Etimostorie #11: quando le parole prendono una certa…piega

È sorprendente, talvolta quasi incredibile come, nel tempo, da azioni banali e quotidiane siano derivati vocaboli tanto numerosi quanto differenti e a prima vista indipendenti per senso e forma. Pur rispondendo a norme linguistiche abbastanza precise, del resto, la magia dell’esplorazione etimologica del nostro lessico risiede proprio nel fascino esercitato della scoperta d’impreviste connessioni tra parole, che ci apre a considerazioni importanti sul piano logico-semantico, ma anche psico-sociale.

Prendiamo, ad esempio, uno degli atti più antichi che l’homo sapiens abbia storicamente compiuto per migliorare la propria esistenza quotidiana. Ricavare striscioline da fibre vegetali verdi o secche (es.: da canne, giunchi, stipe dei cereali, lino etc.) per poi intrecciarle tra loro e comporne rudimentali tessuti per ricoprirsi e fabbricare utensili, è infatti un’attività documentata fin dal Neolitico, quindi all’incirca dal 5° millennio avanti Cristo, sebbene per qualcuno sia iniziata molto tempo prima. [1]

E da questa primordiale forma di manualità artigianale parte anche questa mia breve ricerca su una prolifica famiglia di parole, riconducibili all’antica radice sanscrita il cui significato era appunto quello di: mischiare, collegare, intrecciare.

«…lat. PLI-CARE, che alla pari di PLEC-TERE trae dalla rad. PARK- = PRAK-, PLAK-, che è nel sscr. pŗ-ņa-k-mi (per prak-na-mi) mischio, collego (onde il senso d’intrecciare […] e il gr. plek-ô attorco, intreccio plégma canestro…» [2]

In principio, quindi, era il verbo PLICARE, che descriveva l’antichissima azione di piegare ed intrecciare fibre vegetali e animali per scopi domestici, solitamente affidata alle donne. Ebbene, da quel primordiale e materiale atto di PIEGARE (valacco plecà, prov. piegar, fr. plier, sp. llegar, port. pregar, chegar, ingl. ply) [3] sono scaturite altre e differenti forme verbali, grazie al solito meccanismo della modificazione preverbiale del verbo-base, mediante vari prefissi preposizionali. Basta anteporre al verbo originario le più comuni preposizioni latine, infatti, per dar vita a verbi di significato anche molto diverso, la cui origine resta ai più insospettabile.

AD- ha originato il verbo AD-PLICARE, da cui APPLICARE, APPLICARSI, indicante l’azione di apporre qualcosa sopra un’altra, accostare, far aderire, mettere in pratica, adattare e, in forma riflessiva, quelle di dedicarsi ad un compito. [4]

CUM- è la preposizione che denota sia gesti di unione e rapporti di compagnia, sia la sovrapposizione/composizione di elementi singoli. Da qui il verbo CUM-PLICARE, il cui significato prevalentemente negativo dipende dal fatto che complicare situazioni e relazioni è quasi sempre causa di problemi e conflitti, o quanto meno di difficoltà. Per non parlare dei sostantivi derivati da quel verbo, come complice o complotto, che evocano azioni illecite, delittuose o comunque segrete.

DIS-PLICARE ed EX-PLICARE (da cui dispiegare e spiegare), viceversa, richiamano azioni che fanno da antidoto al verbo precedente, rendendo situazioni e relazioni finalmente palesi, chiare, evidenti e comprensibili, mediante procedimenti di elaborazione logica che servono ad eliminare le ‘pieghe’ provocate da chi avrebbe invece interesse a mantenerci nell’oscurità e nell’ignoranza.

IN-PLICARE cioè piegare dentro, avvolgere [5] – suggerisce ugualmente azioni poco positive, che presentano un soggetto implicato da altri in qualcosa che non nasce dalla propria volontà, coinvolgendolo in atti e situazioni spesso spiacevoli o pericolose. Anche l’accezione più positiva del verbo ‘implicare’, ad esempio quella logico-matematica sintetizzata dal connettivo ifà then [6] ), non prevede scelte autonome, bensì automatismi ed esiti obbligati, conseguenziali a scelte ed azioni precedenti. Una variazione semanticamente diversa dello stesso verbo è quella che ha generato il verbo impiegare ed il sostantivo impiego, col significato di utilizzo di qualcosa (un capitale, una risorsa…) o di qualcuno (ad esempio un lavoratore…) per ottenere un certo risultato.

Credo che generazioni di giovani che hanno ricercato ed atteso, spesso a lungo, proprio un buon impiego non abbiano affatto collegato tale destinazione produttiva con un mortificante atto di piegamento, sebbene per molte persone il lavoro impiegatizio abbia molto presto rivelato la sua natura subalterna e dipendente…

Concludendo: mi sembra che esplorare i vari significati del verbo PLICARE e suoi derivati possa risultare utile alla comprensione di procedimenti logici e psico-sociali che hanno caratterizzato l’esistenza umana. Un’esistenza troppo spesso travagliata, in cui alcuni sembrano malignamente darsi fare per COMPLICARE la vita degli altri e per IMPLICARE forzatamente il prossimo nei loro progetti, costringendoli così a fare di tutto per ESPLICARE/SPIEGARE la propria situazione, cercando spiegazioni e chiarimenti.

Del resto, la stessa radice semantica indica un’azione in cui piegarsi non è necessariamente un gesto di sottomissione o di rassegnazione, poiché storicamente ci parla del necessario adattamento umano all’ambiente fisico e sociale, non per subirlo passivamente ma per coglierne le risorse positive e modificarne gli aspetti negativi. Va ribadito, comunque, che scegliere di vivere da ‘piegati’ contraddice la natura libera e autonoma dell’essere umano, costringendolo a guardare in basso anziché alzare lo sguardo verso prospettive più elevate e dignitose.

La stessa evidente complessità del mondo moderno, peraltro, va accettata consapevolmente come una caratteristica evolutiva irrinunciabile, piuttosto che banalizzarla con atteggiamenti e comportamenti improntati invece ad impossibili semplificazioni e schematizzazioni della realtà. Stiamo attenti, però, a non confondere ciò che è per sua natura COMPLESSO con ciò che, viceversa, è stato volutamente COMPLICATO, dal momento che non si tratta per nulla di aggettivi sinonimi.

«Secondo Barenboim, riferendosi all’opera musicale: “Complesso è un miscuglio, un insieme di cose che possono essere anche molto semplici, ma che insieme generano qualcosa di nuovo e completamente diverso, da cui a volte non sai cosa aspettarti. Complicato è qualcosa di macchinoso e che non possiede nessuna logica interna”.» [7]

Morale della favola: applichiamoci, implichiamoci ed impieghiamoci pure, ma a condizione di non trasformare il nostro necessario piegarci alla realtà fisica e sociale in una preventiva – ed evidentemente deleteria – rinuncia a quella libertà di pensiero e di coscienza che è invece la nostra più grande ricchezza.

© 2023 Ermete Ferraro


[1] Cfr. https://www2.muse.it/perlascuola/documenti/scoperta_filo.pdf  – Vedi anche: https://alleyoop.ilsole24ore.com/2020/01/19/dalle-origini-delluomo-al-futuro-sostenibile-la-storia-sorprendente-dei-tessuti/

[2]  https://www.etimo.it/?term=piegare

[3] Ibidem

[4] Cfr. https://www.treccani.it/vocabolario/applicare/

[5] Cfr. https://www.treccani.it/vocabolario/implicare/https://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=implicare

[6] Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Implicazione_logica

[7]  https://www.elenabizzotto.it/non-sono-sinonimi-complesso-e-complicato/#:~:text=Complesso%20%C3%A8%20un%20miscuglio%2C%20un,non%20possiede%20nessuna%20logica%20interna.

Verbi violenti troppo frequenti…

In principio era il preverbo…

In un precedente articolo [i], utilizzando la tabulazione dei dati desunti dal Nuovo Vocabolario di Base della lingua italiana [ii], ho provato a mettere in luce quanto perfino il ‘lessico fondamentale’ (condiviso dall’86% di coloro che la utilizzano) lasci troppo spesso trasparire una realtà socioculturale segnata da un linguaggio militare e bellico. Quella mia ricerca, infatti, evidenziava che tra i 2000 lemmi considerati ‘fondamentali’ (ridotti a 1790 escludendo pronomi, articoli, avverbi, preposizioni etc.) ben 259 vocaboli italiani ricadono nel campo semantico bellico-militare. Ciò significa che il 14,6% di quel totale – cioè una parola su sette – rispecchia atteggiamenti sostanzialmente autoritari e violenti. All’interno di questo preoccupante contesto, inoltre, troviamo parecchi verbi indicanti azioni dirette contro un indistinto universo ‘nemico’, o comunque animate da intenti ostili, se non esplicitamente distruttivi. Per approfondire quest’ultimo aspetto – tenuto conto che quasi 9 italiani su 10 utilizzano un lessico che non solo è estremamente ridotto ma è anche costituito per quasi il 15% da locuzioni aggressive – ho provato ad affrontare questa realtà da un punto di vista specificamente etimologico-semantico.

Ne risulta che parecchi verbi ‘fondamentali’ d’impronta bellicosa devono la loro aggressività anche all’utilizzo di alcuni prefissi preposizionali (o ‘preverbi’), che integrano o modificano il senso di base delle rispettive forme verbali. [iii] Si tratta generalmente di preposizioni latine, spesso congiunte a verbi semanticamente già violenti, cui imprimono una notazione di movimento (AD, DE, EX, IN, RE, SUB) oppure sottolineano che si tratta di azioni di gruppo (CUM), finalizzate a conseguire in tal modo un determinato obiettivo (OB). Ciò premesso, ho analizzato etimologicamente una ventina di verbi composti che mi sembravano tipici d’una comunicazione ostile, eppure utilizzati molto frequentemente dal 14% dell’86% del campione, ossia dal 12,04% degli italiani.

Partendo dal mio precedente database, ho verificato che col prefisso AD– ce ne sono 3 (AFFRONTARE, AMMAZZARE, ATTACCARE). Quelli preceduti da CUM– sono 4 (COMBATTERE, CONDANNARE, CONQUISTARE, COSTRINGERE). Altri 3 iniziano con DE- (DIFENDERE, DISTRUGGERE, DIVIDERE) ed altrettanti con EX– (ELIMINARE, ESCLUDERE, SPAVENTARE).  Il prefisso IN- ricorre in 2 casi (IMPEDIRE, IMPORRE) e OB- è presente in 4 verbi (OBBLIGARE, OCCUPARE, OPPORRE, UCCIDERE). Infine, con RE- ne iniziano 2 (RESISTERE, RISPONDERE) mentre con SUB- ne troviamo solo 1 (SOTTOPORRE).

Ebbene, pur considerando che alcuni elementi di questo campionario possono essere intesi con connotazioni diverse, resta innegabile che il principale ambito semantico di quasi tutti i verbi in questione rimanda ad un rapporto aggressivo e virulento coi loro rispettivi oggetti o referenti. La ricerca sull’etimologia di ciascun preverbio sembrerebbe riportarci ad un mondo primitivo, caratterizzato dai rapporti di forza tipici di chi lotta per la sopravvivenza. Una violenza atavica che però sembra non aver smesso d’improntare il linguaggio attuale e che, quasi sempre in modo inconscio, inevitabilmente finisce col condizionare la nostra comunicazione verbale e le nostre relazioni.

