Black Friday (not) for Future

Ed eccoci di nuovo al convulso e parossistico rituale del Black Friday, il poco augurante ‘venerdì nero’ che costituisce il fulcro della religione del consumismo, il cui impeto sembra ben poco frenato dal clima pre-emergenziale evocato dai media sulla recrudescenza del maledetto virus. Ci vuol ben altro, a quanto pare, per arrestare o comunque ridurre la smania spendereccia di tanti/e che continuano a sentirsi irresistibilmente attirati dalla lusinga dell’acquisto compulsivo sì, però a prezzo ridotto… Una sorta di ebrezza dionisiaca, la celebrazione d’un culto pagano che accomuna un po’ tutti nella ricerca dell’appagamento d’un irrefrenabile impulso all’acquisto, all’accumulo di merci, all’accaparramento di beni materiali.

La parola magica è ‘sconti’, suadente richiamo delle sirene del consumismo che ci evita di fare i conti con le nostre reali esigenze, con le risorse che ci possiamo effettivamente permettere di spendere e con ogni remora – etica e/o ecologica – sull’utilità pratica ed il reale valore di quell’improbabile corsa all’oro del benavere, scambiato per benessere. D’altra parte, fra ‘saldi’ più o meno dichiarati ed altre forme di sconti e risparmi proposti quasi in tutti i mesi dell’anno, questa fissazione per il culto del famigerato venerdì nero non è neanche facilmente spiegabile. Eppure si direbbe che in troppi siano ancora convinti che si tratti di un’occasione imperdibile, come risulta anche da un articolo.

Un recente sondaggio su un campione di 1000 partecipanti promosso dal portale di codici sconto Discoup.com non lascia margine di dubbio: gli italiani hanno adottato il Black Friday e lo considerano a tutti gli effetti l’evento di shopping più importante dell’anno. Del resto, i dati rilevati parlano di un trend in crescita costante per il nostro paese. Nel 2018 gli italiani hanno effettuato 2.240.000 ricerche finalizzate ad acquisti nell’ultimo weekend di novembre. Nel 2019 e 2020 tale valore è aumentato rispettivamente fino a 2.740.000 e 3.550.000. Per il 2021 si stima una crescita del giro di affari pari al 20% con oltre 4.300.000 di utenti della rete interessati a effettuare acquisti in occasione del Black Friday. [i]

Come si possa confondere la ‘normalità’ da recuperare col ritorno alla soddisfazione senza limiti di tali impulsi consumistici non mi sembra facilmente spiegabile. Né gli allerta sanitari sui rischi legati agli assembramenti né le remore ambientaliste sulla conciliabilità di questi ritmi di consumo una pur blanda transizione ecologica, a quanto pare, possono qualcosa contro la pandemia da ‘emporovirus’, con la conseguente febbre del venerdì nero. La crescente diffusione degli acquisti online qualche problema, ovviamente, sta provocando agli esercenti di attività commerciali, ma non abbastanza da compromettere la celebrazione del tradizionale rito novembrino. Insisto su questa terminologia anche perché condivido quanto ha scritto in merito Luigino Bruni.

 Il black friday […] è una festa specifica del culto capitalistico consumista, ma è agganciata ad una festa della religione precedente, il thanksgiving, di cui sta prendendo il posto (il black friday è nato quasi un secolo fa come il giorno dopo il Ringraziamento, ora il Ringraziamento è diventato la vigilia del «venerdì nero»). La religione capitalistica sta dunque facendo col cristianesimo quello che questo aveva fatto in Europa con i culti romani e indigeni […] La promessa della salvezza eterna del cristianesimo è stata sostituita dallo sconto. Una piccola salvezza, ma molto più a portata di mano e concreta del paradiso e del purgatorio. Salvezza universale per tutti, molto cattolica e poco protestante, perché qui ci si salva solo con le opere, non serve la fede… [ii]

L’acuta analisi dell’editorialista di ‘Avvenire’ – docente di economia politica e coordinatore del progetto ‘Economia di condivisione – ci ricorda che lo spreco di risorse personali e collettive, una volta considerato un ‘vizio’, grazie alla politica ed alle istituzioni economiche, è da tempo diventato una virtù, un comportamento perfino da promuovere, in quanto incentivo alla ‘crescita’ del Paese.

Non deve allora stupirci se nelle liturgie comunicative del black friday non vi sia alcun riferimento alla qualità dei consumi, nessun cenno a quali prodotti acquistare; nessuna parola sugli aspetti ambientali, sull’impatto di quei consumi scontati sul pianeta. Come se non avessimo appena avuto il sostanziale fallimento della Cop26, come se le ragazze e i ragazzi da anni non ci stessero chiedendo di cambiare consumi e stili di vita, come se non ce lo chiedesse la Terra, come se non ce lo chiedesse Francesco… [iii]

E in effetti non ci stupiamo affatto dell’interessata complicità dei media nella diffusione di una mentalità scevra da qualsiasi preoccupazione di natura etica, si tratti dell’impronta ecologica negativa del consumismo sul Pianeta oppure della distorsione economica connessa ad una sovrapproduzione che si alimenta della fede in una parallela crescita dei consumi stessi. Altro che ‘Festa del Ringraziamento’! Gli uomini dell’antropocene non soltanto non si ritengono in dovere di ringraziare (Dio, la Natura o ciò che più vi piace) per le enormi risorse di cui fruiscono, ma sembrano tuttora convinti che sfruttarle senza limiti sia la cosa migliore da fare per assicurare la loro ‘crescita’.  

…La “cultura dell’ipersconto” spinge i marchi a produrre troppe scorte poiché sanno che saranno in grado di spostarle una volta che le festività natalizie si avvicineranno. Generalmente, le aziende pianificano di produrre troppe scorte nella speranza di catturare ogni possibile cliente […] E anche le emissioni create dalle vendite del Black Friday sono alte. La ricerca di money.co.uk ha scoperto che gli acquirenti potrebbero emettere oltre 386.243 tonnellate di emissioni di carbonio nel 2021. Questo è l’equivalente di 215.778 voli di andata e ritorno tra Londra e Sydney e lo stesso peso di 3.679 balene blu. [iv]

Altrettanto impietosa è l’analisi di un altro articolo sul Black Friday, che si sofferma in particolare sull’impronta ecologica disastrosa del fast fashion e, più in generale, dell’intero comparto dell’abbigliamento, tenuto conto dell’impatto abnorme della sua produzione, packaging e trasporto.

Quest’anno la moda è la categoria che riceverà più intenzioni di acquisto, il 41% (Directia e Mediaspot). Secondo i dati della Banca Mondiale, questo settore è responsabile del 10% delle emissioni globali totali, più dei voli internazionali e delle spedizioni marittime messe insieme. Inoltre, questo tipo di prodotti di solito finiscono in discarica. In Spagna non viene riciclato nemmeno il 10% dell’abbigliamento, e in Europa è meno del 25% (Greenpeace).[v]

L’insinuante quanto incalzante pubblicità sulle varie possibilità di ‘riciclare’ capi di abbigliamento ed altri prodotti acquistati ma poco o niente utilizzati, infine, chiude il cerchio di questa fallace ‘economia circolare’. “Non lo usi: mettilo in vendita”, suggerisce tendenziosamente il demone del consumismo, cercando non solo di far sentire i suoi seguaci ‘non colpevoli’, ma addirittura suggerendo che possono trasformarsi quasi in benefattori dell’umanità, recuperando peraltro denaro, da investire subito in nuovi acquisti. Peccato però che la metaforica circonferenza di questa insostenibile ‘economia circolare’ sia ricavabile solo moltiplicando per 2π il raggio dello sfruttamento delle risorse naturali e della manodopera umana…

Sarà sufficiente allora – come consigliano alcuni – puntare su ‘acquisti verdi’ o sulla compensazione dell’impatto ambientale piantando nuovi alberi? Basterà davvero – come sembra consigliarci un articolo apparso su ‘la Repubblica’ [vi] – rivolgersi a prodotti informatici più riciclabili e magari funzionanti ad energia solare? Francamento penso che ogni scorciatoia proposta abbia il solo effetto di farci sentire un po’ meno responsabili, senza però smorzare la sete consumistica che purtroppo attanaglia gran parte di noi. Far diventare ‘verde’ il nostro solito ‘venerdì nero’ è una tentazione piuttosta subdola a cui credo che bisogna resistere. Non basta certamente una riverniciatura della solita logica per cambiare le cose. C’è bisogno invece d’una vera e propria ‘metànoia’, un cambiamento mentale profondo che ci faccia uscire dalla fallace circolarità produzione-consumo-produzione, in modo da cambiare sia il nostro stile di vita sia il modello di sviluppo che diamo per scontato. E nessuno… ‘sconto’ ulteriore potrà aiutarci a farlo.


