Fenomenologia dello ‘strumento militare’

Esercito…italiano?

È stato pubblicato sul sito esercito.difesa.it (senza data, ma probabilmente nel 2019) un istruttivo opuscolo intitolato: “Operiamo oggi per la difesa e la sicurezza – Prepariamo insieme le sfide di domani”. La funzione del documento è quella di presentare ufficialmente la posizione della prima forza armata in merito alla necessità di adeguarsi alle nuove esigenze che deve fronteggiare. Per citare le parole del Capo di S.M. dell’E.I., Gen. Farina, che ne ha curato la ‘prefazione’, l’intento è quello:

«…di condividere l’idea di quali siano le sfide che dovremo fronteggiare e di come ci stiamo preparando a vincerle […] In tale prospettiva, coerentemente con le missioni affidate alla Difesa, l’Esercito Italiano deve essere uno Strumento versatile, interoperabile, resiliente e in possesso di idonee capacità per intervenire a tutto spettro, dagli scenari alle più alte intensità a quelli di stabilizzazione. Senza tralasciare, peraltro, le operazioni di homeland security o i concorsi a supporto della collettività nazionale […] Una modernizzazione che deve necessariamente passare attraverso la creazione di una Forza Integrata Nazionale che coinvolga l’intero Comparto Difesa, il Sistema Paese e contempli una stretta sinergia con il mondo dell’industria e della ricerca…». [i]

Nelle 75 pagine dell’opuscolo tali finalità emergono abbastanza chiaramente, ma qualcuno deve aver pensato che – trattandosi di materia militare – non fosse il caso di essere eccessivamente espliciti, per cui ha infarcito il testo di espressioni criptiche, perle di burocratese, immancabili tecnicismi e soprattutto anglicismi inutili, ma tanto ‘cool’. Scorrendo le 15.759 parole del testo, li ho evidenziati, catalogati e messi in ordine alfabetico: da questa indagine lessicale è emerso infatti che i termini in lingua inglese utilizzati nel libretto, fra singole parole ed espressioni complesse, sono ben 91:

Agile, agile leader, all inclusive, all terrain vehicle, appeal, automotive, aware; Background, basket, big data; Civil military cooperation, collective security, combat power, combat proven, combat service support, combat support, command landing, common security and defense policy, competitive, competitors, concept development & experimentation, cooperative security, core tasks, counter improvise explosive device, counter unmanned aerial system, credible, crisis response,  cyber; Defense capacity building, deployability, design, disruptive activities; Electronic warfare, electronic warfare intelligence, expeditionary; Female engagement, fighting among the people, framework; Hardware, high-tech, homeland security, hub, human intelligence; Improvised explosive device, in-cash, influence, information operations, in-kind, intelligence, intelligence surveillance; Joint, junion leaders; Key leader engagament, know how; Local leader engagement, lower tier; Mission command, modelling & simulation, modernization, multi domain, multi domain operations, multiple launch rocket system; Network enabler capacities, networked, non combat; Output; Partnership, peer competitor, permanent structured cooperation, projecting stability, psy-ops; Readiness, readiness initiative, real time, resilient, robotic autonomous syste; Security and safety, situational awareness, space based, summi; Target acquisition, targeting, task force, transforming while operating, trend; Understanding, unmanned vehicle, upgrade, upper layer; Value chain; Whole-of-gov approach.

Al di là del provincialismo che caratterizza da molto tempo gli italiani, incapaci di fare un discorso o di scrivere qualcosa senza adoperare termini stranieri – spesso a sproposito o in modo errato – risulta abbastanza buffo che neanche i vertici dell’Esercito Italiano siano riusciti a fare a meno di adoperare un centinaio di termini anglofoni, fra l’altro per spiegarci l’importanza della “identità…dei soldati italiani”. [ii]  La domanda è: si tratta solo di uno sciocco vezzo per apparire più moderni, tecnologici ed internazionali, o c’è qualche altro motivo che spieghi l’inondazione di vocaboli che d’italiano non hanno nulla? Del libriccino peraltro è stata curata anche la versione inglese, per cui la loro utilità nel testo originale sembrerebbe ancor meno giustificabile, se non sapessimo che è dal secondo dopoguerra che la nostra repubblica aspira segretamente a diventare la cinquantunesima stella della bandiera statunitense. Il colonialismo culturale che ci ha pervaso, veicolato dai mezzi di comunicazione di massa ed ora da internet, è evidente a tutti i livelli, dall’importazione di spettacoli, mode ed abitudini a quella di generi letterari, artistici e musicali. Tale subalternità culturale è veicolata dal medium linguistico, e quindi ci ritroviamo generazioni che si esprimono in uno sconcertante italiese, che conoscono le strade di New York più di quelle della loro città e che continuano tuttora a identificarsi ciecamente nei loro miti d’oltre oceano. Nello specifico, le nostre forze armate – incastrate da 70 anni nella morsa della NATO, della cui scacchiera strategica sono importanti pedine – tendono dunque ad esprimersi in lingua inglese perché i referenti dei loro messaggi – ben oltre i destinatari istituzionali del governo – sono i loro veri capi, che risiedono a Washington e nella sede ‘alleata’ a Bruxelles.

Una seconda possibile spiegazione dell’utilizzo di termini specifici del gergo militare e d’inutili traduzioni inglesi di vocaboli italiani potrebbe essere che è in atto da anni una trasformazione del nostro linguaggio comune in una specie di Neolingua orwelliana.[iii] Come quella imposta nell’impero del Grande Fratello in quella narrazione – distopica ma spaventosamente profetica… – essa è utilizzata per omologare e controllare, ma anche per mistificare la realtà e per ridurre le capacità espressive delle parole. Un linguaggio freddo, tecnocratico, abbreviato, ridotto a sigle anodine, ad esempio, risulta utile a chi deve far credere ai propri cittadini che “la guerra è pace”. E poi il ricorso all’inglese, oltre a suggerire un’efficienza aziendale, rende tutto vago e sfumato, celando ipocritamente il senso vero dei termini usati. Pensiamo ad espressioni come electronic warfare, psy-ops, targeting, o fighting among the people. Esse risuonerebbero più chiare, ma piuttosto allarmanti, se fossero espresse con: ‘guerra elettronica’, ‘operazioni di guerra psicologica’ ‘prendere a bersaglio’ o ‘combattimenti fra la gente’…   L’opuscolo, da questo punto di vista, è un caso esemplare di attualizzazione che poteva essere del ‘latinorum’ usato dal vile don Abbondio manzoniano per aggirare il povero Renzo, confondendogli le idee per impedirgli di capire. Come lui, preso in giro ma non rassegnato ad esserlo, anche noi dovremmo però rispondere: «Si piglia gioco di me? […] Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?”.[iv]

Modernizzare, adeguare e efficientizzare (la guerra)

L’obiettivo più evidente dell’opuscolo è spiegare le enormi potenzialità ed il livello qualitativo dell’esercito italiano, ma anche mettere in evidenza quanto sono inadeguati gli investimenti governativi per modernizzarlo e adeguarlo alle ‘sfide’ di un mondo globalizzato, ipertecnologico, socialmente complesso e politicamente precario.

«L’instabilità del quadro internazionale, caratterizzato da un crescente grado di incertezza e dalla presenza di minacce multiformi e multidimensionali, determina una straordinaria rilevanza del tema della sicurezza percepita, anche dall’opinione pubblica, come una delle principali priorità nazionali. In tale quadro, l’Esercito è oggi più che mai “in prima linea” nel garantire al Paese uno Strumento Terrestre caratterizzato da elevata prontezza operativa e versatilità d’impiego, in grado di operare, con efficacia, sia nelle missioni internazionali sia sul territorio nazionale». [v]

Questo paragrafo rappresenta una buona sintesi di quanto è ripetuto e sviluppato in seguito. Emergono infatti alcune parole-chiave che sottolineano le criticità da affrontare (instabilità, incertezza, minacce multidimensionali) ed i concetti-base della ristrutturazione in chiave aziendale delle forze armate (prontezza, versatilità, efficacia). Ma, per complicare le cose, si ricorre ad equilibrismi verbali per descrivere il quadro in cui l’esercito dovrebbe operar, alternando i citati anglicismi (ad es.: transforming while operatingo common security and defense policy) con formule standardizzate (ammodernamento e rinnovamento, concept development & experimentation), ed utilizzando attributi come agile, competitivo, credibile o permamente, per caratterizzare una forza amata che sia davvero ‘moderna’, ‘operativa’ e ‘multifunzionale’.