A questo punto passiamo all’osservazione al microscopio etimologico – e quindi più da vicino ed in profondità – di queste 22 forme verbali composte così tanto diffuse, ma di cui forse solo in pochi conoscono il significato originario e le trasformazioni di significato che hanno subito.

La minacciosa forza dei preverbi AD- e CUM-

La preposizione latina AD, utilizzata come prefisso modificante di un verbo o di un sostantivo, suggerisce il movimento verso qualcuno o qualcosa, un avvicinamento, ma talvolta l’inizio di un processo, un rafforzamento, nonché un atteggiamento sia favorevole sia contrario [iv] . Nei tre verbi con questo preverbo, l’indicazione di un moto ostile si unisce al significato già aggressivo dei verbi modificati, rafforzandolo.

  • Nel caso di AFFRONTARE, dalla base latina frontem derivano altri sostantivi e relative forme verbali (affronto, confronto, raffronto…), che indicano azioni di cui il prefisso AD- precisa la direzione e/o destinazione. L’etimo di questa parola sembrerebbe risalire alla radice sanscrita *BHRU, indicante l’arcata sopracciliare e presente anche in vocaboli germanici e slavi. Si esprime pertanto un’azione che ‘prende di faccia’ l’interlocutore, verso il quale il soggetto si dirige direttamente e minacciosamente [v].
  • Anche nel verbo AMMAZZARE il prefisso indica la direzione di un’azione intrapresa con intenzioni ostili, poiché il verbo latino mactare significava già uccidere (vedi sostantivi come ‘mattatoio’ o il verbo spagnolo matar). Anche se all’origine ci fosse invece il sostantivo ‘mazza’, la sostanza non cambierebbe, trattandosi comunque di un grosso bastone usato per colpire qualcosa o qualcuno.
  • In ATTACCAREil prefisso si aggiunge alla radice celto-germanica *TAC, il cui senso era aderire, fermare, agganciare, o anche toccare, partendo da una base latina (v. tangere, tatto…), che ritroviamo anche nel verbo inglese to take (prendere) [vi].

Sebbene il prefisso preposizionale latino CUM- sia di solito adoperato “per esprimere l’idea dell’unione, della compagnia, della condivisione[vii], nei quattro verbi seguenti funge piuttosto da rafforzativo di un’azione, sottolineando che è compiuta da più persone.

  • COMBATTERE, ad esempio, usa questo preverbo (modificato in COM-) per integrare il verbo latino battuere, presente anche in ambito non romanzo (ingl. beat, gael. bith). Probabilmente esso attingeva alla radice sanscrita *PAD (piede), per cui battere significherebbe in origine pestare, calpestare, percuotere col piede [viii] o, più latamente, colpire. Non dimentichiamo poi che da tale verbo derivano anche sostantivi tipicamente militari, come battaglia, batteria, battaglione etc.
  • CONDANNARE ha un significato ampio, non riferibile esclusivamente ad un contesto di scontro o di guerra. Il senso più diffuso, infatti, è quello giudiziario, che designa l’atto di dichiarare qualcuno colpevole, per poi infliggergli una pena (lat. damnum).  Come nel caso precedente, la preposizione sottolinea che si tratta di un’azione collettiva (giuria) o espressa da un giudice a nome della comunità. Peraltro, il senso ostile e violento del verbo appare evidente a prescindere dal motivo della condanna.
  • CONQUISTARE è un verbo meno trasparente dal punto di vista etimologico. Pochi infatti saprebbero risalire ai verbi latine cum-quirere > cum-quidere, a loro volta forme intensive del molto più innocente ed innocuo verbo quaerere (da cui ‘chiedere’) [ix]. Infatti non c’è dubbio che una conquista sia qualcosa di molto più violento di una  semplice ‘richiesta’, sebbene alla voce ‘conquistare’ la Treccani metta al primo posto proprio il significato di “ridurre in proprio dominio con le armi”. In seconda posizione troviamo “acquistare, fare proprio con fatica, con sacrifici, lottando contro difficoltà e ostacoli”, cui seguono le ulteriori accezioni “accattivarsi, guadagnare” e “far innamorare, sedurre[x]. La forza aggressiva del verbo, in questo caso, sembra dipendere dal prefisso, che suggerisce un atto collettivo e dunque più efficace. Si tratterebbe infatti di una ‘richiesta’ assai categorica, molto somigliante – nel linguaggio mafioso del Padrino di Ford Coppola – a “un’offerta che non si può rifiutare”.
  • COSTRINGERE compone lo stesso prefisso col verbo latino stringere, la cui radice *STRAG indicava “…comprimere, tirare a sé con forza […] premere o serrare con forza…” [xi]). Anche in questo verbo emerge l’intento aggressivo dell’azione e si comprende bene il suo significato di “forzare; obbligare qualcuno, con la forza o con altro mezzo, a fare cosa che sia contraria alla volontà o comunque non spontanea[xii].

DE-, EX- e IN- per escludere ed aggredire

Secondo la Treccani, il prefisso preposizionale DE- “… si trova in molte voci di derivazione latina, nelle quali indica ora allontanamento (per es. deviare, deportare), ora abbassamento o movimento dall’alto in basso (per es. degradare, deprimere, declinare), ora privazione (per es. dedurre, detrarre; cfr. anche demente), ora ha valore negativo (per es. decrescere), ora serve soltanto alla formazione di verbi tratti da sostantivi o aggettivi…” [xiii] .  Non c’è dubbio che atti quali allontanare, abbassare, privare e negare non siano riconducibili ad atteggiamenti e comportamenti pacifici e costruttivi. Se poi tre bruschi prefissi si uniscono a verbi già minacciosi, la violenza verbale è servita.

  • DIFENDERE, insieme coi verbi ‘offendere’ ed i sostantivi ‘difesa’ ed ‘offesa’ e relativi aggettivi derivati, è un “…composto di -fendo, nel senso di ‘colpire – urtare’, da una radice comune al ved. Hanti “colpisce[xiv]. Secondo altra fonte, il verbo fendo avrebbe una radice FAD, derivante dal sanscrito bâd-ayami, col significato di “spingere, stringere, pressare[xv]. In entrambi i casi si tratta di azioni violente, di minacce alla sicurezza personale e collettiva da cui sarebbe legittimo proteggersi, anche utilizzando la forza. Non a caso la Treccani indica prioritariamente le seguenti accezioni del verbo ‘difendere’: “1.a proteggere, preservare dal male, dai pericoli, dalle offese […] b. sostenere la causa di qualcuno […] 2. rifl. a) Proteggersi, ripararsi […] contrapporre la propria forza alla violenza del nemico o dell’avversario…” [xvi].  Indubbiamente il ‘diritto alla difesa’ è sancito dalle costituzioni e dalle leggi, in ambito giudiziario come in quello della ‘difesa nazionale’. Il vero problema, però, è che la tradizionale difesa armata e militare ha superato da tempo l’idea della pura e semplice ‘reazione’ ad un’azione aggressiva esterna e si configura sempre più come apparato di aggressione, sia pur col pretesto della ‘dissuasione’ o della ‘prevenzione’ della violenza altrui. La verità, come da tempo affermano i nonviolenti, è che “un’altra difesa è possibile”.
  • DISTRUGGERE, viceversa, è un verbo che è impossibile interpretare in senso positivo. Il dizionario Treccani enumera una serie di significati che lo classificano di fatto tra i più violenti: “distrùggere v. tr. [dal lat. destruĕre, comp. di de- e struĕre «innalzare, costruire»] …1. a. Abbattere, guastare, disfare, per lo più con azione o con mezzi violenti, scomponendo le parti d’un oggetto, dissolvendo, riducendo in rovina, in modo che la cosa sia resa definitivamente inutilizzabile o non ne rimangano talora neppure le tracce […] b. Annientare vite umane […] c. Ridurre al niente […] 2. Usi fig.: a. Rendere inutile […] b. Togliere completamente e definitivamente […] c. Annullare […] d. letter. Consumare a poco a poco, fisicamente o spiritualmente…” [xvii]. Non potrebbe essere diversamente, in quanto ‘distruggere’ utilizza il prefisso de– proprio per annullare il senso positivo del verbo struere (indicante azioni come: accumulare, stratificare, fabbricare, costruire, erigere etc.). Ecco perché è un po’ l’icona di un linguaggio ostruttivo e distruttivo, in quanto radicalmente opposto ad una comunicazione costruttiva, edificante e nonviolenta.
  • DIVIDERE è un verbo prevalentemente di segno negativo, ma dall’etimologia piuttosto incerta. Secondo alcuni il prefisso DISsi unirebbe ad un ipotetico *vido (in umbro vetu = dividerai e sanscrito vihyati = perfora [xviii]. Secondo altre fonti, invece: “il verbo dividere, …. sembra derivare dall’unione tra il prefisso dus-, che poi è diventato dis- e la radice vid- che alcuni ritrovano in vidēre. Quindi, quel ‘dis’ ci darebbe l’idea della separazione (piuttosto che quella di negazione) e ‘vid’ quella di una dimensione interna (in lituano vidus significa proprio centro)[xix]. In ogni caso, le possibili accezioni di tale verbo sono negative e non rimandano affatto ad un contesto relazionale caratterizzabile come costruttivo e privo di violenza.

Il prefisso EX- “…sotto l’aspetto semantico, conserva in una parte dei composti il sign. fondamentale della prep. ex, cioè «da, fuori, via» […] in altri casi indica negazione, privazione […] o mutamento di natura […]; in altri ancora esprime il concetto della pienezza, del compimento, conferendo quindi al verbo valore estensivo o intensivo…” [xx].

  • ELIMINARE ha un significato di base meno truce e violento di quanto appare. In effetti – etimologicamente parlando – significherebbe soltanto: cacciare da casa, lasciar fuori dalla soglia (extra limine) [xxi], dunque “escludere, scartare, far scomparire[xxii]. Si tratta comunque di un’azione di natura ostile, ma solo in tempi moderni il verbo è passato ad indicare una soluzione molto più radicale, cioè: “uccidere, togliere di mezzo, sopprimere, soprattutto un nemico, un avversario, una persona sgradita[xxiii].
  • ESCLUDERE è un un calco semantico di ‘eliminare’, essendo composto dal prefisso ex- (fuori) e claudere (chiudere). Siamo di fronte ad un ulteriore caso di azione espulsiva, che priva qualcuno del diritto di abitare in un luogo e/o di far parte di una comunità. Una sorta di rigetto, che espelle ed emargina una persona o un intero gruppo sociale dal suo contesto abituale, cui si interdice l’ingresso.
  • SPAVENTARE a prima vista non ha relazione col prefisso preverbo EX-, ma in latino era proprio questa preposizione che integrava il verbo pavère, in senso passivo col significato di tremare di paura, aver paura, ma anche, in senso attivo, di “provocare, incutere spavento[xxiv]. Un altro chiaro esempio di violenza, fisica o psicologica, che ricorre al terrore per forzare la volontà altrui e per conseguire i propri scopi.