[i] Redazione, “Il Black Friday è in arrivo. Cosa ne pensano gli Italiani”, Riviera24.it,  https://www.riviera24.it/2021/09/il-black-friday-e-in-arrivo-cosa-ne-pensano-gli-italiani-714065/

[ii] Luigino Bruni, “Black friday e religione del consumo. Come beni senz’anima”, Avvenire, 26.11.2021 > https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/come-beni-senzanima

[iii] Ibidem

[iv] “Do you know the true cost of your Black Friday purchases?”, Euronews, 19.11.2021 > https://www.euronews.com/green/2021/11/19/do-you-know-the-true-cost-of-your-black-friday-purchases (trad. mia)

[v] “Black Friday: its environmental impact”, The Planet App > https://theplanetapp.com/black-friday-environmental-impact/?lang=en (trad. mia)

[vi] Jaime D’Alessandro, “Un Black Friday più green? Così l’elettronica punta sul riciclo e sfida l’obsolescenza”, la Repubblica, 25.11.2021 > https://www.repubblica.it/green-and-blue/2021/11/25/news/black_friday_green-327656548/

E C O S O C I A L I S M I

Ecosocialismo o barbarie?

Ho partecipato nei giorni scorsi ad un istruttivo incontro online così intitolato, organizzato e promosso da Sinistra Anticapitalista di Milano (https://www.facebook.com/events/290381306058188/?ref=newsfeed ).  Il tema trattato potrà forse risultare non del tutto chiaro, in quanto il termine ‘ecosocialismo’, pur intuendone il senso, resta ai più poco noto. È ciò che accade anche quando mi capita di parlare e scrivere di ‘ecopacifismo’, altra categoria politica che a non a tutti è chiara, per cui è sempre alto il rischio di fraintendimenti, equivoci e semplificazioni, che tendono a ricondurre quanto non si conosce sui rassicuranti binari del politicamente noto.

Già alcuni anni avevo scritto per il mio blog un articolo intitolato: “Ecosocialismo? Sì, grazie!”, col quale provavo a chiarire i termini entro i quali è riconducibile questa categoria dal punto di vista di chi, come me, non affonda le radici nel terreno della cultura marxista, bensì in quello di un ambito nonviolento ed ecopacifista. Come scrivevo allora:

«I principi fondamentali di questo approccio sono così sintetizzabili: (a) interdipendenza ed unità nella diversità; (b) decentramento e democrazia diretta; (c) centralità dell’idea di cittadinanza attiva e responsabile: (d) visione liberatrice della tecnologia; (e) impostazione sociale del lavoro; (f) visione filosofica improntata ad un ‘naturalismo dialettico’ e fondata su un’etica ecologica…». [i]

Ma l’alternativa ecosocialista al pensiero unico neoliberista non è proponibile senza chiarire le espressioni utilizzate e la loro evoluzione, per cui bene ha fatto Umberto Oreste, uno dei due relatori dell’incontro citato, a ripercorrere le tappe del pensiero ecosocialista a partire dal 1972, anno in cui alla critica del sistema economico capitalista cominciarono a sommarsi le denunce e gli allarmi provenienti dal mondo scientifico, ma anche le prime mobilitazioni ecologiste popolari. Il perseguimento di un’autentica armonia dell’uomo con la natura, d’altronde, già negli anni ‘70 era declinato secondo modalità abbastanza diverse. Si andava infatti dalla ‘ecosofia’ proposta dal filosofo della scienza norvegese Arne Naess [ii] alla contrapposizione tra “cultura e società” di cui si faceva portatore il sociologo gallese Raymond Williams [iii], passando per la filosofia di Herbert Marcuse e la sua critica alla repressività insita in una società fondamentalmente totalitaria [iv].

In tale disamina storica non potevano mancare naturalmente i riferimenti al fondamentale contributo ad una svolta ecologista costituito dal ‘rapporto sui limiti dello sviluppo’ prodotto nel 1972 dal Club di Roma, coi suoi ’10 scenari’ per uscire dalla crisi con una rivoluzione sostenibile [v], e  quelli alla nascita d’un soggetto politico ‘verde’, che materializzava la spinta verso una ecologia politica attiva, sia pure con tutte le contraddizioni registrate nei decenni successivi. Risale agli stessi anni ’80 lo stimolo del pensatore statunitense Murray Bookchin, uno degli autori fondamentali riconducibili al pensiero ecosociale e libertario, assai critico nei confronti di un’urbanizzazione antiecologica e promotore di una ‘ecologia della libertà’. [vi]

«Gli ideali di libertà oggi non mancano…e possono essere descritti con ragionevole chiarezza e coerenza. Abbiamo di fronte non solo l’esigenza di migliorare la società, o modificarla; abbiamo di fronte la necessità di ricostruirla. Le crisi ecologiche e i conflitti che ci hanno divisi in lotte che fanno del nostro il secolo più sanguinoso della storia, possono essere risolti soltanto se riconosciamo che ciò che qui viene messo in discussione è la civiltà dominante, non semplicemente un assetto sociale male organizzato […] Le soluzioni di tipo ‘eco-tecnocratico’, per così dire, comportano un livello tale di coordinazione sociale da far impallidire i più centralizzati dispotismi della storia […] Il messaggio ecologico è un messaggio di diversità, ma anche di unità nella diversità. La diversità ecologica, inoltre, non poggia sul conflitto, poggia sulla differenziazione, cioè su di una globalità che viene esaltata dalla varietà dei suoi componenti…» [vii]

Ecologia sociale e nonviolenza attiva

Questa lunga citazione di Bookchin fornisce una prima chiave di lettura del progetto ecosocialista, che egli centrava sulla critica della città e la proposta di un ‘municipalismo libertario’ a misura d’uomo, ma anche sul ripudio della mentalità consumistica e dell’agribusiness. Sono infatti pratiche che semplificano ecosistemi complessi, utilizzando tecnologie sempre più innaturali, mirando esclusivamente al profitto e producendo ‘degradazione ecologica’. Questa tensione verso una società alternativa, conforme ai principi dell’ecologia e promotrice d’una democrazia partecipativa e comunitaria, non era solo un’opzione politica, ma soprattutto etica. Nella sua visione, infatti:

«…ogni persona della comunità è un cittadino, non un individuo egoista e nemmeno il membro di un ‘collettivo particolare’ […] Un tale tipo di persona, scevro da interessi particolari perché vive in un ambiente dove tutti contribuiscono al bene della comunità, dando il meglio di se stessi e prendendo dal fondo comune quanto necessitano, darebbe alla condizione di cittadino una solidità materiale senza precedenti, superiore a quella ottenibile con la proprietà privata». [viii]

Da queste parole sembra trasparire la visione originaria, comunitaria, del cristianesimo, così come risuonano a echi dell’etica politica gandhiana, soprattutto laddove si esalta la dimensione collettiva dei piccoli centri, sintonizzati con gli ecosistemi nei quali si trovano ed in cui la tecnologia riacquista la sua caratteristica di supporto al lavoro umano. Mi riferisco in particolare ad alcuni concetti basilari del pensiero del Mahatma – e del ‘programma costruttivo’ nonviolento –  come quello di swaraj (autogoverno, autogestione) e di swadeshi  (localismo, attaccamento al proprio paese, autonomia, autosufficienza), come sottolinea Roberto Mancini.

