, a partire da coloro che non hanno mai smesso di scrivere in Napoletano le loro poesie, i loro testi teatrali o quelli legati alle composizioni musicali.

Il mio progetto, però, non vuol essere un’eccezione lodevole che conferma la regola del colpevole disinteresse delle istituzioni per la tutela e la valorizzazione del patrimonio linguistico e letterario del Napoletano e dell’identità culturale di Napoli. Al contrario,  fin dall’inizio negli anni ’90, io mi sono proposto di stimolare altri insegnanti appassionati di questa lingua affinché utilizzassero tutti gli spazi possibili – fra cui le attività aggiuntive d’insegnamento – per portare avanti sempre nuove esperienze didattiche in tal senso. Sta di fatto che l’interesse crescente di tante persone per l’apprendimento di un modo corretto per esprimersi in Napoletano non riesce ancora a trovare una risposta adeguata. Dobbiamo naturalmente essere grati a chi – come il poeta Nazario Bruno o lo scrittore Gianni Polverino – stanno facendo tanto per divulgare i principi di un’ortografia napoletana accettabile e di un lessico partenopeo adeguato ai nostri tempi ma rispettoso della tradizione. Altrettanto riconoscenti dobbiamo essere nei confronti di tutti coloro – fra cui linguisti e cultori della materia – che non si sono mai rassegnati a lasciar andare in malora un patrimonio culturale plurisecolare e che giustamente, invece, difendono l’identità collettiva che da esso deriva. Ma questo, dobbiamo riconoscerlo, non basta ad invertire la tendenza a trasformare progressivamente il Napoletano in un ‘volgare’ di serie B ed a cancellare – in nome dell’omologazione forzata al pensiero unico ed alla ‘Neolingua’ corrente – quelle preziose diversità linguistiche che rendono unica l’Italia.

Certo, nel 2015 si è registrata una reviviscenza di questa proposta, culturale prima che politica. Ci sono state in città ,infatti, varie iniziative tese a valorizzare il Napoletano, dagli incontri periodici presso il circolo “50 e più” a Via Toledo a convegni su alcuni suoi aspetti particolari, fra cui ricordo quelli sugli ‘arabismi’, sulla ‘geografia delle lingue’ presso l’Università l’Orientale e su vari aspetti connessi alla ‘Festa d’’a Lengua Nosta’, organizzata dall’associazione ‘G.B. Basile’. Ma a fronte di questi positivi contributi non si può fare a meno di registrare anche un generale scadimento nell’uso del parlato napoletano fra i giovani e la loro diffusa tendenza a ricorrere ad un’improponibile grafia sia nei testi delle canzoni, sia nei messaggi diffusi via cellulare, sui social media e, ahimè!, spesso anche sui muri della nostra città.  Un’altra novità apparentemente positiva è il fiorire di slogan pubblicitari in Napoletano, utilizzati da piccole e grandi aziende, fra cui perfino alcune multinazionali. Pur a prescindere dall’uso palesemente opportunistico di una lingua così popolare per veicolare messaggi consumistici, il problema è che gran parte di essi risultano comunque sgrammaticati, disortografici e talora lessicalmente poco corretti.

Che fare allora? C’è chi continua a sperare in improbabili provvedimenti normativi regionali, incurante del fatto che finora tutte le proposte di legge – provenienti sia dal consiglio provinciale di Napoli sia da quello regionale della Campania – si sono da tempo arenate sulle secche del disinteresse di chi ci amministra per questa battaglia di civiltà. C’è poi chi si ostina a perseguire una dubbia via ‘identitaria’ per ridare dignità alla lingua napoletana, finendo col far coincidere la legittima rivendicazione di rispetto e tutela di questo regional language con una più complessiva battaglia ‘meridionalista’ o, peggio ancora, con un antistorico revanscismo venato di nostalgie neoborboniche. Una terza ‘corrente’, infine, è quella di chi pensa che sia sufficiente chiudersi nella turris eburnea degli studi accademici, approfondendo scientificamente  la storia ed il patrimonio linguistico del Napoletano, al punto tale da dare l’impressione di volerne quasi dissezionare il cadavere o di volerlo mummificare sul solo piano ‘dotto’.

La verità è che, per fortuna, la lingua napoletana è ancora viva e vegeta e non si lascia rinchiudere nelle aule universitarie né volgarizzare come ‘lengua vascia’ da utilizzare solo per battute spinte o per la seriale produzione nazional-popolare di canzoni neomelodiche. E’ vero anche, però, che il napoletano italianizzato –  così come l’italiano dialettale – non possono garantire a lungo la sopravvivenza e la vitalità lessicale di questa lingua. Lasciamo quindi da parte l’ipercorrettismo fuori luogo di alcuni rigidi ‘puristi’ del Napoletano letterario, ma evitiamo soprattutto la trascuratezza e la sciatteria che traspare da un uso scorretto ed anomalo di questa lingua. Nessuno pretende che si continui a parlare o a scrivere come Basile o come Di Giacomo. Una lingua viva è quella che si sa adattare a nuovi contesti e che suona attuale e corrente ai parlanti di oggi. Questo però non autorizza a sottoporla ad artificiali mutazioni genetiche o a meticciamenti non necessari. Qualcuno ha detto argutamente che quelli che parlano il Napoletano non lo sanno scrivere e che quelli che lo scrivono si vergognano di parlarlo. Ebbene, credo proprio che sia giunto il momento di smetterla con quest’ ambiguità socio-linguistica e di riprenderci integralmente la nostra ‘madrelingua’.

