Oh Capitini, mio Capitini…

Il messaggio di un insolito rivoluzionario

imagesGiusto cinquant’anni fa moriva Aldo Capitini, il maggior esponente italiano del pensiero nonviolento. Correva il 1968, un anno indimenticabile che ha lasciato una traccia indelebile nella storia di tanti di noi che il mezzo secolo lo hanno superato già da un po’.  Icastico simbolo di quella ‘rivoluzione culturale’ che sembrava preludere ad una vera e propria rivoluzione economica e politica, il Sessantotto ha rappresentato la cifra d’un cambiamento epocale, non generazionale, nel quale la figura di Capitini si era collocata in modo eccentrico, ma autenticamente rivoluzionario.

Certo, le foto in bianco e nero che lo ritraggono immerso tra i libri non ci trasmettono la sconvolgente diversità del profeta indiano della Nonviolenza oppure del carismatico leader dell’insurrezione senza violenza dei neri statunitensi. Diciamo la verità: era ed è oggettivamente difficile scorgere dietro quel distinto docente in grisaglia e cravatta, dal mite sguardo incorniciato da spessi occhiali  da miope, un pericoloso rivoluzionario. Eppure egli è stato il miglior interprete in Italia di quella dirompente azione nonviolenta che Gandhi chiamava satyagraha. Il solo che sia riuscito a coniugare lo spirito radicale del vero democratico con la profonda spiritualità d’una religiosità laica ma al tempo stesso onnicomprensiva.

« Capitini aveva formato intere generazioni di giovani all’antifascismo durante gli anni ’30 e ’40, e poi altre generazioni all’esercizio della democrazia, con i Centri di orientamento sociale, nell’immediato dopoguerra dal ’45 in poi. Era ora pronto alla formazione nonviolenta dei nuovi giovani del ’68, ma la morte prematura ha fermato il suo progetto. Capitini è stato un maestro, la sua missione principale è stata forse proprio quella educativa per le nuove generazioni. Il suo era un insegnamento critico, voleva educare alla libertà, alla consapevolezza, alla ricerca, alla lotta per un futuro migliore, voleva creare le condizioni di conoscenza perché poi ognuno potesse crearsi una coscienza liberata: la maieutica della nonviolenza. Il potere lo considerava un “cattivo maestro” perché la sua scuola sfornava discepoli critici  e non cittadini obbedienti, la scuola dell’obiezione di coscienza. Dunque era un buonissimo maestro». [i] 

Uno come me che si è avvicinato alla nonviolenza quattro anni dopo la sua morte,  proprio grazie alla scelta dell’obiezione di coscienza, ha subito percepito l’importanza dell’insegnamento di Capitini. La mia matrice cristiana e la precoce attenzione per un modello ‘aperto’ e comunitario di società, infatti, mi hanno fatto sentire fin da allora in sintonia con una visione che aveva i suoi pilastri portanti nel rifiuto della violenza, ma anche nella riconciliazione ‘religiosa’ tra politica e morale. Non è certo un caso che uno dei miei maestri sull’impervia strada dell’azione nonviolenta sia stato Antonino Drago, che di Capitini ha evidenziato la dimensione etica dell’agire politico, a partire dall’imperativo categorico del rifiuto della violenza omicida.

«La politica, non ricorrendo più all’uccidere, torna ad essere morale, e la morale torna ad essere il centro sia della vita interiore che della vita sociale di ogni persona, e così infine in ogni persona tornano a riunirsi il privato e il pubblico. In altri termini, con la nonviolenza, la fede e la politica si ricongiungono, l’operazione esattamente opposta a quella del machiavellismo politico». [ii]

E non è neanche un caso che i 45 anni in cui ho portato faticosamente avanti i miei ‘esperimenti con la nonviolenza’ mi abbiano ripetutamente messo di fronte alla difficoltà di coniugare questi due termini, perfino all’interno dei movimenti contro la guerra, in nome di una nonviolenza totalmente laica o di un pacifismo esclusivamente ideologico.  Eppure la dimensione religiosa – come giustamente ha osservato Rocco Altieri, uno dei suoi più attenti studiosi – è esattamente ciò che accomuna i profeti della nonviolenza, da Tolstoj a Gandhi, da Capitini stesso a Luther King.