«Il primo soggetto della pratica dello swadeshi è la comunità del villaggio, che deve provvedere all’organizzazione materiale della vita collettiva attraverso un’economia locale orientata alla sussistenza nell’equità che permette di non escludere nessuno. È il primo soggetto, non l’unico. Infatti Gandhi non è contrario a un’apertura dell’attività economica oltre i confini del villaggio; egli vuole solo impedire che ci siano modelli organizzativi che giungano a cancellare la rilevanza di questa unità territoriale per polverizzare il tessuto comunitario della società». [ix]

A questo punto – come affiorava anche dalla relazione di Umberto Oreste – viene alla mente il collegamento con un movimento che gran parte di questi obiettivi ha fatto propri, quello sulla c.d. ‘decrescita felice’, il cui principale esponente è Serge Latouche, fautore di un’economia frugale, rispettosa dei limiti ecologici, che coniughi il localismo con un modello anticrescista e conviviale.

«A questo punto il sistema non è più riformabile, dobbiamo uscire da questo paradigma e qual è questo paradigma? È il paradigma di una società di crescita. La nostra società è stata a poco a poco fagocitata dall’economia fondata sulla crescita, non la crescita per soddisfare i bisogni che sarebbe una cosa bella, ma la crescita per la crescita e questo naturalmente porta alla distruzione del pianeta perché una crescita infinita è incompatibile con un pianeta finito. […] Il nostro immaginario è stato colonizzato dall’economia, tutto è diventato economico». [x]

Le accuse più comuni rivolte ai sostenitori della ‘decrescita felice’ sono quella di anti-universalismo, di cedimento a posizioni anti-tecnologiche e perfino di romanticismo ‘primitivista’. Eppure, come confermato dallo stesso Oreste, gran parte della revisione dello stesso pensiero marxista aveva puntato a superare la sua visione ‘produttivista’ ed a contrapporre un ‘globalismo ecologico’ al tradizionale internazionalismo proletario.Come riferivo nel mio articolo precedente, inoltre, la stessa mozione sull’ecosocialismo approvata nel 2013 segnava una discontinuità con la visione tradizionale della sinistra marxista, coniugando l’anticapitalismo di fondo col pensiero ecologista e con una democrazia partecipativa.

«L’ecosocialismo, ossia la trasformazione sociale ed ecologica, si trova alla congiunzione dell’ecologia anti-capitalista con i movimenti di sinistra antiproduttivisti […] è una nuova sintesi per fronteggiare la doppia sfida delle crisi sociale ed ambientale- che hanno le stesse radici […] Esso implica il ricorso a radicalità concrete ed a misure che noi chiamiamo ‘pianificazione ecologica’, basata sulla redistribuzione delle ricchezze esistenti ed un sistema di produzione radicalmente differente, che tenga conto dei limiti ambientali, che si basi sul rigetto di ogni forma di dominazione ed oppressione, così come sulla sovranità popolare…». [xi]

Già negli anni ’40 del secolo scorso, il principale teorico del modello gandhiano, Joseph C. Kumarappa, aveva parlato di “economia della libertà” e di “economia della condivisione”, sottolineando fra l’altro il nesso fra un’economia predatoria e basata sul profitto e la conflittualità permanente, finalizzate al controllo oppressivo e violento delle risorse naturali.

«Le economie fondate sul petrolio e sul carbone portano a conflitti tra le nazioni perché questi combustibili sono limitati. […] La vera soluzione per i conflitti internazionali passa per l’autosufficienza economica, la riduzione degli standard di vita di alcune popolazioni e il riaggiustamento della vita di ogni nazione per permettere lo sviluppo delle altre…». [xii]

Ecosocialismo ed ecopacifismo per un’alternativa nonviolenta

Ovviamente l’incontro citato su “Ecosocialismo o barbarie” si è sviluppato seguendo la linea più ‘classica’ dell’ecosocialismo, e quindi in chiave prevalentemente collettivista ed internazionalista, pur aprendosi ad una globalità di stampo ecologista e ad una visione che superi il produttivismo classico. In tal senso, una recente lettura alternative è stata quella di Jason W. Moore, autore di “Antropocene o Capitalocene. Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria”, per la cui prefazione all’edizione italiana egli scriveva:                                                   

«L’Antropocene pone correttamente la questione del dualismo Natura/Società senza tuttavia poterla risolvere a favore di una nuova sintesi. Quest’ultima, a mio avviso, dipende da un ripensamento del capitalismo all’interno della rete della vita. È bene che sia ormai diffusissimo lo slogan “cambiare il sistema, non il clima”, ma bisogna fare attenzione al modo in cui pensiamo il sistema. […] L’argomento-Capitalocene, quindi, segnala una prospettiva diversa da quella comunemente in uso negli studi sul cambiamento ambientale globale […] Tale approccio contesta il materialismo volgare implicito in molti studi sul cambiamento ambientale globale, per il quale le idee, le culture e anche le rivoluzioni scientifiche sarebbero fenomeni derivati, di secondaria importanza – un problema che affligge le analisi sia radicali che tradizionali…». [xiii]

Un altro recente ed importante contributo all’apertura di un confronto a più voci sull’ecosocialismo è sicuramente quello di Michael Löwy, il sociologo brasiliano operante in Francia che nel 2001 ha scritto con Joel Kovel il Manifesto Ecosocialista, proprio per invitare ad un ‘dialogo’ che conducesse ad un auspicabile ‘internazionale ecosocialista’.

«Respingiamo tutti gli eufemismi o l’ammorbidimento propagandistico della brutalità di questo regime: tutto il greenwashing dei suoi costi ecologici, ogni mistificazione dei costi umani sotto il nome di democrazia e diritti umani […] Agendo sulla natura e sul suo equilibrio ecologico, il regime, con il suo imperativo di espandere costantemente la redditività, espone gli ecosistemi a inquinanti destabilizzanti, frammenta gli habitat che si sono evoluti nel corso di eoni per consentire il fiorire di organismi, dilapida risorse e riduce la sensuale vitalità della natura a la fredda interscambiabilità richiesta per l’accumulazione del capitale […] Crediamo che l’attuale sistema capitalista non possa regolare, né tanto meno superare, le crisi che ha messo in atto. Non può risolvere la crisi ecologica perché per farlo è necessario porre dei limiti all’accumulazione, un’opzione inaccettabile per un sistema basato sulla regola: cresci o muori! […] In sintesi, il sistema mondiale capitalista è storicamente in bancarotta. È diventato un impero incapace di adattarsi, il cui stesso gigantismo ne rivela la debolezza sottostante. È, nel linguaggio dell’ecologia, profondamente insostenibile e deve essere radicalmente cambiato, anzi sostituito, se deve esserci un futuro degno di essere vissuto […] Si tratta…di sviluppare la logica di una trasformazione sufficiente e necessaria dell’ordine attuale, e di iniziare a sviluppare i passi intermedi verso questo traguardo. Lo facciamo per pensare più profondamente a queste possibilità e, allo stesso tempo, iniziare il lavoro di riunire tutti coloro che la pensano allo stesso modo […] L’ecosocialismo…insiste…sulla ridefinizione sia del percorso che dell’obiettivo della produzione socialista in un quadro ecologico. Lo fa proprio nel rispetto dei “limiti alla crescita” essenziali per la sostenibilità della società. Questi sono abbracciati, tuttavia, non nel senso di imporre la scarsità, il disagio e la repressione. L’obiettivo, piuttosto, è una trasformazione dei bisogni, e un profondo spostamento verso la dimensione qualitativa e lontano da quella quantitativa». [xiv]

Esattamente venti anni dopo, egli ha confermato questa sua proposta in un articolo nel quale, nel ribadire la critica all’ossessione per la ‘crescita’ economica tipica del sistema capitalista, sottolinea anche come questo non soltanto esaspera il consumismo compulsivo e provoca inquinamento e devastazione ambientale, ma si ripercuote anche sulla corsa agli armamenti. Si tratta di una riflessione che, pur non esplicitamente, collega l’opzione ecosocialista a quella ecopacifista, dal momento che quel modello predatorio, energivoro ed iniquo di sviluppo deve necessariamente essere sostenuto e difeso dal braccio armato del complesso militare industriale. Come avevo puntualizzato alcuni anni fa:

«L’ecopacifismo non è una dottrina politica ma neanche una semplice strategia d’zione. Sullo sfondo della proposta ecopacifista, infatti, si delinea un ben preciso modello di convivenza e di sviluppo economico-sociale. La sua caratterizzazione ecosocialista, autogestionaria ed antimilitarista è riconducibile sia alla tradizione etico-religiosa dell’Ahimsa gandhiana, sia alla nonviolenza laica di pensatori come Capitini, sia anche alle proposte di pacifisti di matrice anticapitalista e terzomondista». [xv]

Parlare di ‘ecosocialismi’, quindi, per me è un modo per ricercare – secondo l’auspicio di Löwy – l’unità di azione di coloro che ritengono indispensabile il superamento del modello capitalista e la transizione ad una società più giusta, pacifica ed ecologica. Il rifiuto del profitto ad ogni costo, del consumismo sfrenato, dello sviluppo senza limiti e dello sfruttamento dell’uomo e della natura sono, a mio avviso, fondamentali elementi etico-politici in comune su cui bisogna costruire un’alternativa ecosocialista. Prima che sia troppo tardi per invertire la rotta e riprendere in mano il nostro futuro.

