Ecolinguistica: un campo inesplorato da coltivare

Un ambito interdisciplinare da esplorare

In Italia la sensibilità verso gli studi di ecologia sembra meno sviluppata che in altri paesi, anche perché resta ancora non del tutto sanata la tradizionale frattura fra discipline scientifiche ed umanistiche. Questo “anacronistico equivoco intellettuale”, per citare Odifreddi, ha creato e continua a determinare un’artificiosa barriera all’interno della universitas studiorum, spezzando l’unità della cultura e finendo col contrapporre due diverse letture del mondo. Ecco perché il connubio concettuale racchiuso nell’espressione ecolinguistica appare poco significativo alla maggioranza di coloro che pur si occupano di ecologia o di linguistica. È come se lo si considerasse uno studio d’importazione, riservato a pochi eletti, un terreno di ricerca troppo specifico ed accademico e per di più con scarse ricadute pratiche. Ebbene, credo che vada sfatato anche questo più specifico ‘equivoco intellettuale’, accordando finalmente alla ecologia linguistica più attenzione e maggiori occasioni di studio e di ricerca. L’ecologia scientifica, infatti, ha sicuramente bisogno del contributo dell’analisi ecolinguistica e sociolinguistica per comprendere i meccanismi mentali e sociali che – oltre quelli strutturali – continuano a frenare il processo di cambiamento, pur nell’accresciuta consapevolezza del disastro ambientale e delle sue cause.

Troviamo una definizione di cosa s’intende col termine ecolinguistica nella pagina d’accoglienza del sito web della I.E.A (International Ecolinguistics Association), rete universitaria che collega ben 800 ricercatori a livello mondiale.

L’ecolinguistica esplora il ruolo del linguaggio nelle interazioni che sostengono la vita degli esseri umani, delle altre specie e dell’ambiente fisico. Il primo scopo è sviluppare teorie linguistiche che vedano gli esseri umani non solo come parte della società, ma come parte di ecosistemi più vasta, da cui dipende la vita. Il secondo scopo è mostrare come la linguistica possa essere usata per affrontare questioni-chiave ecologiche, dal cambiamento climatico ed alla perdita di biodiversità fino alla giustizia ambientale. (I.E.A. Home).

Nell’introduzione ad un corso promosso dalla I.E.A. – che sintetizza il contenuto dei nove capitoli del manuale di Arran Stibbe (2015)sispiega che è compito dell’analisi ecolinguistica rivelarci le ‘storie’ che viviamo, analizzandole dal punto di vista ecologico con un fine che non è puramente teorico, in quanto vuol metterci in grado di resistere alle narrazioni che danneggiano il nostro mondo e d’inventarne di nuove, alternative.  L’ecologia linguistica ci aiuta ad inquadrare tali ‘storie’ in una determinata filosofia ecologica, un insieme di valori riguardanti le relazioni tra l’uomo, le altre specie animali e l’ambiente fisico di cui fanno parte. Si tratta di analizzare in che modo una certa cultura c’induce a pensare tali relazioni e, conseguentemente, ad agire. Verbo, è bene precisarlo, che non si riferisce all’azione in senso stretto, ma anche all’interazione linguistica, secondo una visione pragmatica della lingua, che non si limita a ‘dire’ ma è anche capace di ‘fare’. Le narrazioni della nostra realtà, infatti, sono vere e proprie ‘riserve di valori’, intessute non solo di ‘fatti’ ma intimamente caratterizzate da ideologie di fondo, metafore, valutazioni e perfino da significative omissioni.

Il manuale citato, a tal proposito, fa l’esempio di alcune narrazioni del mondo che hanno segnato il nostro rapporto con l’ambiente, relative ad alcuni concetti basilari. È il caso di parole-chiave come ‘prosperità’ – che ha promosso l’arricchimento come acquisizione di bene e di denaro – ‘sicurezza’ – che ha contribuito a sviluppare relazioni di dominio e strutture violente al loro servizio, come pure altri termini che ci presentano un mondo ridotto a materia e meccanismi, caratterizzato dalla centralità dell’uomo e dal suo assoluto dominio sulle altre specie, indiscutibile e senza limiti. Utilizzare l’analisi linguistica per rivelare le stratificazioni ideologiche dietro le nostre storie può aiutarci a capire come e quanto esse influenzino la nostra visione della realtà, alimentando un modello di sviluppo insostenibile ed iniquo. Comprendere quanto simili narrazioni possano rivelarsi distruttive da un punto di vista ecologico, inoltre, ci rende più consapevoli e capaci di cambiare rotta in senso costruttivo, anche attraverso l’impiego d’una ben diversa modalità linguistica.  Parafrasando uno dei primi studiosi di ecolinguistica, l’inglese M.A.K. Halliday (Halliday, 2003), c’è una ‘sindrome di caratteristiche grammaticali’ che contribuisce a costruire la realtà in modi che non fanno bene alla nostra salute né al nostro futuro come specie.

Nell’attuale cultura dominante, però, scarsa l’attenzione è stata riservata a questo ambito della ricerca, come se si trattasse di elucubrazioni mentaliste, mentre l’insostenibilità del nostro mondo richiederebbe interventi correttivi di stampo scientifico, tecnologico o, al massimo, economico. Il problema è che non siamo ancora del tutto consapevoli che il linguaggio non è solo rappresentazione di una realtà, ma contribuisce a costruirla e determinarne le caratteristiche.  Ecco perché studiare quella ‘sindrome di caratteristiche grammaticali’ sarebbe molto importante per liberarci dai meccanismi culturali inconsci che influenzano le nostre scelte, anche in campo ambientale.

Un campo di studi linguistici da coltivare

Nel suo libro sull’approccio ecolinguistico alla ‘analisi critica del discorso’ riguardante uomo e ambiente, Arran Stibbe stabilisce alcuni punti fondamentali cui attenersi:

a) L’attenzione si concentra sui discorsi che hanno (o potenzialmente hanno) un impatto significativo non solo sul modo in cui le persone trattano le altre persone, ma anche su come trattano i sistemi ecologici più ampi da cui dipende la vita.

b) I discorsi vengono analizzati mostrando come gruppi di caratteristiche linguistiche si uniscono per formare particolari visioni del mondo o “codici culturali” […]

c)  I criteri in base ai quali le visioni del mondo vengono giudicate derivano da una filosofia ecologica (o ecosofia) esplicita o implicita. Un’ecosofia è informata sia da una comprensione scientifica di come gli organismi (compresi gli esseri umani) dipendono dalle interazioni con altri organismi e da un ambiente fisico per sopravvivere e prosperare, sia da un quadro etico per decidere perché la sopravvivenza e la prosperità sono importanti […]

d) Lo studio mira a esporre ed a suscitare attenzione su discorsi che sembrano essere ecologicamente distruttivi […] o in alternativa a cercare di promuovere discorsi che potenzialmente possano aiutare a proteggere e preservare le condizioni che supportano la vita […]

e) Lo studio è finalizzato all’applicazione pratica attraverso la sensibilizzazione al ruolo del linguaggio nella distruzione o protezione ecologica, informando le politiche, caratterizzando lo sviluppo educativo o fornendo idee che possono essere utilizzate per ridisegnare testi esistenti o per produrre nuovi testi in futuro. (Stibbe, 2014).

Con l’espressione ’analisi critica del discorso’ (in inglese: CDA – Critical Discourse Analysis) si fa riferimento ad un approccio sociolinguistico che si è diffuso negli anni ’90, la cui matrice filosofica si ispirava a precedenti riflessioni di Michel Foucault sul potere delle parole. L’ACD si occupa di mettere in luce le relazioni che intercorrono tra il potere ed i testi finalizzati all’informazione e alla formazione delle persone e delle comunità. Si tratta di discorsi pubblici veicolati dai media, di cui la linguistica ci aiuta ad analizzare le caratteristiche testuali, come la gerarchia degli argomenti trattati, gli espedienti retorici utilizzati, il tipo di argomentazione e le caratteristiche espressive.

Il primo luogo comune da sfatare è che il linguaggio rispecchi la realtà, mentre in larga parte contribuisce a crearla, o quanto meno a determinarla. Ecco perché anche i ‘discorsi’ sulle questioni ambientali non vanno sottratti all’analisi critica, in modo da svelare valori e visioni della vita che influenzano pesantemente tali narrazioni e contribuiscono a formare la c.d. ‘opinione pubblica’.  L’approccio ecolinguistico, dunque, è fondamentale per diventare consapevoli dell’interazione tra lingua, parlanti ed ambiente (fisico e sociale) che ne costituisce il contesto e, in generale, dei rapporti tra uomini, società e natura.  

Ma se il termine ‘ecolinguistica’ è usato in senso lato, bisogna distinguere al suo interno impostazioni e finalità abbastanza diverse, in base al rapporto tra i due elementi che lo compongono. Quando le conoscenze linguistiche servono ad analizzare e demistificare le ‘storie’ relative alle problematiche ambientali, siamo più nell’ambito di una linguistica ecologista. Quando invece i principi ecologici sono applicati all’analisi dei fenomeni sociolinguistici, rientriamo maggiormente nell’ambito dell’ecologia del linguaggio.

Quest’ultima, infatti, si occupa della salvaguardia della diversità linguistica e dei rischi cui va incontro una società caratterizzata dall’omologazione linguistica, che consolida il potere delle culture dominanti, cancellando antichi patrimoni di sapere e specificità espressive.

L’ecolinguistica è quella branca della linguistica che tiene conto degli aspetti dell’interazione, tra lingue, tra parlanti, tra comunità linguistiche o tra lingue e mondo, e che, al fine di promuovere la diversità dei fenomeni e le loro relazioni, si adopera in favore del piccolo (Fill, 1993: 4)

Questo approccio risulta naturalmente più vicino alla sensibilità ecologista, in quanto applica alle lingue la stessa attenzione protettiva che le organizzazioni ambientaliste prestano alle minacce alla diversità biologica. La diversità linguistica, in tale contesto, è percepita non soltanto come valore fondamentale sul piano culturale e sociale, ma anche come fattore di equilibrio in un mondo dominato dal pensiero unico, dall’omologazione e dalla globalizzazione economica, caratteristiche che Vandana Shiva aveva efficacemente sintetizzato nell’espressione  “monoculture della mente” (Shiva, 1995).