«..volerla elidere porterebbe ad uno snaturamento e ad una riduzione della nonviolenza ad antimilitarismo , o a una tecnica strumentale della politica per conseguire certi risultati. L’aggiunta religiosa è nella centralità dell’atto di educare, nella consapevolezza che non ci può essere vera rivoluzione senza una conversione personale, senza un lavoro su se stessi, senza un cambiamento nei propri stili di vita, senza acquisire una capacità di gestire i conflitti in modo nonviolento». [iii]

 

La ‘persuasione’ come percorso attivo verso la verità

images (3)Il concetto stesso di ‘persuasione’ – una delle parole-chiave utilizzate da Capitini fin dagli anni Trenta – mi sembra particolarmente significativo se vogliamo comprendere la sua particolare visione ‘religiosa’. E’ infatti un termine che evidenzia un processo di lento avvicinamento alla verità più che una fede acritica ed assoluta. In tempi di totale smarrimento di ogni riferimento ideologico o, viceversa, di insidiose tendenze all’integralismo religioso, dunque, direi che l’insegnamento di Capitini riesce ancora ad indicarci una via diversa verso una visione ‘aperta’ e costruttiva dell’impegno politico. La ‘persuasione’ capitiniana, infatti, non è frutto di un indottrinamento ideologico, ma piuttosto un non facile percorso verso la ricerca attiva – non contemplativa – della verità, che fa appello alla coscienza individuale per poi portarla a diventare coscienza collettiva, la sola che può operare la trasformazione dal basso della società.

«Il profeta, in quanto volto alla realtà da liberare, è proteso verso il futuro. Anche l’utopista guarda al futuro. Ma il profeta non è l’utopista. La differenza sta in ciò: mentre l’utopista disegna una stupenda struttura di società ideale ma ne rinvia l’attuazione a tempi migliori, il profeta comincia subito, qui e ora. […] L’utopia comincia domani, e può anche non cominciare mai; la tramutazione comincia oggi e non ha mai fine».[iv]

La prassi, d’altra parte, non dovrebbe mai diventare azione fine a se stessa, pratica politica priva di un orizzonte etico, al punto da degenerale nel cinico pragmatismo della Realpolitik. La bussola – c’insegnavano sia Gandhi sia Capitini – dovrebbe essere sempre la ricerca di un’intrinseca coerenza tra fini e mezzi, elemento indispensabile perché l’azione politica possa dirsi nonviolenta e vada oltre un generico – o peggio strumentale – pacifismo.  La via della persuasione prevede  quella “educazione permanente” di cui Capitini è stato il precursore anche sul piano pedagogico, poiché gli risultava evidente che tale ‘itinerario’ necessita di formazione, d’incontri, di scambi, di apertura alla diversità, di confronti assembleari.

«In questo programma dell’educazione permanente […] l’apertura alla compresenza ed all’omnicrazia porta, direi, la spina dorsale, coordinando le occasioni e gli stimoli […] Inoltre l’apertura all’omnicrazia, che è l’esercizio continuamente costruttivo delle assemblee, spinge pressantemente all’educazione permanente, perché le assemblee affrontano problemi, e i problemi bisogna conoscerli, approfondirli, vederne i precedenti, i riferimenti, le soluzioni proposte…». [v]

La costruzione di una strategia alternativa di liberazione dalle strutture di oppressione e di violenza, quindi, passa per una formazione continua, che ci aiuta a comprendere la complessità dei problemi ma, soprattutto, a confrontarci quotidianamente e costruttivamente con gli altri. Non però nella chiave di quel sempre più  diffuso relativismo culturale ed etico che induce a ritenere che tutti abbiano ragione e che una verità effettiva non esista. La ricerca della verità – in Gandhi come in Capitini – è sì un processo graduale, che si fonda sull’esperienza di ogni giorno, ma è caratterizzata dallo sguardo profetico di chi persegue un traguardo che superi la banalità del quotidiano, purtroppo spesso degenerata nella arendtiana ‘banalità del male’ .[vi]

L’aggettivo permanente si applica peraltro anche alla ‘rivoluzione’ teorizzata da Capitini, che può essere tale proprio perché nonviolenta ed aperta al confronto. Una rivoluzione che rimette il potere al centro dell’azione politica, conferendogli una connotazione etica ed una dimensione collettiva.