L’ecosocialismo per un “futuro rosso-verde”

In tale direzione sembra andare la sollecitazione dello stesso Michael Löwy, il quale – nell’articolo del 2021 cui facevo cenno – parlava già dal titolo di questo “Red-Green Future”.

«L’ecosocialismo offre un’alternativa radicale che mette al primo posto il benessere sociale ed ecologico. Tenendo conto dei legami tra sfruttamento del lavoro e sfruttamento dell’ambiente, l’ecosocialismo si oppone sia alla ‘ecologia di mercato’ riformista sia al ‘socialismo produttivista’. Abbracciando un nuovo modello di pianificazione solidamente democratica, la società può assumere il controllo dei mezzi di produzione e del proprio destino. Orari di lavoro più brevi e un focus sui bisogni autentici rispetto al consumismo possono facilitare l’elevazione dell’ ‘essere’ rispetto all’ ‘avere’ ed il raggiungimento di un più profondo senso di libertà per tutti. Per realizzare questa visione, tuttavia, ambientalisti e socialisti dovranno riconoscere la loro lotta comune e il modo in cui si collega al più ampio “movimento di movimenti” che cercano una Grande Transizione».[xvi]

La storia del movimento internazionale dei Verdi è costellata di buoni propositi ma anche di cedimenti e compromessi, che paradossalmente lo hanno caratterizzato proprio quando il suo peso è cresciuto all’interno di alcuni stati, rendendo però il suo contributo politico sempre meno radicale ed incisivo. Sarebbe d’altra parte poco lungimirante rinchiudere il discorso ecopacifista all’interno della cerchia della new wave dei partiti comunque riconducibili alla sinistra marxista, trascurando l’apporto dei movimenti ambientalisti e dei partiti esplicitamente ecologisti proprio quando, viceversa, sarebbe necessaria una nuova sinergia di taglio ecosocialista. Come ricordavo nel mio precedente contributo, infatti, non sono state poche le organizzazioni politiche che in questi decenni si sono dichiarate esplicitamente ecosocialiste, soprattutto in Spagna (Izquierda Unida, Esquerra Unida i Alternativa), in Portogallo (Os Verdes), in Francia (Les Alternatifs), in Germania (Die Linke) ed in Grecia (Syriza). Molte di esse non sono più operative o sono confluite in organizzazioni e reti più ampie, ma è innegabile il contributo che anche il movimento dei Verdi ha dato allo sviluppo d’un pensiero ecosocialista. Basti pensare al Manifesto dei Global Greens, la rete che a livello mondiale collega oltre 100 partiti, rappresentati da più di 400 parlamentari. I sei principi fondanti (o ‘pilastri’ comuni) dei Verdi globali riguardano infatti solo per metà l’ambiente in senso stretto (Sostenibilità, Rispetto della diversità, Saggezza ecologica), mentre l’altra metà attiene finalità esplicitamente socialiste e pacifiste (Democrazia partecipativa, Giustizia Sociale e Nonviolenza). Anche nella sua ultima revisione (2017), lo Statuto dei Verdi Globali così si esprime a proposito del ‘pilastro’ della giustizia sociale:

«Affermiamo che la chiave della giustizia sociale è l’equa distribuzione del sociale e del naturale risorse, sia a livello locale che globale, per soddisfare incondizionatamente i bisogni umani fondamentali e per garantire che tutti i cittadini abbiano piene opportunità di sviluppo personale e sociale. Dichiariamo che non c’è giustizia sociale senza giustizia ambientale e non c’è giustizia ambientale senza giustizia sociale. Questo richiede: una giusta organizzazione del mondo e un’economia mondiale stabile che arresti il crescente divario tra ricchi e poveri, sia all’interno che tra i paesi; un bilanciamento del flusso di risorse da Sud a Nord; l’alleviamento dell’onere del debito sui paesi poveri che impedisce il loro sviluppo; l’eliminazione della povertà, come imperativo etico, sociale, economico ed ecologico…» [xvii]

Ovviamente è molto difficile conciliare questi ambiziosi obiettivi – come anche quello della democrazia partecipativa e della nonviolenza – con la presenza dei partiti verdi più rilevanti all’interno di coalizioni di governo che perseguono programmi ben diversi, se non opposti. D’altra parte bisogna riconoscere che quelli del tutto minoritari – come nel caso dei Verdi italiani – hanno ancor meno possibilità di affermare tali principi e, per timore di perdere i già pochi consensi, sono riluttanti ad alleanze con una sinistra alternativa che, purtroppo, risulta in molte realtà altrettanto ininfluente e, in molti casi, piuttosto autoreferenziale. Resta comunque innegabile l’osservazione di Löwy sulla inconciliabilità dell’alternativa ecosocialista con un ambientalismo annacquato, adattato al sistema capitalista.

«Una politica ecologica che funzioni all’interno delle istituzioni e delle regole prevalenti della ‘economia di mercato’ non riuscirà a far fronte alle profonde sfide ambientali che ci attendono. Gli ambientalisti che non riconoscono come il ‘produttivismo’ scaturisca dalla logica del profitto sono destinati a fallire o, peggio, ad essere assorbiti dal sistema. Gli esempi abbondano. La mancanza di un coerente atteggiamento anticapitalista ha portato la maggior parte dei partiti verdi europei, in particolare in Francia, Germania, Italia e Belgio, a diventare semplici partner “eco-riformisti” nella gestione social-liberale del capitalismo da parte dei governi di centrosinistra». [xviii]

Che fare allora? La risposta è semplice, anche se oggettivamente difficile da mettere in pratica. C’è bisogno di un’alleanza strategica di tutti i movimenti che contrastino la logica capitalista e le sue terribili conseguenze sul piano del disastro ambientale, ma anche del crescente rischio di escalation dei conflitti armati e della sempre maggiore marginalità di enormi masse di un’umanità segnata dall’ingiustizia e dallo sfruttamento. Ciò significa un’apertura delle realtà socialiste che più hanno riflettuto su quest’alternativa al contributo di altri ‘ecosocialismi’’, da quello di matrice etico-religiosa (che soprattutto con papa Francesco sta assumendo connotazioni più esplicite sul terreno dell’impegno congiunto su giustizia, pace e salvaguardia del Creato) a quello ispirato dalla nonviolenza attiva dei movimenti pacifisti, comprendendo ovviamente quello che continua a provenire da organizzazioni ‘verdi’ che – come nel caso del Green Party degli Stati Uniti – in molti casi sono già alleate a livello locale con alcune realtà ecosocialiste [xix].

Un secondo obiettivo da perseguire ritengo che sia la saldatura tra ecosocialismo ed ecopacifismo, perché ogni ipotesi di sviluppo alternativo finalizzato a contrastare esclusivamente la crisi climatica non terrebbe in sufficiente conto il peso del complesso militare-industriale sulla devastazione ambientale e sul controllo delle risorse e del potere esercitato a livello globale. La stessa pandemia che ha afflitto l’umanità in questi anni, del resto, è un drammatico esempio di come l’attenzione generale sia stata strumentalmente spostata dal necessario e radicale cambiamento del rapporto uomo-ambiente su questioni apparentemente solo scientifiche, come quelle relative ad una medicina sempre più di emergenza e sempre meno di prevenzione sociale. Tutto ciò ha alimentato non soltanto il fideismo scientista nelle soluzioni ‘tecniche’ e nell’autorità indiscutibile di chi governa la sanità, ma ha suscitato di fatto anche un intollerabile controllo sulla popolazione di stampo autoritario e militarista.  