Nel saggio “Lingue soffocate” – pubblicato nel 2004 dall’Associazione VAS Verdi Ambiente e Società –   già sedici anni fa mi ero occupato di questo problema, soffermandomi sulla crisi ecolinguistica di cui pochi – ambientalisti e linguisti – sembravano prestare attenzione. Proseguendo il discorso iniziato due anni prima sull’educazione alla tutela della diversità culturale come estensione della salvaguardia della biodiversità (Ferraro, 2002), la mia attenzione si era focalizzata sulla grave perdita di diversità linguistica provocata da un modello di sviluppo accentratore e omologatore.

Dopo un lungo periodo di militanza ambientalista ed ecopacifista, la consapevolezza dei rischi derivanti dalla crescente perdita di biodiversità m’induce a riproporre l’esigenza di una ‘ecologia della lingua’ che esca dalle aule universitarie e dalle stesse ricerche sul campo degli studiosi, per diventare acquisizione comune di un movimento ecologista finora poco sensibile a tali tematiche. Come nel caso dell’ecopacifismo, però, non basta sommare sbrigativamente battaglie ambientaliste sociali e culturali, ma bisogna saldare queste dimensioni, a partire dalla constatazione che […] il mantenimento della lingua fa parte dell’ecologia umana, e che la difesa della biodiversità non è una battaglia settoriale, ma l’affermazione di una filosofia di vita complessivamente alternativa. (Ferraro, 2004: 8).

L’ecolinguistica come veicolo di cambiamento

Gli studi ecolinguistici, però, non devono restare confinati in ambito accademico, come ricerche finalizzate solo alla comprensione delle dinamiche socio-ambientali esistenti e non all’impegno per cambiare l’interazione cogli ecosistemi, di cui stiamo minacciando i delicati equilibri e, con essi, la nostra stessa sopravvivenza come specie.

Sul piano della linguistica ecologista, Arran Stibbe si è soffermato sul peso che un certo modo di ‘inquadrare’ linguisticamente la realtà influisca fatalmente sulla lettura che ne diamo, perpetuando stereotipi e certezze aprioristiche che impediscono proprio quel cambiamento. L’uso del framing, appunto, ‘inquadra’ le questioni ambientali all’interno di una struttura mentale predefinita. In tal senso, sono utilizzati spesso ‘pacchetti di conoscenza generale’ per inquadrare un problema ecologico, come il riscaldamento globale, ora come questione ambientale da risolvere, ora come minaccia alla sicurezza da fronteggiare, ora come situazione spiacevole oggettiva cui dovremmo adattarci.

”La natura è una risorsa” è stata fornito come esempio di inquadramento ‘distruttivo’ poiché le risorse sono preziose solo se vengono o saranno consumate; non hanno valore se lasciate a se stesse per sempre. Ciò contraddice l’ecosofia di questo libro, che attribuisce considerazione etica alla vita e al benessere di altre specie […] l’inquadramento ‘sviluppo’, che in origine era un tentativo altruistico di alleviare la povertà nei paesi poveri, è invece finito come ‘crescita sostenuta’, cioè un tentativo di massimizzare la crescita economica nei paesi ricchi a danno dei poveri. (Stibbe, 2015)

Il parametro usato da Stibbe per classificare e valutare queste narrazioni antropocentriche ed utilitaristiche è il danno che esse provocano agli ecosistemi, per cui la loro ‘distruttività’ risulta direttamente proporzionale alla loro minaccia alle specie ed all’ambiente in genere. Sarebbe invece positivo un inquadramento linguistico alternativo di tali problematiche, che incoraggiasse atteggiamenti e comportamenti di  protezione ambientale, riportando l’attenzione sulla natura in sé, non come ‘risorsa’ da sfruttare.

L’utilizzo di un determinato codice linguistico, d’altra parte, ha fatto sempre parte dell’armamentario utilizzato dalle classi e nazioni dominanti per controllare quelle subalterne e mantenerle asservite. Valeva per le civiltà antiche – come quella greca e romana – ma è innegabile che l’utilizzo delle lingue resti tuttora uno strumento per sancire una gerarchia socio-politica che subordini alcuni soggetti sociali ad altri. Un grande scrittore distopico come George Orwell, infatti, nel suo celeberrimo ‘1984’ ha inquadrato perfettamente la decostruzione e ricostruzione del codice linguistico di una comunità come uno degli elementi cardine per realizzare e mantenere una dittatura globale e totale.

Il fatto è che l’inquietante modello unico di economia di società e di cultura profetizzato da Orwell ci si sta materializzando sempre più davanti. Non a caso quella “età del livellamento, della solitudine, del Grande Fratello e del Bispensiero” era caratterizzata dalla repressione della diversità linguistica e dalla diffusione forzata di una lingua standardizzata, ridotta all’essenziale, volutamente inespressiva. (Ferraro, 2004: 3)

Dominare il linguaggio di un soggetto collettivo significa dominarne il pensiero e le scelte, ma tale regola vale sempre e comunque anche per ciò che concerne le questioni ambientali. È dunque indispensabile occuparsi di più e meglio di come il livellamento linguistico e l’utilizzo di determinati ‘inquadramenti’ ci stiano condizionando, confermando quindi l’attuale modello di sviluppo come l’unico possibile ed auspicabile. La stessa contrapposizione tra ‘sviluppo’ e ‘protezione ambientale’ è prova di questa mistificazione logico-linguistica, che insiste ossessivamente sul concetto di ‘crescita’ come fattore di benessere cui non possiamo rinunciare. La stessa crisi ecologica, paradossalmente, è spesso affrontata come se la soluzione consistesse nel reperire maggiori e più potenti strumenti economici scientifici e tecnologici, consolidando il modello antropocentrico, scientista e tecnocratico che sta alla radice del problema.

Una seconda antitesi è tra ‘crescita’ e ‘povertà’, come se non fosse stato proprio il sistema economico capitalista ed il modello crescista di sviluppo ad allargare la frattura fra un piccolo mondo ricco e potente ed una larga parte di umanità sempre più povera, fragile e subalterna. Non è un caso che occuparsi di giustizia sociale e di uguaglianza di diritti spesso sia stato strumentalmente contrapposto alla preoccupazione dei movimenti ambientalisti per la preservazione della natura e la tutela degli ecosistemi. Ma, come ha giustamente sottolineato un ecologista sociale come Antonio D’Acunto:

Si pone ora sempre più urgente la necessità superiore non solo di rallentare la catastrofe, ma di invertire il futuro dell’umanità, con il suo modello culturale, economico, produttivo e sociale, verso il Pianeta della vita e della biodiversità, liberandolo dal cancro dello sfruttamento tra gli uomini e verso la natura. (D’Acunto 2019: 45)

In tale direzione eco-socio-linguistica va la riflessione di uno studioso argentino, Diego L. Forte, che considera l’ecolinguistica terreno per una ‘nuova lotta di classe’. Integrando strumenti squisitamente linguistici, come l’analisi critica del discorso, con quelli della sociolinguistica, egli ritiene possibile andare oltre i tradizionali parametri della lotta di classe, aprendosi a tutte le disparità sociali che nascono dall’egemonia di alcuni soggetti su altri, fra cui quelle etniche e quelle di genere.

La decostruzione e la proposta alternativa, quindi, devono nascere dal ripensamento del concetto di classe: non si può più pensare alle classi sociali come le intendeva Marx, gli oppressi non possono continuare ad agire da soli. Molti movimenti stanno prendendo coscienza della necessità di unire gli sforzi per combattere lo stesso oppressore. L’idea di un’integrazione delle lotte basata su una rielaborazione dovrebbe essere il nuovo passo per gli studi critici. […] nuovi discorsi e storie devono guidarci, ma, senza mettere in discussione i sistemi egemonici, questi cambiamenti non possono aver luogo. […] Il cambiamento delle storie è certamente la via d’uscita, ma le nuove storie non sostituiscono automaticamente quelle vecchie. I cambiamenti arbitrari derivano dalla lotta di classe e il passaggio da una narrazione all’altra implica necessariamente questa lotta, che noi sosteniamo debba essere ridefinita. Questa è la lotta cui deve partecipare l’ecolinguistica.  (Forte 2020: 13-14)

Ecologia delle lingue: una questione spinosa

Nei citati saggi del 2002 e 2004 mi ero occupato di come l’ecologia delle lingue  contrasti la perdita delle diversità linguistiche e culturali causate dalla globalizzazione, mostrandone il parallelismo con l’impegno ambientalista per difendere e promuovere la diversità biologica, minacciata da un modello di sviluppo predatorio ed iniquo.

Ecco perché, così come si parla di biodiversità a tre diversi livelli (genetica, di specie ed ecosistemica) sembra importante allargare il discorso alla salvaguardia…della diversità culturale degli esseri umani, visti come individui, come etnie e come comunità socio-politiche, adoperandosi per la salvaguardia delle varie specificità etnico-culturali, non solo come strumento contro la predominanza delle classi egemoni, ma come tutela dell’identità culturale d’intere popolazioni e come difesa dell’antropodiversità dall’azione omologante e riduttiva della globalizzazione. (Ferraro, 2002: 38-39).

Il mio impegno ecolinguistico – che scaturiva dalla necessità di realizzare quanto sancito dall’UNESCO sul diritto alla diversità linguistica, che va non solo tutelata ma ‘incoraggiata’ (UNESCO, 2000, art. 5) – si è poi consolidato, in seguito ad approfondimenti teorici ed alla militanza in un’associazione ambientalista che ha fatto propria questa impostazione. Infatti, a livello regionale furono promosse in Campania cinque edizioni della Festa VAS della Biodiversità’, con sessioni dedicate proprio alla tutela della diversità culturale, intesa come risorsa e non come problema. 

Il mio saggio “Voci soffocate” – presentato in occasione dell’edizione 2004 di quell’evento – riecheggiava nel titolo un testo fondamentale per comprendere il peso che l’ecologia delle lingue dovrebbe avere in una transizione ecologica che sappia integrare i saperi scientifici con quelli umanistici, per realizzare una società più giusta e rispettosa degli equilibri vitali.  ‘Vanishing Voices. The Extintion of World’s Languages’, saggio scritto da un antropologo e da una linguista (Nettle – Romaine, 2002), ha ispirato la mia riflessione sulle lingue che spariscono o sono comunque minacciate dall’omologazione e stanno perdendo la loro caratteristica di specchio e di veicolo di specifiche identità socioculturali.