«Che cosa fare? La risposta è questa: non isolarsi, non cercare di affrontare e risolvere i problemi importanti da ‘isolati’ […] Per il problema sommo che è ‘il potere’, cioè la capacità di trasformare la società e di realizzare il permanente controllo di tutti, bisogna che l’individuo non resti solo, ma cerchi instancabilmente gli altri, e con gli altri crei modi di informazione, di controllo, di intervento. Ciò non può avvenire che con il metodo nonviolento, che è dell’apertura e del dialogo, senza la distruzione degli avversari, e influendo sulla società circostante per la progressiva sostituzione di strumenti di educazione a strumenti di coercizione. La sintesi di nonviolenza e di potere di tutti dal basso diventa così un orientamento costante per le decisioni nel campo politico-sociale. Si realizza in questo modo quella ‘rivoluzione permanente’ che se fosse armata e violenta, non potrebbe essere ‘permanente’, e sboccherebbe in un duro potere autoritario, cioè nella violenza concentrata dell’oppressione». [vii]

Il ‘potere di tutti’ come antidoto a elitismi di casta e populismi

images (1)Viviamo in tempi difficili. Ancor più ostici se ci si pone una prospettiva che metta al centro la pace, la giustizia ed il dialogo. Tecnocrazia, finanziarizzarione dell’economia, cinismo politico, divaricazione crescente delle differenze socio-economiche e crescita incontrollata della violenza a tutti i livelli – dall’interpersonale all’internazionale – non lasciano davvero molto spazio alla speranza in un mondo diverso e sembrano mortificare gli sforzi di chi si ostina a cercare di cambiarlo dal basso.  Una ‘maleducazione permanente’, inoltre, sembrerebbe essersi impossessata della nostra sempre più veloce e virtuale comunicazione, ridotta a freddo scambio mediatico, aspro scontro polemico e divulgazione di menzogne spacciate per dati di fatto.   Il movimento per la pace, a sua volta, già da molto tempo si dibatte tra divisioni interne ed appare bloccato dall’oggettiva difficoltà di trasmettere – e soprattutto di testimoniare – un messaggio profondamente alternativo in un contesto caratterizzato dal pensiero unico e dalla normalizzazione della violenza, da quella personale a quella degli eserciti.  Che fare, allora? La risposta ce l’ha data lo stesso Capitini, esortandoci a non isolarci, a cercare la collaborazione degli altri, a ragionare in una prospettiva comunitaria.

«La comunità vale come intensificazione di quell’esercizio degli affetti e dei sacrifici altruistici che è la famiglia: ma non deve assolutamente perdere il vantaggio del rapporto con tutti, e quindi con i diversi. Essa è una delle forme di realizzazione tra ciò che proprio e ciò che è altrui, tra il vicino e l’altrui, tra l’affine e il diverso, tra l’omogeneo e l’eterogeneo». [viii]

Sembrerebbero parole lontane dalla nostra sensibilità, ottusa dal pervasivo ed egocentrico individualismo della cultura dominante, che ha da tempo messo da parte il ‘noi’ e che anche nella scuola tende ad esaltare l’affermazione personale, il successo formativo, perfino lo ‘spirito imprenditoriale’. Eppure non dobbiamo cedere allo sconforto ma, al contrario, dobbiamo cercare intorno a noi i segni di una realtà alternativa diffusa ma spesso slegata, dispersa e sconosciuta. Il primo passo, allora, è ricostruire la rete virtuosa delle esperienze di pratica nonviolenta a livello educativo, sanitario, culturale, economico e politico. E questo non certo per rinchiudersi in una ‘comunità’ di persone che la pensano allo stesso modo, bensì per ‘contagiare’ una realtà molto diversa e lontana da tali principi.

«La nonviolenza è generativa: può portare alla luce un’umanità più aperta, più felice, più in pace […] La nonviolenza è aperta: l’aggettivo che più qualifica Aldo Capitini […] Per lui l’educazione è lotta, è inquietudine per l’educatore che si fa profeta scomodo, dilaniato dalla consapevolezza delle storture del mondo, della sua iniquità, della violenza che affligge l’umano e si scaglia anche contro l’incolpevole non-umano. Chi educa dice no, è questa la sua parola d’elezione […] Certo, il no capitiniano alla realtà-come’essa-è è il volto inquieto del sì alla liberazione: a cosa servirebbe obiettare se non ci fosse quella tensione, quella apertura a un domani sperabile?» [ix]

Il ‘potere di tutti’, insomma, non è un’utopia teorica da vagheggiare, soprattutto in un momento storico che vede messa in crisi la democrazia rappresentativa tradizionale, senza però che si sia riusciti a creare alternative che non siano pericolosi cedimenti al populismo demagogico o alla tecnocrazia delle lobbies. Il  capitiniano potere di tutti deve tornare ad essere il fine dello sforzo collettivo per rendere le persone protagoniste della politica, in quanto individui associati da un fine comune e capaci di controllare il potere dal basso.