Se non sapessimo che si parla di come far guerra in modo più efficace, potremmo pensare che si sta trattando del ‘core business’ di un’azienda e dei modi per fronteggiarne i competitors. Ma poiché il tabù costituzionale impedisce di pronunciare e scrivere quest’antica e terribile parola, ecco che si parla ipocritamente solo di ‘conflitti’, come se essi fossero tutti armati e avessero intenti distruttivi come le azioni belliche. Il secondo trucco neolinguistico è ricorrere spesso agli eufemismi, grazie ai quali si discute di ‘missioni’ per non usare il termine ‘spedizioni di guerra’; di ‘cooperazione’ anziché di alleanze militari; di ‘strumento militare’ invece che di ‘forze armate’; di ‘scenari’ piuttosto che di ambiti d’intervento armato. Il documento si sofferma ad illustrare le ‘aree di crisi’, indicando i ‘teatri operativi’ nei quali si progetta di svolgere operazioni militari, i cui targets/bersagli da tempo non sono più gli eserciti avversari, ma la popolazione civile e le infrastrutture fondamentali. È proprio questo il senso dell’enigmatica espressione fighting among the people, una delle chiavi che ci aiutano a capire come la guerra sia ormai profondamente cambiata e la sua natura sia sempre più dirompente e pervasiva, come del resto affiora in uno dei rari momenti di chiarezza del testo, laddove si afferma che:

«…è presumibile che il futuro campo di battaglia sia costituito da ambienti urbanizzati e con una forte presenza di personale civile […] Gli spazi di manovra saranno generalmente affollati da soggetti combattenti (legittimi o illegittimi), non combattenti (popolazione locale, operatori           di            organizzazioni governative/non governative e operatori dei mass media) e da altri soggetti di cui sarà sempre più difficile comprendere l’atteggiamento…» [vi]

Tutto il documento, inoltre, è imperniato su un assioma: combattere oggi, e tanto più domani, è molto diverso da ciò che credono le persone comuni e – si legge tra le righe – forse gli stessi politici. Il quadro di riferimento per interventi militari è assai più complesso ed articolato di prima, per cui lo ‘strumento militare’ deve adattarsi al cambiamento delle situazioni. Non si tratta solo della già evidenziata ‘instabilità’ degli scenari geo-politici. Si fa cenno un po’ vagamente alle ‘minacce’ provenienti da varie parti, da quelle di tipo ‘cibernetico’ (legate alla diffusione incontrollata e a tutti i livelli delle tecnologie informatiche) a quelle socio-economiche (disastri naturali, crisi finanziarie, attacchi terroristici). A causa di tale ‘complessità, sostiene il documento, è indispensabile rendere l’intervento dell’esercito  più agile, flessibile e multiforme, agendo sia sul piano strettamente militare, sia su quello immateriale e ‘civile’ delle operazioni psicologiche.

«È essenziale comprendere la filosofia strategica alla base di questo obiettivo, che richiama l’uso estensivo di un approccio indiretto per sfruttare ogni possibile debolezza a livello fisico, morale e concettuale, attraverso un uso combinato di misure militari e non militari […] La possibilità di contrastare (una) “manovra senza restrizioni” e multi-domain dipenderà molto dal mantenimento di un equilibrio tra credibili capacità di difesa e deterrenza e quelle di sicurezza cooperativa unite a compiti di gestione delle crisi, disponendo di capacità a 360° e tecnologicamente competitive» . [vii]

Ritorna il ‘latinorum’ militecnocratico, che alterna diplomatici eufemismi (‘approccio indiretto’, ‘uso combinato’) coi soliti anglicismi (multi-domain) e coll’indecifrabile gergo degli addetti ai lavori (‘manovra senza restrizioni’, ‘sicurezza cooperativa’, ‘gestione delle crisi’). In effetti il succo del discorso sarebbe molto più semplice: l’esercito dovrà misurarsi sia con azioni belliche vere e proprie, sia con interventi non armati, ‘collaterali’ e preventivi, per i quali però non è stato ancora adeguatamente formato e finanziato. In buona sostanza, il messaggio implicito inviato ai cittadini italiani è che l’esercito rappresenta il cuore della difesa e della sicurezza nazionale. Quello rivolto a chi li governa è invece che l’esercito ha potenzialità notevoli ma necessitano investimenti sullo ‘strumento militare’, per assicurarne l’adeguatezza alle nuove sfide. Peccato che il messaggio esplicito sia più tortuoso ed in codice, sebbene risulti comunque abbastanza chiaro che si bussa a soldi, anche mediante un piccato confronto con gli stanziamenti ben più sostanziosi per ammodernare le altre armi. La ‘sindrome di Cenerentola’ è particolarmente evidente in una tabella dove si sottolinea che mentre per l’E.I ci si è fermati alla II-III generazione tecnologica dei sistemi d’arma, nel caso di Marina ed Aeronautica si è giunti invece alla IV-V generazione. Commenterebbe Totò: “E ho detto tutto!”.

Teatri, scenari, attori: la drammaturgia bellica

«Lo Strumento Terrestre, al fine di poter assolvere efficacemente le missioni assegnate per legge e garantire, nel contempo, la massima sicurezza al proprio personale, ha più volte reiterato ampi e quanto mai necessari processi di trasformazione, incardinati sulle improrogabili esigenze legate alla repentina evoluzione della minaccia nei Teatri operativi […] e a quelle scaturite dai mutamenti dello scenario di riferimento, come ad esempio la rinnovata attenzione della NATO alla “Difesa Collettiva” e la rinnovata importanza assunta, soprattutto per l’Italia, del Fianco Sud dell’Alleanza […] Si tratta, nel concreto, di considerare lo sviluppo dello Strumento Militare come un ineludibile processo multilivello, condotto non solo in ambito nazionale, ma parallelamente anche in quelli della NATO e dell’UE…»[viii]

In queste parole riscontriamo un altro espediente retorico cui i militari si affidano per nobilitare ciò che non riescono a dire esplicitamente. Siamo infatti nell’ambito della metafora – peraltro non proprio nuova – che ci presenta la guerra come una sorta di spettacolo da mettere in scena. Si parla allora di teatri operativi e di scenari di riferimento, ricorrendo anche il termine attori, come se si trattasse di un dramma da rappresentare sul palcoscenico, a cui lavorano maestranze, interpreti e registi. Lo ‘scenario’ di riferimento, in questo caso, sarebbe la cosiddetta Difesa Collettiva, dapprima evocata genericamente e poi declinata nelle sue due articolazioni: l’Alleanza Atlantica(OTAN-NATO) e la Politica Europea di Sicurezza e Difesa (PESD), istituita dalla U.E. già dal 2008, ma che in questi ultimi anni va concretizzandosi.[ix]  Mentre in relazione a quest’ultima l’opuscolo evita di assumere posizioni nette sull’ipotesi di un vero e proprio esercito europeo,[x] nel  primo caso si ribadisce che l’Italia è inadempiente, in quanto stanzia per la Difesa meno del 2% del PIL, percentuale più volte riaffermata dai vertici NATO-USA e ribadita anche nell’ultimo vertice di Bruxelles.  [xi] Ma se questi sono i contesti di fondo, quali sarebbero invece i ‘teatri’ nei quali queste due allegre compagnie di giro dovrebbero esibirsi?

«Ai fini della sicurezza nazionale, viene considerata irrinunciabile la stabilità della: REGIONE EURO-MEDITERRANEA, un’area geopolitica che comprende l’Europa, i Balcani, il Mar Nero, il Mediterraneo medio orientale e il Maghreb; REGIONE EURO-ATLANTICA, un’area di fondamentale interesse che racchiude i Paesi membri dell’Alleanza Atlantica. In ottica nazionale, non è quindi possibile separare la sicurezza delle due regioni, dal momento che sono entrambe pilastri complementari ed essenziali della difesa e della sicurezza della Patria. Dalla loro sovrapposizione sono delineabili due grandi aree di instabilità: L’AREA DI CRISI ORIENTALE, caratterizzata dalla politica estera assertiva della Federazione Russa, particolarmente sentita dagli alleati geograficamente più vicini sotto forma di potenziale minaccia convenzionale/ibrida […] A ciò, sempre in detta area, si aggiunge quella particolarmente instabile coincidente con il Medio Oriente e, più in generale, il Golfo Persico. L’AREA DI CRISI A SUD, è interessata da un ciclo di instabilità diffusa che, a partire dal fenomeno del terrorismo, sta acuendo le sfide della sicurezza per l’Europa e l’Alleanza Atlantica. Si tratta di un trend negativo alimentato da una combinazione di fattori, tra i quali rilevano: presenza di entità statuali e di governi particolarmente fragili o assenti; debole sviluppo economico; cambiamenti climatici; squilibrio demografico; estremismo violento e attività criminali. Tutto questo crea un terreno fertile per attori statuali e non statuali che perseguono l’uso della violenza, attività terroristiche e/o criminali e, non ultimo, contribuiscono a generare dei fenomeni migratori verso l’Europa e diffusa instabilità nelle aree a noi limitrofe». [xii]