IN-, RE-, OB- e SUB-: altri quattro preverbi ostili

Stando alla Treccani, “Il prefisso IN- (dal latino in-) può assumere in italiano due diversi valori. Può indicare mancanza, privazione, contrarietà, opposizione in parole derivate dal latino (inutile, insano) o formate modernamente […] Può essere usato per la formazione di verbi parasintetici derivati dal latino (incurvare, incorporare) …” [xxv]. Nei due casi seguenti sembra prevalere il secondo, che dà alla preposizione un valore locativo.

  • IMPEDIRE significa letteralmente “mettere ceppi, impacci ai piedi[xxvi] (dal sostantivo greco pous, podòs), e quindi – in senso metaforico – ‘ostacolare’, ‘opporsi’, ‘contrariare’. Ancora una volta riconosciamo un’azione senz’altro ostile, anche se talvolta questo verbo è usato per indicare l’opposizione ad una minaccia o ad un pericolo, come abbiamo già visto nel caso dell’ambivalente ‘difendere’.
  • IMPORRE, nella sua trasparenza semantica, non è invece equivocabile. Derivato dal latino in-ponere, designa un atto di per sé violento, frutto di arroganza e finalizzato al dominio. Ricorrere ad una ’imposizione’ vuol dire letteralmente: “Porre sopra, indi, fig. prescrivere, comandare[xxvii]. Significa perciò trattare le persone come si era abituati a fare con gli animali, costringendoli con gioghi, selle ed altri pesanti carichi a sotto-porsi ad un padrone senza scrupoli.

Il prefisso OB (“lat. ob- “a, verso, contro, in opposizione, di fronte a, a causa” e con valore rafforzativo[xxviii]) esprime sia un rapporto di causalità, sia un’avversione o un’opposizione, come verifichiamo nei seguenti quattro verbi.

  • OBBLIGARE coniuga ob-, già indicante una contrarietà, con il verbo ligare, che di per sé impone un legame, un vincolo, rendendo questo verbo un sostanziale sinonimo di ‘costringere’ e dello stesso ‘imporre’. È quindi difficile intepretarlo in senso positivo, come richiamo ad un legame etico, poiché l’etimologia ci presenta una costrizione materiale. Infatti, il verbo latino ligare deriva dal greco lygein (piegare, annodare), a sua volta riferito al sostantivo lygos (vimine) e al verbo sanscrito ling-âmi (piego) [xxix].
  • OCCUPARE compone il prefisso OB- (contro) col verbo latino capere (prendere), con assimilazione-raddoppio della ‘c’. Da qui il significato di “impossessarsi, impadronirsi[xxx], ma anche l’accezione bellicosa di “invadere o tenere con la forza delle armi” [xxxi].
  • OPPORRE – come i sostantivi e attributi da esso derivanti – è un altro verbo di sapore marziale. Ma in questo caso il preverbo, che di per sé esprime opposizione, si unisce al più neutro verbo ponere. Da qui il significato attivo e transitivo di “1. Porre contro, per impedire, per fare ostacolo, per contrastare” e riflessivo di “porsi contro, impedire (o cercar d’impedire) che una cosa abbia effetto o consegua i suoi fini[xxxii].
  • UCCIDERE (che latinamente era occidere, da ob prefissato al verbo caedere, cioè tagliare) è il più esplicitamente violento dei verbi esaminati, indicando l’azione definitiva e irrimediabile di togliere la vita. Atto peraltro considerato un crimine (omicidio) quando è compiuto da persone, ma purtroppo esaltato come gesto di valore patriottico quando invece è causato da corpi militari o da agenti cui è stata affidata la pubblica sicurezza, spesso con mandato molto ampio e discrezionale.

Le altre due preposizioni latine usate come prefissi verbali sono RE- (che di solito esprime il ripetersi di un’azione, nello stesso senso o in senso contrario) e SUB- (che in italiano fornisce un’indicazione locativa (‘sotto’), anche in senso metaforico.

  • RESISTERE, ad esempio, vuol dire: “Opporsi a un’azione, contrastandone l’attuazione e impedendone o limitandone gli effetti…” [xxxiii]. Inoltre la parola ‘resistenza’, anche nel linguaggio scientifico della fisica, indica la proprietà meccanica d’un corpo di non subire rottura sotto sforzo. Il prefisso re- in questo caso si è unito al verbo latino sistere (raddoppiamento di stare), col significato di fermare un atto, opponendovi una forza contraria. Eppure la sua collocazione tra i lemmi di sapore bellico e militare è frutto dell’errata – ma purtroppo diffusa – concezione del ‘resistere’ come reazione armata e violenta, mentre da oltre un secolo, ma senza che se sappia quasi nulla, una resistenza disarmata e nonviolenta è risultata più efficace e spesso vincente.
  • RISPONDERE. Apparentemente è un verbo innocuo o quanto meno di significato piuttosto neutro. L’etimologia, in effetti, ci mostra che il prefisso re- (indietro, ma anche di nuovo) va a modificare il verbo latino spondēre, (promettere, impegnarsi) nel senso di “parlare dopo essere stato interrogato, per soddisfare alla domanda fatta[xxxiv], ma anche – più polemicamente – di “replicare…ribattere, controbattere, reagire, contestare, confutare…” [xxxv] . Fatto sta che, si tratti di una partita a carte o di un battibecco fra coniugi, l’atto di ‘rispondere’ finisce spesso col perdere la sua valenza positiva di soddisfazione di una domanda/richiesta, per assumere un connotato più violento, sia pure sul piano verbale. Ci sono però anche casi – come ‘rispondere al fuoco’ o ‘rispondere ad un’aggressione’ – in cui la ‘risposta’ si palesa invece in tutta la sua minacciosa fisicità.
  • SOTTOPORRE, che chiude questa lista di ‘verbi violenti troppo frequenti’, appare univoco ed esplicito nel suo significato. Sub+ponere – il verbo composto latino da cui peraltro deriva anche ‘supporre’ – è infatti trasparente nell’indicare l’atto di porre qualcuno o qualcosa al di sotto, significando dunque: “assoggettare, soggiogare[xxxvi] e anche “a. ridurre sotto il proprio dominio…b. costringere qualcuno ad affrontare, o a subire, qualcosa di spiacevole o di non gradito o voluto[xxxvii].

Decalogo conclusivo sui preverbi violenti

Al termine di questa particolare indagine etimologica mi sembra utile trarne una sintesi in dieci punti, in modo da ricavarne qualche utile conclusione.

  1. Dei 7.500 vocaboli ‘di alta frequenza’ presenti nel citato Nuovo Vocabolario di Base della lingua italiana, quelli classificabili come ‘parole fondamentali’ sono 2.000 e ricoprono l’86% delle occorrenze.
  2. Sottraendo a questi 2.000 lemmi quelli meno significativi (pronomi, congiunzioni, avverbi etc.) il campo si restringe ai 1.768 vocaboli presi in esame come campione per la mia già precedente ricerca, finalizzata a verificare quanti rientrassero in tre ambiti semantici: a) bellico-militare, b) ecologico-ambientale, c) latamente pacifista.
  3. Nel primo settore della mia classificazione ho registrato 259 lemmi (pari al 14,6%) che ritengo espressione d’un linguaggio aggressivo e violento. Questo significa, in pratica, che una parola su sette rientrerebbe in tale allarmante contesto.
  4. All’interno del campione dei 1.768 vocaboli considerati ‘fondamentali’ dal NVdB ho contato 468 verbi, ossia il 26,5%.
  5. Il passo successivo è stato quello di enucleare tra le forme verbali censite quelle con una connotazione bellico-militare o comunque violenta che fossero composte con prefissi preposizionali che ne esaltassero la carica aggressiva. Quelli esaminati sono appunto i 22 verbi ‘ostili’ (quasi il 5% dei 468 ‘fondamentali’) che ho poi analizzato sul piano etimologico-semantico.
  6. I 6 preverbi considerati (AD-, DE-, EX-, IN-, RE-, SUB-), in effetti, hanno modificato in senso negativo le relative forme verbali di base, tra cui 9/22 già ostili di per sé.
  7. La carica semantica negativa dei prefissi, impressa ai verbi che modificano, ne sottolinea pertanto: a) con AD- la direzione; b) con DE- allontanamento, abbassamento o deprivazione; c) con EX- esclusione; d) con IN- privazione o contrarietà; e) con OB- contrarietà; f) con RE- opposizione; g) con SUB- sottomissione.  
  8. Dei verbi esaminati, circa la metà (10/22) manifestano una carica inequivocabilmente violenta ed esplicitamente guerrafondaia: AMMAZZARE, ATTACCARE, COMBATTERE, CONQUISTARE, COSTRINGERE, DISTRUGGERE, ELIMINARE, IMPORRE, OCCUPARE, UCCIDERE.
  9. I restanti 12 preverbi (AFFRONTARE, CONDANNARE, DIFENDERE, DIVIDERE, ESCLUDERE, SPAVENTARE, IMPEDIRE, OBBLIGARE, OPPORRE, RESISTERE, RISPONDERE, SOTTOPORRE) – sia pur in modo meno univoco – esprimono un atteggiamento ostile o manifestano volontà di dominio e di sottomissione:
  10. Concludendo, dalla mia indagine risulta che 1 verbo composto italiano su 20 totali censiti come ‘fondamentali’ esprime avversità, inimicizia, violenza oppure intenti di sottomissione. Per chi auspica un lessico pacifico, nonviolento e non-ostile è un dato preoccupante, da valutare molto seriamente.  


Note

[i] Ermete Ferraro, “Un vocabolario di base ‘fondamentalmente’ violento?” (14.4.23), Ermetespeacebook, https://ermetespeacebook.blog/2023/04/14/un-vocabolario-di-base-fondamentalmente-violento/

[ii] Tullio de Mauro (2016), Nuovo vocabolario di base della lingua italiana. (Cfr. anche il Dizionario Online di Internazionale, https://dizionario.internazionale.it/

[iii]  Fra i vari studi accademici sul valore modificante dei prefissi verbali cfr: Davide Bertocci (2017), ‘Intensive’ verbal prefixes in Archaic Latin –(https://www.academia.edu/37442997/_Intensive_verbal_prefixes_in_Archaic_Latin ); Ursula Lenker (2008), Booster prefixes in Old English – an alternative view of the roots of ME forsoothhttps://www.anglistik.uni-muenchen.de/personen/professoren/lenker/publikationen/2008-booster-prefixes-in-oe.pdf ; Dewell, Robert B. (2015), The Semantics of German Verb Prefixes (Human Cognitive Processing 49), Amsterdam/Philadelphia, John Benjamins.

[iv] Cfr. la presentazione di Agnes Jekl (Univ. di Budapest -2019) dal titolo “Cambiamenti nella funzione del prefisso verbale ad- dal latino classico all’italiano”, https://www.uniud.it/it/ateneo-uniud/ateneo-uniud-organizzazione/altre-strutture/centro-internazionale-plurilinguismo/allegati/ppt-jekl-cambiamenti-nella-funzione-del-prefisso-verbale-ad.pptx

[v]  Cfr. https://www.etimo.it/?term=fronte

[vi]  Cfr. https://etimo.it/?term=attaccare&find=Cerca

[vii]  Cfr. https://dizionari.corriere.it/dizionario_latino/Latino/C/cum_1.shtml

[viii] Cfr. https://etimo.it/?term=battere&find=Cerca

[ix] Cfr. https://etimo.it/?term=conquistare&find=Cerca

[x] https://www.treccani.it/vocabolario/conquistare/

[xi]  https://etimo.it/?term=stringere&find=Cerca

[xii]   https://www.treccani.it/vocabolario/costringere/

[xiii]https://www.treccani.it/vocabolario/de/#:~:text=%E3%80%88d%C3%A9%E3%80%89%20%5Bdal%20lat.,alto%20in%20basso%20(per%20es.