La democrazia diretta da lui predicata e praticata, però, non può essere confusa con un generico assemblearismo né banalizzata in un movimentismo che affida le scelte collettive solo al discutibile e parziale consenso di una ‘rete’ mediatica.  Il vero capovolgimento dell’attuale paradigma consiste nel far sentire ciascuno in grado di controllare ciò che deve essere e deve fare, recuperando i metodi caratteristici dell’alternativa libertaria e della democrazia partecipativa, riproposti in Francia negli anni ’70 dal socialismo autogestionario [x] , ma poi frettolosamente accantonati. La stessa cosa è accaduta negli anni ‘90 all’alternativa ecopacifista dei Verdi, i cui ‘pilastri’ fondanti contemplavano infatti, oltre alla prospettiva ecologista, anche la giustizia sociale, la nonviolenza e la democrazia dal basso. [xi]

Questo cinquantesimo anniversario, allora, dovrebbe farci riflettere seriamente sulle occasioni perdute, sugli errori commessi, ma soprattutto sulle prospettive di un’alternativa nonviolenta al cui centro ci siano la coerenza fra fini e mezzi, il potere di tutti ed una visione aperta e comunitaria della società. [xii]  La rivoluzione nasce anche da noi, qui e ora, diventando sempre più coscienti delle scelte che facciamo ogni giorno e riappropriandoci di quel pezzo di potere che abbiamo, ma troppo spesso rinunciamo ad esercitare.

«Bisogna prepararci tutti al potere per il bene di tutti, cioè per la loro libertà, per il loro benessere, per il loro sviluppo». [xiii]


N O T E

[i] Mao Valpiana, Editoriale in Azione Nonviolenta, 4 (2018) > https://www.azionenonviolenta.it/azione-nonviolenta-4-2018-editoriale-di-mao-valpiana/

[ii] Antonino Drago, “Le tecniche della nonviolenza nel pensiero di Aldo Capitini”, in Sindacato e società, rivista della CGIL regionale dell’Umbria, anno VI n. 5-6, Perugia, 1986, p. 21

[iii] Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta – Per una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Pisa, Serantini, 1998, p.9

[iv] Norberto Bobbio, introduzione a: Aldo Capitini, Il potere di tutti, Firenze, la Nuova Italia, 1969, pp. 31-32

[v]  Aldo Capitini, op. cit., pp.109-110

[vi]  Il riferimento è al celebre saggio di Hannah Arendt sulla ferocia nazista, intitolata: “Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil” (1963) > https://it.wikipedia.org/wiki/La_banalit%C3%A0_del_male

[vii]  Aldo Capitini, Le tecniche della nonviolenza (1967),  Roma, Edizioni dell’asino, 2009 , pp.39-40

[viii] A. Capitini, Il potere di tutti, cit., p. 108

[ix]  Gabriella Falcicchio, Profeti scomodi, cattivi maestri – Imparare a educare con e per la nonviolenza, Bari, la Meridiana, 2018, p. 11

[x]  Cfr. articolo di Wikipedia ‘Autogestion’ (https://fr.wikipedia.org/wiki/Autogestion) e, in particolare, il libro di Pierre Ronsavallon, L’Age de l’autogestion, ou la Politique au poste de commandement, collection Politique, 1976.

[xi]  Vedi: I quattro pilastri del Partito Verde (https://it.wikipedia.org/wiki/Quattro_Pilastri_del_Partito_Verde  e http://greenpolitics.wikia.com/wiki/Four_Pillars_of_the_Green_Party ).

[xii] Una sintesi del pensiero capitiniano, con utili indicazioni bibliografiche, è stata pubblicata sul numero monografico della rivista Azione Nonviolenta > https://www.azionenonviolenta.it/nel-50-anniversario-della-morte-19-ottobre-1968-2018-compresenza-di-aldo-capitini/

[xiii]  A. Capitini, Il potere di tutti, cit., p 153


© 2018 Ermete Ferraro (www.ermeteferraro.org )

Nonviolenza alla pizzaiola

gandhi napoliGandhi si è fermato a Napoli?