Dal linguaggio teatrale gli autori dell’opuscolo sono passati ad un codice vagamente ‘meteorologico’. Sembra di vedere il colonnello televisivo di turno, che indica sul planisfero le principali ‘perturbazioni’ atmosferiche che provocano la crescente ‘instabilità’ nei vari quadranti. A preoccupare i tutori della ‘sicurezza nazionale’ sono in particolare l’area di crisi orientale (dove dalla Russia sembra che spirino venti gelidi) e quella meridionale, spazzata da fenomeni meteo complessi quanto preoccupanti, poiché il calore del terrorismo si combina col vento delle migrazioni. Ovviamente, quando nel documento si parla alla ‘sicurezza nazionale’ chi scrive si riferisce piuttosto agli interessi globali della nazione leader della NATO, considerato che i rapporti dell’Italia sia con la Federazione Russa sia con i paesi mediorientali non sono affatto tali da minacciare la nostra amata ‘patria’.

Ebbene, proprio su questi ‘teatri’ le nostre forze armate (ed in particolare l’esercito) vorrebbero recitare al meglio la loro ‘parte’. Continuando a leggere l’opuscolo, infatti, si individua anche la sceneggiatura ipotizzata. Si tratta, a quanto pare, di un dramma in tre atti: il primo s’intitola “Deterrenza”, il secondo “Difesa” ed il terzo “Incremento della sicurezza”. Viene giustamente rispettata anche la regola aurea del climax, che impone un crescendo nell’evolversi della narrazione o dei testi teatrali. Si passa infatti dall’azione preventiva (mista, in quanto non solo di carattere politico-militare) a quella di effettiva difesa armata (di cui si sottolinea il carattere convenzionale ma anche ‘ibrido’) per giungere a quella ‘stabilità’ che, in termini militari, equivale al controllo totale della di una determinata area. In tutte queste tre fasi, si sottolinea, occorre necessariamente mantenere quella Readiness Initiative che è un altro dei punti chiave dello ‘strumento militare’ moderno. In parole più semplici, le forze armate devono essere pronte ad intervenire ovunque ed in breve tempo.

«Nel merito, l’Italia promuove tutte le iniziative tese a orientare e rafforzare il ruolo dell’Alleanza verso il Mediterraneo e il Medio Oriente al fine di affrontare, in modo sistemico, le continue crisi e la perdurante instabilità, così come la minaccia del terrorismo e l’estremismo violento in tali aree. Nello specifico, tali sollecitazioni sono state recepite dalla NATO che ha approvato il Framework for the South e, contestualmente, ha creato un Hub regionale per il Sud, nella sede del Joint Force Command (JFC) di Napoli. Inoltre, l’attenzione ai citati tre Core Tasks ha portato l’Alleanza a indentificare le caratteristiche strategiche che le Forze Armate dei Paesi Membri – e dunque anche l’Esercito – dovranno soddisfare: essere credible, networked, aware, resilient, agile, inclusa la capacità di integrarsi in maniera strutturata e standardizzata con le componenti non-militari per operazioni Non-Combat ed a supporto delle popolazioni locali». [xiii]

In modo sistemico’ è un’espressione elegante per affermare che di tale assetto militare non ci libereremo facilmente, mentre ‘in maniera strutturata e standardizzata’ suggerisce che l’organizzazione militare italiana sarà sempre più dipendente dalle ‘sante alleanze’ di cui fa parte e sempre meno autonoma ed autodiretta. Traspare però un certo fastidio per il condizionamento politico derivante dall’appartenenza delle FF.AA. ad una repubblica democratica, un vero e proprio ostacolo a dispiegarne tutte le potenzialità…

«Restrizioni legali, morali e politiche tese alla limitazione dell’uso della forza e alla minimizzazione dei danni collaterali, potranno imporre una significativa riduzione delle possibilità dei Comandanti di sfruttare appieno le risorse disponibili, a tutti i livelli ordinativi. Ciò implicherà la necessità di integrare nei vari staff esperti del settore giuridico-legale e di dedicare più risorse all’organizzazione del processo di intelligence e targeting». [xiv]

Debolezze e forza dello ‘strumento militare’

Il fastidio espresso dagli autori del documento suona come quello, un po’ infantile, tipico di chi lamenta di essere disturbato nel proprio ‘gioco’ da troppi elementi estranei. Oltre ai citati vincoli all’uso della forza, l’opuscolo ne elenca altri sette: spazi di manovra sempre più congestionati, aree sempre più confuse, settori sempre più contesi, zone sempre più connesse, capacità di sorveglianza del campo di battaglia, vulnerabilità crescente agli attacchi di tipo cyber, dipendenza tecnologica e controllo spaziale. [xv]  Come in tutte le analisi aziendali, del resto, oltre che dei punti di forza e delle opportunità di un’organizzazione bisogna tener conto anche dei fattori negativi, come i punti di debolezza e le minacce. Si applica infatti il c.d. ‘metodo SWOT’ (Strenghts, Weaknesses, Opportunities, Threats) [xvi], una matrice stanfordiana utilizzata largamente nella pianificazione delle imprese. Il buffo è che, per una sorta di nemesi storica, dopo che per decenni le aziende si sono ispirati nella loro progettazione il linguaggio strategico dei militari, ora sono proprio questi ultimi a prendere in prestito il loro metodo di analisi. Questi otto elementi, percepiti come ‘debolezze’ e ‘minacce’, hanno due elementi in comune: (a) la tendenza a crescere continuamente; (b) il fatto di determinare confusione nel quadro operativo.

Lo ‘strumento militare terrestre’, infatti, risulta pesantemente condizionato da questi elementi di disturbo, che ne limitano lo spazio di manovra, creano scompiglio, alimentano contese, esaltano l’interconnessione delle zone a ne rendono difficile il controllo, rendendolo più vulnerabile e dipendente da tecnologie finora estranee, come quelle cibernetica e spaziale.

«Gli eserciti del futuro dovranno confrontarsi con sfide variegate…mutevoli, dove alcuni concetti del recente passato verranno sistematicamente ribaltati e sostituiti […] In sintesi lo Strumento Militare Terrestre cambierà veste aggiornando in grandissima parte l’esercizio delle attuali funzioni operative che, nel post 2035, dovranno essere in grado di supportare, sin dal livello tattico, forme di manovra caratterizzate dall’integrazione degli assetti secondo il principio del Multi Domain Operation all’interno di un ambiente multilivello, dove gli effetti letali e non letali delle azioni militari avranno ricadute, in tempo reale – vista l’interconnettività dei sistemi di comunicazione globali, ormai sempre più real time – non solo sul dominio fisico ma anche e, soprattutto, sul dominio cognitivo». [xvii]

Di fronte ad un sistema di riferimento così variegato mutevole ed interconnesso, insomma, si propone d’introdurre nelle strategie dell’esercito mutamenti, aggiornamenti ma soprattutto maggiore integrazione con le altre armi e con altri livelli di azione. Che non si parli di strategie aziendali ma di guerra è evidente dal riferimento agli ‘effetti letali e non letali delle azioni militari’, che evoca comunque morti e distruzioni, ma anche crescenti effetti collaterali sul piano cognitivo, obiettivo prioritario delle operazioni di guerra psicologica.[xviii] Proprio ad esse ci si riferisce quando si scrive che:

«…la competizione con un eventuale avversario si attua al di sotto della soglia dello scontro diretto, e quindi utilizzando tecniche e procedure tipiche di una minaccia ibrida, compresa la sua narrativa mediatica ed informativa».[xix]

Un’altra criticità, secondo l’opuscolo, sarebbe riscontrabile nell’utilizzazione del suddetto ‘strumento militare terrestre’ in compiti non strettamente istituzionali, come quelli legati alla sicurezza urbana ed al controllo del territorio. Si tratta di un fenomeno caratterizzato però in modo ambiguo, essendo percepito al tempo stesso come elemento di debolezza (usura di mezzi e personale per scopi non militari) ma anche di forza (promozione dell’immagine dell’esercito come presidio fondamentale di polizia e di protezione civile), come dimostra la seguente dichiarazione, a mezza strada fra lamentela e legittimo orgoglio.