[xiv]  Dante Olivieri (1961), Dizionario Etimologico Italiano, Milano, Ceschina (voce: “difendere”)

[xv]  https://www.etimo.it/?term=difendere&find=Cerca

[xvi]  https://www.treccani.it/vocabolario/difendere/

[xvii]  https://www.treccani.it/vocabolario/distruggere

[xviii] Cfr. Olivieri 1961 (voce: “dividere”)

[xix]https://www.etimoitaliano.it/2015/04/divisione.html#:~:text=Per%20quanto%20riguarda%20la%20questione,che%20alcuni%20ritrovano%20in%20videre.

[xx]  https://www.treccani.it/vocabolario/ex/

[xxi]   https://www.etimo.it/?term=eliminare

[xxii]  https://www.treccani.it/vocabolario/eliminare/

[xxiii]  ibidem

[xxiv]  https://www.treccani.it/vocabolario/spaventare/

[xxv] https://www.treccani.it/enciclopedia/in-prefisso_(La-grammatica-italiana)

[xxvi]  https://www.treccani.it/vocabolario/impedire/ 

[xxvii]  https://www.etimo.it/?term=imporre&find=Cerca

[xxviii]  https://dizionario.internazionale.it/parola/ob-

[xxix] https://www.etimo.it/?term=legare&find=Cerca

[xxx] https://www.etimo.it/?term=occupare&find=Cerca

[xxxi]  https://www.treccani.it/vocabolario/occupare/

[xxxii]  https://www.treccani.it/vocabolario/opporre/

[xxxiii]  https://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/resistere/

[xxxiv] https://www.etimo.it/?term=rispondere&find=Cerca

[xxxv]  https://it.wiktionary.org/wiki/rispondere

[xxxvi]  https://www.etimo.it/?term=sottoporre

[xxxvii]  https://www.treccani.it/vocabolario/sottoporre/


© 2023 Ermete Ferraro

Etimostorie #10: ‘vigilare’ – ‘vegliare’

La Domenica delle Palme, ancora una volta, ci ha proposto il racconto di quanto accadde 2023 anni fa a Gerusalemme al rabbi nazareno Yehoshua, passato nel giro di poche ore dalle grida osannanti e festanti alle urla feroci della folla che assediava il pretorio. La cronistoria di quell’inverosimile processo sommario, culminato nella condanna a morte senza una chiara imputazione di colui che fino a poche ore prima era stata ritenuto un profeta ed un guaritore, risulta estremamente realistica ed efficace, pur con alcune varianti stilistiche nei tre evangeli sinottici.

Un passo particolarmente toccante e significativo è quello che narra la dolorosa sensazione di smarrimento, abbandono, delusione e tristezza provata dal Maestro nel giardino degli ulivi, circondato da discepoli stanchi, sfiduciati e quasi incapaci di comprenderne davvero le parole. Ed è proprio quella stanchezza – sia mentale sia fisica – che si era impadronita di loro che li aveva portati ad addormentarsi, anziché vegliare e pregare come invece era stato loro raccomandato.

«Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» [i].

Nel testo originale in greco di questo brano («Οὕτως οὐκ ἰσχύσατε μίαν ὥραν γρηγορῆσαι μετ᾽ ἐμοῦ. γρηγορεῖτε καὶ προσεύχεσθε ἵνα μὴ εἰσέλθητε εἰς πειρασμόν· τὸ μὲν πνεῦμα πρόθυμον ἡ δὲ σὰρξ ἀσθενής» spicca il verbo γρηγορέω (grigoréo), reso in italiano con “vegliare”.  Il Maestro, infatti, aveva chiesto loro di restare svegli e vigilanti, ma essi si erano comunque addormentati, in lingua greca καθεύδοντας, dal verbo καθεύδω (kathèudo).  Il prefisso preposizionale katà (giù, in basso, sotto) evoca il cadere nel sonno (in inglese si dice “to fall asleep”), metafora del conseguente “cadere in tentazione”, da cui Gesù pur li aveva esortati a guardarsi. L’espressione in greco, però, suona un po’ diversa: “μὴ εἰσέλθητε εἰς πειρασμόν” in quanto, più che al ‘cadere’ passivamente, allude al movimento attivo di chi si avvicina, va in direzione di qualcosa o qualcuno, entrando in un certo luogo (éis = in/dentro + érchomai =andare).

Ebbene, se innegabilmente l’opposto di addormentarsi, cedere al sonno, è ‘vegliare’, sarebbe forse utile approfondire quel verbo, che usiamo abitualmente ma di cui non sempre conosciamo il significato originario.  D’altra parte non basta non dormire per ‘vegliare’, come ci suggerisce il verbo parallelo vigilare, identico in latino, che però suggerisce significati aggiunti.

«V. intr. e tr. [dal lat. vigilare, der. di vigil -ĭlis «vigile»] (io vìgilo, ecc.). – 1. intr. (aus. avere) a. letter. Vegliare, stare sveglio […] b. Stare attento, usare molta attenzione perché qualche cosa avvenga nel modo voluto […] 2. tr. Sorvegliare, seguire con attenzione e controllare lo svolgimento di un’azione, il modo di comportarsi di una o più persone, di gruppi o di enti, o anche il funzionamento di impianti e macchinarî, per poter intervenire rapidamente ed efficacemente se necessario…» [ii].

Insomma, non è sufficiente rimanere svegli per essere davvero ‘vigili’, aggettivo che suggerisce un’attenzione specifica verso qualcuno/qualcosa (ad-tendere), una ‘intenzionalità’ (in-tendere) che può essere originata solo da una salda motivazione. Il verbo greco γρηγορέω [iii] suggerisce peraltro un’accezione un po’ differente, che è quella del correre, dell’andare di fretta, ma sostanzialmente quella dell’essere svelti in quanto svegli (aggettivo che rinvia al verbo ἐγείρω = essere sveglio). Insomma, quella raccomandata dal Maestro ai suoi discepoli era una ‘vigilanza’ che non si limitasse a non cedere al sonno (che è comunque un allontanamento dalla realtà), ma li motivasse ad esercitare un’attenzione particolare, soprattutto in un momento critico come quello che avrebbe preceduto la cattura, il processo e la condanna.

Oggi il termine ‘vigile’ continua ad applicarsi a coloro i quali svolgano un ruolo professionale di vigilanza, spesso quando il resto della comunità è da tempo ‘caduta’ nel sonno, per assicurare un controllo sui beni comuni e sulla sicurezza delle persone. Però, mentre dalle nostre strade vanno progressivamente scomparendo i tradizionali ‘vigili urbani’ (termine da tempo sostituito da quello più vago ed anodino di ‘agente di polizia locale’), proliferano viceversa le agenzie di vigilanza privata, diurna e notturna, a salvaguardia dei beni e degli interessi di singoli, condomini, aziende ed esercizi commerciali. In una società dove l’avere domina incontrastato sull’essere, questi parapoliziotti (non a caso chiamati spesso alla spagnola vigilantes) sono quindi chiamati a ‘vegliare’ e ‘sorvegliare’, ma solo per evitare che qualcuno ‘entri nella tentazione’ di portar via i nostri preziosi averi…

Che dire? Se dell’evangelica raccomandazione a “vegliare e pregare” non è rimasto molto, anche al desueto invito alla “vigilanza politica” non si direbbe ormai che siano molti ad aderire, poiché la maggioranza delle persone sembrano anestetizzate dal pensiero unico e tutt’altro che attente a ciò che accade intorno a loro. Ma è proprio per questo che dovremmo finalmente svegliarci dal questo torpore sonnolento, ricordando che, etimologicamente, vigilare e vegliare sono verbi “che dipendono dal verbo vigeo: essere vivo, vigoroso: rad. *vig- [iv].

Vigilare, infatti, è il modo migliore per dimostrare di essere davvero “vivi e vegeti”...

Note


[i]  Mt 26:40-42

[ii]  https://www.treccani.it/vocabolario/vigilare/

[iii]  Cfr. https://el.wiktionary.org/wiki/%CE%B3%CF%81%CE%B7%CE%B3%CE%BF%CF%81%CF%8E

[iv]  Cfr. voce ‘vegliare’, in: D. Olivieri, Dizionario etimologico dell’italiano, Milano, Ceschina 1965

Etimostorie n.7 : COSTRUIRE vs DISTRUGGERE

Mai come in questo momento – segnato da crisi di ogni genere e dallo sconvolgimento degli equilibri precedenti – avvertiamo il bisogno di costruire qualcosa di più saldo e di migliore. Di fronte alle distruzioni provocate dalla guerra, dalle catastrofi climatiche e dalla crescita delle disuguaglianze sociali ed economiche, infatti, sentiamo l’esigenza di ricostruire ciò che è stato brutalmente fatto a pezzi, si tratti di edifici, ponti ed altre infrastrutture urbane, ma anche di modalità di produzione, di relazioni internazionali e di rapporti umani deteriorati.

Una delle priorità fondamentali – dichiarate spesso solo sulla carta ma poco avallate concretamente dalle scelte politiche e amministrative – è quella di garantire a tutti il diritto all’istruzione, considerato giustamente uno di quelli basilari, su cui costruire una società più equa, solidale e rispettosa della natura.

Anche in questo caso, approfondire etimologicamente la connessione che esiste tra concetti che utilizziamo spesso – come appunto ‘distruggere’, ‘costruire’ e ‘istruire’ – potrebbe aiutarci a comprendere, e forse a risolvere, problematiche di tale portata. Scoprire il senso vero, originario, delle parole che usiamo ci abilita infatti a comprenderne l’essenza, racchiusa nelle antichissime radici dalle quali sono nati vocaboli che oggi ci sembrano privi di ogni collegamento tra loro, ma che ne racchiudono misteriosamente il cuore semantico.

Quando pensavo di soffermarmi su questi tre verbi, d’altra parte, ho scoperto che la mia riflessione nel merito non[LS1]  era affatto originale. Un altro etimofilo, infatti, aveva già trattato il nesso che intercorre tra verbi come costruire e distruggere, che nella forma italiana non appare del tutto evidente. Francesco Varanini – politologo, editore, docente di ‘informatica umanistica’ e fondatore di Assoetica[i] – si è soffermato proprio su questo tema.