Quando ho letto il titolo del libro di cui su Facebook si annunciava la presentazione, mi sono sentito incuriosito e provocato. Non capita spesso d’imbattersi in un romanzo intitolato in modo così intrigante da suscitare una sensazione al tempo stesso di piacere e di perplessità. Sono sicuro peraltro che “Gandhi si è fermato a Napoli” [i] –  il romanzo di Anna Maria Montesano di cui si discute lunedì 8 ottobre alla libreria ‘Iocisto’ [ii] – abbia ricevuto deliberatamente un titolo così provocatorio. Nel mio caso, poi, sentivo interpellata la mia storia personale in primo luogo come ecopacifista, che all’insegnamento di Gandhi sulla nonviolenza attiva si è abbeverato 46 anni fa, cominciando a frequentare, da obiettore di coscienza, il  gruppo storico dei ‘discepoli’ del professor Antonino Drago, che allora si riunivano nello storico palazzo Marigliano a S. Biagio dei Librai. [iii]Un secondo richiamo sollecitava anche la mia trentennale esperienza di napolitanologo, facendo riaffiorare nella mia mente – oltre ai dieci anni di esperienza come animatore sociale alla Casa dello Scugnizzo di Materdei, il ricordo d’un ancor precedente tentativo di traduzione napolitana d’un volantino sull’obiezione di coscienza, nonché l’indimenticabile filastrocca da me provocatoriamente composta in stile vivianesco nell’anniversario della presenza NATO a Napoli, recitata magistralmente durante quel corteo dal compianto Felice Pignataro.  Il terzo aspetto evocato dal libro, poi,  era la mia passione  per la letteratura umoristica, che mi ha consentito di guardare alle vicende più serie e gravi della vita con spirito un po’ distaccato, riuscendo a cogliere gli aspetti paradossali e ridicoli della realtà.

Ecco perché, appena mi sono imbattuto in un libro nel cui titolo s’intrecciava il ricordo del Mahatma Gandhi col riferimento geografico a Napoli ed ai suoi abitanti, evocando tra le righe anche il capolavoro di Carlo Levi, l’ho immediatamente acquistato e vi ho dedicato una lettura intensiva,  per soddisfare una naturale curiosità, ma anche per dissolvere l’iniziale diffidenza verso una lettura caricaturale o ‘macchiettistica’ di un tale personaggio. E a questo punto posso affermare che il non facile esperimento della Montesano è riuscito perfettamente. Mi sembra infatti che lo spericolato incontro ravvicinato del terzo tipo [iv] tra la gente della Napoli degli anni ‘30 e la complessa personalità del profeta della nonviolenza, col suo bagaglio di spiritualità indù e la sua spiazzante carica alternativa  – pur con qualche comprensibile semplificazione e cedimento alla leggerezza del divertissement – abbia messo chi legge in grado di comprendere che perfino una visione eticamente rigorosa e politicamente rivoluzionaria come quella gandhiana possa toccare nel profondo le corde emotive e la razionalità d’un popolo terragno beffardo ed anarchico come quello napolitano. E non mi riferisco solo al palese contrasto tra il suo “temperamento sanguigno” ed epicureo e la profonda spiritualità e stoica disponibilità al sacrificio che stanno a fondamento dell’Ahimsa di cui si la ’grande anima’ era espressione. Nel romanzo, tale ipotetico ‘corto circuito’ contrappone con esiti paradossali e perfino comici due visioni del mondo profondamente diverse che Inopinatamente, riescono comunque a comunicare e perfino ad empatizzare. Il mio riferimento al film di Spielberg, peraltro, non è casuale. Anche il saggio ‘santone’ indiano seminudo e sdentato, capitato fortunosamente a Napoli in compagnia d’un interprete e di una capretta, è  di fatto un ‘alieno’ per la povera gente della Sanità, che pur non manca di accoglierlo con rispetto e perfino con affetto.  Colpisce che ciò accade anche se quei popolani, pur sforzandosi, in quell’ometto strano non riescono a riconoscere nulla del politico arrogante sprezzante ed autoritario di cui stava facendo esperienza nell’era mussoliniana, ed ancor meno del classico ‘santo’, che la loro religiosità tradizionale legava inscindibilmente allo stupore magico per il potere di operare miracoli, certificandone le qualità taumaturgiche e garantendone anche la soprannaturale ‘protezione’. 