«L’Esercito ha saputo adattare mezzi e materiali già nelle proprie disponibilità, ma un simile impiego ne ha causato un progressivo logorio, anche a causa di un loro utilizzo in aree urbane, in un contesto operativo ed ambientale differente rispetto a quello per cui furono introdotti in servizio. Inoltre, l’Esercito, al pari delle altre Forze Armate, è istituzionalmente impiegato per concorsi a favore di organismi esterni all’A.D. per interventi di pubblica calamità, di pubblica utilità e non operativi. La capacità di adattamento con cui la Forza Armata ha storicamente fornito il proprio contributo in circostanze di pubblica calamità, ha dimostrato l’elevata resilienza e il carattere intrinsecamente flessibile della nostra organizzazione nella sua interezza…» [xx]

All’idea di ‘pronto intervento’ in senso militare si sovrappone qui una concezione che inquadra le forze armate come uno strumento ibrido dello Stato centrale, che deve essere quindi abbastanza flessibile e versatile per intervenire anche in casi di calamità naturali, di minacce alla pubblica sicurezza o di emergenze sanitarie, come si è visto soprattutto in questi ultimi anni. Un esercito sempre più ‘vicino’ alla gente, presente sul territorio in varie circostanze, capace di apparire sempre più nella sua veste protettiva e ‘amica’…

Da soldatini di piombo a moderni ‘transformers’

Ma se lo ‘strumento militare’ deve diventare sempre più duttile e flessibile, per adattarsi alle nuove esigenze e sfide che deve affrontare, occorre una profonda ristrutturazione delle forze armate. Vanno sviluppate caratteristiche e doti particolari, che troviamo nella parte del documento intitolata un po’ retoricamente “L’uomo al centro” e sintetizzata da una discutibile rielaborazione della classica immagine dell’Uomo vitruviano, inserito in una grande stella dorata.

Si comincia affermando che c’è bisogno di un personale pronto, motivato, professionalmente preparato ed eticamente partecipe dei valori ispiratori della disciplina militare”. Si prosegue esaltandone i pilastri etici: “promuovere l’identità militare – la disciplina, l’integrità morale e lo spirito di Corpo – rappresenta per l’Esercito un fondamentale obiettivo su cui sviluppare il proprio carattere collettivo”. Si conclude ribadendo che la preparazione tecnica deve essere comunque affiancata: “…da forte motivazione, da un’autodisciplina, da un coraggio morale e un senso del dovere che travalicano le incombenze manageriali della professione”. [xxi]

Siamo qui quasi all’autoesaltazione, in modo da nobilitare il discorso di tono aziendalista (quando si parla di comunicazione interpersonale e mediatica, local leader engagement, key leader engagement) con la solita vecchia retorica militare, imperniata da secoli su immarcescibili principi quali: disciplina, coraggio e senso del dovere. Insomma, al vecchio soldatino di piombo, rigido ed immobile, con cui giocavano da piccoli i nonni, deve subentrare un ‘operatore militare’ sempre più adattabile polivalente e tecnologico. Un futuristico transformer, che può essere impiegato ora come uno spietato ‘terminator’, ora come un qualificato amico, pronto a soccorrerci e a vegliare sulla nostra sicurezza. Ma per svecchiare l’esercito di una volta occorre un suo radicale ‘ringiovanimento’, per cui siamo informati che:

«In tale contesto, lo Stato Maggiore dell’Esercito ha sviluppato uno studio volto alla realizzazione di un nuovo modello di reclutamento che, investendo su una nuova figura di Volontario a ferma pluriennale, strutturata su un arco temporale indicativo di 3/6 anni, garantirebbe un maggiore appeal della professione militare sulle nuove generazioni e un adeguato ritorno per la Forza Armata in termini di capacità operativa “giovane”, spendibile per un periodo di impiego più lungo». [xxii]

I principi-guida di questa ristrutturazione sono enunciati poche pagine dopo, quando si parla di come valorizzare i soldati di oggi e di domani, puntando sui tre pilastri della ‘meritocrazia’, della ‘trasparenza’ e della ‘partecipazione’, ma senza trascurare opportuni incentivi motivazionali, come una maggiore ‘salvaguardia della salute’, un accresciuto ‘benessere’ del personale militare e la ‘tutela dei rapporti familiari’.  Belle affermazioni – peraltro mutuate da filosofie militari da decenni familiari oltreoceano – ma che suonano poco credibili, se solo si pensa al livello di trasparenza e partecipazione riscontrabile tuttora nelle nostre forze armate, per non parlare di quanto la salvaguardia della salute, del benessere e dei legami familiari siano conciliabili con il mestiere di chi fa il soldato di professione.

Concludo quest’analisi, dunque, proprio esaminando un altro aspetto semiologico dell’opuscolo, cioè quello iconografico, tenendo conto che le immagini sono spesso più eloquenti delle stesse parole. A dire la verità – a dispetto della tanto propagandata visione ‘buonista’ e sorridente dei militari, che aiuterebbero e proteggerebbero la popolazione civile – la maggioranza delle fotografie poste a corredo del testo insiste più che altro sul ruolo bellicoso dei nostri militari.  Infatti, sulla settantina di immagini presenti, più di 40 ci mostrano soldati in tuta mimetica, zaino, elmetto ed armamento convenzionale (fucili e mitra) oppure sbarcati da elicotteri o appollaiati sulla torretta di un carrarmato. Molte foto esibiscono addirittura veri e propri scenari di guerra (tra fiamme, polvere e fumo) oppure posizioni di puntamento e di difesa delle postazioni, mentre solo alcune rinviano ad operazioni di soccorso o ad impieghi di natura più tecnologica ed informatica.

Istruttivo è anche il corredo infografico che sintetizza alcuni dati quantitativi, da cui apprendiamo ad esempio che dei 18.700 militari dell’E.I., a ‘difendere la patria’ sul territorio nazionale ce ne sono solo 7.300, mentre sono impiegati in missioni all’estero 3.300 unità. I restanti 8.000 soldati sono invece classificati sibillinamente come ‘forze in prontezza’. Dalla stessa sintesi grafica emerge che i soldati italiani sono impegnati anche in stati africani subsahariani come Niger Mali e perfino Repubblica Centro Africana (difficilmente classificabili come aree euromediterranee) oppure che abbiamo ancora oltre 350 nostri uomini nel Kosovo – sebbene la guerra sia finita nel 1999 – e più di 550 in Iraq – dove il conflitto armato è terminato da più di 8 anni.

Interessante, infine, è anche il capitolo sulle cosiddette caserme verdi, che vorrebbe offrire un’immagine moderna ed ecologica delle strutture edilizie utilizzate dall’esercito, elencando una serie di ambiziosi obiettivi per la loro ristrutturazione, ovviamente grazie ad un cospicuo investimento statale in tale direzione. Si tratta di un indirizzo molto sbandierato dai nostri ministri della difesa, ma sulla cui credibilità mi sono già soffermato in un altro articolo. [xxiii] Basti pensare solo che dei 2.700 immobili adibiti a caserme, quelle da ristrutturare sarebbero meno di 27 (una su cento), di cui un buon terzo (9) ovviamente nel Sud e nelle isole, regioni che – bontà sua – il nostro amato esercito continua a prediligere.

Non a caso – oltre alla doppia frase che dà il titolo all’opuscolo (“Operiamo per la difesa e la sicurezza” e “Prepariamo insieme le sfide di domani” – il suo messaggio-chiave è racchiuso nel terzo slogan: “Di più insieme – Noi ci siamo sempre”.  A ciascuno di noi spetta capire se è una promessa o una minaccia, un sogno o un incubo…


N o t e

[i] Esercito Italiano, Operiamo oggi per la difesa e la sicurezza – Prepariamo insieme le sfide di domani, pp. 3-4. Sulla ristrutturazione delle Forze Armate italiane vedi: Ermete Ferraro, “Il libro grigioverde della difesa” (17.02.2017), Ermetespeacebook > https://ermetespeacebook.blog/2017/02/19/il-libro-grigioverde-della-difesa/

[ii] Ibidem

[iii] George Orwell, 1984, Rusconi, 2020 (ultima ediz. integrale in italiano dell’originale romanzo (Nineteen Eighty-Four), pubblicato nel 1948

[iv] Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, cap. II

[v] Operiamo oggi per la difesa… cit., p. 6

[vi] Ivi, p. 14

[vii] Ivi, pp. 9…10

[viii] Ivi, p. 6

[ix]  Cfr. https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52008IP0255&from=LT  Vedi anche: Parola-Marchesi-Marone-Olimpio, Le parole dell’Europa: sicurezza, ISPI, 2019 > https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/le-parole-delleuropa-sicurezza-22823