Di fronte all’accelerazione del processo di scomparsa delle espressioni linguistiche locali – e dei saperi che esse trasmettono – linguisti, antropologi ed ecolinguisti stanno adoperandosi per preservare in ogni modo questo patrimonio, documentandolo per mezzo dei più moderni e tecnologici strumenti disponibili, studiandone le specificità glottologiche, stampandone vocabolari e testi che ne documentino le caratteristiche culturali originali. (Ferraro, 2004: 5)

Tutelare il diritto delle minoranze etnolinguistiche, nel tempo, si è rivelato più agevole che salvaguardare e garantire un futuro a lingue considerate comunque ‘minoritarie’ o ‘regionali’, che non rischiano l’estinzione bensì l’accantonamento, lo snaturamento e la corruzione sul piano lessicale, grammaticale ed ortografico. Basti pensare che in una realtà nazionale come quella italiana le disposizioni legislative a tutela di minoranze etniche hanno preceduto di mezzo secolo quelle emanate a protezione di espressioni linguistiche considerate secondarie e localistiche rispetto alla lingua nazionale. 

 Il divario fra le cosiddette minoranze ‘riconosciute’ e quelle ‘non riconosciute’ era diventato sempre più ampio, poiché le prime avevano potuto godere …di provvedimenti che andavano ad incidere positivamente sui diritti linguistici dei parlanti, le altre invece, o non avevano ricevuto nessun tipo di sostegno da parte delle istituzioni, oppure avevano potuto disporre solamente di interventi regionali di carattere culturale che, oltre a non evitare i fenomeni di assimilazione linguistica, privilegiavano spesso gli aspetti più strettamente folkloristici delle identità minoritarie. (Cisilino, 2004: 176)

Fa riflettere il fatto che il riconoscimento ufficiale dell’Italiano come lingua nazionale – non sancito nella Costituzione repubblicana – sia stato paradossalmente introdotto proprio dall’art. 1 della legge n. 482 del 1999, che dettava “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”. Da allora, grazie alla pur tardiva sottoscrizione da parte dell’Italia della Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003, ma soprattutto all’attivismo di studiosi e appassionati, sono stati fatti passi avanti, anche se in modo scoordinato e spesso con accenti che, più che ai principi d’un federalismo ecologista e verde, apparivano ispirati ad un autonomismo identitario.

Nella regione Campania, ad esempio, il Consiglio Regionale aveva registrato negli ultimi decenni la presentazione di varie proposte di legge sulla tutela della lingua napolitana. Mentre alcune di esse insistevano solo sull’aspetto identitario, con toni nazionalistici e lo sguardo nostalgicamente rivolto alla conservazione d’un illustre passato da rivalutare, altre si aprivano ad un pluralismo che non escludeva la protezione di altre espressioni linguistiche locali, per non riprodurre regionalmente il modello accentratore dell’idioma standardizzato. Per questo motivo, come accade nella dinamica dei contesti politico-istituzionali, la proposta di legge presentata in Campania dai Verdi (alla cui stesura avevo dato il mio contributo personale), ha dovuto fare i conti con un’analoga proposta della destra. Il testo approvato lo scorso anno dal Consiglio Regionale (L.R. Campania n. 19/2019) è stato pertanto frutto di un compromesso tra due visioni differenti del problema, finendo col restringere la tutela al solo patrimonio linguistico del Napolitano ed accentuando il peso del mondo accademico in questo processo, anziché aprire ad una pluralità di soggetti pur esperti in materia.

In una interessante tesi di laurea magistrale in Filologia e Letteratura Italiana, discussa nell’a.a. 2012-13 all’Università Ca’ Foscari di Venezia, si è affrontato approfonditamente il concetto di “sostenibilità linguistica”, con particolare attenzione al pluralismo linguistico ed in riferimento a differenti scuole di pensiero in ambito ecolinguistico internazionale. Dal raffronto tra vari modelli presi in esame – quello ecosociale del catalano Alberto Bastardas Boada (Bastardas Boada, 2013), quello francofilo del tunisino Claude Hagège (Hagège, 1999)  e quello anglosassone dei citati Daniel Nettle e Susanne Romaine (Nettle e Romaine, 2001) – il candidato metteva criticamente in luce alcuni aspetti contraddittori, in modo particolare nel primo caso, riferendoli poi anche al dibattito nel contesto glottologico italiano.

Quando Bastardas Boada elenca i cinque punti che dovrebbero servire da guida per la sostenibilità…sembra quasi che egli abbia in mente un mondo composto da migliaia di gruppi umani autonomi, tendenzialmente omogenei ed impermeabili verso l’esterno, che possano arbitrariamente decidere di usare la loro lingua per tutti gli ambiti […] A ciò va aggiunto l’auspicio del linguista catalano di veder riconosciuto a tutti gli idiomi minoritari lo status di lingue ufficiali. Tale proposta, se da un lato dovrebbe prevedere un minimo di standardizzazione degli idiomi in questione, dall’altro, e proprio per questo, avrebbe un effetto negativo, ad esempio, sui dialetti di quegli stessi idiomi, poiché, come afferma Hagège, standardizzare una lingua significa automaticamente screditare le sue varietà. (Perin, 2013: 113-114)

Questa osservazione, peraltro legittima, è stata ripresa in riferimento ai tentativi di diffondere in Italia un modello plurilinguistico che, si obbietta, contraddirebbe se stesso quando pretende d’istituzionalizzare solo determinati idiomi, servendosi di strumenti artificiali, come quelli legislativi. Ma è davvero così?

Ecolinguistica, ecopacifismo ed irenolinguistica

La contraddizione tra la visione multiforme e policentrica di chi sostiene il diritto ad una libera espressione linguistica e il perseguimento della ‘normalizzazione’ istituzionale di tale diritto, col rischio di proteggere e valorizzare solo alcuni idiomi a discapito di altri, è un problema che l’ecologia delle lingue deve affrontare. D’altra parte, non è accettabile che si contrappongano strumentalmente diverse ipotesi ecolinguistiche, quando esistono soluzioni intermedie cui ricorrere per garantire una effettiva ‘sostenibilità linguistica’.

Ad esempio, in uno studio citato dalla stessa tesi (Dell’Aquila e Iannàccaro, 2004), si spiega come tale ‘pianificazione linguistica’ istituzionale possa essere declinata in più modi e con diverse sfumature. Esse vanno dal Language revival (che tenta di riportare in uso lingue poco parlate), alla Language revitalization (che incrementa le funzioni di una lingua minacciata, migliorandone lo status), passando per il Reversing language shift (che dà un sostegno a livello comunitario a lingue poco praticate dalle nuove generazioni) ed arrivando al Language renewal (per garantire che almeno alcuni componenti di una comunità continuino ad apprenderle ed utilizzarle).

Tali modalità di pianificazione resterebbero comunque operazioni artificiose d’ingegneria sociolinguistica se non fossero sostenute ed accompagnate da un effettivo impegno sociopolitico e culturale per rivitalizzare il rapporto di una comunità col suo territorio e per preservarne l’integrità ambientale. Il vero conflitto, infatti, non è tanto quello tra lingue egemoni e idiomi locali relegati ad espressioni inferiori, condannate al deperimento o alla scomparsa. È lo stesso modello di sviluppo attuale che non consente il mantenimento del pluralismo culturale e linguistico, confliggendo anche con una prospettiva di economia decentrata, di sviluppo comunitario e policentrico, di equità di diritti e di protagonismo sociale. Ecco perché l’ecolinguistica non dovrebbe svilupparsi come terreno di studio a sé stante, ma andrebbe integrata in una complessiva alternativa ecologista, globale nei principi e locale nelle azioni.

In quale direzione oggi va il nostro mondo? Verso i valori della Età dell’oro – umanità, socialità, comunione dei beni naturali, pace e nonviolenza, amore per la Madre Terra […] o verso il distacco sempre più profondo da tali valori? […] Dominano l’idea e la pratica che il Pianeta è dell’uomo che vive oggi e non delle future generazioni, e – nella stessa filosofia di forza e di potere tra le specie – di quell’uomo che è più forte e potente, capace di sfruttare fino in fondo ogni risorsa. (D’Acunto, 2019: 94)

La necessaria diffusione dei principi e delle varie tecniche operative di studi di per sé interdisciplinari come quelli ecolinguistici, pertanto, andrebbe inserita in un progetto più ampio, di cui faccia parte anche l’ecopacifismo, altro aspetto piuttosto trascurato dal movimento ambientalista o banalizzato a mera alleanza tattica con quello pacifista.

In uno scritto del 2014 avevo ipotizzato una saldatura meno strumentale, partendo dalla considerazione che la logica di accumulazione e dominazione, tipica del modello di sviluppo capitalista, genera sia lo sfruttamento dei beni naturali e la devastazione ambientale, sia il sistema di militarizzazione e guerra del complesso militare-industriale.  

I. L’ecopacifismo non è la pura e semplice sommatoria di obiettivi programmatici e di azioni pratiche relative alla lotta per la difesa degli equilibri ecologici ed alla opposizione al militarismo ed alla guerra. Con questo termine andrebbe invece caratterizzata un’impostazione etico-politica ed un programma costruttivo globale, nei quali la nonviolenza si manifesti sia nella salvaguardia dell’ambiente naturale e di tutte le forme di vita, sia nella ricerca di alternative costruttive ai conflitti.  II. L’ecopacifismo non è una dottrina politica ma neanche una semplice strategia d’azione. Sullo sfondo della proposta ecopacifista, infatti, si delinea un ben preciso modello di convivenza e di sviluppo economico-sociale. La sua caratterizzazione ecosocialista, autogestionaria ed antimilitarista è riconducibile alla tradizione etico-religiosa dell’Ahimsa gandhiana, alla nonviolenza laica di pensatori come Capitini ed anche alle proposte di pacifisti di matrice anticapitalista e terzomondista.  (Ferraro, 2014: 4)

I fenomeni di marginalizzazione sociale e di controllo centralistico della società, tipici di un modello economico che ha compromesso gli equilibri ecologici per sete di conquista e di dominio, sono alla base anche della progressiva eliminazione delle diversità culturali e linguistiche. Ma il pervasivo imperialismo militarista e guerrafondaio, che si affianca a quello economico tutelandone gli interessi globali, è ugualmente un frutto di quel sistema.

Secondo un’ottica nonviolenta, i conflitti non devono essere esorcizzati né occultati, ma rivelati, analizzati e possibilmente trasformati, o meglio ‘trascesi’, mutuando l’espressione usata da Johan Galtung (Galtung 2000) per caratterizzare e diffondere il suo metodo.  Per affrontare la triade alla base di tutti i conflitti (atteggiamenti e comportamenti ostili ed interessi contrapposti), infatti, egli ipotizzava che si debba far riferimento al triangolo costruttivo empatia-nonviolenza-creatività.