Santi, santoni e santarelle

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Una rara foto del viaggio di Gandhi a Roma (1931)

Non era casuale, del resto, neppure l’allusione dell’autrice al famoso romanzo autobiografico di Levi. Infatti anche il noto medico e pittore torinese – in quegli stessi anni ’30 confinato dal regime fascista in uno sperduto villaggio lucano per le sue idee comuniste – appariva un ‘alieno’ alla gente che vi abitava, imprigionata da una cultura magica e pagana senza tempo e la cui atavica e fatalistica rassegnazione è sempre stata sfruttata dai dominatori per assicurarsene il controllo.  Pur con le ovvie e profonde differenze, si può allora stabilire un raffronto tra il mondo chiuso e immobile del paesino della Basilicata in cui fu esiliato Levi, coi suoi irrisolti ed antichi problemi, e la realtà di un mortificata ex capitale come Napoli, in cui per qualche tempo si sarebbe trovato a soggiornare la figura simbolo dell’indipendenza dell’India. Plurisecolari dominazioni hanno per troppo tempo bloccato anche le potenzialità della sua gente, suscitandone però lo spirito ribelle, diffidente e beffardo con cui ogni Napoletano sa affrontare il potere.  Allo sforzo del colto medico ed artista piemontese per cercare di comprendere, con discrezione e rispetto, una realtà e mentalità profondamente differenti come quelle del profondo Sud, mi sembra che possa corrispondere la profonda curiosità ed apertura mentale del Mahatma per un mondo assai diverso da quello indiano, in cui si trova immerso perbreve tempo ma del quale riesce a cogliere lo spirito ospitale e l’innatagenerosità.

Certo, come confessa la stessa autrice nelle note finali del libro, Gandhi si è fermato a Napoli è nato un po’ per scommessa, come un’esercitazione letteraria, un divertissement. Mi sembra però che il risultato sia andato oltre queste premesse, sviluppando una storia che riesce a divertirci ma anche a farci riflettere sul potere creativo di ciò che la Montesano chiama ‘concordia’. Lei la chiama anche ‘umanità’, evocando la radice comune che dovrebbe spingerci a superare le ‘diversità’, soprattutto ora che una stagione politica perversa cerca di enfatizzarle sempre più, alimentando diffidenze, odi e rivalità. Direi che il senso del romanzo va oltre questo lodevole e condivisibile invito all’apertura del cuore e della mente, da non confondere con un generico appello al ‘volemose bene’.   La storia narrata dalla scrittrice, infatti, lascia intravedere la difficoltà della comunicazione non soltanto rispetto all’ovvia contrapposizione tra potenti e poveracci, dominatori e sudditi. Il distacco e l’imbarazzo provato dal Gandhi accolto trionfalmente a Roma da non meno imbarazzati esponenti del regime mussoliniano nel 1931 è facilmente immaginabile. I documenti fotografici e cinematografici che hanno registrato quella storica visita [v] rendono con evidenza lo sconcertante contrasto visivo tra le schiere degli impettiti gerarchi nerovestiti e l’esile figura del profeta della nonviolenza, avvolto nel suo dhoti bianco.   Il fatto è che il distacco emerge anche fra il ‘popolo’ che Gandhi conosceva ed a cui rivolgeva la sua autorità morale e quello che, pur incuriosito e disponibile, lo accoglie nei vicoli di Napoli. Il senso di disagio e di spaesamento sembra impadronirsi infatti sia del ‘santone’ che alla Sanità decide di fermarsi per stare fra gli ultimi, “povero i poveri”, sia degli abitanti di quel vivace rione, nei quali il reverente rispetto e l’innato senso dell’ospitalità si mescolano ad altrettanto disagio e spaesamento di fronte alla rigorosa visione etica e religiosa di quel ‘santo’ uomo…

L’umorismo sgorga proprio dalla contrapposizione tra la vitalistica e paganeggiante filosofia esistenziale della gente di Napoli e la rigoristica nonviolenza di quel vecchietto con gli occhiali che sfida i potenti, non mangia carne, non beve vino e per di più si porta a spasso un capretta….. I casigliani di via S. Teresa – ci spiega l’autrice – sono brave persone, gente semplice, sospesa tra religiosità tradizionale e cauta apertura alle dottrine comuniste. Fatto sta che essi non hanno perso  i loro naturali ‘sani appetiti’ e perciò ascoltano con istintiva diffidenza i precetti spirituali e morali della Grande anima, pur tentando rispettosamente – quanto maldestramente – di assecondarli.