La via verso un’alternativa ecosocialista, insomma, è costellata di ostacoli e deviazioni, ma è l’unica da percorrere per impedire che la catastrofe ecologica – sia pure a livello globale – continui a colpire in primo luogo ed in misura maggiore proprio chi è già stato vittima dell’ingiustizia, dello sfruttamento e dell’oppressione. È una questione etica, ma proprio per questo profondamente politica.                                    


Note:

[i] Ermete FERRARO, “Ecosocialismo? Sì, grazie!”, Ermete’s Peacebook, (08.06.2014) >https://ermetespeacebook.blog/2014/06/08/ecosocialismo-si-grazie/

[ii] Vedi, ad es.: Arne NAESS, Dall’ecologia all’ecosofia, dalla scienza alla saggezza, in M. Ceruti, E. Laszlo (a cura di), Physis: abitare la terra, Feltrinelli, Milano 1988

[iii] Vedi, ad es.: Raymond WILLIAMS, Cultura e rivoluzione industriale, Torino, Einaudi, 1968

[iv] Vedi, ad es.: Herbert MARCUSE, Critica della società repressiva, Milano, Feltrinelli, 1968.  

[v] Donella H. MEADOWS, Dennis L. MEADOWS; Jørgen RANDERS; William W. BEHRENS III, The Limits to Growth, 1972. (trad. ital.: Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows; Jørgen Randers; William W. Behrens III, Rapporto sui limiti dello sviluppo, 1972)

[vi] Vedi, ad es.: Murray BOOKCHIN (1982), L’ecologia della libertà. Emergenza e dissoluzione della gerarchia, (trad. ital.: Milano, Elèuthera, 1986)

[vii] Murray BOOKCHIN, Per una società ecologica, Milano. Elèuthera, 1989, pp 185-187

[viii] Ibidem, p. 210

[ix]  Roberto MANCINI, Trasformare l’economia – Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche, Milano, Franco Angeli, 2014, p. 160. Vedi anche: Mohandas K. GANDHI, Teoria e pratica della Non Violenza (a cura e con un saggio introduttivo di Giuliano Pontara), Torino, Einaudi, 1975 e ss.

[x]  Cfr. Serge Latouche, cit. in https://it.wikiquote.org/wiki/Serge_Latouche#cite_note-gri-1

[xi] http://ecosocialisme.com/2013/12/17/motion-proposee-par-le-parti-de-gauche-fr-alliance-rouge-verte-dk-syriza-gr-bloco-port-die-linke-all-sur-les-questions-ecologiques/

[xii] Joseph C. KUMARAPPA (1947), cit. da Marinella Correggia in: J.C. Kumarappa, Economia di condivisione – Come uscire dalla crisi mondiale, Pisa, Centro Gandhi Edizioni, 2011 – Quad. Satyagraha n. 20, p. 183

[xiii] Jason W. MOORE, Antropocene o Capitalocene. Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria, Verona, Ombre Corte, 2017 (Prefazione all’ediz. italiana > https://www.dinamopress.it/news/lalternativa-antropocene-capitalocene-chiamare-sistema-suo-nome/

[xiv] Joel KOVEL – Michael LÖWY, An Ecosocialist Manifesto, Paris 2001 > http://environment-ecology.com/political-ecology/436-an-ecosocialist-manifesto.html  (trad. mia)

[xv] Ermete FERRARO, L’ulivo e il girasole – Manuale ecopacifista, Napoli, VAS-Verdi Ambiente Società, 2014 – citato in: Movimento Internazionale della Riconciliazione, La colomba e il ramoscello – Un progetto ecopacifista, Torino, Ed. Gruppo Abele, 2021, p. 81

[xvi] Michael LÖWY, Why Ecosocialism: For a Red-Green Future, dec. 2018 > https://greattransition.org/publication/why-ecosocialism-red-green-future#top (trad. mia)

[xvii] GLOBAL GREENS, Global Greens Charter (Liverpool 2017) > https://globalgreens.org/wp-content/uploads/2021/06/GlobalGreens_Charter_2017.pdf

[xviii]  Michael LÖWY, Why Ecosocialism: For a Red-Green Future, cit.

[xix]  Cfr. https://www.gp.org/ten_key_values  ed anche https://ecosocialists.dsausa.org/about-us/introduction/

© 2021  Ermete Ferraro

Per un ‘Solar New Deal’

Alleanza stato-mercato per scongiurare la catastrofe?

Ho letto con interesse e soddisfazione su la Repubblica i due articoli in cui il noto studioso statunitense Jeremy Rifkin ha sintetizzato per il quotidiano il messaggio del suo ultimo libro. [i]  Esso già nel titolo risulta suggestivo, in quanto contrappone alla “civiltà dei combustibili fossili” un modello economico e sociale profondamente alternativo. L’espressione inglese adoperata – “green new deal” – evoca i ricordi di quello roosveltiano e rinvia ad una svolta radicale, che nasca però da una sorta di ‘patto’ o ‘accordo’ fra più parti. Nello specifico, l’ecopacifista Rifkin fa ricorso alla sua formazione di economista per ipotizzare un’alleanza stato-mercato stimolata da quest’ultimo, più adattabile e sensibile degli stessi governi ad un quadro globale in cui si ricavano sempre meno utili dalle fonti energetiche tradizionali, mentre ne appaiono evidenti le criticità, suscitando l’opposizione di un’opinione pubblica sempre più allarmata.

La soddisfazione, nel mio caso, deriva dal fatto che la visione strategica di Rifkin risente non solo della sua impronta radicalmente ambientalista, ma appunto anche di quella impostazione ecopacifista ed ecosociale che personalmente condivido. La questione. infatti, non è solo come fronteggiare il drammatico approssimarsi di ciò che egli chiama “la sesta estinzione di massa per uomini ed animali[ii] , ma mobilitarsi per dar vita ad una ben diversa prospettiva, che il nostro Antonio D’Acunto molti anni fa aveva felicemente chiamato “Civiltà del Sole”. In questa espressione era racchiusa la visione di un futuro non solo più rassicurante per l’umanità, ma anche improntato a valori davvero alternativi. Un punto fondamentale riguarda l’intenzione di connettere l’evoluzione tecnologica e le scelte ecologiche con un modello decentrato e comunitario di società, caratterizzato da una dimensione territoriale localista ma al tempo stesso capace d’interconnessione e di scambio. Uscire dalla solita logica antropocentrica – che purtroppo vizia parte dell’ambientalismo dopo aver alimentato la prospettiva di uno sviluppo illimitato e di una tecnologia onnipotente – richiede una visione integrata e globale e un’apertura ad una profonda rivoluzione del modello di sviluppo e degli stili di vita attuali. Forse è vero che, come sottolinea Rifkin:

«Il mercato detta legge e i governi di tutto il mondo dovranno adattarsi rapidamente se vogliono sopravvivere e prosperare. L’Italia e il mondo hanno bisogno di una nuova visione economica per passare da una civiltà fossile agonizzante alla nascente civiltà verde». [iii] 

Ritengo però illusorio sperare che un simile passaggio possa essere determinato soltanto dall’allarme per i cambiamenti climatici, dalla convenienza economica delle fonti energetiche rinnovabili e dall’opportunismo dei politici che fiutano il vento. Una vera ‘civiltà verde’ non può e non deve ridursi all’ennesimo trasformismo di chi finga gattopardesco di cambiare tutto per non cambiare niente, ma richiede scelte impegnative ed una inedita centralità delle comunità locali, finora espropriate dalla pianificazione del proprio futuro, come sottolineava Antonio D’Acunto.

«Il potere politico, se costretto a mediare fra economia ed ecologia, risolve la questione con la ‘sostenibilità’: una bella parola che piace a tutti. Centrale è perciò oggi la discussione sulla sostenibilità, sulla complessità ma soprattutto sull’ambiguità ed anche insignificanza di tale termine […] Ma lo sviluppo sostenibile così definito è realmente sostenibile o è la formulazione pseudo-ecologista di continuità dell’attuale modello economico, produttivo, di sfruttamento della natura e dell’uomo, dominante nel mondo?». [iv] 

Il nocciolo del problema, allora, è se questo epocale cambiamento avverrà fatalmente, per l’intrecciarsi d’interessi economici ed ecologici, o se occorrerà continuare a lottare, in nome di valori profondamente alternativi al profitto economico ed al controllo politico.