Ma se l’educazione alla pace e l’azione per la pace sono finalizzate al superamento costruttivo di conflitti altrimenti distruttivi, anche in ambito sociolinguistico ed ecolinguistico si potrebbe andare nella medesima direzione. Una comunicazione nonviolenta ha bisogno di strumenti ecolinguistici – come l’analisi critica del discorso – che rendano consapevoli dei pregiudizi e degli inquadramenti ideologici che alimentano i conflitti. Deve ipotizzare anche una modalità comunicativa alternativa, che usi il potere delle parole non per distruggere, ma per costruire relazioni positive fra individui e comunità.

Anche su questo terreno, già dai primi anni ’80 avevo provato a portare un contributo, ipotizzando una ‘educazione linguistica nonviolenta’ (Ferraro, 1984) che, se da un lato svelasse e denunciasse l’uso negativo della comunicazione linguistica, per fini di contrapposizione e di dominio, dall’altro proponesse una modalità di comunicazione positiva, costruttiva e creativa. Le metafore da me utilizzate erano le finestre contrapposte alle persiane, i ponti contrapposti ai muri e le colombe contrapposte alle civette.

Le mie Otto tesi per l’Educazione linguistica nonviolenta (ELN) cercavano di far luce su funzioni e disfunzioni del linguaggio umano, utilizzabile sia in positivo sia in negativo. Il percorso proposto si basava sulle tre principali funzioni del linguaggio: cognitiva, sociale ed espressiva. […] L’ELN propone di riaprire questa finestra sul mondo, eliminando al massimo deformazioni, equivoci ed ostacoli alla comunicazione interpersonale e riaprendo il flusso di una comunicazione che, già etimologicamente, vuol dire mettere in comune idee ed emozioni […] L’ELN propone di educare i ragazzi ad usare la lingua come strumento di pace e come mezzo di scambio empatico. Il primo passo è renderli consapevoli della negatività d’una comunicazione che sottolinei le diversità, presentandole come ostacoli e non come occasione di reciproco arricchimento […] L’ELN propone di restituire alle parole la loro natura di specchio del pensiero, di espressione chiara e onesta dei sentimenti. La ‘colomba’ del linguaggio sincero e rispettoso deve sostituire la ‘civetta’ d’una comunicazione falsa, ipocrita ed opportunista. (Ferraro 2018: 191-192)

Grande successo e diffusione hanno incontrato a livello internazionale, dalla metà degli anni ’90, gli autorevoli contributi di Marshall B. Rosemberg relativi alla Nonviolent Communication – NVC ® (Rosemberg, 2015). La Comunicazione Nonviolenta, in sintesi, è una metodologia che: (a) scoraggia generalizzazioni, giudizi e tentativi d’incasellare la realtà dentro categorie rigide e prefissate, promuovendo un’analisi oggettiva delle proprie sensazioni; (b) incoraggia la libera manifestazione dei sentimenti, superando timori, blocchi e sensi di colpa attraverso l’espressione autentica di quanto proviamo; (c) propone di mettere da parte critiche, rimproveri ed aspettative verso gli altri, riscoprendo ed esprimendo i veri bisogni; (d) auspica una comunicazione empatica con gli altri, evitando le pretese ed imparando ad esprimere richieste chiare e positive.

Un approccio ancor più vicino a quello ecolinguistico, infine, è stato formulato dallo psicoterapeuta biosistemico Jerome Liss (Liss, 2016)

La Comunicazione Ecologica (C.E.) […] è l’applicazione dei principi ecologici alle relazioni umane: coltivare le risorse di ogni persona, rispettare la diversità pur mantenendo una coesione globale, agendo per un obiettivo comune […] ristabilire un equilibrio ecologico tra i bisogni individuali e la crescita della totalità. Va quindi facilitata nei gruppi una comunicazione democratica, cercando soluzioni alternative ai conflitti e superando le valutazioni negative con una “critica costruttiva“. (Ferraro,2018: 194)

L’irenolinguistica – un mio neologismo per designare la formazione ad una comunicazione nonviolenta ed ecologica – potrebbe integrare studi specificamente ecolinguistici con l’intento educativo di cui dovrebbero farsi carico non solo le famiglie e gli insegnanti, ma anche quelli che gestiscono potenti mezzi di comunicazione di massa. A partire dalla decostruzione e demistificazione di strutture mentali ed espedienti retorici che falsano strumentalmente la realtà – nello specifico quella relativa al rapporto uomo-ambiente – un’educazione linguistica che rispetti i principi ecologici e sia veicolo di pace dovrebbe dunque articolare una proposta alternativa interdisciplinare.

A tal fine, operando una sintesi tra i tre metodi di educazione linguistica prima accennati, ritengo che un linguaggio ispirato ai principi della nonviolenza debba aiutarci: (a) a riconoscere reali bisogni e sentimenti autentici; (b) ad esprimerli sinceramente, formulando richieste chiare; (c) a dialogare con gli altri in modo positivo, empatico e costruttivo; (d) a proporre soluzioni quanto più possibile concrete e condivise.

Infine, tornando al dibattito sul futuro dell’ecolinguistica, è evidente che approcci differenti e con obiettivi diversi debbano però trovare una sintesi complessiva, che evidenzi il fine comune d’un reale cambiamento del rapporto fra patrimoni naturale e saperi umani.

 Da un lato, l’ecolinguistica…aspira a cogliere le complessità della-cosa-che-chiamiamo-linguaggio e, dall’altro, cerca di andare oltre la comunità scientifica sensibilizzando sull’interdipendenza tra pratiche discorsive e devastazione ecologica. […] Finora, i linguisti più attenti all’ecologia hanno concepito le dimensioni discorsive e linguistiche della crisi ecologica in termini di una dicotomia natura-cultura. Una lezione appresa da questo stato dell’arte è che in effetti abbiamo bisogno di una riconcettualizzazione delle questioni ambientali in generale e della dicotomia natura-cultura in particolare […] L’ecolinguistica può quindi collegare la ” hard science ” e lo studio del comportamento coordinativo nelle specie che chiamiamo Homo sapiens sapiens all’analisi delle conseguenze etiche e socioculturali della ”soft science” e ai dibattiti della ”scienza critica” sulle pratiche sociali anti-ambientali e distruttive. […] Finora, il problema principale dell’ecolinguistica non è stato il disaccordo interno o le lotte per il potere, ma piuttosto la mancanza di una vera interazione tra le sue varie parti. A che serve far sbocciare mille fiori, se non riusciamo mai ad apprezzare l’intero campo? Qual è il valore di esplorare la nostra piccola isola, se trascuriamo il resto dell’arcipelago?  (Steffensen e Fill, 2013: 25)

Questa ultima considerazione m’induce a sperare che si realizzi l’auspicata interazione tra i vari approcci all’ecolinguistica e che anche in Italia si allarghi la cerchia delle persone interessate ad approfondirla, non solo a livello accademico, ma anche all’interno di movimenti ambientalisti più attenti ad un’ecologia umana e sociale. Mi auguro che il presente contributo possa risultare utile in tal senso e che, tra i vari ‘fiori’ di questo campo tutto da esplorare e coltivare, si sappiano apprezzare anche quelli di un approccio nonviolento, oltre che ecologico, alla comunicazione linguistica.


Riferimenti

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CISILINO, William (2004) ”L’evoluzione della legislazione linguistica nella repubblica italiana: analisi del caso friulano”, Revista de Llengua i Dret, n. 42/2004 (pp.173-202)

D’ACUNTO, Antonio (2019) Alla ricerca di un nuovo umanesimo, a cura di Francesco D’Acunto, Amazon. [Ristampa di: D’Acunto, Antonio (2016) Alla ricerca di un nuovo umanesimo. Armonia tra uomo e natura nella lotta politica, Napoli,La Città del Sole]

DELL’AQUILA, V. e IANNACCARO, G. (2004) La pianificazione linguistica. Lingue, società e istituzioni, Roma, Carocci

FERRARO, Ermete (1984), Grammatica di Pace, Otto Tesi per l’Educazione Linguistica Nonviolenta (E.L.N.), Torino, Satyagraha (Quaderno n.11 degli Insegnanti Nonviolenti)

FERRARO, Ermete (2002) “Tutela e diversità”, in “Biodiversità a Napoli”, suppl. a Verde Ambiente, a. XVIII, n. 2, Roma, Editoriale Verde Ambiente (pp. 38-42)

FERRARO, Ermete (2004) Voci soffocate… L’ecologia linguistica per opporsi alla perdita delle diversità linguistiche e culturali, Napoli, autoprodotto da VAS -Verdi Ambiente e Società di Napoli e pubblicato nel 2007 dalla rivista online Filosofia Ambientale

FERRARO, Ermete (2014) L’Ulivo & il Girasole – Manuale di Ecopacifismo V.A.S., Napoli, Verdi Ambiente e Società – Campania (scaricabile come e-book da ISSUU (https://issuu.com/ermeteferraro/docs/manuale_ecopacifismo_vas_2_83d43f9735930d )

FERRARO, Ermete e DE PASQUALE, Anna (2018), “Una grammatica della pace, per comunicare autenticamente e senza violenza”, in: Saffioti R. (a cura di), Piccoli Comuni fanno grandi cose!  Pisa, Centro Gandhi Edizioni (Quaderno Satyagraha – pp.187-198)

FILL, Alwin (1993) Ökolinguistik: eine Einführung, Tübingen, Gunter Narr Verlag

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GALTUNG, Johan (2000), La trasformazione nonviolenta dei conflitti. Il metodo Transcend, Torino, Ed. Gruppo Abele (tit. orig.: Conflict Transformation by Peaceful Means (The Transcend Method)

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HALLIDAY, Michael K. (2003) On Language and Linguistics, (ed. by J. Webster), London-New York, Continuum

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NETTLE, Daniel e ROMAINE, Suzanne (2001), Voci del silenzio (Vanishing Voices) Sulle tracce delle lingue in via d’estinzione, Roma, Carocci

PERIN, Silvia (2013), Il concetto di sostenibilità linguistica (tesi di laurea magistrale in Filologia e Lett. Italiana, Rel. Prof. Lorenzo Tomasin – Venezia Università Cà Foscari

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SHIVA, Vandana (1995) Monoculture della mente. Biodiversità, biotecnologia e agricoltura ‘scientifica’, Torino, Bollati Boringhieri

STEFFENSEN, Sune Vork e FILL, Alwin (2013) “Ecolinguistics: the state of the art and future horizons”, Language Science, 41 A (pp. 6-25)

STIBBE, Arran (2014) “An Ecolinguistic Approach to Critical Discourse Studies”, Critical Discourse Studies, 11 (1), London, Routledge

STIBBE, Arran (2015) Ecolinguistics Language, Ecology and the Stories We Live By, London, Routledge

© 2020 Ermete Ferraro

Alice l’obiettrice ed il Cappellano Maddi

ALICE L’OBIETTRICE

Alice, per protestare contro la sfilata militare organizzata dal sindaco in occasione del quattro novembre, si era arrampicata su un grosso albero del viale, dall’alto del quale sventolava la bandiera iridata della pace.