Così parlò il Mahatma Gandhi…

71j4gONrCWL._SY445_La reazione spontanea dei novelli seguaci di Bapu, al di là dell’ammirazione per la rivoluzione che quel vecchietto testardo quanto sorridente è riuscito a scatenare in India, credo sia efficacemente riassumibile nell’ingenua quanto irriverente domanda che il più colto fra loro gli pone:

«Maestro, ma com’è che, solo con i vostri metodi pacifici, state per ottenere l’indipendenza dalla potente Inghilterra? Cosa gliene importa agli Inglesi del vostro digiuno e della rinuncia al sesso? Fossi al posto loro vi direi: – Non volete mangiare? Non vi piacciono le femmine? Embè, a noi invece piacciono assai e mangiamo alla faccia vostra! – Anche se, caro Bapu, Gustavo ci ha detto che la cucina inglese fa talmente schifo che, se fossi un soldato del re, farei pure io il digiunatore insieme con gli Indiani!». [vi]

La spassosa commedia degli equivoci – grazie all’abile conduzione narrativa della Montesano – continua in tante altre pagine, in cui alle nobili affermazioni di Gandhi, ad esempio sulla protesta nonviolenta attraverso l’astensione dal lavoro, fanno seguito le scombinate ed azzardate azioni di sciopero, inscenate in modo improvvisato da alcuni lavoratori del condominio. E qualche donna, inviperita di fronte alle ‘fesserie’ che mettono a serio rischio la certezza della ‘mesata’, per richiamare il coniuge alla ragione ricorrerà a sua volta alla ‘disobbedienza civile’, in una inconsapevole versione partenopea dell’aristofanesco ‘sciopero delle mogli’. [vii]   Lo stesso Mahatma, che aveva deciso di scoprire la zona di Capodimonte passeggiando da solo nel suo stravagante abbigliamento, finirà con l’essere ricoverato in una clinica psichiatrica. Sarà perfino rapito da un gruppo di salumieri e macellai, seriamente preoccupati per la diffusione nel rione delle sue esotiche idee vegetariane. La sparizione misteriosa di quello che i gerarchi fascisti ritengono un bizzarro rompiscatole con qualche rotella in meno, a sua volta, darà lo spunto per altri divertenti equivoci, sullo sfondo di una Napoli natalizia. Il suo clima festaiolo e gaudente viene infatti funestato dalle brusche indagini tra i condomini delle ‘camicie nere’ e degli sgherri dell’OVRA, ma anche dall’insostenibile clima di ‘quaresima’ che la presenza del santone ha involontariamente suscitato fra quella povera gente.

I divertenti dialoghi e la sequenza rocambolesca degli eventi riportano alla mente l’umorismo del romanzo ‘filosofico’ di Luciano De Crescenzo, ma anche la vivace scrittura di Pino Imperatore, seguendo la scia d’un umorismo sanguigno che ben si adatta al temperamento dei Napolitani, con la loro innata tendenza a sacralizzare ciò che è profano ed a profanare ciò che è sacro. Ecco allora che, ad esempio, per gli improvvisati discepoli di Gandhi l’emulazione della storica ed eroica ‘marcia del sale’ [viii] si ridurrà a una scalcagnata marcia su Mergellina, con immancabile ‘partitella’ a pallone.  Il bello è che lo sforzo dei popolani del quartiere Stella per assimilare in qualche modo l’antica saggezza e la moderna lezione rivoluzionaria dell’insegnamento di Gandhi è parallelamente ricambiato dallo sforzo del Mahatma per comprendere la sanguigna ed epicurea natura dei suoi ospiti.

De nobis fabula narratur

«Il popolo partenopeo ha una natura felice, è generoso, pacifico, ospitale; dunque, perché volerlo snaturare assimilandolo a una cultura che non è la sua? […] La loro è una natura invincibile che, per quanto possa deviare per un tratto, ritorna sempre a se stessa. E i coinquilini se ne sono accorti, tant’è che il loro rapporto con il grande uomo è più affettuoso che mai, scevro da soggezione e incomprensioni, com’è stato nei primi giorni della loro conoscenza». [ix]

E’ forse questa la ‘morale della favola’ che l’autrice ci propone, intrecciando con la sua fantasia la biografia di Gandhi con la quotidianità di bidelli e muratori, pescatori e casalinghe. Una morale che è tale nel più profondo significato del termine, come insegnamento etico del ‘piccolo grande uomo’ indiano a tutti noi.