La terza ‘rivoluzione industriale’ dell’energia rinnovabile digitalizzata?

Rifkin coglie sicuramente la tendenza già presente ad orientare lo sviluppo tecnologico verso una profonda trasformazione delle pratiche energetiche, congiunta ad una modalità comunicativa sempre più digitalizzata ed a nuove sperimentazioni di una ‘economia circolare’. Al tempo stesso ne rileva saggiamente anche i punti di debolezza, poiché quella stessa informatizzazione della società comporta “rischi e sfide”, verso i quali sarà necessario esercitare un “vigile controllo normativo a livello locale e nazionale”. [v]  Mi sembra comunque che prevalga un quasi fideistico entusiasmo nei confronti d’un processo che, messo in moto dal progresso tecnologico e sollecitato dal crescente allarme per i pericoli di un modello energetico insostenibile, energivoro ed iniquo, potrebbe però non risultare così lineare ed inevitabile come prospettato da Rifkin.

«Ora siamo agli albori di una terza rivoluzione industriale in cui una Internet della comunicazione digitale a banda larga sta convergendo con una Internet dell’energia rinnovabile digitalizzata, e una Internet della mobilità elettrica e a idrogeno, alimentate da energia verde, in una vera e propria piattaforma Internet delle Cose (IdC), integrata nel patrimonio edilizio commerciale, residenziale e industriale a emissioni zero. Tutti gli edifici stanno diventando altrettanti nodi di una rete intelligente resiliente e a emissioni zero, incorporati in una matrice IdC, per un’Italia verde e smart e non saranno più spazi passivi e isolati ma diventeranno soggetti attivi di condivisione di energie rinnovabili, efficienza energetica, mobilità elettrica e una vasta gamma di altre attività economiche […] con un balzo in avanti verso l’economia circolare a zero emissioni, ecologicamente sostenibile e altamente resiliente della terza rivoluzione industriale». [vi]

Ovviamente ci auguriamo di poter presto vedere decisi ed attuati provvedimenti che rendano l’Italia “verde e smart”.  Resta però difficile credere che, dopo secoli di cieca fiducia in un progresso unidirezionale, capace di sanare ogni ferita e di superare ogni limite, i vari decisori si convertano ad una prospettiva socioeconomica che coniughi la lotta a sprechi, inefficienza ed accentramento col perseguimento di un’autentica ‘sostenibilità’ ecologica e del protagonismo dei soggetti attivi. Rifkin ipotizza che tale “audace piano economico per salvare la Terra”, sostenuto dalle stesse logiche del mercato, stimoli e coinvolga i vari governi centrali, in quanto finanziatori di una trasformazione che vedrebbe sempre più fondamentale il ruolo delle regioni e delle comunità locali. Suona però come un paradosso, come quello che attribuisce ai governi nazionali una cooperazione con ‘banche verdi’, allo scopo di disincentivare finanziariamente le fonti fossili e d’incentivare quelle rinnovabili. La preoccupante involuzione politica degli USA ed il proliferare di focolari di conflitto, anche armato, connessi al controllo delle risorse energetiche tradizionali (petrolio e gas) purtroppo non fanno sperare in una rapida ‘conversione’ di un sistema che ha ancora troppi interessi da difendere, ed in cui il mondo della finanza non sembra finora esercitare un positivo impulso in tale direzione. Per citare D’Acunto:

«Arrestare i cambiamenti climatici è l’imperativo categorico che si pone oggi l’umanità  [ma] occorre cambiare radicalmente il modello dominante di sviluppo, di economia, di cultura, di società e di organizzazione del potere». [vii]

“Società di servizio energetico” volano di uno sviluppo alternativo?

Da buon eco-economista, d’altronde, Jeremy Rifkin non si affida solo all’ottimistica speranza nel buon senso di politici e finanziatori. Per attuare quella rivoluzione verde, egli infatti fa riferimento anche ad uno strumento concreto per cambiare le cose.

«Vi è… un percorso alternativo che consentirebbe alle partnership tra pubblico e privato per il Green New Deal di prosperare, e annovera già venticinque anni di successi. Il modello di business è la “società di servizi energetici” (ESCO). È un approccio radicalmente nuovo alla conduzione degli affari che si basa su ciò che viene chiamato “contratto di prestazione” per garantire profitti ed è un metodo commerciale che non viene naturale in una logica capitalistica, che rappresenta un vero e proprio ribaltamento delle logiche di mercati basati sulla dicotomia venditore/acquirente, uno dei principi fondamentali alla base del capitalismo».[viii]

Fatto sta che questo nuovo tipo di business è virtuoso proprio perché non connaturato con la logica del capitalismo, in quanto ne sconvolge la sostanziale contrapposizione tra chi vende e chi compra. Non a caso questa inversione di tendenza era prospettata da chi ha ipotizzato una svolta radicale come la ‘Civiltà del Sole’, nella consapevolezza che si tratta di demolire una delle basi che sostengono il modello capitalistico di sviluppo.

«Per la sua intrinseca essenza, il rapporto del capitalismo con la natura e le sue risorse non può che essere di uso privatistico, fino all’aggressivo sfruttamento, finalizzato al profitto e alla crescita del capitale. La natura di fondo di tale rapporto non è affatto cambiata oggi e tocca beni essenziali, patrimonio inalienabile della collettività, quali il mare i litorali, l’acqua e financo lo spazio fisico in cui ci si muove, cioè l’etere!». [ix]

Non è quindi semplice né scontato riuscire a superare la logica accentratrice, privatistica e predatoria del nostro attuale sistema economico, sia pure in presenza di una palese crisi del vecchio modello energetico e di una maggiore consapevolezza dei danni irreversibili che sta procurando all’umanità ed alla biosfera. È pur vero, d’altronde, che la sensazione che un cambiamento sia ineluttabile potrà certamente dare una mano a chi da decenni si batte per uno sviluppo alternativo. Lo stesso Rifkin sa bene che questo stimolo non basta.

«Ma la “mano invisibile” da sola non ci guiderà nell’Era della Resilienza. Costruire una nuova civiltà ecologica dalle ceneri della civiltà dei fossili richiederà uno sforzo collettivo che deve riunire governo, economia e società civile con un mix di capitali pubblici, di mercato e sociali, per realizzare rapidamente l’infrastruttura della terza rivoluzione industriale a zero emissioni e portare l’umanità in un’era sostenibile». [x]

Risorse energetiche diffuse e pulite come ‘bene comune’ .

Le caratteristiche del modello energetico dominante sono tre: accentramento delle risorse e della rete distributiva, sfruttamento dei giacimenti fossili già disponibili o assicurabili anche a costo di conflitti armati, privatizzazione di tali risorse, controllate da un numero ristretto di multinazionali e, in quanto strategiche, protette dal complesso militare-industriale. Invertire la rotta significa uscire dal circolo vizioso d’una ‘crescita’ illimitata disponendo di risorse energetiche limitate, sfruttate irresponsabilmente, accaparrate imperialisticamente e distribuite capitalisticamente. Cambiare rotta, quindi, significa non soltanto fronteggiare la gravissima emergenza ambientale che minaccia l’intera umanità e lo stesso Pianeta, ma anche fare di questa crisi un’opportunità per aprire un nuovo capitolo nell’evoluzione del rapporto uomo-ambiente. Scriveva Antonio D’Acunto quasi dieci anni fa:

«È…l’ora di un’epocale, radicale inversione del sistema di produzione dell’energia, del suo modello e delle sue fonti […] la transizione al solare…è la sola strada per invertire il surriscaldamento del Pianeta, per attivare un percorso di pace e di solidarietà tra gli uomini e di salvaguardia della biodiversità, per realizzare un’economia e una qualità della vita  e del lavoro fondate sulla disponibilità di energia a inquinamento zero e gratuita, per un tempo tanto lungo quanto è la vita stessa del sole». [xi]

Sono elementi riscontrabili anche nel “Green New Deal” proposto da Rifkin, che oltre ad una netta riconversione delle fonti energetiche tradizionali a quelle rinnovabili, prevede una modalità alternativa di produzione e distribuzione dell’energia, in particolare elettrica, grazie ad un ‘network’ che unisca nuove tecnologie ad una visione interattiva, in cui gli utenti diventino anche produttori. Quella “rete elettrica intelligente”, gestita digitalmente, potrà favorire una sorta di democrazia energetica, che è uno dei cardini della “Civiltà del Sole”.  