[x] Sulla c.d. ‘difesa europea’ vedi altri due miei precedenti articoli: https://ermetespeacebook.blog/2019/12/18/babbo-natale-a-12-stellette/ e https://ermetespeacebook.blog/2017/02/19/il-libro-grigioverde-della-difesa/

[xi] Sul ruolo dell’Italia nella NATO vedi anche: https://ermetespeacebook.blog/2012/06/14/lobsolescenza-della-nato-un-relitto-del-passato/  e https://ermetespeacebook.blog/2015/07/28/nato-per-combattere/ ,

[xii] Operiamo…, cit., p. 8

[xiii]  Ivi, p. 11

[xiv]  Ivi, p. 15

[xv] Cfr. parr. Da 1 a 8 alle pp. 14-16

[xvi]  Cfr. la voce ‘SWOT’ in Wikipedia > https://it.wikipedia.org/wiki/Analisi_SWOT

[xvii]  Operiamo… cit., p. 17

[xviii]  Mi sono occupato di questo fenomeno nell’articolo: “PSY-OPS, quando la guerra si fa con le parole” (04.02.2012), Ermetespeacebook > https://ermetespeacebook.blog/2012/02/04/psy-ops-quando-la-guerra-si-fa-con-le-parole/

[xix] Operiamo… cit., p. 18

[xx]  Ivi, p. 20. Sul ruolo delle FF.AA. nelle emergenze, come nella recente pandemia v.: “Presidiare l’emergenza” (23.03.2020) > https://www.academia.edu/42327562/Presidiare_lemergenza_Ermete_Ferraro

[xxi]  Ivi, pp. 24…25

[xxii] Ivi, p. 25

[xxiii] Ermete Ferraro, “Credere, Rinverdire e Combattere” (18.11.2018), Ermetespeacebook >    https://ermetespeacebook.blog/2018/11/18/credere-rinverdire-e-combattere/

© 2020 Ermete Ferraro

RICONCILI-AZIONI

    Le parole per dirlo…

Far parte di un Movimento che porta nella sua ragione sociale la parola riconciliazione non è come aderire ad una qualsiasi organizzazione genericamente pacifista. Ma diciamo la verità: questo termine resta non molto familiare alla cultura cattolica, pur riferendosi ad un concetto genuinamente evangelico. Infatti, l’I.F.O.R. (International Fellowship of Reconciliation) fu ispirata già nel 1914 – e fondata ufficialmente nel 1918, dopo la carneficina della prima guerra mondiale – da appartenenti alla cultura protestante, in particolare all’ambiente del pacifismo di matrice quacchera, a sua volta derivante dalla corrente calvinista-puritana. [i]  

‘Riconciliazione’, linguisticamente parlando, è comunque un significante che racchiude varie sfumature di significato. Trattandosi di un termine appartenente alla dottrina ebraico-cristiana, bisogna perciò risalire ai vocaboli originari ed alla loro evoluzione semantica. Il concetto di ‘riconciliazione’ ricorre nella Bibbia otto volte: cinque nell’Antico Testamento (la Tanach degli Ebrei) e tre nel Nuovo. Nel primo caso lo troviamo nel Levitico, nel II libro delle Cronache e tre volte nei libri profetici (due in Ezechiele ed una in Daniele) [ii], espresso in lingua ebraica tre volte da כָּפַר (kafar) e due da חָטָא (chatà). Il primo vocabolo è una radice primitiva, che indicava letteralmente l’azione di ‘ricoprire’ (ad es. una strada col bitume) e in senso traslato quella di ‘perdonare’, ‘condonare’, ‘annullare’, ‘cancellare’ etc. Il secondo si riferiva ad azioni simili, come quella di ‘purificare’, ‘sopportare una perdita’, ‘espiare’, pur designando anche concetti come ‘sbagliare’ o ‘commettere peccato’. [iii]  

Nella versione originale del Nuovo Testamento, in lingua greca questo concetto ricorre tre volte ed è utilizzato solo nelle Epistole: due voltenella II Lettera ai Corinzi ed una nella Lettera ai Romani. Il vocabolo utilizzato da Saul/Paolo di Tarso è καταλλαγ (katallaghé) ed il relativo verbo καταλλάσσω (katallàsso), il cui significato letterale aveva a che fare con lo scambio commerciale, il cambio di monete, mentre in senso traslato indicava azioni come: ‘riconciliare qcn.’, ‘tornare nel favore di qcn.’, ‘essere riconciliato con qcn.’. Esso a sua volta derivava dal verbo allàsso’ – preceduto dal prefisso preposizionale katà – che significava ‘trasformare’, ‘scambiare’, ‘rendere altro’ (àllos, -e, -on).

Ma è nella traduzione in lingua latina dell’intera Bibbia – la Vulgata di san Girolamo cui sono ispirate le versioni successive – che compare la parola reconciliatio, alla base dei vocaboli attualmente usati, con poche varianti, negli idiomi neolatini (réconciliation, riconciliazione, reconciliaciòn, reconciliação, reconciliere…) ed anche in lingua inglese (reconciliation), laddove in tedesco è stato utilizzato Versöhnung, la cui radice Sühne rinvia al concetto di ‘espiazione’. [iv]In arabo il vocabolo-nome adoperato è توفيق (tawfiq, da una radice semitica che significa accettazione, conciliazione), mentre in hindi abbiamo सुलह (sulah, derivante dalla radice persiano-araba che indicava la pace, l’accordo).

Se dal verbo latino reconciliare – che traduceva nella lingua dell’impero romano il kafàr ebraico ed il greco katallàsso – scorporiamo i due morfemi modificanti (cioè i prefissi preposizionali re = di nuovo e cum = insieme) ed il suffisso verbale -are, resta come cuore della parola il lessema -cili. Non tutti i dizionari etimologici concordano sul suo significato, attribuendolo ora ad antiche radici verbali (cillo /cilleo/cello), a loro volta derivanti dal greco kéllo (= muovere, spingere), oppure da kaléo (= chiamare). Nel primo caso ‘riconciliare’ significherebbe ‘spingere di nuovo insieme’; nel secondo ‘ri-chiamare insieme’, con una sfumatura semantica che introduce comunque il ruolo d’un mediatore/conciliatore. Da questa divagazione etimologica mi sembra che emergano tre considerazioni:

(a) il concetto ebraico-veterotestamentario di ‘riconciliazione’ (kafàr/chatà) ha sicuramente a che fare col per-dono / con-dono delle azioni negative che hanno ferito una o tutte le parti in causa di un conflitto, grazie alla decisione di cancellare/ricoprire/azzerare quelle situazioni dolorose, senza escludere la espiazione del male provocato;

(b) nell’analogo concetto greco-neotestamentario compare un concetto nuovo: quello di trasformazione/scambio reciproco, nel senso di superamento di una situazione conflittuale cercando un punto d’intesa ‘altro’, del tutto nuovo;

(c) la versione latina non traduce alla lettera né il vocabolo ellenico né il suo antecedente semitico ed introduce altri elementi. Emerge il ruolo di chi svolge la mediazione fra le parti in conflitto (limitandosi a ‘chiamarle’ o ‘spingendole’ ad un dialogo), ma bisogna tener conto anche del fatto che il prefisso latino re-, infatti, ha un significato un po’ ambiguo, in quanto “esprime per lo più il ripetersi di un’azione nello stesso senso o in senso contrario” [v]. Nel primo caso il risultato della mediazione porterebbe al ripristino d’una situazione pre-conflittuale (e quindi ad un ritorno al passato), mentre nel secondo condurrebbe ad una soluzione contraria se non opposta, comunque diversa e quindi nuova.