“I verbi italiani distruggere e costruire sembrano all’apparenza privi di connessioni. Ma basta risalire al latino per vedere -l’uno accanto all’altro, l’uno il rovescio della medaglia dell’altro- il de-struere ed il con- struere. Il latino struos discende dalla radice indoeuropea ster- ‘essere rigido’, ‘duro’, e quindi ‘stendere’, ‘distendere’, ‘dispiegare’. Da cui il sanscrito strnoti, ‘tirare giù’, ‘spargere’; il greco stornymi, ‘spargere’; il latino sternere, ‘distendere’, ‘coricare’; lo slavo stira, ‘spiegare’, il russo stroji, ‘ordine’.Struere è ammassare, accumulare, stratificare: anche l’italiano strato discende da struere.L’etimologia ci rimanda ad una immagine precisa: all’inizio non c’è che una catasta, un mucchio. Poi via via gli elementi si accumulano”.  [ii]

Ecco: struere indicava i[LS2] n origine l’atto di ammassare elementi, di sovrapporre pietre per realizzare un muro, una protezione, delimitando un territorio, una realtà propria. Ma, come spiegano i dizionari etimologici [iii], il prefisso ‘cum’ di co-struire indica più di un semplice accumulo di parti, bensì una composizione ordinata, una ‘struttura’ che nasce da un’idea, un progetto da realizzare materialmente.

Cum-struere è quindi un’azione consapevole, positiva, che imita di fatto la strutturazione della materia, che mette insieme atomi e molecole secondo una logica interna, un ordine naturale. Il guaio è che questo lento e paziente lavoro di costruzione (si tratti di edifici come di relazioni) può essere azzerato in molto meno tempo da ciò che lo de-struttura, cioè dalla forza maligna della distruzione. De-struere è infatti l’esatto opposto di cum-struere, con la differenza che quel ‘de-‘ non richiede necessariamente il lavoro comune richiesto da chi costruisce qualcosa.  E quando proprio non si riesce a distruggere un’opera costruita da altri, la si può sempre ob-struere, cioè bloccare, interrompere, ostacolare.[iv]

E’ abbastanza evidente che questo excursus etimologico non è fine a se stesso, ma invita a riflettere sull’importanza di comportamenti ed atteggiamenti che puntino nonviolentemente a costruire anziché a distruggere. Del resto ogni progetto sociale e politico alternativo prevede comunque una pars destruens (la critica, l’opposizione, la non-collaborazione…) che deve però essere seguita sempre da quella construens, quella che Gandhi chiamava appunto il constructive program.

In-struere è la premessa per ogni realtà costruttiva, perché l’istruzione è proprio la condizione necessaria per realizzare un progetto consapevolmente e nel modo più giusto e corretto. Se è vero che struere vuol dire collocare a strati, connettere elementi, è ancor più vero che l’organicità e positività di tale azione dipende dalla conoscenza della tecnica costruttiva, qualcosa che deve essere appreso e che qualcuno deve pur insegnare. Istruire, quindi, è il modo migliore per costruire ed opporsi alla negatività della distruzione.

Mai come adesso, come dicevo all’inizio, c’è bisogno di uscire dalla spirale distruttiva delle piaghe che si sono abbattute sulla nostra esistenza quotidiana, si tratti di epidemie, crisi ecologiche, carestie o guerre. In realtà questi flagelli hanno costantemente afflitto l’umanità ed hanno riguardato anche i nostri tempi, ma non sempre ne siamo stati consapevoli oppure abbiamo preferito ignorarli quando non ci toccavano da vicino. Ma la globalizzazione e la stretta interconnessione di un mondo sempre più strutturato ci costringono ora a prenderne coscienza e a cambiare radicalmente rotta. Le alternative a modelli di sviluppo energivori, iniqui e distruttivi ci sono ma vanno costruite giorno per giorno, pazientemente e un mattone alla volta, avendo però in mente una strutturazione radicalmente diversa delle relazioni, da quelle interpersonali a quelle internazionali. Istruire al cambiamento è il primo passo per renderlo fattibile, e proprio per questo dobbiamo stare molto attenti alla de-strutturazione in atto del modello scolastico egualitario ed antiautoritario per sostituirlo con quello che punta solo ad una visione mercantile della società e dell’economia.

La pace, la giustizia e la corretta relazione con l’ambiente si costruiscono e vanno difese da ciò che tende a destrutturarle in nome del profitto e del dominio. Partire dalla consapevolezza del vero senso di queste parole è già un primo passo per andare in questa direzione.

Note


[i] Cfr. https://www.francescovaranini.it/curriculum-e-bibliografia/breve-presentazione-di-francesco-varanini/

[ii] https://www.bloom.it/2013/04/distruzionecostruzione/?p=1611

[iii]  Cfr. https://www.etimo.it/?term=costruirehttps://www.treccani.it/vocabolario/costruire/

[iv] https://www.etimo.it/?term=ostruire

© 2022 Ermete Ferraro


 

Etimostorie #6: “cedere” e suoi derivati

Lo studio della lingua latina chiarisce quanto il verbo CEDO fosse di per sé carico di una pluralità di significati, da quelli basici e neutri (andare, muoversi, camminare, avanzare), a quelli connotati in senso più marcato e solitamente di segno negativo (andar via, ritirarsi, cedere, sottomettersi, arrendersi, essere inferiore, passare di proprietà, etc.) [i]. Se poi ne cerchiamo le radici etimologiche, scopriamo che deriva “dal proto-italico *kezdō, discendente del proto-indoeuropeo *ḱyesdʰ-, “andare via”, scacciare”, stessa radice del sanscrito सेधति (sedhati), “scacciare, mandare via[ii]

Secondo un dizionario etimologico del latino: “Il passaggio dal primo al secondo senso di cedere si spiega col fatto che lasciare il passaggio libero a qualcuno è diventato simbolo di ogni concessione, allo stesso modo che sbarrare il passaggio (obstare, obsistere, opponere) è diventato simbolo di ogni opposizione. Cedere, nel senso di ‘andare’ si dice anche degli affari, riescano bene o male. Più frequentemente s’impiega, nello stesso senso, succedo. Dall’accezione di ‘ritirarsi’, cedere è passato a quella di ‘finire’. Quest’ultima sfumatura è quella del suo frequentativo cesso”. [iii]

Nel tempo e nello spazio, molte forme verbali sostantivi ed attributi sono stati ricavati da quel verbo originario e noi stessi continuiamo ad impiegarli nel linguaggio comune, privilegiandone di solito le connotazioni negative. Alcune volte, però, non ci accorgiamo di adoperare le forme verbali e nominali che ne sono derivate, secondo il meccanismo della composizione di un verbo-base coi più svariati prefissi latini. È così che, anche in questo caso, i monemi modificanti hanno originato un’articolata famiglia lessicale, i cui elementi derivati non sempre appaiono evidenti quando li utilizziamo. Nel nostro caso, è bastato anteporre all’originario CEDERE un certo prefisso per moltiplicarne la discendenza lessicale. In alcuni casi si stratta di verbi derivati di natura spaziale, come ACCEDERE, INCEDERE e PROCEDERE, nel senso di entrare (AD-), dirigersi verso la direzione scelta (IN-) o andare avanti (PRO-). Viceversa, abbiamo le voci RECEDERE e RETROCEDERE (cioè: tornare indietro, indietreggiare), ma anche SECEDERE, ossia allontanarsi da qualcosa o separarsi da qualcuno (SE-). Non mancano derivati di natura temporale, come ANTECEDERE e PRECEDERE (da ANTE-, e PRAE-), mentre, nel caso di DECEDERE, la preposizione DE- indica in modo traslato un allontanamento spazio-temporale… definitivo dalla stessa vita.

E che dire di altri derivati comuni nei nostri discorsi, come CONCEDERE, SUCCEDERE, INTERCEDERE ed ECCEDERE? Anche in questi casi la differenza semantica la fanno i rispettivi prefissi.  Nel primo, la preposizione latina CUM- (diventata in italiano CON-) indica un cammino consensuale, frutto di una mediazione in cui soggetti in conflitto tra loro decidono di cedere su qualcosa pur di giungere ad un accordo. ‘Succedere’, grazie al prefisso SUB-, si presenta in un’accezione prevalentemente temporale (seguire, venire dopo, toccare in eredità…), può esprimere in modo neutro un semplice dato fattuale (accadere, avvenire…) ma può anche aggiungere una sfumatura nettamente positiva (avere successo, riuscire in un’impresa…) [iv]. ‘Intercedere’ (INTER- vuol dire tra, in mezzo) indica invece un ruolo di mediazione terza, svolto inter-venendo in favore di qualcuno, inter-ponendosi per ottenere qualcosa. [v].  In questo come in altri casi, d’altra parte, bisogna fare attenzione a non ‘eccedere’, andando troppo oltre, esagerando, e quindi uscendo pericolosamente fuori (EX-) dai limiti imposti…

 Forse qualcuno si sta chiedendo perché ho deciso di occuparmi proprio di questo verbo, tenuto conto del contesto ecopacifista nel quale ho iniziato le mie ‘etimostorie’. Ebbene, basta sfogliare i giornali o ascoltare le notizie per radio o in televisione per accorgersi che molte cronache e commenti relativi alla guerra in Ucraina utilizzano – non sempre consapevolmente – espressioni che rinviano a quell’antica radice latina e, prima ancora, indoeuropea. Si racconta infatti di scenari bellici che, come sempre, vedono truppe di ambedue gli schieramenti ora procedere speditamente, ora retrocedere più o meno precipitosamente in seguito agli attacchi degli avversari. Non dimentichiamo poi che l’aggressione russa del 2022 – e prima ancora la precedente offensiva militare ucraina, iniziata nel 2014 – hanno avuto e hanno ancora come teatro principale la vasta area orientale e meridionale del Donbass, dove due regioni russofone (Donesc’k e Luhansk) avevano deciso di secedere, autoproclamandosi repubbliche indipendenti.

Da otto anni nessuna delle parti in conflitto ha mostrato di voler recedere dalle proprie posizioni e l’attuale allargamento d’uno scontro interno ad una feroce guerra di dimensioni che vanno ben oltre la stessa Europa, non lascia prevedere che cosa potrà succedere se non si riuscirà a fermarla. Finora i tentativi di mediazione esterna, tesi ad intercedere tra i belligeranti, non hanno sortito effetti apprezzabili. Al contrario, in varie occasioni è sembrato che si soffiasse sul fuoco del conflitto russo-ucraino, alimentandolo anche con l’invio di armi, contrabbandate come aiuti umanitari. Ecco allora che, spinte da orgoglio nazionalistico e da preoccupanti dinamiche imperialistiche a livello globale, le parti in causa si guardano bene dal retrocedere dalle rispettive posizioni. E quando sembrava di scorgere timidi spiragli di intesa – che ovviamente prevedono che su alcuni punti si debba necessariamente concedere qualcosa all’avversario – arroganti interventi esterni li hanno inesorabilmente fatti fallire…

Le ragioni della pace, di fronte alla catastrofica prospettiva d’una guerra mondiale, dovrebbero ovviamente precedere interessi e considerazioni di parte. Purtroppo non è affatto così e troppi soggetti continuano ad alimentare irresponsabilmente questo sanguinoso conflitto, senza preoccuparsi di eccedere, cioè di andare decisamente ben oltre i limiti che l’umanità si era data dopo il 1945, per evitare che la follia della guerra la spingesse al suicidio.