«Abbasso le forze armate! – strillava, suscitando il mormorio di disapprovazione dei compaesani, che alzavano il naso verso la sua direzione – Non c’è proprio niente da festeggiare in una guerra che ha fatto milioni di morti!»

Del resto, i compaesani conoscevano bene le sue idee ribelli. Era risaputo che a scuola era la prima quando si trattava di proteste ambientaliste o di iniziative pacifiste. Non era certo un caso se l’avevano soprannominata ‘Alice l’obiettrice’. Era noto a quasi tutti che, dopo la morte del suo caro papà – un operaio antimilitarista che ai suoi tempi era stato obiettore e aveva prestato servizio civile nel paese vicino – quella ragazzina si era messa a contestare non solo i conflitti bellici, sui quali si era documentata a scuola e in biblioteca, ma anche la struttura militare ed il mercato delle armi.

«Piantala, Alice! Sei ridicola e fastidiosa!» la sgridò dalla strada don Pino, l’anziano parroco che, oltre che al catechismo, si era trovato come insegnante di religione alle medie e col quale le era capitato di discutere animatamente, senza però scalfire il tradizionalismo patriottico del prete. Don Pino allora si arrabbiava, la chiamava “testona”, le diceva che era una bambina arrogante, che avrebbe dovuto solo tacere su cose che non era in grado di capire e che, insomma, doveva smetterla di comportarsi da maschiaccio ribelle.

Quando Alice si accorse che tra i ‘veci’ della delegazione degli alpini in congedo c’era anche il prete, che tutto impettito trinciava il segno della benedizione rivolto ai suoi parrocchiani, la ragazza s’indispettì ancor di più e continuò a strillare slogan dall’alto del ramo, agitando la bandiera multicolore. Ma nella foga perse l’equilibrio e rovinò giù con un grido strozzato, finendo fortunatamente su un grosso mucchio di foglie ingiallite, che Giovanni lo spazzino aveva accantonato lungo il marciapiedi.

L’impatto col suolo, pur se attutito dalla coltre vegetale, non fu per niente leggero. La ragazza rimase a terra priva di sensi, cogli occhi semiaperti, mentre s’interrompevano bruscamente le note della banda e intorno a lei la gente iniziava ad assieparsi preoccupata.

Quando aprì gli occhi si accorse di trovarsi in un prato, sotto un grande albero fronzuto.

«Ahi, la mia testa! – si lamentò Alice, sollevando a fatica le spalle dal terreno umido – dove sono…?»

Non sentiva più suonare la banda e nemmeno le voci dei paesani, solo cinguettii degli uccellini. In lontananza, però, avvertiva delle voci smorzate.  Alice si alzò pianino, ancora stordita, si scosse l’erba e le foglie secche dai jeans e dal giubbotto e si guardò intorno. La vista era ancora un po’ annebbiata, ma sotto una quercia non lontana le sembrò di scorgere l’origine di quel sommesso vocìo.

Lì, infatti, era stato sistemato un rozzo tavolo da osteria, intorno al quale scorgeva tre persone che discutevano, alternando toni alti e bassi. Superato il capogiro iniziale, la ragazza smise di massaggiarsi la spalla e cominciò ad avvicinarsi, barcollando, a quel gruppetto, chiedendosi preoccupata che fine avevano fatto il paese e la sua gente.

A capo del tavolo, ricoperto da una tovaglia a quadretti bianchi e rosa piuttosto sporca, sedeva un tipo alto, con un soprabito nero ed un grosso cappello da alpino poggiato sulla testa, notevolmente riccioluta. Ai due lati sedevano due strani compagni, che Alice stentò inizialmente a riconoscere come persone, visto che più che altro sembravano buffi animali vestiti da uomini. Il primo era un tipetto agitato, con le orecchie un po’ troppo lunghe che spuntavano da un berretto scozzese e con un notevole paio d’incisivi superiori, che lo facevano assomigliare ad un coniglio. Il secondo era un ometto basso e grassoccio, che indossava una vecchia pelliccetta marrone ed esibiva, stampata sul viso, un’espressione ebete e sonnolenta.

«Questa scena mi ricorda vagamente qualcosa che ho già visto da qualche parte – rifletté Alice, raddrizzandosi e cercando di non zoppicare, in modo da non dare subito una brutta impressione – eppure non riesco proprio a capire che cosa».

«Guarda un po’! – se ne uscì all’improvviso l’uomo col cappotto nero ed il cappello piumato, girandosi verso di lei – si direbbe che abbiamo ospiti».«Salve! – disse impacciata Alice – Mi dispiace d’interrompervi, ma credo di essermi persa».

«Non ha importanza, figliola mia – rispose l’altro con sussiego – l’importante è che, pecorella o bambina che tu sia, dopo esserti smarrita, alla fine tu ti sia ritrovata».

«Già… – bofonchiò confusa la ragazza, non afferrando il senso di quelle parole – credo…di sì…ma…non capisco dove mi trovo».

«Io invece non capisco cosa sei venuta a fare qui – intervenne, contrariato, il tizio con le orecchie lunghe – non hai visto che siamo occupati e stiamo discutendo fra adulti…?».

«Beh, non l’ho mica fatto apposta! – replicò Alice, urtata da quell’intervento piuttosto antipatico – ricordo solo che sono caduta e …e in ogni caso non c’è bisogno di essere scortesi, mi sembra!»

«Ma vieni, piccola mia – intervenne conciliante il più autorevole del gruppetto – non far caso al mio amico: è un po’ brontolone ma non è cattivo…Dico bene, Marzio…?»

Al suo sguardo tagliente, questi abbassò la testa e diede un morso rabbioso ad un biscotto, coi lunghi incisivi sporgenti dal labbro leporino.

«Vieni, accomodati pure – ripeté il capo, voltandosi alla sua sinistra – sempre che l’amico Ghirotti non abbia niente in contrario…»

L’interpellato si limitò ad alzare le spalle e ad emettere un mugolio imbarazzato, tuffando nella tazza fumante il grosso naso, tirandolo fuori coperto di schiuma lattiginosa.

Alice, frastornata, si sedette al capo libero del tavolo, ringraziando educatamente per l’invito, come le aveva sempre insegnato la mamma, la quale però – a ben pensarci – le aveva insegnato anche a non accettare inviti dagli sconosciuti.

La ragazza restò per un po’ a guardare in silenzio lo strano terzetto, sforzandosi di ricordare se e quando li avesse già intravisti.

«Oggi è una bella giornata, però i tuoi pantaloni sono piuttosto sporchi – riprese all’improvviso il tipo col cappotto nero – avresti potuto renderti un po’ più presentabile, non ti pare?»

A questo punto Alice non riuscì a trattenersi: «Che razza di domanda sarebbe questa? Vi ho già detto che sono caduta e che non so neanche dove mi trovo, ma voi…lei se ne esce col fatto che i miei jeans sono sporchi…che poi, se vogliamo, è un’osservazione piuttosto personale, e non credo che…»

IL CAPPELLANO MADDI

«Calma, calma! L’ira è il sesto ma non il meno grave dei peccati capitali…– l’interruppe l’altro – non c’è bisogno di dare i numeri per una semplice considerazione!… Comunque è meglio se cominciamo daccapo, con le dovute presentazioni. Orbene, io sono don Maddi, cappellano della caserma a dieci chilometri da qui. Tu, carina, puoi chiamarmi Cappellano Capo Maddi oppure ‘reverendo’. L’amico alla mia destra, un po’ scorbutico, è il signor Marzio, che ha un allevamento di polli e conigli. Alla mia sinistra c’è il signor Ghirotti, una simpatica persona quando è…insomma, quando non beve…»

«Ma a me sembra che sta bevendo solo un cappuccino…» disse impulsivamente Alice, rendendosi subito conto che era meglio se restava zitta.

«Non è molto educato da parte tua introdurti in una conversazione privata – sentenziò seccato il Cappellano Maddi, mentre il Ghirotti emetteva un lieve grugnito – E inoltre… e inoltre, cara ragazza, sappi che non dovresti mai fidarti delle apparenze, anche quando si tratta di una tazza con dentro qualcosa… In ogni caso, tu non ci hai ancora detto chi sei e come ti chiami…»

«Mi scusi per l’interruzione, reverendo – riprese lei un po’ mortificata – mi chiamo Alice e ho quattordici anni. Beh, in effetti non so spiegare come sono finita qui… Ricordo che mi ero arrampicata sopra un albero con la bandiera…»

«La bandiera…bene bene – interloquì interessato il sig. Marzio, tuffando un altro biscotto nella sua tazza – abbiamo tra noi una bambina patriottica…Non l’avrei detto…»

«Scusi signore, credo che mi ha frainteso – replicò Alice – a dire il vero a me la ‘patria’ non mi dice un bel niente, forse anche perché il padre non ce l’ho più…» A questo punto si fermò un po’, pensierosa, ma riprese subito, alzando la voce: «Io poi non ho capito perché la terra dove nasciamo voi la chiamate così e non…che so…? Direi…’matria’. In fondo ‘terra’ è femminile, giusto?»

«Can dal porco! Ci mancava una piccola femminista al nostro tavolo…» si lamentò a bassa voce il sig. Ghirotti, che il tono di voce più alto aveva scosso dalla sua abituale sonnolenza.

«Non ho capito, cara fanciulla: avresti qualcosa da ridire sulla nostra sacra Patria? –intervenne severo ma contenuto don Maddi, aggiustandosi sulla testa lo sformato cappello da alpino, dalla cui nappina spuntava una verdognola penna d’anatra anziché la classica penna nera corvina – Ho la sensazione che tu sia una bambina un po’ presuntuosa…»

«In effetti me lo dice spesso anche don Pino – replicò Alice – ma la verità è che io dico solo quello che penso…»

«Presuntuosa e pure arrogante…» chiosò a sua volta, acido, il signor Marzio.