«Perciò – scriveva effettivamente il Mahatma più di 70 anni fa – dato che non penseremo mai nello stesso modo e vedremo la verità per frammenti e da diversi angoli di visuale, la regola d’oro della nostra condotta è la tolleranza reciproca. La coscienza non è la stessa per tutti. Quindi, mentre essa rappresenta una buona guida per la condotta individuale, l’imposizione di questa condotta a tutti sarebbe un’insopportabile interferenza nella libertà di coscienza di ciascuno». [x] 

20180428_190417Ebbene, di fronte al suo saggio invito alla tolleranza, che pur partiva da premesse rigorose e testimoniate con coerenza eroica fino alla morte, credo che non ci resti che comportarci di conseguenza. Quelli che Gandhi chiamava ‘esperimenti con la verità’  possono e devono contagiarci qui e ora, spingendoci a cercare insieme la strada più idonea per sconfiggere la distruttività della lotta armata e delle guerre con la forza costruttiva di una resistenza che sa fare a meno della violenza, senza essere mai viltà o rassegnazione passiva all’ingiustizia.

La nonviolenza non dovrebbe mai diventare l’altarino teorico sul quale bruciare l’incenso della nostra ammirata emulazione per un modello lontano, ma piuttosto il banco di prova della nostra coerenza, quotidiana e concreta, di servitori e testimoni della verità.  Da molti anni a Napoli – come nel resto d’Italia – ci sono tanti uomini e donne di buona volontà che non hanno mai smesso di mettere in pratica questa lezione, mantenendo vivo, pur tra mille difficoltà, l’insegnamento gandhiano e, più in generale, la proposta di una risoluzione nonviolenta e creativa dei conflitti, da quelli interpersonali a quelli internazionali.  Basti pensare ai movimenti pacifisti storici, agli educatori alla pace, a chi lotta contro la militarizzazione del territorio e a chi continua a studiare ed a proporre la teoria e la pratica della difesa civile nonviolenta, come alternativa concreta – e vincente – alla guerra.   Ma se a ricordarci questo profondo insegnamento è valsa anche la leggerezza di un romanzo come quello della Montesano, credo che bisogna rendergliene merito,  ringraziandola per averci ricordato, sia pur in modo scherzoso, una lezione di vita  “antica come le montagne”.

N O T E ————————————————————————————————–

[i] Anna Maria Montesano, Gandhi si è fermato a Napoli, Napoli, ed. Homo Scrivens, 2018 > https://www.ibs.it/gandhi-si-fermato-a-napoli-libro-anna-maria-montesano/e/9788832780543

[ii] V. la pagina facebook della libreria ‘Iocisto’ dedicata all’evento > https://www.facebook.com/events/270965787092344/

[iii] Cfr. un mio post di sei anni fa: Ermete Ferraro, “Oggi e sempre obiezione!” (2012), Ermete’s Peacebook >https://ermetespeacebook.com/2012/12/16/oggi-e-sempre-obiezione/

[iv] Il riferimento è ovviamente al celeberrimo film di Steven Spielberg, del 1977: Close Encounters of the Third Kind > https://it.wikipedia.org/wiki/Incontri_ravvicinati_del_terzo_tipo

[v]  Vedi, in particolare, il documento filmato dell’Istituto Luce > https://www.youtube.com/watch?v=GdzxTJojLz0

[vi] A. M. Montesano, op. cit., p. 27

[vii]  Il riferimento è alla commedia di Aristofane Lisistrata, che racconta di una singolare quanto efficace protesta delle donne greche contro la guerra, ricorrendo allo sciopero del sesso > https://it.wikipedia.org/wiki/Lisistrata

[viii] Uno dei classici episodi di disobbedienza civile degli Indiani, guidati da Gandhi in questa protesta nonviolenta contro il colonialismo inglese > https://it.wikipedia.org/wiki/Marcia_del_sale

[ix]  Montesano, op. cit., pp. 157-158

[x]  M. K. Gandhi, Antiche come le montagne (1958), Milano, Mondadori, 1987, p. 193 (ripubblicato  nel 2009 negli Oscar Mondadori)  > https://www.ibs.it/antiche-come-montagne-libro-mohandas-karamchand-gandhi/e/9788804586517