Insomma, cedere non ha – etimologicamente parlando – solo l’accezione negativa che di solito si dà a questo verbo. Non si tratta necessariamente di arrendersi all’arroganza altrui, assumendo il ruolo di ‘perdenti’, né di lasciar vincere la violenza. Certo, in inglese è traducibile con surrender o yield , entrambi connotati negativamente. Anche in francese si rende con abandon ed in tedesco con ausgeben, suggerendo entrambi il significato di ‘abbandonare’. Altrettando vale per le lingue russa (сдаваться> sdavat’sya) e ucraina (здатися > sdatisya), che evocano situazioni in cui ci si arrende, cessando di opporre resistenza, piegandosi e lasciandosi andare.

Non dimentichiamo però che – in ambito scientifico – la ‘cedevolezza’ non è un difetto bensì una proprietà, come c’insegna l’omonimo principio in fisica, contrapposto a quello di ‘rigidezza’. [vi] Non trascuriamo poi la millenaria saggezza orientale, che connota la cedevolezza proprio come la qualità positiva che ci aiuta a resistere alla violenza altrui, come da sempre insegnano i maestri del ju-do [vii]. Ma quando l’alternativa è tra cedere o decedere, la scelta di proseguire la guerra sembra ancor più incomprensibile…


[i]   Cfr. https://it.wiktionary.org/wiki/cedo ;

[ii]  Ibidem

[iii] Michel Bréal et Anatole Bailly, Dictionnaire étymologique latin, Hachette, Paris, 1885 (trad. mia)

[iv]  Cfr. https://www.treccani.it/vocabolario/succedere/

[v]   Cfr. https://www.treccani.it/vocabolario/intercedere/

[vi]  Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Rigidezza

[vii] V. citazioni di Jigoro Kano in: D. Postacchini, Ju-do la via della cedevolezza, https://danielepostacchini.it/2021/08/08/la-via-della-cedevolezza/

© 2022 Ermete Ferraro

Etimostorie #5: TERRA

In occasione della “Giornata Mondiale della Terra” – che ricorre il 22 aprile – forse non è inutile approfondire l’origine dei vocaboli che, nelle varie lingue, designano spesso sia la materia ‘terra’, sia il pianeta che dovrebbe essere la nostra ‘casa comune’. 

Cominciando dalla parola latina TERRA (generatrice a sua volta del francese TERRE, dello spagnolo TIERRA, del portoghese TERRA, del rumeno ŢARĂ, del gaelico TÎR/TIR), scopriamo che la sua origine è legata al concetto di ‘asciutto’, in quanto è una materia TERSA. L’aggettivo deriva a sua volta dalla radice verbale sanscrita TŖS-YÂMI (aver sete), che ritroviamo anche nel greco TERSÔ/TERSAINÔ (seccare, asciugare) e nello stesso verbo latino TORREO (seccare, abbrustolire). In questo caso, quindi, siamo di fronte ad un termine di natura esclusivamente… geologica, senza alcun riferimento a chi abita quella distesa emersa dalle acque.

Altrettanto può dirsi per EARTH, dall’antico inglese EORÞE (terreno, terra asciutta), a sua volta derivante dal Proto-germanico *ERTHO e, probabilmente, da una radice indoeuropea *ER-, con lo stesso significato. È così anche per il greco ΓΑIΑ > ΓΗ (GAIA > GHE/GHI), indicante il suolo, il terreno, la terraferma, ma anche antroponimo riferito alla dea madre.

Un discorso diverso va fatto invece per il termine ebraico אֲדָמָה (ADAMAH) che ugualmente designa la terra, il suolo, in quanto collegato all’aggettivo אדם (ADAM, ADOM, indicante il colore rosso). In questo caso, però, la tradizione ebraica trasmessa biblicamente collega direttamente l’umanità al suo ambiente fisico, in quanto il nome conferito dal Creatore alla sua creatura finale è proprio ADAM. Da qui, d’altronde, è derivata in larga parte la visione antropocentrica ancora molto presente (secondo la quale sarebbe quasi l’Uomo-Adamo a dare il nome alla Terra-Adamah, come se fosse un suo dominio), sebbene il racconto biblico ci racconti il contrario. Dio il Signore formò l’uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale e l’uomo divenne un’anima vivente”. (Gen. 2:7). L’umanità, dunque, è frutto e prodotto della terra, non viceversa, per cui sarebbe bene ragionare in una prospettiva più biocentrica, o quanto meno in una visione teocentrica, in cui uomo e terra dovrebbero essere comunque strettamente legati da un rapporto di dipendenza reciproca, di rispetto e di ‘cura’, per citare un termine più volte usato da Papa Francesco.

Qualcosa di simile possiamo dire anche per la parola indiana भूमि (BHUMI), indicante un’estensione di terreno, ma dalla quale sono derivati vocaboli fondamentali per la nostra comprensione di questo stretto rapporto. Da sanscrito bhumi, infatti, ha avuto origine il nome della creatura della terra (bhuman), da cui forse anche HOMO, la creatura che dovrebbe avere il più forte vincolo con la terra (HUMUS) da cui deriva. A patto di imparare a mostrare più …humilitas, non dimenticandosi della sua origine ‘terrena’, ed un reale rispetto per “sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba” (Francesco, Laudes creaturarum).

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© 2022 Ermete Ferraro

Etimostorie #4: CONFLITTO

Le parole per dirlo

Parola tornata drammaticamente di attualità in occasione della brutale invasione armata dell’Ucraina da parte delle forze armate russe, ‘conflitto’ non è però sinonimo di ‘guerra’ [i], che rappresenta solo la sua manifestazione più violenta e distruttiva.  Basta consultare qualche dizionario etimologico per verificare che, analizzando l’origine latina di questo termine, siamo di fronte più che altro ad una situazione di ‘urto’, di ‘collisione’, fra due o più situazioni, idee o interessi.

«Discordia, contrasto tra individui o entità, che può essere gestito pacificamente, con accordi o appellandosi a regole condivise (come è tipico in una democrazia); oppure con il tentativo di una parte di imporsi con la violenza (sostantivo) […] dal latino conflictus ossia “urto, scontro”, derivazione di confligere, cioè “confliggere, cozzare”, “combattere”» [ii].

Il verbo di cui ‘conflitto’ è il participio passato, con valore sostantivale, è infatti con-fligere, il cui senso è: “urtare una cosa con un’altra…percuotere” [iii]. Altre possibili traduzioni del latino fligere sono anche: battere, bussare, colpire, etc. [iv], per cui l’idea di fondo resta quella di un urto, una collisione, o comunque un confronto, fra realtà diverse non coincidenti, se non opposte. Anche se consultiamo un dizionario etimologico inglese, infatti, troviamo:

«inizi del XV sec., “contendere”, combattere, dal latino conflictus, participio passato di confligere “colpire insieme, essere in conflitto” […] Significato “essere in opposizione, essere contrari o diversi…» [v].

Una rapida carrellata geo-linguistica ci conferma in gran parte quanto questa radice sia ampiamente comune (fra. conflicte, cast. conflicto, cat. conflicte, rum. conflict, por. conflito, ted. konflikt, ola. conflict…). Perfino nelle lingue slave questa base lessicale è presente (rus., ser. e bul. конфликт, pol. konflikt). Le cose cambiano poco se lo stesso concetto è espresso col differente vocabolo greco συγκρουσηsynkrousi (che appunto significa scontro, collisione, confronto, da krousi = colpo, percussione + pref. syn = con [vi]). Perfino nella lingua hindi troviamo टकरावtakrānā, la cui radice ci riconduce all’idea di urto, collisione [vii].

Il vocabolo cinese corrispondente (冲突 chōngtú) e quello giapponese 衝突shōtotsu) denotano la medesima idea. In ambito semitico, il termine ebraico utilizzato è סְתִירָהstiva’ indica una contraddizione o discrepanza [viii] ed anche il vocabolo arabo نزاع nizae fa riferimento ad una disputa, un giudizio, tra parti in disaccordo [ix].

Con-fliggere non vuol dire in-fliggere

Il vero problema, a questo punto, è se il conflitto – che come si è visto evoca comunque un confronto, uno scontro, un urto tra realtà, visioni ed interessi divergenti – debba avere necessariamente un vincitore ed un vinto, oppure possa concludersi differentemente, in maniera non distruttiva e senza prevaricazione o imposizione violenta di una delle parti in causa, e quindi mediando tra di esse e cercando vie d’uscita inesplorate.

Ovviamente la risposta di un “convinto della nonviolenza” è no, in quanto i conflitti – che pur non vanno mai negati, ignorati o peggio repressi – possono avere esiti molto diversi, creativi ed alternativi non solo alle guerre, ma anche alle comuni soluzioni in cui una parte deve comunque soccombere, secondo la teoria dei “giochi a somma zero” [x].  Ecco perché esplorare le tecniche per trasformare i conflitti – o meglio, secondo l’espressione di J. Galtung, trascenderli [xi] – resta un obiettivo fondamentale per chi intende contrastare l’ineluttabilità della violenza in genere e dei conflitti armati in primo luogo, educando i giovani alla pace e alla nonviolenza attiva [xii].

Mi sembra interessante, infine, citare quanto osservava in proposito il teologo mons. Nunzio Galantino, ribadendo che i conflitti possono, e devono, trovare soluzioni diverse da quelle cui purtroppo siamo abituati, rivalutando la loro carica positiva e generativa.

«Sempre e comunque il conflitto si colloca e ci colloca in un contesto relazionale. Relazione con l’altro da me e/o relazione con me stesso. […] Ha proprio ragione l’imperatore stoico Marco Aurelio: “È conflitto la vita, è viaggio di un pellegrino”; e, con lui K. Marx, quando scrive: “Non vi è progresso senza conflitto: questa è la legge che la civiltà ha seguito fino ai nostri giorni”. L’etimologia della parola conflitto dà ragione dell’approccio semantico positivo fin qui seguito […] Sia in Lucrezio [De Rerum Natura] sia nel De officiis di Cicerone questo verbo rimanda alla possibilità di fare incontrare, confrontare, riunire, avvicinare. Solo più tardi confligere acquisterà il significato di combattere, contendere, urtare ostilmente. L’etimologia ci consegna quindi originariamente la parola conflitto come incontro generativo tra realtà differenti».[xiii]


Note

[i]  Cfr. E. Ferraro, Etimostoria #2: GUERRA, https://ermetespeacebook.blog/2022/02/27/etimostorie-1-guerra/

[ii]  Cfr. voce ‘conflitto’ in Wiktionary, https://it.wiktionary.org/wiki/conflitto

[iii] Cfr. voce ‘conflitto’ in Etimo.it, https://www.etimo.it/?term=conflitto

[iv] Cfr. ‘fligere’ in Glosbe.com, https://it.glosbe.com/la/it/fligere

[v]  Cfr. ‘conflict’ in Etymonline.com, https://www.etymonline.com/word/conflict

[vi]  Cfr. https://el.wiktionary.org/wiki/%CE%BA%CF%81%CE%BF%CF%8D%CF%83%CE%B7  e https://el.wiktionary.org/wiki/%CE%BA%CF%81%CE%BF%CF%8D%CF%83%CE%B7

[vii]  Cfr. https://en.wiktionary.org/wiki/%E0%A4%9F%E0%A4%95%E0%A4%B0%E0%A4%BE%E0%A4%B5

[viii]  Cfr. https://context.reverso.net/traduzione/ebraico-italiano/%D7%A1%D6%B0%D7%AA%D6%B4%D7%99%D7%A8%D6%B8%D7%94

[ix]  Cfr. https://en.wiktionary.org/wiki/%D9%86%D8%B2%D8%A7%D8%B9

[x] Cfr. voce “teoria dei giochi” in Wikipedia.it – https://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_dei_giochi

[xi]  J. Galtung, Conflict Trasformation by Peaceful Means (The Transcend Method). https://gsdrc.org/document-library/conflict-transformation-by-peaceful-means-the-transcend-method/

[xii]  Per approfondire tale aspetto, cfr. E. Ferraro, “RiconciliaAzioni”, Ermetes’ Peacebook 12.05.2020 –  https://ermetespeacebook.blog/2020/05/12/riconcili-azioni/

[xiii]  Mons. N. Galantino, “Abitare le parole/ conflitto”, il Sole 24 Ore, 16.06.2019 – http://www.nunziogalantino.it/wp-content/uploads/2019/06/Conflitto_Abitare-le-parole.pdf

Etimostorie #2: PACE

UNA PACE VISTA DA ORIENTE…

Se vogliamo definire il significato d’una parola-chiave come ‘pace’, dobbiamo stare attenti a quale vocabolo stiamo facendo riferimento, poiché si tratta di un concetto espresso diversamente nelle varie lingue e che, conseguentemente, rinvia etimologicamente a basi culturali differenti. Infatti, quella parola bisillaba che a noi italiani suona ben nota ed apparentemente di senso comune – se non addirittura scontata – esprime idee differenti in rapporto ad altre lingue. La ricerca sul concetto di PACE va pertanto declinata in base alle parole che sono state utilizzate per denotarlo, in dimensione sia spaziale sia temporale.