Ma che cosa intendiamo esattamente, oggi, con questa parola? Secondo il dizionario di Repubblica, è definibile come: “Azione, risultato e modo del riconciliare o del riconciliarsi […] SIN. Rappacificazione” [vi]. Molto simile anche la definizione del Dizionario Garzanti: “1. il riconciliare, il riconciliarsi, l’essere riconciliato; rappacificazione [+ con]” [vii]e quella del Corriere: “1.Ripresa di rapporti buoni o corretti dopo un litigio o una fase di distacco SIN rappacificazione; fine delle ostilità militari, politiche, ideologiche ecc. fra componenti diverse di una nazione: politica di r.” [viii]. Non dissimili le spiegazioni fornite da Treccani (“1. rimettere d’accordo, far tornare in pace o in buona armonia…”), Hoepli (“1. conciliare di nuovo, mettere d’accordo, rappacificare…”) e Garzanti linguistica (“1. rimettere d’accordo, far tornare in buona armonia; rappacificare [+ con]”. [ix]  per quanto riguarda altre lingue, non fornisce maggiori approfondimenti la consultazione del francese Larousse (“Action de réconcilier des adversaires, des gens fâchés entre eux; fait de se réconcilier…[x]  né degli inglesi Merrian-Webster (“to restore to friendship or harmony…” [xi] e Cambridge (“a situation in which two people or groups of people become friendly again after they have argued…”. [xii]

In tutti i casi, infatti, la ‘riconciliazione’ è definita come un’azione (come è evidente dal suo stesso suffisso), il cui fine sarebbe: (a) ri-prendere rapporti corretti, (b) rap-pacificare soggetti in conflitto, (c) far tornare l’armonia perduta, (d) ri-pristinare rapporti amichevoli dopo una lite. Torna insistentemente – come nel lemma originario – quel prefisso re- che sottintende una ripetizione, un ritorno ad una situazione di partenza o comunque il rinnovamento d’uno stato precedente.

Ma è davvero questo il significato di ‘riconciliazione’ e del suo abituale sinonimo ‘rappacificazione’? Si tratta di promuovere atteggiamenti e comportamenti che facciano tornare soggetti in conflitto a precedenti rapporti di amicizia ed accordo (il latino pax, oltre a ricordarci la parola italiana ‘patto’rinvia all’antica radice sanscrita *paç /pak/pag, che significava: legare, unire, saldare, accordare), oppure la ‘riconciliazione’ dovrebbe essere qualcosa di diverso e di più profondo?

‘Riconciliare’ e ‘riconciliarsi’, in definitiva, vuol dire fare dei passi indietro, verso un teorico passato migliore da ripristinare, oppure significa darsi una prospettiva del tutto nuova, originale e che punta al futuro?

 Riconciliar… e organizzar

Una buona spiegazione del termine ‘riconciliazione’ e dei significati che trasmette è stata proposta da Enrico Peyretti, filosofo-teologo e noto ricercatore per la pace italiano:  

«Una riconciliazione è vera se avviene su base di verità (riconoscimento dei fatti) e di giustizia (riconoscimento dei diritti) […] Una semplice pace (pax = patto) non è detto che sia riconciliazione; può essere solo una transazione che spartisce vantaggi e svantaggi, per la riduzione del danno […] oppure può essere l’imposizione della volontà del vincitore sul vinto, quindi un atto violento che sancisce la disparità delle forze […] L’idea stessa di riconciliazione contiene una speranza, il ricupero di una conciliazione che c’è stata e si è incrinata, o perduta […] Riconciliarsi è incontrarsi di nuovo.  Una vera riconciliazione è un orizzonte grande, è la ri-umanizzazione reciproca, negata dal rapporto di ostilità […] Una vera riconciliazione implica il perdono…cioè il consapevole superamento dell’ostilità, dell’odio, dei sentimenti distruttivi, delle immagini negative, cioè una trasformazione nonviolenta del conflitto». [xiii] 

Le parole-chiave emergenti sono: verità, giustizia, speranza, recupero, incontro, perdono e trasformazione. Alcune di esse guardano al passato (re-cupero di ciò che si è perduto, ri-stabilimento della verità, per-dono dei debiti…); altre puntano al momento presente (in-contro); altre mirano invece ad una prospettiva futura (speranza nel senso etimologico di ‘tendere verso’,  tras-formazione con modalità innovative del conflitto). 

Da questa prima considerazione capiamo che il processo di riconciliazione è un albero che affonda le proprie radici nel passato conflittuale, sviluppa il proprio fusto nel presente dell’incontro e del dialogo, ma protende i suoi rami verso il futuro di soluzioni alternative e del tutto nuove. Non sempre, quindi, riconciliare vuol dire ripristinare le relazioni precedenti, dando per scontato che fino all’emergere di uno scontro diretto sussistesse un rapporto ottimale. Dovremmo piuttosto analizzare gli elementi del conflitto (soggetti, interessi e valori in contrapposizione, ma anche contesti, cause e dinamiche relative), alla ricerca di soluzioni che non siano distruttive e violente, ma costruttive ed in-nocenti.

La riconciliazione comporta tre aspetti inscindibili, che integrano le dimensioni temporali in un processo dinamico e creativo: (1) analisi critica e autocritica delle esperienze passate negative; (2) sforzo di comprensione empatica, per cercare insieme e nel presente, un punto d’incontro e di mediazione; (3) esplorazione di atteggiamenti e comportamenti alternativi, per superare anche in futuro i possibili conflitti, senza nasconderli sotto il tappeto o esorcizzarli moralisticamente.

«Il problema dunque non è il sorgere del conflitto ma l’affrontarlo come un problema condiviso. […] Le fonti del conflitto sono le seguenti: gli interessi (ciò che noi vogliamo e ciò che loro vogliono),  i valori (come la realtà dovrebbe essere per noi e per loro e come noi crediamo e loro credono sia), le emozioni (cosa noi sentiamo e loro sentono), le identità (chi siamo noi e chi sono loro specie in quanto appartenenti a dati gruppi sociali)». [xiv]

Si comprende che un processo così articolato – come qualsiasi aspetto di un percorso di nonviolenza attiva – richiede tempo, preparazione adeguata e, talvolta, l’intervento di mediatori esterni.  Mi riferisco a ruoli non necessariamente professionali (sebbene nella nostra realtà sociale esistano già figure riconosciute di mediatori, ad es. quelli linguistici, culturali o familiari), ma svolti comunque da soggetti qualificati ad una funzione così delicata, che richiede competenze specifiche e tecniche adeguate.

Formazione, addestramento e organizzazione sono dunque indispensabili, ma è auspicabile che la conoscenza dei principi della nonviolenza e delle tecniche di risoluzione alternativa dei conflitti diventino un patrimonio sempre più comune e diffuso, introducendo riflessioni ed esperienze in tal senso già nel curricolo scolastico di base. È ciò che sta facendo da anni il gruppo di lavoro che, partendo dalle teorie sul superamento dei conflitti elaborate dal ricercatore per la pace norvegese Johan Galtung, porta nelle scuole di quel paese alcune applicazioni specifiche del metodo Trascend , applicabili in particolare ai micro-conflitti [xv], diffondendole un po’ dovunque.

Resta il problema che la riconciliazione non è intesa da tutti allo stesso modo perché, se è vero che oggi siamo più consapevoli degli svariati approcci ad essa, solo alcuni di essi sono stati effettivamente praticati, come spiega lo stesso Galtung.

«Quando la parte in conflitto A fa violenza alla parte in conflitto B, entrambe risultano traumatizzate: la seconda dal male subìto, la prima dalla colpa di averlo causato. Le emozioni sono profonde. Lo scopo della riconciliazione è la guarigione delle ferite e la chiusura del conflitto, cosicché le parti siano meno traumatizzate e possano vivere insieme […] Scorrendo la lista degli approcci alla riconciliazione, ci accorgiamo immediatamente della tentazione di vedere il conflitto in termini di una singola causa, i cattivi attori, e la riconciliazione in termini di un solo approccio: quello giuridico-punitivo […] Un’altra forma è la risoluzione congiunta del conflitto, discutendo insieme la calamità che ha colpito tutti e progettando precorsi per prevenirne una ripetizione in futuro. Se questo approccio sarà attivato sia a livello delle élites, sia a livello popolare, sarà molto potente. Ma il meglio è ovviamente che il vincitore e lo sconfitto si mettano insieme per produrre una reale trasformazione del conflitto di base…». [xvi]

Utilizzando un linguaggio medico, potremmo dire che, sebbene il fine prevalente della riconciliazione sia la terapia, qui e ora, dei traumi causati da un conflitto, è comunque indispensabile partire da una sua anamnesi, risalendo retrospettivamente ai moventi materiali e psicologici che l’hanno causato. C’è bisogno però di cercare anche  le indicazioni da trarre per il futuro dall’esperienza conflittuale passata e delle modalità di cura nel presente, per la prevenzione di altre contrapposizioni violente e distruttive.

La scuola potrebbe diventare il luogo dove iniziare subito ad affrontare i conflitti in modo alternativo, almeno a livello interpersonale e comunitario. Nel nostro contesto socio-culturale dobbiamo però registrare che: (a) le competenze specifiche sono ancora poco diffuse; (b) la scarsa diffusione di solidi presupposti teorici spesso dipende dalla mancanza di occasioni di formazione degli operatori; (c) alcune esperienze già realizzate nelle nostre scuole sono state comunque poco condivise e pubblicizzate.