Ma don Maddi finse di non sentirlo e proseguì invece con tono conciliante: «E dunque tu dici ciò che pensi…Bene bene…! Ma sei sicura di pensare ciò che dici…?»

«Beh, credo di sì… – balbettò Alice – mi pare che sia più o meno la stessa cosa…»

«Eresia! – strillò scandalizzato il Cappellano a questo punto, cambiando bruscamente tono – sarebbe come dire che “Credo ciò che è vero” e “È vero ciò che credo” siano concetti equivalenti!»

Alice non seppe cosa rispondere e, un po’ preoccupata, preferì tacere.

«Ma poi…levami una curiosità, piccina – riprese, insinuante, don Maddi – di quale bandiera stavi parlando prima?»

«Veramente non sono tanto ‘piccina’, visto che, come ho detto prima, ho quattordici anni – replicò piccata Alice – e comunque mi riferivo alla mia bandiera della pace. Sa, reverendo: quella coi colori dell’arcobaleno…Me l’ero portata sull’albero per contestare la sfilata militare quando…»

«Poveri noi! – stava bofonchiando il Ghirotti – femminista e pacifista!», ma fu ancora una volta zittito dallo sguardo del Cappellano Maddi che, dopo una pausa imbarazzante, le chiese con voce flautata: «Deduco…che non ti piacciono i militari, nevvero?»

A quel punto lo sguardo della ragazza cadde proprio sul titolo di un giornale che spuntava dalla tasca del soprabito del cappellano. Le sue competenze nel latino erano piuttosto limitate, ma avvertì confusamente il senso di quel “Miles Christi”…

«Beh…ecco…Devo ammettere che in paese mi chiamano ‘Alice l’obiettrice’ proprio perché odio la guerra e non sopporto chi la fa. Il fatto è che, già da piccola, mio padre mi parlava di queste cose e allora io…»

Ricadde nuovamente il silenzio, interrotto solo dallo sgranocchiare del Marzio e da uno lungo sbadiglio del Ghirotti.

«Ma che sbadati! – riprese improvvisamente don Maddi, cambiando faccia e discorso – tu non ti senti del tutto bene e noi parliamo invece di offrirti qualcosa di buono da bere!»

«Oh grazie, don – rispose la ragazza, rinfrancata dal tono amichevole – effettivamente un po’ di caffellatte mi farebbe bene…È solo che non ne vedevo sul tavolo, perciò…»

«Bambina di poca fede! – la sgridò bonariamente il Cappellano Maddi – Per citare il grande sant’Agostino: “La fede è la volontà di chi crede”. Però tu ti sbagli ad affermare che è vero solo ciò che credi.»

«Veramente io stavo dicendo che…» provò a correggerlo Alice, ma egli proseguì, con tono ispirato: «La provvidenza, ricorda, non si vede ma c’è. E pure la mia scorta di caffellatte c’è, anche se non si vede». A questo punto tirò fuori da una tasca interna del soprabito una vecchia borraccia militare, ricoperta di tessuto mimetico, scoprendo così le due stellette argentee appuntate al colletto della talare.

«Ma questo non è mica caffellatte! – protestò Alice, dopo aver bevuto un bel sorso dalla tazza che gli era stata offerta – questo…questa è roba forte!»

«Ebbene, si tratta di caffè unito al ‘latte degli Alpini’, fatto con grappa e latte di bufala – la rimbeccò offeso don Maddi – per cui possiamo senz’altro chiamarlo ‘caffellatte degli alpini’, non ti sembra?»

«Ma come diavolo le viene in mente di dare da bere grappa ad una bambina?» domandò stizzita Alice, sbarrando gli occhi.

«Oh insomma, deciditi! – strillò a sua volta il Marzio, sbriciolando un biscotto tra le mani – Hai appena detto che non sei più una bambina…E allora: la sei o non la sei?»

«Beh, a questo punto credo che è meglio togliere il disturbo…» replicò Alice, indignata, alzandosi in piedi e facendo cadere la sedia, con un tonfo che risvegliò l’assopito Ghirotti.

Stava per andarsene quando il Cappellano Maddi si alzò anche lui, con uno strano sguardo.

«Sai dirmi che differenza c’è tra una penna di corvo ed una di anatra?» le chiese imprevedibilmente, lasciando Alice sbigottita.

«Beh… – rispose titubante – io non ne ho la minima idea, però prima…sì, prima in effetti mi ero accorta che la penna del suo cappello non era quella nera di corvo degli altri alpini che conosco…»

«Un’osservazione alquanto sconveniente – la sgridò il Cappellano, fattosi nuovamente severo – e che in ogni caso non risponde alla mia domanda…»

A quel punto, la conversazione cadde ancora. Alice, non sapendo che dire e che fare, rimase tornò a sedersi e sorbì imbarazzata un altro sorso dalla tazza.

«E così non ti piacciono i soldati…- riprese poi bruscamente don Maddi – suppongo quindi che non ti piacciano neanche i preti che, come me, assistono i militari, nevvero?»

IL SIGNOR MARZIO

«Vergogna! Questi ragazzi d’oggi non hanno rispetto per le gerarchie – interloquì nuovamente, il signor Marzio – Già sarebbe grave mancare di rispetto ai sacerdoti o ai membri delle forze armate, ma dal momento che i cappellani militari sono sia preti sia militari, questo vuol dire che tu, Alice, sei una scostumata al quadrato!»

«Grazie caro, ma non avevo bisogno di avvocati! – lo zittì infastidito il Cappellano Capo – Del resto questa ragazza è libera di pensarla come vuole. Anche se è evidente che pensarla così è da sciocchi presuntuosi che parlano di cose che non possono capire…»

«Le esatte parole di don Pino! – esclamò Alice – Si vede proprio che avete le stesse idee… Ma comunque io non mi lascio impressionare, perché so bene che il Vangelo non giustifica le guerre e che i primi cristiani si rifiutavano di combattere, e infatti…»

«Perbacco! – esclamò don Maddi – abbiamo una saputella che dà lezioni di religione ad un sacerdote! Vuoi salire sul tavolo a farci una predica contro la ‘militia Christi’?»

Alla battuta del prete, i due compagni gli fecero eco, ridacchiando in sottofondo.

«Beh, ora basta! – s’impermalì Alice l’obiettrice – Non me ne frega di ciò che pensate voi. Io so quello che dico e continuo a pensare che un prete non dovrebbe mai diventare un…»

«Un…cosa? – l’interruppe, gelido, il Cappellano Maddi – mi sembra che tu abbia ancora le idee molto confuse…»

«Proprio così – farfugliò il Ghirotti, riaprendo gli occhi – idee assai confuse».

«Beh, questo lo dite voi! Quel che so io – replicò Alice, rialzandosi di botto dalla sedia – è che perfino don Pino, al catechismo, ci ha insegnato che c’è un comandamento che dice “Non uccidere”; e che bisogna perdonarsi l’uno con l’altro; e che dobbiamo voler bene anche ai nemici e che…»

«Ma è esattamente così, bambina mia – intervenne serafico don Maddi – chi mai ha detto il contrario? Sta scritto infatti: “Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”. Ma, proprio per questo, non puoi mica negare che abbiamo dei nemici…»

«Già, ma allora perché diavolo benedite le armi, giustificate i soldati che vanno in guerra e invece non vi piacciono gli obiettori di coscienza?» riattaccò con foga la ragazza.

«Il tuo linguaggio continua a essere piuttosto sconveniente! – tagliò corto il Cappellano, scattando in piedi, lungo com’era, e puntando il dito verso Alice – È la seconda volta che nomini il diavolo! Forse è proprio lui che ti rende così presuntuosa e ti mette in testa idee antimilitariste…Ma, per fortuna, Alice, io sono una persona tollerante, anche perché ritengo che, cadendo, tu abbia battuto la testa…»

«Battuto la testa, già, proprio così…» ghignò Ghirotti inopportunamente, ma poi ritrasse la testa nel colletto della pelliccia, mortificato, scorgendo il viso severo del sacerdote.

«Oh, insomma! – strillò Alice, dando un pugno sul tavolo – non sono mica venuta a farmi prendere in giro, io!»

«E che ne dici di san Michele Arcangelo, san Giorgio, san Maurizio, san Marco e san Martino… – riprese il Cappellano Maddi, con tono più conciliante – Sono i protettori di vari corpi militari, ma per te non possono essere nemmeno considerati santi, nevvero…?»

«Ma che diavolo ne so? – rispose stizzita Alice, accorgendosi di aver involontariamente nominato il demonio per la terza volta – Saranno pure santi, ma quello che è certo è che non mi piacciono quelli che combattono con le armi e uccidono il prossimo, ecco! Invece mi piace molto la Madonna, sempre mite e paziente, che non…»

«Preferisci la ‘Virgo Fidelis’ dei Carabinieri, la Vergine di Loreto patrona dell’Aeronautica militare oppure la ‘Madonna del Cammino’, protettrice dei Bersaglieri? – intervenne sarcasticamente don Maddi – Oppure vogliamo parlare di santa Giovanna d’Arco?»

«Beh, io di arco preferisco quello iridato della pace – replicò a sua volta Alice, rossa in volto – e poi non mi va d’impicciarmi di quel genere di santi che proteggono chi spara e lancia bombe! Che poi, diciamolo pure che la storia dei ‘patroni’ ve la siete inventata voi preti!».

Ma le sue ultime parole furono coperte dalla voce dei tre che, per dispetto, si misero a cantare in coro: «Sul cappello, sul cappello che noi portiamo / C’è una lunga, c’è una lunga penna nera / Che a noi serve, che a noi serve da bandiera / Su pei monti, su pei monti a guerreggiar. / Oi-la-làaaa!»

«Oilalà un corno! – strillò a sua volta Alice – Sui monti a guerreggiare andateci voi, se ne avete il coraggio e la forza! Io continuerò a sventolare la mia bandiera della pace e, in ogni caso, le penne le uso solo a scuola, ecco!»

«Il problema è che a voi ragazzacci ribelli e scostumati nessuno insegna più l’educazione – sibilò don Maddi, gettando stizzosamente a terra il suo cappello piumato – non avete neanche l’idea di cosa significhi il rispetto dei superiori. Ignorate del tutto il valore dell’obbedienza e…»

«Per quanto ne so io, don Milani diceva che l’obbedienza non è più una virtù!» replicò trionfante Alice, voltandosi per evitare l’occhiata di fuoco del don.