I primi due campi semantici sono stati delineati dalle più antiche civiltà, quelle dell’estremo oriente e quelle semitiche. L’ideogramma cinese e giapponese (ĀN) – sostantivo, aggettivo e verbo che significa “pace/pacifico/pacificare” – rappresenta in modo stilizzato una donna sotto un tetto, evocando concetti molto concreti come stabilità e sicurezza, ma anche quelli più ideali di “quiete” e “tranquillità”.  [1] Anche nelle culture semitiche, tale campo semantico è articolato, ma rinvia sostanzialmente ad un’antica radice comune SLM, dalla quale derivano sia l’ebraico שָׁלוֹם (SHALŌM), sia l’arabo السلام (SALĀM).

Per comprendere i significati di shalom (e della radice shlm) […] occorre fare un passo indietro e rivolgersi alla lingua accadica. In questa lingua abbiamo due radici, simili nella forma, e tuttavia ben distinte, che sono slm e shlm. Il verbo salamu mostra i seguenti significati: riconciliarsi, fare la pace; rappacificare, riconciliare. Inoltre troviamo la voce salimu con i sensi di: pace, concordia e riconciliazione con gli dei, favore. Dunque questa radice della lingua accadica esprime chiaramente il senso di pace e riconciliazione. Il verbo shalamu, molto più attestato, ha i seguenti sensi: stare bene; essere in buone condizioni, essere intatto; essere favorevole, essere propizio; avere successo, prosperare; […] mantenere in buona salute […] proteggere, salvaguardare; rendere favorevole […] completare un lavoro; pagare, ripagare, ricompensare. Come si può vedere, tutti questi significati del verbo shalamu non hanno nulla a che vedere con «pace».  [2]

La polisemia del termine – partendo da radici pressocché uguali – rinvia a concezioni differenti, che guardano alla ‘pace’ ora più sul piano spirituale, come concordia ed armonia, ora da un punto di vista più materiale, esprimendo più che altro concetti come benessere, salute e prosperità.

Al primo campo semantico è ascrivibile inoltre la parola indiana शान्ती (SHANTI – ŚĀNTI), che nell’Induismo ci parla prevalentemente d’uno stato di pace interiore, in quanto nell’antica lingua sanscrita significava: pace, calma, tranquillità, quiete. [3]  Anche in questo caso, però, consultando il dizionario, si scopre che questo stesso termine abbraccia ambedue le versioni semantiche:

…शान्ति śānti [act. śam_1] f. pace, calma, riposo; pace del cuore | prosperità, benedizione, felicità…. [4]  

UNA PACE VISTA DA OCCIDENTE…

Non molto diverso, comunque, è il discorso se ci riferiamo alla civiltà greca, nella cui lingua troviamo – sia pure con forme leggermente diverse in dorico, ionico-attico e cretese – il vocabolo ΕIΡHΝΗ (EIRENE), nome proprio della dea della pace.

In Omero…indica una situazione di pace durevole, e si contrappone a filóthj, che è invece il frutto di un accordo […] Benché spesso nei testi sia letterari sia epigrafici eirēnē sia usata semplicemente in contrapposizione a pòlemos ‘guerra’, all’idea della pace è saldamente associata l’idea del benessere materiale […] Una connessione fra pace e benessere si coglie anche in Omero, Od. XXIV 486 “essi tornino ad essere concordi come erano prima, siano bastevoli la ricchezza e la pace… [5] 

Un discorso a parte va fatto per la parola latina PAX, da cui sono derivate moltissime varianti negli idiomi neolatini e non (ital. Pace; rum. Pace; prov. Patz; franc. Paix; spagn. e port. Paz; ingl. Peace, etc.). Etimologicamente, la sua origine risale alla radice sanscrita *PAK- / *PAG- (= fissare mediante un accordo”), dalla quale traspare un terzo campo semantico, connesso a concetti come: legame, unione, composizione, accordo e, ovviamente, patto.

…Trovasi nel sscr. Pâç-a-yami lego […] anche il lat. Paciscor concordo, pattuisco […] gr. Peg-nyo…conficco, collego, compongo […] Accordo conchiuso fra due parti nemiche contendenti, particolarmente in guerra; Concordia, Quiete, Riposo. [6]   …Dalla radice *pag- “fissare” (che è anche la fonte del latino pacisci “alleanza o concordare;” vedi: patto), in base alla nozione di “legarsi insieme” per trattato o accordo[7]

Pertanto, oltre al significato di “concordia/armonia” spirituale ed a quello di “benessere/prosperità” materiale, con questa radice e le parole da essa derivate ci troviamo di fronte ad un terzo significato-chiave, quello più pragmatico di “accordo/patto”, ciò che serve per evitare – oppure a superare – un conflitto. Un significato troppo spesso prevalente sugli altri, che ha quasi ridotto una parola come “pace”, così ricca semanticamente, a puro e semplice contrario di “guerra”.

Se però ci spostiamo nell’ambito di civiltà particolarmente bellicose come quelle germaniche, la parola tedesca indicante la ‘pace’, cioè FRIEDEN (originata – come altre similari: oland: Vrede, sved. Fred. – dalle radici protogermaniche e sassoni *friths / *fridu) [8] ci riporta paradossalmente al concetto di “protezione/tranquillità”, con anche con una sfumatura affettiva, evocante sentimenti quali “amore/amicizia”, come è evidente nel vocabolo inglese friend (amico).

Concludendo questa carrellata spazio-temporale, dietro la parola ‘pace’ – comunque linguisticamente declinata – vediamo affiorare tre diverse basi culturali. La prima, riferita ad un universo interiore e spirituale, ci parla di tranquillità, quiete, armonia, concordia, amicizia. La seconda è ispirata da una concezione più materialista e ci parla invece di benessere, prosperità, pienezza. La terza, infine, rinvia ad una visione pragmatica della vita, in cui i conflitti, oltre che con la violenza, possono essere risolti anche attraverso mediazioni, accordi e patteggiamenti tra le parti in causa.

Ma noi, quando parliamo di pace anche e soprattutto in questo drammatico periodo, a quale di questi tre ambiti semantici ci stiamo davvero riferendo? (*)


NOTE

[1]  Cfr.: https://www.cinesefacile.com/blog-cinese-facile/5-minuti-di-cinese-quando-ce-una-donna-ce-casa ; https://it.wiktionary.org/wiki/%E5%AE%89   ; https://www.infocina.net/caratteri/scheda/23433.html

[2]  Massimo PAZZINI ofm (2008), “I nomi della pace”, Terrasanta, 28.01.2008 (sottol. mie) > https://www.terrasanta.net/2008/01/i-nomi-della-pace/    Cfr. i significati del lemma ‘shalom’ riportati dalla Blue Letter Bible > https://www.blueletterbible.org/lang/lexicon/lexicon.cfm?Strongs=H7965&t=KJV

[3]  Cfr. Shanti, Santi, Śāntī, Śānti: 28 definitions, Wisdom Library >  https://www.wisdomlib.org/definition/shanti

[4]  Cfr. voce ‘Śānti’ in: Sanskrit Heritage Dictionary > https://sanskrit.inria.fr/DICO/63.html#zaanti   (trad. mia)

[5]  “Pace nel mondo greco”, Zetesis (s.d.) > http://www.rivistazetesis.it/Pace_file/Eirene.htm   Cfr. anche voce ‘εἰρήνη’ in: Dizionario Greco Antico > https://www.grecoantico.com/dizionario-greco-antico.php?parola=%CE%B5%CE%B9%CF%81%CE%B7%CE%BD%CE%B7

[6]  Francesco BONOMI, Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana, voce ‘pace’ nella versione online > https://www.etimo.it/?term=pace&find=Cerca     Vedi anche: Dante OLIVIERI (1961), Dizionario Etimologico Italiano, Milano, Ceschina (voce ‘pace’)

[7]  V. voce ‘peace’ in Online Etymology Dictionary   > https://www.etymonline.com/word/peace  (trad. mia)

[8]  Cfr. etimologia della voce ‘Frieden’ in Der deutsche Wortschatz von 1600 bis heute >   https://www.dwds.de/wb/Frieden#etymwb-1

(*) Questo articolo è stato tratto – con alcune modifiche – da un capitolo del mio libro “GRAMMATICA ECOPACIFISTA”, di prossima pubblicazione presso il Centro Gandhi Edizioni di Pisa.

Etimostorie #1: GUERRA

NON È BELLO CIO’ CHE È BELLICO…

Relief at the entrance of the former Military Casino of Madrid (Spain), built in 1916. Di Luis García, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=6109805

Dopo il corso di Lingua e cultura napolitana nel primo quadrimestre 2021-22, quello nuovo che sto proponendo presso la sede di Napoli dell’UNITRE (Università delle Tre Età) riguarda l’introduzione alla ricerca etimologica.

Venerdì 25 febbraio eravamo al secondo incontro di questo percorso ma per me, da decenni ricerc-educ-attore per pace, sarebbe stato impossibile limitarmi a fare lezione, come se non stesse accadendo nulla. Soprattutto se si considera la cultura come la porta per giungere quella consapevolezza che, a sua volta, dovrebbe indurci all’impegno diretto, per cambiare qui e ora ciò che non va nel nostro travagliato mondo.

Ecco perché, prima di riepilogare quanto avevo spiegato inizialmente a proposito della ricerca etimologica e delle sue basi glottologiche, non ho potuto fare a meno di esemplificare quanto lo studio dell’origine ed evoluzione semantica delle parole possa aiutarci a capire meglio la realtà quotidiana e anche a demistificarne le narrazioni correnti.