«Ogni tetto solare, turbina eolica, edificio nodale di Internet of Things, data center periferico, batteria di accumulo, stazione di ricarica, veicolo elettrico, etc. è anche un elemento dell’infrastruttura. A differenza delle infrastrutture della prima e seconda rivoluzione industriale, ingombranti, verticistiche, statiche e non interattive, l’infrastruttura distribuita della Terza Rivoluzione Industriale è, per sua stessa natura, fluida e aperta, e ottiene economie di scala in modo non centralizzato permettendo…a milioni di cittadini di condividere dati, energia, mobilità elettrica, sorveglianza, notizie, conoscenza e intrattenimento, in una “sharing economy” nascente». [xii]

Una rivoluzione ‘verde’ non riguarda solo la compatibilità ecologica delle scelte energetiche ma deve prevedere anche una modalità dinamica, decentrata ed interattiva di produzione/distribuzione di quell’energia da cui, a sua volta, dipende il modello di sviluppo perseguito. Come abbiamo sempre ribadito noi della Rete Campana per la Civiltà del Sole e della Biodiversità [xiii], questa nuova prospettiva non si limita alla scelta di fonti energetiche pulite e rinnovabili, ma comporta il passaggio dalla concentrazione alla capillare diffusione di centri di produzione energetica. Ciò significa passare da uno sviluppo accentrato ed energivoro al risparmio energetico e ad un’ottimizzazione delle risorse e dello spazio fisico, usando razionalmente acque e suolo, nel rispetto della biodiversità.  Altri punti del ‘decalogo’ della RCCCSB prevedono poi che si passi progressivamente:

«Dal consumismo alla capacità rigenerativa della materia, alla sinergia ed alla simbiosi; dalla produzione come sfruttamento ad un’economia ecologica, equa e solidale; dalla dipendenza economica ed energetica ad una rete comune di scambio reciproco; dal ricatto dei potentati finanziari e militari all’autonomia di un’economia decentrata; dall’omologazione e dalla monocultura alla civiltà del sole e della biodiversità». [xiv]

Chi frena il cambiamento del modello di sviluppo?

Tale processo, ripeto, non è semplice né scontato. Le resistenze del sistema di potere e le incertezze del mondo imprenditoriale frenano la realizzazione d’una società in cui prevalga una logica comunitaria, essendo riferita a comunità capaci di autogestirsi ed ispirata dai principi di condivisione e di equità sociale. rinunciare al controllo delle risorse energetiche infliggerebbe un durissimo colpo al sistema capitalista, alla fitta rete d’interessi che esso comporta ed al complesso militare-industriale che strenuamente li difende. Il quadro geopolitico attuale non induce a grandi speranze e mostra invece preoccupanti tendenze autoritarie, centralistiche ed ispirate da rozzi criteri mercantili. Il primo passaggio verso una società decentrata ed autogestionaria sarebbe il trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni. Ma da noi il regionalismo o non è stato realizzato, oppure ha assunto le allarmanti connotazioni di un secessionismo egoistico ed arrogante. Anche il contrasto alla globalizzazione ha talvolta generato esiti politici deteriori, come un populismo ed un sovranismo marcatamente destrorsi. Più che sulle regioni – per qualcuno detentrici di un’autonomia non meno centralistica di quella degli stati – bisognerebbe puntare sulla dimensione comunale, per valorizzare le risorse territoriali e rendere ogni comunità locale quanto più autosufficiente è possibile, ma non per questo chiusa ed incapace di condivisione e scambio con le altre.

«Il passaggio dalla globalizzazione alla glocalizzazione sta trasferendo la responsabilità per il funzionamento dell’economia e gli affari dallo stato nazionale alle regioni. “Regional power” sarà il grido di battaglia nell’era glocal. Ogni regione e comune in Italia, e in ogni località in tutto il mondo, può essere relativamente autosufficiente nella sua generazione di energia verde e capacità di resilienza. Il sole splende ovunque e il vento soffia ovunque…». [xv]

Il “glocalismo” – oltre ad agevolare lo sviluppo di soluzioni energetiche rispondenti a veri bisogni energetici e non controllate da lobbies multinazionali – sarebbe un efficace antidoto al crescente controllo militare del territorio, disincentivando logiche imperialiste e belliciste. Anche su questo aspetto mi sembra evidente la consonanza della proposta di Rifkin con la prospettiva ecopacifista che, purtroppo, spesso non è presa in considerazione sia dal movimento ambientalista ufficiale, sia nelle recenti mobilitazioni giovanili che denunciano l’insufficienza delle azioni di contrasto ai cambiamenti climatici. 

«La glocalizzazione comporta anche un cambio di paradigma dalla “Geopolitica” – e la conseguente massiccia operazione di militarizzazione delle attività energetiche che è stata la cifra dell’economia basata sulle risorse fossili in un mondo diviso dai confini nazionali – a quella “Politica della Biosfera” comportante la condivisione di energia rinnovabile in una “civiltà ecologica” che i confini non li crea ma anzi li abolisce…». [xvi]

Green Power come alternativa globale e non solo ecologica.

Non è un caso che, in lingua inglese, la parola “power” si possa tradurre sia con “energia”, sia con “potere”.  Dal modello energetico adottato dipende infatti quello economico e politico, come dimostrano le grandi rivoluzioni del passato, da sempre legate ad un nuovo modo di produrre e distribuire energia. Per citare D’Acunto:

«Il sole richiama…una fondamentale rottura, un’inversione radicale rispetto al percorso energetico dell’umanità…; passare dalla concentrazione di potenza alla diffusione capillare dei centri di produzione. La rivoluzione necessaria sta nella filosofia che lo spazio, la superficie del Pianeta, è la fonte fondamentale dell’energia per l’umanità. […] Poiché in un sistema di tipo solare non sono concepibili isole di potenza, il sistema delle grandi linee di trasmissione non avrebbe più ragione di esistere: con l’equivalente della superficie compromessa dalle sole grandi linee di trasmissione si produrrebbe, con un sistema solare, tutta l’energia necessaria all’Italia di oggi!» [xvii]

Tutto ciò comporta la mobilitazione dei soggetti, delle comunità, degli scienziati, delle realtà imprenditoriali e di tutti coloro che possono realizzare una transizione niente affatto semplice e, per di più, che va attuata in un lasso di tempo limitato. La ‘Civiltà del Sole’ non è una mera utopia da contrapporre alle distopie di una ‘crescita’ antiecologica, iniqua, energivora e foriera di catastrofi prossime venture. Si tratta di una prospettiva da coltivare, diffondere ed applicare qui e ora, sperimentando tecnologie innovative e nuove modalità di programmazione produzione e distribuzione dell’energia, non solo elettrica. La situazione attuale in Italia però è meno rosea (o meglio, ‘verde’…) di quanto vorrebbero farci credere. Nel 2018, riferiscono i media, la produzione da fonti rinnovabili è cresciuta quasi di un decimo, raggiungendo il 35%. Ma quel 9,8% di aumento delle fonti rinnovabili è un dato che va ulteriormente analizzato, visto che ciò è avvenuto grazie al contributo dell’idroelettrico, mentre l’apporto del ‘solare’ non supera il 6%. Anzi, la percentuale di fotovoltaico ed eolico insieme sarebbe addirittura calata dell’1,4% rispetto al 2017. Facciamo attenzione soprattutto al fatto che quel già gracile 6% del ‘solare’ si riferisce comunque alla sola produzione di energia elettrica, che a sua volta rappresenta solo il 40% circa del totale dell’energia prodotta. La rivoluzione ‘solare’, quindi, da noi partirebbe da una striminzita quota che non supera il 2,4% dell’ammontare energetico italiano. Questo non c’impedisce di continuare a batterci per un cambiamento ormai indispensabile, avviando fin da subito una vera transizione, senza se e senza ma. Per citare ancora Rifkin:

«L’infrastruttura della Terza Rivoluzione Industriale può probabilmente essere costruita in meno di venti anni, una sola generazione, approfittando delle infrastrutture delle due rivoluzioni industriali che l’hanno preceduta e che sono ancora parzialmente in atto, per accelerare la transizione […] Il ‘Green New Deal’ è il primo appello a un nuovo tipo di movimento politico tra pari e alla governance comune che può autorizzare intere comunità a prendere direttamente il controllo del proprio futuro in un momento molto oscuro della storia della vita sulla Terra». [xviii]

La ‘Civiltà del Sole’ va esattamente nella stessa direzione e richiede da tutti noi – ciascuno al proprio livello – un impegno coerente e concreto per erodere le basi violente e predatorie di uno sviluppo senza limiti né remore, e per costruire insieme una società alternativa, rispettosa degli equilibri ecologici ma anche più giusta pacifica e solidale.