«Oh Segnùr! E chi sarebbe questo don Milano? – insorse il signor Marzio, rizzando le orecchie e scoprendo ancor più gli incisivi superiori – sarà sicuramente uno di quei preti moderni che oggi vanno di moda…»

Ricadde quindi un profondo silenzio.

«No no, a me comunque interessa quello che dici – riprese poi il Cappellano, raccogliendo da terra e spolverando il suo berretto. Poi si risedette, ma al contrario, con le braccia poggiate sulla spalliera e lo sguardo vagamente inquisitore – Fammi capire: per te allora ubbidire a chi comanda non è un atto altamente virtuoso bensì…una specie di peccato?»

«Dipende… – rispose Alice, ora più calma – Naturalmente tutto dipende da cosa fai quando ubbidisci… Per esempio, quando mia mamma mi raccomanda di studiare di più la matematica, che tra parentesi non mi piace per niente, se io le ubbidisco faccio una cosa buona e quindi…»

«Quindi saprai dirmi come si fa una somma di monomi» s’intromise ancora il Marzio, lisciandosi le orecchie.

«Ma che…caspita c’entra! – protestò Alice – stavo cercando di spiegare che…»

Il Cappellano riprese a parlare, ignorando l’inopportuna interruzione dell’amico.

«Sappi, ragazza, che per un militare come me l’obbedienza vuol dire “esecuzione pronta, rispettosa e leale degli ordini attinenti al servizio ed alla disciplina, in conformità al giuramento prestato”, come recita il regolamento di disciplina. Obbedire “Perinde ac cadaver”, come del resto richiedeva ai suoi anche il grande sant’Ignazio di Loyola».

«Però io dico che dipende sempre e comunque dalle conseguenze» replicò lei, cocciuta.

«Saresti talmente presuntuosa da credere di poter giudicare, tu, se è giusto o meno l’ordine che ti ha dato un tuo superiore?» la rimbrottò il Cappellano Maddi, sbarrando gli occhi.

Questa volta Alice, vincendo la naturale impulsività, si fermò a riflettere prima di rispondere.«Perché non prendi dell’altro caffelatte…» suggerì conciliante il Ghirotti, dopo un rumoroso sbadiglio, per interrompere quel silenzio imbarazzante.

«A dire il vero non ne ho preso per niente, visto che prima mi avete versato nella tazza della grappa…» gli rispose Alice, spazientita. E, così dicendo, si alzò per lasciare una buona volta quella gabbia di matti.

«Sono davvero spiacente che tu non gradisca la nostra compagnia – disse allora il Cappellano, con un sorrisetto finto – eppure sono certo che continuare a parlare con noi ti avrebbe fatto solo del bene. Direi che ne hai proprio bisogno…»

«Beh, in ogni caso ora me ne devo proprio andare, reverendo – borbottò Alice, cercando di non essere sgarbata – anche se in effetti non so bene dove devo andare…»

«Lo vedi che restare in nostra compagnia potrebbe chiarirti le idee! – riprese trionfante don Maddi – chi le ha confuse come te dovrebbe affidarsi a chi ha tanto da insegnargli.»

«Grazie ancora – rispose la ragazza – ma credo che è meglio se me ne vado…»

«Come preferisci, figliuola. – disse amabilmente il prete – Prima di andartene, però, non ti dispiacerà recitare una preghiera con noi, nevvero?»

«Beh, ovviamente no, non mi dispiace…»  rispose Alice, spiazzata dalla richiesta. Quindi si alzò in piedi insieme al Cappellano e al Marzio. Il Ghirotti, intanto, si era nuovamente assopito, per cui questi lo svegliò con un’energica scrollata.

LA SFILATA DEI ‘VECI’

«Preghiamo! – esordì ieratico don Maddi, alzando le mani, dopo l’ennesima occhiataccia al povero Ghirotti, alzatosi in piedi – Diciamo insieme: “Patria nostra che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno…»

«Ehi! – l’interruppe Alice – ma lei ha detto ‘patria’ invece di ‘padre’. E no! Così non vale.»

«…Si obbedisca alla tua volontà – continuò imperterrito il Cappellano, con un vago sogghigno – così nelle armi di cielo come in quelle di terra…»

«Basta così – esplose Alice – adesso è davvero troppo! Però io me ne vado e vi lascio alle vostre preghiere militariste del cavolo.»

Ciò detto, corse via, si allontanò veloce da quei tre fanatici. Alle sue spalle udì comunque il commento stizzito del Cappellano: «Scappa, scappa, sciocca ragazzina presuntuosa! Vattene pure a obiettare da un’altra parte…»

Alice, che non era sempre una personcina garbata, soprattutto se la trattavano così male, si girò furibonda e stava accennando ad incrociare il braccio destro col sinistro in un gesto non proprio di saluto, quando inciampò in un sasso sporgente dal prato e cadde a terra. Al riaprire gli occhi, con la testa ancora dolente, si vide attorniata dai volti preoccupati dei compaesani, che mormoravano: «Si sta ripigliando…ha aperto gli occhi…»

Cominciò a sollevarsi piano per guardarsi intorno, accennando un flebile sorriso, ma vide incombere su di lei, in mezzo alle altre, tre sagome poco gradite. C’era un prete col cappello da alpino, un tizio coi denti sporgenti ed un tipo grassoccio, con una vecchia pelliccia.

«Oh no! – esclamò Alice, accasciandosi al suolo – ancora loro! Questo sì che è un incubo!». Nel frattempo, sullo sfondo, la banda aveva riattaccato a suonare l’inno degli alpini…


(C) 2020 Ermete Ferraro

“Come barbarea, così…marinea”

Barbara: martire e protettrice

Anche questo 4 dicembre ricorreva la memoria liturgica di santa Barbara,martire d’origine probabilmente orientale di cui poco si sa sul piano dell’agiografia ufficiale, a parte una leggenda che ne racconta le terribili vicende, con risvolti piuttosto splatter. Essendosi convertita al cristianesimo e, si dice, battezzata da sola, il padre per punizione, dopo averla rinchiusa in una torre, di fronte alla sua disubbidienza avrebbe tentato di ucciderla, ma Barbara sarebbe riuscita a sfuggirgli miracolosamente. Una volta catturata, Dioscoro l’avrebbe poi trascinata davanti ad un magistrato, ma nessun tipo di tormento (ustioni, taglio delle mammelle, martellate sulla testa…) sarebbe riuscito a prevalere sulla sua fede, costringendola ad abiurare. Esasperato, il genitore l’avrebbe infine portata in montagna, dove l’avrebbe personalmente decapitata, finendo però a sua volta incenerito da un fulmine. Nei secoli successivi, su santa Barbara in Occidente sono fiorite molte tradizioni popolari ed anche locuzioni proverbiali, spesso in dialetto, riferite alla sua funzione di protettrice dai fulmini e dal maltempo o di garante di buoni raccolti di grano e dei matrimoni. Dall’Oriente provengono invece tradizioni gastronomiche, ed Grecia ed in Turchia santa Barbara è festeggiata con tipici dolci, nei quali ricorre il grano delle celebrazioni di origine contadina.

«… La prigionia nella torre da parte di suo padre associò la sua figura alle torri, a tutto ciò che concerneva la loro costruzione e manutenzione e quindi il loro uso militare; […] Parimenti, per via della morte di Dioscoro, essa venne considerata protettrice contro i fulmini e il fuoco […] da qui deriva il suo patronato su numerose professioni militari (artiglieri, artificieri, genio militare, marinai) e sui depositi di armi e munizioni (al punto che le polveriere vengono chiamate anche “santebarbare”). Per quanto riguarda la marina militare (di cui fu confermata patrona da Pio XII con il breve pontificio del 4 dicembre 1951), la santa fu scelta in particolare perché simboleggiante la serenità del sacrificio di fronte a un pericolo inevitabile. È inoltre patrona di tutto ciò che riguarda il lavoro in miniera e dei vigili del fuoco». [i]

Insomma, Barbara è invocata da molte persone, impegnate in varie professioni, ma con una strana predilezione per le attività militari e paramilitari (artiglieri, artificieri, marinai, vigili del fuoco…), sebbene abbiano ben poco a che vedere col suo martirio.

È però questo il motivo per il quale – come ha riferito il quotidiano cattolico ‘Avvenire’ – l’ordinario militare per l’Italia, mons. Santo Marcianò, ha onorato S. Barbara, Patrona della Marina, con una celebrazione cui hanno preso parte il Capo di S.M. della Marina Militare, amm. Giuseppe Cavo Dragone, il Sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo, ilVicario episcopale della Marina Militare, don Pasquale Aiello ed altri cappellani militari.

 «…un appuntamento che per il vescovo castrense rappresenta “un dono particolare, un dono per tutti, soprattutto per voi, cari militari della Marina, che ringraziate oggi santa Barbara, vostra patrona, e che, in certo senso, ricevete il suo grazie per quanto avete fatto e state facendo, al servizio della nostra gente, soprattutto in questo tempo di pandemia…”. […] Voi militari, voi militari della Marina – lo dico con convinzione e ammirazione – siete stati e siete decisivi anche nella gestione di questa emergenza inattesa; avete rappresentato e rappresentate, sul piano sanitario e sociale, un punto di forza del nostro Paese, un elemento di sicurezza per la nostra gente, afflitta, spaventata e impoverita.». [ii]

Ma come fanno i marinai…a pregare?

Anche al termine di quella celebrazione eucaristica è stata recitata la ‘preghiera del marinaio’. Già, perché agli appartenenti alle forze armate non soltanto sono stati riservati ministri del culto ad hoc, presieduti gerarchicamente da un Vicario Generale Militare, supportato da uffici pastorali e logistici [iii] , ma sono state anche dedicate specifiche liturgie e preghiere. Fra queste c’è quella relativa ai militari di Marina, il cui testo viene letto sia a bordo delle navi in navigazione al termine delle messe e all’ammainabandiera, sia nelle caserme e nelle funzioni religiose per i defunti. Pochi sanno che la ‘Preghiera del marinaio’ (conosciuta anche come ‘preghiera vespertina’) fu composta nel 1901 dallo scrittore Antonio Fogazzaro (sì, proprio l’autore di Piccolo mondo antico e degli altri due romanzi della sua trilogia: Piccolo mondo moderno e Il Santo) e fu adottata ufficialmente dalla Marina Militare italiana nel 1902. Questo ne è il testo, tuttora in uso dopo 98 anni.