Succede anche per altri approcci alternativi ai conflitti, come ad esempio il metodo di ‘comunicazione nonviolenta’ (C.N.V.) ideato dallo psicologo statunitense Marshall B. Rosemberg, di cui un solo centro specializzato si è fatto specificamente portatore e sperimentatore nel nostro Paese. [xvii]  Il processo di riconciliazione, viceversa, ha molto a che fare con un approccio psicologico alle situazioni conflittuali che liberi la comunicazione dalle incrostazioni di condizionamenti linguistici e mentali (stereotipi culturali, frasi fatte, espressioni che feriscono…), per facilitare lo scambio d’idee, la comprensione reciproca e lo sviluppo di competenze linguistiche improntate ad una vera ‘grammatica della pace’. [xviii]

Bisogna dunque uscire dall’equivoco che la riconciliazione sia soltanto un imperativo etico o un auspicabile atteggiamento di benevolenza e perdono. Per questo ed altri aspetti della nonviolenza, per dirla con don Tonino Bello, dobbiamo allora “organizzare la speranza”.

Riconciliazioni… per ‘fare’ pace

Nella nostra abituale logica binaria, se la proposizione A è vera, quella non-A è sicuramente falsa, poiché ‘tertium non datur’.  Perfino quando si parla di ‘pace’ e ‘riconciliazione’ si contrappongono in modo rigido le tesi di chi li ritiene o solo principi morali cui ispirarsi (e quindi fini), oppure solo metodi di azione (e quindi mezzi). Questo approccio andrebbe però superato,  per giungere a una sintesi che superi le antinomie e ricerchi impostazioni non esclusive a priori. La stessa ‘pace’è sia il fine da raggiungere sia il mezzo per conseguirlo, mantenendo la coerenza tra i due. Per citare Aldo Capitini:

«Nella grossa questione del rapporto tra il mezzo e il fine, la nonviolenza porta il suo contributo in quanto indica che il fine dell’amore non può realizzarsi che attraverso l’amore, il fine dell’onestà con mezzi onesti, il fine della pace non attraverso la vecchia legge di effetto tanto instabile: “Se vuoi la pace, prepara la guerra”, ma attraverso un’altra legge: “Durante la pace, prepara la pace”». [xix]

Questo richiamo a ‘preparare’ la pace ci ammonisce a non fermarci alla visione idealistica di chi la ritiene solo un ‘dono’ del cielo, ma a darci da fare per realizzare, cioè rendere reale pratico ed attuale, quell’ideale di vita. Lo stesso Vangelo (Mt 5:9) ci esorta a diventare εἰρηνοποιοί (eirenopoiòi), letteralmente facitori di pace, costruttori di pace, non semplici ‘amanti della pace’.  Ma per costruire la pace nel suo complesso, e specificamente la riconciliazione, abbiamo bisogno di metodi e tecniche opportune, che vanno apprese, interiorizzate, ma soprattutto applicate nella pratica quotidiana con un opportuno addestramento. Come affermava Peyretti, allora, bisogna abbandonare la logica binaria della contrapposizione, che blocca la comunicazione, per introdurre una relazione ‘ternaria’, in cui il ruolo del mediatore faciliti la comprensione e la cooperazione, altrimenti bloccate dall’ostilità reciproca. La riconciliazione, come altri aspetti della trasformazione nonviolenta del conflitto, apre infatti uno “spazio di ri-creazione”, dove le ferite alla relazione possano essere curate e la comunicazione possa essere ripristinata.Johan Galtung ha spiegato che:

«Un conflitto è una ragione di per sé sufficiente per essere preso seriamente in considerazione. Le persone stanno già soffrendo. Inoltre un conflitto è un invito alle parti in causa, alla società e al mondo intero ad andare avanti, affrontando di petto la sfida costituita dalle questioni sul tappeto, con un atteggiamento di empatia (verso tutte le parti), nonviolenza (anche per impedire lo sviluppo di meta-conflitti) e creatività (per trovare vie d’uscita).  Il compito è trasformare il conflitto, verso l’alto, positivamente, trovando obiettivi stimolanti per ogni parte coinvolta, modi fantasiosi per combinarli, il tutto senza violenza. È l’incapacità di trasformare i conflitti che porta alla violenza. Ogni atto di violenza può essere considerato come un monumento a tale incapacità degli esseri umani…».[xx]

La riconciliazione – secondo lo schema proposto da Galtung – riguarda la dimensione temporale successiva allo svilupparsi della violenza in un conflitto, e viene dopo la sua risoluzione e la ricostruzione di un rapporto. Riconciliarsi, insomma, è la tappa finale di un lungo percorso di pacificazione, che inizia con la prevenzione della violenza, si basa sulla mediazione nonviolenta tra le parti in conflitto per trasformarlo nonviolentemente e si conclude creando relazioni nuove mediante interventi di riabilitazione. Ma la riconciliazione può essere anche intesa, più in generale, proprio come quell’impostazione empatica, nonviolenta e creativa che attiva e realizza il processo di pace.

Una formazione precoce in tal senso è legata ad esperienze di educazione alla pace e alla nonviolenza da realizzare in famiglia ed a scuola. Formare bambini e ragazzi a riconoscere i conflitti e ad affrontarli in modo alternativo, cercando soluzioni che li ‘trascendano’, sarebbe il modo migliore per prevenire conflittualità violente e distruttive e per sperimentare metodi alternativi e creativi. Il manuale prodotto sulla base di quelle proposte da Galtung – ora tradotto anche in italiano – è un ottimo esempio di come insegnare ai più piccoli che ‘facciamo pace’ non è solo un buon proposito, ma un percorso da apprendere e sperimentare in prima persona, qui e ora.

«Quando si parla di SABONA si intende sia il progetto di trasformazione dei conflitti legato alla scuola e chi lo porta avanti, sia la metodologia, ossia i 7 strumenti mutuati dal metodo TRASCEND…[che] fornisce una vastissima serie di strumenti analitici e pratici per la trasformazione del conflitto, ossia per il cambiamento, offrendo soluzioni valide e creative a problemi che sembrano insormontabili. […] Trasformare i conflitti richiede la trasformazione della situazione che include e trascende i bisogni e gli obiettivi di tutte le parti […] per identificare gli obiettivi legittimi, i bisogni umani fondamentali e per arrivare a creare ponti tra obiettivi incompatibili, a vantaggio di una vera sicurezza, del rispetto, della dignità, dell’identità». [xxi]

Superare la conflittualità, quindi, significa far emergere obiettivi/finalità che sembrano incompatibili ma anche riconciliare interessi ed atteggiamenti apparentemente inconciliabili, immaginando insieme soluzioni ‘altre’, come suggeriva già l’etimologia del verbo greco katallàsso. Per andare oltre il conflitto, però, è necessario fare alcuni passi avanti. (i) La prima scoperta è che, per bambini e adulti, dietro mezzi e modalità inaccettabili spesso si nascondono obiettivi del tutto legittimi. (ii) Il secondo elemento da mettere in luce è che ad essere incompatibili sono gli obiettivi, non certamente le persone. (iii) Il terzo aspetto è che, se verità e prospettive differenti possono (e spesso devono) coesistere, ciò non significa che tutti i desideri o tutti i metodi siano ugualmente legittimi ed accettabili.

Dati però obiettivi legittimi ed eticamente positivi – tutti quelli che attengono alla dignità di ogni persona, salvaguardandone la vita, la salute, la libertà, l’identità – resta il fatto che spesso i conflitti si scatenano sulla loro conciliabilità con obiettivi legittimi e buoni di altri soggetti. Talvolta, invece, la realizzazione di desideri di per sé accettabili è stata perseguita con mezzi negativi, che ledono valori, interessi e sensibilità altrui. Ecco allora che il gruppo di lavoro ispirato alle teorie di Galtung sulla trasformazione del conflitto ha cercato di sperimentare alcune di queste metodologie nel contesto scolastico, formando insegnanti e alunni a non lasciarsi bloccare dalla distruttività di molte relazioni conflittuali.  

7 passi per ‘trascendere’ il conflitto

Il metodo ‘Sabona’ – espressione mutuata dalla lingua zulu – ha individuato sette metodi operativi per affrontare in modo alternativo e costruttivo i conflitti, applicandoli sperimentalmente alle molteplici relazioni che si sviluppano all’interno del contesto scolastico. Il metodo prevede che alla crisi segua una pausa di elaborazione, utilizzando sette ‘formule’ per riflettere sulla realtà attuale del conflitto e su quella futura, l’ideale.