Perciò, di fronte ad una clamorosa e drammatica invasione con aerei e carrarmati d’un paese libero, col terribile corredo di morte distruzione e terrore derivante da ogni folle pretesa di risoluzione armata dei conflitti, ho proposto ai/alle partecipanti un istruttivo viaggio dentro una delle parole-concetti peggiori della storia, ma che purtroppo l’hanno caratterizzata da millenni: GUERRA. Ovviamente si è trattato allora solo di accenni, ma proverò adesso ad allargare il campo per un’esplorazione più ampia e comparativa.

I Greci la chiamavano Πόλεμος (pòlemos) personificandola con l’omonimo demone della guerra, padre della dea Alalà che accompagnava il dio Ares. E alalà era appunto il grido di battaglia ellenico, dopo migliaia di anni attualizzato dal fascismo su suggerimento di Gabriele D’Annunzio. Secondo Etimo.it, la parola deriverebbe dal verbo gr. pallo (lat. pello), indicante l’atto di lanciarsi contro qualcuno, da cui anche il sostantivo palé (lotta), a sua volta padre di termini come palestra e suoi derivati.

Per gli antichi Romani, che di guerra s’intendevano parecchio, il sostantivo comunemente usato era bellum, derivante (stessa fonte) da una modificazione della parola originaria latina duellum (lotta fra due persone o parti), seguendo il percorso dvellum > dbellum > bellum. Nel periodo successivo alle invasioni, che portarono alla fine dell’impero romano, questo termine fu rapidamente sostituito nelle lingue romanze dall’equivalente germanico.

Come spiega il cit. Etimo.it , le parole neolatine ed anglosassoni con questo significato (guerra, guerre, war) ci riportano infatti al vocabolo antico tedesco werra, il cui senso originario era: contesa, discordia, zuffa, baruffa. Andando ancora più indietro come suggerisce il sito Etymonline.com , scopriamo che quella parola proto-germanica si riallacciava alla radice indoeuropea *werz, il cui significato era: confusione, mescolanza, mischia. Circostanza che fa venire in mente il vecchio detto napolitano: “L’ammuìna è bbona p’ ’a guerra”. Una sorprendente sintesi glottologica popolare, visto cha il verbo spagnolo amohinàr – da cui deriva il termine partenopeo – significa dare fastidio, seccare, ma anche arrabbiarsi, adirarsi.

È invece abbastanza curioso che proprio i tedeschi – eredi diretti degli antichi e bellicosi popoli germanici – abbiano lasciato ad altri quell’antica radice verbale, spostandosi sulla parola krieg, secondo Duden.de derivata da Kriec del medio alto tedesco, col significato di combattimento, ma originariamente anche di sforzo. Un altro dizionario etimologico tedesco (v. dwds.de) allarga il significato a concetti come perseveranza, ostinazione, dogmatismo, resistenza, discordia ecc.

DALLA CLAVA ALLA BOMBA ATOMICA

Nel mondo semitico, il concetto di guerra è rappresentato dal vocabolo ebraico מִלחָמָה milhamâ, terribile parola presente innumerevoli volte anche nell’Antico Testamento e che, come apprendiamo dal sito biblico Blue Letter Bible ,  derivava dalla radice verbale indicante la lotta, il combattimento. In lingua araba, invece, il termine che ci parla della guerra è حرب harb. In questo caso, però, si tratta di un vocabolo più generico, che in quel contesto culturale e religioso indicava il territorio degli infedeli (dār arb) contrapposto alla terra dei credenti nell’Islàm (dār al-islām). Non a caso l’aggettivo sostantivato arbī – come spiega l’Enciclopedia Italiana Treccani – è stato tradotto in latino col vocabolo hostis, il cui significato – prima ancora di ‘nemico’ – era appunto quello di estraneo, straniero.

Tornando infine al drammaticamente attuale scenario di guerra guerreggiata, apprendiamo che alcune parole slave che ad essa si riferiscono (russo воина: voinà pron: vainà – ucraino війни: viyny – polacco: wòyna – ceco: vàlka) – secondo il sito russo Lexicography online – hanno come comune origine un’antica forma slava che riproduceva il grido di caccia, l’ululato ferino del combattente. Altri la collegano invece ad un’altra antica radice *vino, che ci parla invece di colpe, peccati ed errori, ma anche di chi si vendica (vedi lat. vindex).

In ogni caso, il grido selvaggio di chi concentra i propri sforzi fisici e mentali sulla lotta al ‘nemico’ (l’altro, il diverso, lo straniero) ci riporta purtroppo ad un mondo di violenza primitiva, dove la vita era lotta e le proprie ragioni si affermavano solo con pietre e clave. L’assurda barbarie della guerra – ripudiata dalla civiltà ma purtroppo fin troppo presente anche nel terzo millennio – è stata non a caso sintetizzata dalla famosa frase di Albert Einsten: “Non so con quali armi si combatterà la terza guerra mondiale, ma la quarta sì: con bastoni e pietre”. Ecco perché l’unica guerra possibile è e sarà quella contro la guerra, l’imperialismo mai estinto ed il sistema militare-industriale su cui si regge.

La ‘felice memoria’ di Renato de Falco

È stato proprio un bell’incontro. Credo che Renato de Falco ne sarebbe stato contento, osservando dall’alto la sala della Fondazione Mezzogiorno Europa – all’interno di Palazzo Reale – affollata di persone venute a rendergli omaggio. Gli sarebbe piaciuto il tono serio, ma non serioso, con cui lo abbiamo ricordato, anzi abbiamo attualizzato il ricordo mai spento della sua inesauribile e poliedrica attività di maestro della lingua e cultura napolitana, di profeta della sua divulgazione popolare che non ha mai perso la consistenza, la ‘sostanza’ diremmo noi, della sua profondità di filologo. Ma per coltivare seriamente la filologia, ho osservato nel mio intervento, bisogna essere prima ancora ‘logofili’, cioè amanti della parola, appassionati della sua storia e capaci di ripercorrerla in modo scientifico, in modo da ricostruire etimologie altrimenti affidate a intuizioni o fantasia, come purtroppo accade.

Renato de Falco, noto avvocato napolitano, è stato definito la “Cassazione del Napolitano” e riconosciuto come il maggiore cultore e custode di una napolitanità che non è affatto ‘a rischio’ di estinzione, ma deve piuttosto essere coltivata e rivitalizzata per non ridursi a caricatura di se stessa. Nel manifesto d’una mostra commemorativa a lui dedicata, tenuta al P.A.N. nel 2017, de Falco era definito “un signore napolitano”, sottolineando giustamente una ‘signorilità’ mai contrassegnata da altezzosità, ma condita e insaporita col sale della genuinità e dell’arguzia popolare.

L’intervento di Claudio Pennino – noto poeta, scrittore, traduttore e napolitanista – ha messo in luce quanto dobbiamo tutti/e a questo Maestro, che è stato capace di trasformare le sue ricerche filologiche in gustosi interventi per la televisione, raccolti nel volume “Alfabeto napoletano” che tuttora resta la Bibbia di chi si sente scorrere nelle vene il fluido di una napolitanità al tempo stesso antichissima e moderna. Il libro – ristampato numerose volte dal 1985 al 2019 – che spiccava ovviamente sul tavolinetto davanti alla postazione dei partecipanti a questo ricordo, quasi un altare predisposto per celebrare, insieme con de Falco, la “lingua geniale” cui egli ha dedicato tutta la vita.

Anch’io ho reso doveroso omaggio a questo illustre precursore di tutti quelli che anche adesso si sforzano – con caparbietà e passione – di riportare alla gente di Napoli una cultura ed una lingua che rischiano di essere banalizzate, volgarizzate e parodiate, smarrendone la preziosa eredità, senza preoccuparsi di tramandarle alle nuove generazioni. Ho ricordato infatti che molto si sta facendo ancora per raccogliere il testimone del suo insegnamento, mai pedante ma piacevole ed accattivante, attraverso corsi tenuti presso centri culturali, associazioni ed università popolari, cercando di portare l’insegnamento del napolitano nelle scuole e di sviluppare una cultura identitaria ma non passatista. Ho anche fatto presente quanto si sta cercando di fare per far uscire lo studio e la pratica della nostra lingua dal chiuso delle aule universitarie e delle biblioteche, restituendo alla gente il diritto di parlare e scrivere come pensa, però in modo più preciso e corretto. Purtroppo l’approvazione nel 2019 della legge regionale sulla tutela e valorizzazione del nostro idioma – cui avevo dato il mio contributo – non mi sembra che si sia finora rivelata lo strumento giusto per sostenere lo sforzo chi vorrebbe liberare il napolitano dalla gabbia accademica in cui è intrappolato, non agevolando né promovendo la diffusione di esperienze capaci di agire alla base di questo processo di rivitalizzazione.

Il guaio – ha osservato Vincenzo de Falco, avvocato come il padre ma anche scrittore, regista e traduttore – è che all’eccesso di cultura cattedratica che poco comunica col quotidiano si somma oggi anche l’eccesso opposto, quello di una divulgazione mediatica che definirei ‘sciué sciué’, più populista che popolare, accattivante e divertente ma figlia della superficialità di chi si accontenta d’informazioni raffazzonate raccolte su internet. Questo accade naturalmente quando si tratta di spiegare l’etimologia delle parole napolitane – come ha ricordato citando i suoi sapidi articoli ma mostrando anche quanto, di recente, la ricerca della loro origine abbia rivelato spesso basi cognitive fragili e fallaci.   

Tornare a de Falco – che avrebbe potuto essere il titolo dell’incontro – significa quindi conservare il tono vivace ed umoristico della divulgazione, ma anche blindarne i contenuti con la serietà nella ricerca delle fonti etimologiche e letterarie. Significa sicuramente  evitare la pedanteria di alcuni studi accademici ma, seguendo il suo esempio, utilizzare l’arte della paremiologia per fare dei proverbi popolari non soltanto l’occasione per farsi una risata, ma in primo luogo per riflettere sul nostro DNA culturale e sulla stratificazione di millenni e di culture che solo un attento geologo della lingua riesce a rilevare.

Vincenzo de Falco, Ermete Ferraro, Claudio Pennino

Dobbiamo dunque augurarci che gli spunti emersi da questo incontro diano dei frutti non solo nella vendita della ristampa del libro di de Falco – che non ne ha certo bisogno – ma soprattutto nella maturazione della consapevolezza che il destino del napolitano non può restare nelle mani di alcuni ‘sacerdoti’ che ne celebrino il ricordo, se non diventa impegno diffuso e comunitario a mantenerlo vivo e vegeto.  La degustazione finale dei dolci della tradizione natalizia partenopea ha concluso gradevolmente questo evento, evocando al tempo stesso uno dei temi più trattati da Renato de Falco nelle sue raccolte di parole e locuzioni, spesso consacrate ai temi del cibo e della salute. Insomma, per mutuare le parole da lui pronunciate in un video alcuni anni prima della scomparsa, spero che siamo riusciti a rispettare il senso di quella “felice memoria” con la quale egli disse di voler essere ricordato. Perché la memoria è autentica e utile solo quando induce felicità, cioè – etimologicamente parlando – se risulta feconda, fertile, e produttiva. E qui – avrebbe detto de Falco – “è il momento di far punto”.