«A Te, o grande eterno Iddio, Signore del cielo e dell’abisso, cui obbediscono i venti e le onde, noi, uomini di mare e di guerra, Ufficiali e Marinai d’Italia, da questa sacra nave armata della Patria leviamo i cuori. Salva ed esalta, nella Tua fede, o gran Dio, la nostra Nazione. Dà giusta gloria e potenza alla nostra bandiera, comanda che la tempesta ed i flutti servano a lei; poni sul nemico il terrore di lei; fa’ che per sempre la cingano in difesa petti di ferro, più forti del ferro che cinge questa nave, a lei per sempre dona vittoria. Benedici, o Signore, le nostre case lontane, le care genti. Benedici nella cadente notte il riposo del popolo, benedici noi che, per esso, vegliamo in armi sul mare. Benedici!» [iv]

Sulla coerenza tra messaggio evangelico – incentrato sulla fraternità, la misericordia, la pace e l’amore perfino verso i nemici – ed ordinamento militare, autoritario gerarchico e finalizzato ad ottimizzare il mestiere di chi usa le armi in nome della patria, per distruggere cose e sterminare persone, mi sono espresso altre volte, per cui evito di ribadire le considerazioni critiche su chi, a mio avviso, mischia impropriamente croci e stellette. [v] Esaminando con attenzione il testo della citata ‘Preghiera del Marinaio’, però, non posso fare a meno di sottolineare alcune espressioni che, anche al netto della retorica patriottica ottocentesca, appaiono assai discutibili sul piano religioso, come “sacra nave armata” o “salva ed esalta, o gran Dio, la nostra nazione”. Per non parlare dell’insistenza vagamente idolatrica sulla bandiera italiana, con la richiesta al Signore di “porre sul nemico il terrore di lei” e di “donarle per sempre vittoria”, o anche della bellicosa metafora dei “petti di ferro, più forti del ferro che cinge questa nave”.  Traspare infatti la solita visione veterotestamentaria del “Signore degli Eserciti”, con la differenza che, mentre l’antica espressione ebraica יִֽהְיוּ גְּדֹלִים (YHWH tzabaoth) e greca Kyrios Sabaoth, si riferivano a schiere angeliche celesti più che ad armate terrene e che, comunque, nell’A.T. YHWH era considerato Dio e difensore solo del suo popolo eletto, e pertanto ostile ad i suoi nemici,  una preghiera cristiana rischia di essere blasfema se chiede a Dio di ‘esaltare’ e ‘dare vittoria’ ad una delle parti in conflitto, ‘terrorizzando’ e contribuendo a sconfiggere chiunque le si opponga. Infine, la richiesta di “comandare che la tempesta e i flutti servano a lei” (magari disperdendo e facendo perire annegati i suoi nemici…) sembrerebbe più appropriata ad un’invocazione a Poseidone o altra divinità pagana, ma è fuori luogo in un’orazione rivolta al Padre nostro comune, di cui il profeta scriveva: “…Egli parlerà di pace alle nazioni, il suo dominio si estenderà da un mare all’altro, e dal fiume sino alle estremità della terra”.  (Zac 9:10).

Devozioni per Marins, Navy sailors e Marines…

Ma i riti paramilitari non riguardano solo le forze armate italiane né simili cerimonie pseudo-religiose hanno a che fare solo col mondo cattolico. Purtroppo la pretesa tutela divina sulle proprie armate è molto più antica e diffusa, a partire dalle credenze politeiste e dalla tradizione semitica veterotestamentaria Entrambi hanno contagiato il Cristianesimo sia sul piano lessicale, a partire dal tertullianeo “Bonus Miles Christi” (non a caso diventato il titolo della rivista trimestrale dell’Ordinariato militare italiano), sia sul piano concettuale (dal costantiniano “In hoc signo vinces” al “Deus lo vult!” coniato da Pietro l’Eremita per sacralizzare le crociate, giungendo fino al blasfemo motto nazista “Gott mit Uns”).

Basta una ricerca su Internet per trovare diverse perle di questa subcultura religiosa, in base alla quale i guerrieri non si affidano più alla protezione di antiche divinità (come l’egizio Horus, il celtico Belatucadros, l’ellenico Ares, il romano Marte, il cinese Chi You o l’azteco Huitzilopochtli), ma alla tutela di quell’unici Dio – onnipotente ma paterno e misericordioso – che  al contrario dovrebbe farci sentire, per citare Papa Francesco, “fratelli tutti”. [vi]

I marinai francesi sembrano prediligere la protezione della Beata Vergine, come vediamo nel testo più soft della “Prière du Marin”, composta da Mons. Luc Ravel, membro della Diocèse  aux Armées Françaises, corrispondente d’Oltralpe del nostro Ordinariato:

 “… Vergine Maria, Regina delle Onde, alla quale i marinai, anche i miscredenti, sono sempre stati devoti, vedi ai Tuoi piedi i Tuoi figli che vorrebbero salire a Te. Ottieni loro un’anima pura come brezza marina. Un cuore forte come le onde che li portano, una volontà tesa come vela nel vento […] Ma soprattutto, o Madonna, non lasciarli soli al timone, fagli rilevare le insidie dove si areneranno prima di ancorare, vicino a Te, al porto dell’Eternità. Così sia». [vii]

Di tono meno conciliante sembrano le preghiere che la Chiesa Anglicana ha dedicato ai marinai della Royal Navy britannica, in una delle quali leggiamo:

«Oh potentissimo e glorioso Signore Dio, Signore degli eserciti, che governi e comandi ogni cosa […] ci rivolgiamo alla Tua divina maestà in questa nostra necessità, affinché tu prenda la causa nella Tua mano e giudichi tra noi e i nostri nemici. Ravviva la tua forza, o Signore, e vieni ad aiutarci […] affinché Tu voglia essere per noi una difesa contro la faccia del nemico. Mostra che sei il nostro Salvatore e potente Liberatore…». [viii]

Fra le preghiere suggerite dal Vicariato militare cattolico degli Stati Uniti, troviamo la seguente, rivolta a S. Michele Arcangelo, tradizionale compatrono delle forze armate:

«San Michele, l’Arcangelo, difendici in battaglia. Sii la nostra protezione contro la malizia e le insidie ​​del diavolo. Imploriamo umilmente Dio di comandargli, e tu, oh principe dell’esercito celeste, col potere divino ricaccia nell’inferno Satana e gli altri spiriti maligni, che vagano per il mondo, perseguendo la rovina delle anime. Amen». [ix]

Infine un significativo passo della tradizionale ‘professione di fede’ dei Marines, i fucilieri di Marina statunitensi:

«Davanti a Dio, io giuro questo credo. Io e il mio fucile siamo i difensori del mio paese. Siamo i dominatori del nemico. Siamo i salvatori della mia vita. E così sia, finché la vittoria sia dell’America, e non ci siano più nemici, ma pace». [x]

Forse c’è chi a tali parole risponderebbe “amen”, ma alla luce del Vangelo del Principe della Pace (Is 9:5) mi sembra che suonerebbe come un sacrilegio. Lascio pertanto la conclusione di questa mia riflessione alle parole che don Lorenzo Milani scrisse nel 1965, replicando ai cappellani militari che avevano criticato gli obiettori di coscienza.

 «Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. […] Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? […] O volete farci credere che avete volta volta detto la verità in faccia ai vostri «superiori» sfidando la prigione o la morte? se siete ancora vivi e graduati è segno che non avete mai obiettato a nulla […] Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate: Auspichiamo che abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di Giustizia, Libertà, Verità…». [xi]


Note

[i] Vedi la voce “Santa Barbara” in Wikipedia > https://it.wikipedia.org/wiki/Santa_Barbara

[ii] Antonio Capano, “Il ‘grazie’ di Marcianò alla Marina Militare”, Avvenire, 05.12.2020 , con integrazione dal testo dell’omelia di Mons. Marcianò, pubblicata sul sito dell’Ordinariato Militare per l’Italia > http://www.ordinariatomilitare.it/wp-content/uploads/sites/2/2020/12/SantaBarbara2020.pdf

[iii] Vedi la voce ‘Curia’ sul menù del sito web cit. > www.ordinariatomilitare.it

[iv] Il testo della ‘Preghiera del Marinaio’ – oltre che sul sito del Ministero della difesa (https://www.marina.difesa.it/noi-siamo-la-marina/storia/la-nostra-storia/tradizioni/Pagine/PreghieradelMarinaio.aspx  è stato pubblicato, insieme con quelli delle devozioni per varie specialità di altri corpi delle forze armate italiane, nell’opuscolo: https://associazionenazionalefantiarresto.it/inc/uploads/2019/06/Preghiere-FFAA.pdf

[v]  Cfr. gli ultimi articoli sul tema, pubblicati sul mio blog: Ermete Ferraro, Pregare per l’unità…dei cappellani militari (30.01.2020);  Riforma mimetica per religiosi con le stellette (15.03.2020)  e L’inverno di san Martino (13.11.2020).

[vi] Il testo italiano della cit. lettera enciclica “sulla fraternità e l’amicizia sociale”, pubblicata il 3 ottobre 2020, è disponibile in: http://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20201003_enciclica-fratelli-tutti.html

[vii] Mgr. Luc Ravel, Prière du Marin, pour les militaires >  http://site-catholique.fr/index.php?post/Priere-du-Marin (trad. mia)

[viii] “The Prayer to be said before a Fight at Sea against any Enemy”,in: The Church of England, A Christian Presence in Every Community, Prayers to be used at Sea > https://www.churchofengland.org/prayer-and-worship/worship-texts-and-resources (trad. mia).

[ix]  “Prayer to Saint Michael the Archangel” in: Archdiocese for the Military Services, USA, Prayers for the Military > https://www.milarch.org/prayers-for-the-military/

[x] Gen. William Rupertus (1941), The Creed of the United States Marine> https://it.wikipedia.org/wiki/Credo_del_fuciliere#:~:text=Io%20e%20il%20mio%20fucile,pi%C3%B9%20nemici%2C%20ma%20pace.%C2%BB

[xi] Don Lorenzo Milani, Lettera ai cappellani militari – Lettera ai giudici (a cura di Sergio Tanzarella), Trapani, Il pozzo di Giacobbe, 2017. Il testo è leggibile anche in:> https://www.liberliber.it/mediateca/libri/m/milani/l_obbedienza_non_e_piu_una_virtu/html/milani_d.htm