LINGUE LIQUIDATE E LINGUE SOFFOCATE…

di Ermete Ferraro

 

Fra tante notizie stravaganti, inutili o di scarso interesse, sui giornali di oggi ne è comparsa, stranamente, una su una questione di cui i “media” abitualmente si occupano molto poco.

 “Nel mondo muoiono due lingue al mese”, strilla il titolo di un diffusissimo quotidiano gratuito nazionale, spiegando che l’allarme dei linguisti si riferisce ad una ricerca svolta dal “National Geographic”, in collaborazione col “Living tongues institute for endangered languages”).

Ebbene sì: anche se pochi lo sanno – e soprattutto ben pochi ne parlano- ogni due settimane scompare definitivamente una lingua, insieme con l’ultima persona in grado di parlarla. Si tratta di una strage silenziosa (e mai aggettivo fu più adatto…), le cui vittime non sono, come si potrebbe credere, stranissimi linguaggi di luoghi sperduti e disabitati, bensì interi repertori di civiltà, interi patrimoni culturali prima marginalizzati e poi spazzati via dalla globalizzazione galoppante.

Ovviamente, le lingue più fragili sono quelle prive di qualsiasi documentazione scritta, che assomigliano tanto a quei poveri barboni che vengono trovati morti per strada, senza niente che ne permetta almeno l’identificazione o la comprensione del perché sono finiti così tristemente.

Basti pensare alle 231 lingue aborigene australiane o alle 113 della tradizione andina ed amazzonica, la cui sopravvivenza è seriamente minacciata dalla predominanza dell’inglese.

Come cercano inutilmente di farci sapere da decenni sia gli studiosi dell’Istituto citato dal quotidiano  (www.livingtongues.org), sia tanti altri importanti centri di ricerca e di azione eco-linguistica (cito solo il noto “Ethnologue”: www.ethnologue.com, prezioso repertorio linguistico frutto del lavoro del S.I.L  www.sil.org ), non si tratta però di fatalità né di fatti privi d’importanza.

Le lingue minoritarie sono costantemente rimpiazzate da quelle dominanti, sotto il profilo politico, economico e socio-culturale. Ecco perché i due idiomi che scompaiono ogni mese si portano via con sé centinaia di generazioni di conoscenze tradizionali, codificate in quelle lingue definite “ancestrali”. Il risultato di questa strage di saperi è che, allo stato, la metà circa delle lingue presenti attualmente sul nostro pianeta sono destinate a dissolversi nel nulla entro il prossimo secolo, ad una velocità che supera quella di estinzione di qualsiasi altra realtà vivente, come risulta evidente dalla tabella che accompagna lo studio di David Harrison “When Language Die”, pubblicato nel 2007 dalla S.I.L.

Più del 40% delle lingue attuali sarà scomparso tra cento anni, mentre  percentuali molto minori di tipologie in via d’estinzione riguardano i pesci (5%), le piante (8%), gli uccelli (11%) ed i mammiferi (18%).  Ma attenzione, se facciamo benissimo a preoccuparci della sparizione progressiva di queste forme di vita animali e vegetali, e quindi dell’allarmante perdita di biodiversità che minaccia la sopravvivenza del nostro stesso pianeta, non possiamo pensare che la scomparsa di intere tradizioni e patrimoni etno-linguistici sia del tutto ininfluente nell’economia generale degli equilibri mondiali.

Da anni, non a caso, ho cercato di approfondire questo aspetto particolare dell’ecologia – chiamato appunto “ecologia linguistica” – nella profonda convinzione che sottovalutare questi fenomeni di cancellazione delle identità culturali sia un grave errore. Un errore che, purtroppo, conferma la frattura esistente tra una visione esclusivamente scientifica dell’ecologia (che si ferma allo studio della perdita di diversità biologica ed a soluzioni da contrapporvi per riequilibrare il carico ambientale del pianeta) ed una che, invece, potremmo chiamare “ecologia umana”, a sua volta comprensiva di quella “social ecology” di cui abbiamo tanto bisogno.

Ho affrontato questo aspetto in un mio breve saggio e per leggerlo, essendo inedito, basta accedere alla pagina della bio-biblio-sitografia del mio website (www.ermeteferraro.it/aboutme.htm ) e cliccare sul titolo “Voci soffocate”(2004). In questo scritto ho chiarito quello che credo sia un impegno prioritario per chiunque abbia a cuore che la predominanza massificante ed omogeneizzante di un unico modello socio-culturale non spazzi via ogni diversità culturale ed ogni possibilità stessa di pensiero divergente da quello dominante.

Nello stesso saggio ho sottolineato, poi, che non ci sono solo le lingue che il SIL definisce “moribonde”, ma anche quelle messe in pericolo e/o seriamente danneggiate dalla globalizzazione dei cervelli, prima ancora che delle merci.  E’ il caso di lingue anche importanti e per nulla “minoritarie”, come il nostro Napoletano, per le quali è indispensabile una legge di tutela e di valorizzazione, senza la quale continueremo ad assistere al tragico declino di un intero mondo di pensieri, di sentimenti e di comportamenti, e non solo ad un mucchio di parole “dialettali”.

Ma questa è un’altra storia, e ne parlerò un’altra volta.

Chi voglia approfondire subito questo problema, può comunque consultare il sito dell’Istituto Linguistico Campano (www.ilc.it ), leggendo e commentando anche gli articoli "postati" sul suo blog.

 

di erferraro Inviato su Senza categoria Contrassegnato da tag