(1) analisi della incompatibilità dei fini e/o dei mezzi;

(2) netta distinzione tra fini e mezzi;

(3) utilizzazione del triangolo ABC, ai cui ‘angoli’ ci sono: atteggiamenti à comportamenti à contraddizioni;

(4) impiego del c.d. tappeto del riordino, proiettando i conflitti sia sul piano temporale (passato-futuro) sia su quello qualitativo (negativo-positivo);

(5) ricorso allo schema a cinque soluzioni, che supera (trascende) il livello del conflitto passato, marcato dall’antinomia vittoria vs sconfitta, individuando due soluzioni sullo stesso piano passato-presente (‘ritirata’ e ‘compromesso’), ma soprattutto una del tutto nuova e alternativa, proiettata in alto, sul piano del futuro;

(6) utilizzo della scala delle soluzioni (il vero e proprio metodo Trascend) che ipotizza tre livelli operativi: (1) quello di base, dove si fa la ‘mappatura’ del conflitto, individuando le parti in causa ed i loro obiettivi; (2) quello intermedio, nel quale sono ‘legittimati’ sia i fini sia i mezzi; (3) il livello più alto, sul quale si ‘trasferisce’  il conflitto nel futuro, costruendo ‘ponti’ tra gli obiettivi legittimi delle parti in conflitto;

(7) adozione della croce della conciliazione, uno schema che sintetizza gli altri, individuando il settore centrale all’intersezione tra asse verticale (passato negativo à futuro positivo) ed orizzontale (colpa à vergogna) – dove si realizza l’atto della riconciliazione, sciogliendo il doloroso nodo d’una contrapposizione distruttiva per tutte le parti.

«-È raro che una delle parti abbia tutta la colpa […] – L’autore e la vittima vedono la situazione in maniera diversa. – Le incomprensioni succedono. – I dialoghi che mettono ordine sviluppano competenze di vita. – La competenza nella conciliazione crea fiducia. – La conciliazione sta nel chiudere le ferite, curarle e andare avanti… – Il conflitto è relazionale e così deve essere…il metodo di cura.» [xxii]

Non è un caso che questi sette importanti ‘passi’ del percorso per uscire dalla trappola del conflitto con esito negativo culminino nella ricostruzione del rapporto e nella riconciliazione tra parti già antagoniste. Non c’è nessuno che vince o che perde. Il peso della colpa di chi ha ferito trova una cura esattamente come la vergogna di chi è stato ferito. Il negativo del conflitto passato – come negli altri metodi elencati – non è occultato né esorcizzato, ma analizzato per far emergere gli obiettivi reali di ciascuna parte, aprendo le porte ad una loro possibile conciliazione.

Infine, nella ricerca nel presente di una soluzione ‘altra’, nuova, da proiettare nella dimensione futura, non bisogna trascurare timori, dubbi e perplessità delle parti sulle soluzioni diverse. In tal modo sono affrontati, insieme, con spirito empatico e con  sano realismo, i possibili effetti delle scelte congiunte che ci si prepara a fare.

Ovviamente però non basta enunciare dei principi. Dobbiamo applicarli alla vita reale, sperimentare giorno dopo giorno approcci diversi ai conflitti, grandi e piccoli, che tutti noi ci troviamo ad affrontare. Spesso si tratta di prevenirli, riflettendo di più sulla coerenza tra fini da raggiungere e mezzi utilizzati per farlo, ma più spesso ancora bisogna imparare a comunicare evitando la violenza di giudizi, pretese ed espedienti retorici che occultano le vere intenzioni.  È quella educazione linguistica nonviolenta che può aiutarci a non usare le parole per nascondere, dividere e reprimere invece che per chiarire, unire ed esprimersi. È la comunicazione non violenta ed empatica che ci spinge ad osservare i fatti, comprendere i bisogni inespressi e cogliere le richieste, evitando valutazioni, incomprensioni e pretese. La riconciliazione resta il traguardo finale, che ci libera dal peso di relazioni compromesse, curando le ferite lasciate dai conflitti che non siamo riusciti ad evitare né a gestire creativamente. Una terapia che può e deve diventare anche prevenzione, affinché da rimorsi, rimpianti, rinfacci e rimproveri non si sviluppino altri conflitti in futuro.


Note

[i] Vedi: AA. VV., Teoria e pratica della Riconciliazione, Torre dei Nolfi (AQ), Ed. Qualevita, 2008

[ii] Vedi: ‘Reconciliation’ in Blue Letter Bible > https://www.blueletterbible.org/search/search.cfm?Criteria=Reconciliation&t=KJV#s=s_primary_0_1

[iii] Vedi in Blue Letter Bible https://www.blueletterbible.org/lang/lexicon/lexicon.cfm?Strongs=H3722&t=KJV     e https://www.blueletterbible.org/lang/lexicon/lexicon.cfm?Strongs=H2398&t=KJV

[iv] Vedi: “Versöhnung” in D.W.D.S. > https://www.dwds.de/wb/Vers%C3%B6hnung

[v]  Voce “re-“ in Treccani, Vocabolario online> http://www.treccani.it/vocabolario/re/

[vi] https://dizionari.repubblica.it/Italiano/R/riconciliazione.html

[vii] https://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=riconciliazione

[viii] https://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/R/riconciliazione.shtml

[ix] https://dict.numerosamente.it/definizione/riconciliare

[x]  https://www.larousse.fr/dictionnaires/francais/r%C3%A9conciliation/67102

[xi] https://www.merriam-webster.com/dictionary/reconciling

[xii] https://dictionary.cambridge.org/dictionary/english/reconciliation

[xiii] Enrico Peyretti, “Appunti sulla nozione di riconciliazione”, in: Teoria e pratica della Riconciliazione, cit., pp. 35-36 (sottolineature mie)

[xiv] Operatori Pace Campania Onlus (a cura di), Guida pratica alla trasformazione dei conflitti, Napoli, 2011

[xv] Una buona sintesi del Metodo ‘Trascend’ ideato da Johan Galtung è: “Transcend-Galtung: mediazione/soluzione di conflitti-1958-2018” (2018) > http://serenoregis.org/2018/11/30/transcend-galtung-mediazione-soluzione-di-conflitti-1958-2018-johan-galtung/  Lo stesso Centro Studi Sereno Regis ha pubblicato la traduzione italiana del manuale (J. Galtung, La trasformazione del conflitto con mezzi pacifici, Torino, 2006), che è possibile anche scaricare dal suo sito al seguente indirizzo > http://serenoregis.wpengine.netdna-cdn.com/wp-content/uploads/2015/12/Johan-Galtung-La-trasformazione-dei-conflitti-con-mezzi-pacifici-web.pdf

[xvi] Galtung, op. cit., pp. 172-173 (sottolineature mie)

[xvii] Il Metodo della C.N.V.® è stato diffuso in Italia attraverso la traduzione delle opere di Marshall B. Rosemberg (in particolare: Comunicare con empatia, Reggio Emilia, Ed. Esserci, 2011 e Le parole sono finestre (oppure muri): introduzione alla comunicazione nonviolenta, Reggio E., Ed. Esserci, 2017) e attraverso altre pubblicazioni , corsi e seminari promosse dallo stesso Centro Esserci Edizioni  > https://www.centroesserci.it/

[xviii] Vedi: Ermete (Hermes)Ferraro, Grammatica di pace. Otto tesi per la educazione linguistica nonviolenta, Torino, Satyagraha, 1984 – ed anche: Ermete Ferraro – Anna de Pasquale, “Una grammatica della pace, per comunicare autenticamente e senza violenza”, in: Raffaello Saffioti (a cura di), Piccoli Comuni fanno grandi cose!  Pisa, Centro Gandhi Edizioni, pp.187-198. Il saggio è scaricabile da: https://ermetespeacebook.blog/2018/02/17/una-grammatica-della-pace-per-comunicare-senza-violenza/

[xix] Aldo Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Milano, Feltrinelli, 1967 (Ristampa: edizioni dell’asino, 2009). Su Capitini cfr. anche: Andrea Coppi, “Aldo Capitini, profeta della nonviolenza”, in: Archivio Disarmo > http://www.archiviodisarmo.it/index.php/it/2013-05-08-17-44-50/sistema-informativo-a-schede-sis/sistema-a-schede/finish/62/120 

[xx] Johan Galtung, op. cit., p. 18

[xxi] AA.VV., Sabona – Alla ricerca di buone soluzioni; imparare a risolvere i conflitti (Quad. Satyagraha n. 33), Pisa, Centro Gandhi ed., 2018, pp. 7…10 (sottolineature mie).

[xxii] Ibidem, p. 78