Note

[i] Jeremy Rifkin, Un green new deal globale – Il crollo della civiltà del combustibili fossili entro il 2028  e l’audace piano economico per salvare la terra, Milano, Mondadori 2019 > https://www.ibs.it/green-new-deal-globale-crollo-libro-jeremy-rifkin/e/9788804717409

[ii] Jeremy Rifkin , “Il grande cambiamento, il Green New Deal per l’Italia” (parte prima)”, la Repubblica, 14.10.2019 > https://www.repubblica.it/economia/2019/10/14/news/rifkin_per_un_italia_verde_e_smart_serve_l_alleanza_stato-mercato_prima_parte-238562037/

[iii] Ibidem

[iv] Antonio D’Acunto, Alla ricerca di un nuovo umanesimo – Armonia tra uomo e natura nella lotta politica, Napoli, ediz. La Città del Sole, 2015, p.240 (il saggio è del 2014). Vedi anche: Ermete Ferraro, “La Civiltà del Sole come Ecotopia”, Roma, Vasonlus , 2018  > http://www.vasonlus.it/?p=64054  e Ermete Ferraro, “L’insostenibile leggerezza della sostenibilità”, Ermete’s Peacebook (03.05.2015) > https://ermetespeacebook.blog/2015/05/03/linsostenibile-leggerezza-della-sostenibilita/

[v] Rifkin, “Il grande cambiamento…”, cit.

[vi] Ibidem

[vii] D’Acunto, op. cit.

[viii] Jeremy Rifkin, “Un green new deal per l’Italia che sorge  dalle ceneri” (2^ parte), la Repubblica, 15.10.2019 > https://www.repubblica.it/economia/2019/10/15/news/rifkin_un_green_new_deal_per_l_italia_che_sorge_dalle_ceneri_seconda_parte-238563341/

[ix] D’Acunto, op. cit., p. 232

[x]  Rifkin, “In grande cambiamento…”, cit.

[xi] D’Acunto, “La Civiltà del Sole”, in op. cit. (2010), p. 196

[xii] Rifkin, “Un green new deal per l’Italia che sorge dalle ceneri”, cit.

[xiii]  Organizzazione fondata da Antonio D’Acunto, per garantire l’attuazione della leggere regionale d’iniziativa popolare dal titolo: ”Cultura e diffusione dell’energia solare”, approvata all’unanimità dal Consiglio Regionale della Campania come L.R.n. 1/2013. In questi sei anni tale norma è stata prima emendata, poi totalmente disattesa e boicottata, per cui continua l’impegno della RCCSB per diffonderne la conoscenza e stimolarne l’applicazione.

[xiv] Cfr. il paragrafo ‘visione’ nella pagina iniziale del sito web della RCCSB > http://www.laciviltadelsole.org/

[xv] Rifkin, “Un green new deal…”, cit.

[xvi] Ibidem

[xvii]  A. D’Acunto, “La Civiltà del Sole” (maggio 2010), in op. cit, p. 200

[xviii]  Rifkin, “Un green new deal…”, cit.

Ansie…e Gretel

E’ dagli anni ’70 che mi occupo di antimilitarismo e disarmo nucleare e dalla metà degli anni ’80 di ambientalismo ed alternative ecologiche. Ormai giunto all’età della pensione, ritengo legittimo fare un bilancio di decenni d’impegno ecopacifista, passando in rassegna le tante battaglie che mi hanno visto coinvolto direttamente o che io stesso ho contribuito a promuovere. Ebbene, pur tenendo conto che credo di aver fatto quanto era nelle mie possibilità e di aver lealmente collaborato anche con soggetti che non rispecchiavano del tutto la mia formazione di base, cristiana e nonviolenta, devo ahimé constatare che – ad oltre quarant’anni dalla mia prima scelta radicale come obiettore di coscienza – il panorama socio-culturale, economico e politico ( per non parlare di quello ambientale) appare forse ancor più fosco e preoccupante di allora.

Non si tratta della solita lamentazione delle persone anziane né dello scontento di chi prova delusione per ciò che non è riuscito a realizzare. Il mio non è tanto un senso di frustrazione o d’insoddisfazione personale quanto la semplice, eppur dolorosa, constatazione che, dopo questi anni d’impegno, gran parte degli obiettivi perseguiti purtroppo non sono stati raggiunti. Ciò mi sembra vero sia per quelli che hanno ispirato il lavoro socioculturale, iniziato come obiettore in servizio civile presso il centro comunitario della ‘Casa dello Scugnizzo’ e proseguito nei seguenti otto anni di lavoro sociale di comunità e negli altrettanti come amministratore sociale dell’omonima Fondazione, sia per quanto ho cercato di realizzare in dieci anni d’impegno politico istituzionale nei Verdi e nei successivi venti, vissuti da attivista ambientalista ed ecopacifista.

La ‘società liquida’ così ben disegnata da Zigmund Bauman – con la sua tendenza all’individualismo, al consumismo, al pensiero debole ed alla omogeneizzazione delle idee –  da parecchio tempo ha avuto la meglio sullo sforzo di coniugare l’etica con la politica, battendosi per finalità di sviluppo umano e civile e non di progresso esclusivamente tecnologico e di vorace ‘crescita’ economica.  Alla pur accresciuta consapevolezza teorica dei limiti (ecologici prima ancora che etici) che si frappongono alla corsa sfrenata dell’umanità verso quest’ultimo obiettivo, infatti, non mi sembra che abbia fatto seguito una presa di coscienza tale da arrestare questo impeto suicida, fratricida e biocida. Tale drammatica situazione, come ben sappiamo, mette in forse il futuro stesso dell’umanità, sia per la folle ripresa della corsa agli armamenti nucleari, sia per la palese incapacità dei governi di contrastare davvero i cambiamenti climatici, dovuti all’irresponsabile impatto antropico sugli ecosistemi. L’impegno dei movimenti pacifisti e di quelli ambientalisti, purtroppo, non sembra aver sortito grandi risultati né modificato in modo profondo e significativo i modelli comportamentali ed i valori morali della gente comune, spingendola a cambiare rotta in prima persona ed a negare il proprio consenso a chi non ne rappresenta da tempo gli interessi. L’auspicata ‘rivoluzione dal basso’ non ha fatto seguito al penoso disfacimento delle organizzazioni politiche tradizionali. Ne consegue che, pur registrandosi una crescita di soggetti e realtà associative impegnate ad opporsi ad un modello autoritario, iniquo ed insostenibile di società e di economia, non si è sviluppata in modo significativo l’alternativa che in tanti auspicavamo potesse contrapporle scelte improntate  ai valori della nonviolenza, della giustizia sociale e del rispetto degli equilibri ecologici.

La protesta contagiosa di Greta Thunberg

Il primo e più evidente segno di ribellione ad un paradigma socio-economico in apparenza ineluttabile – frutto del pensiero unico e della rassegnazione di soggetti passivizzati e spersonalizzati dalla massificazione mediatica – è incredibilmente venuto invece dalla risoluta battaglia ‘senza se e senza ma’ di una ragazza svedese dalle idee molto chiare e dalla testa dura. Greta Thunberg è diventata in brevissimo tempo un’icona, un simbolo, una bandiera per milioni di persone che sembravano finora rassegnate o sconfitte. Il fenomeno Greta, con la sua profonda valenza emotiva, sembrerebbe aver coinvolto paradossalmente grandi e piccoli, studenti e intellettuali, ambientalisti e sostenitori della crescita, in un liberatorio grido comune contro chi minaccia il futuro dei nostri ragazzi. Certo, gran parte di quest’ondata neo-ecologista è frutto d’un imprevedibile quanto fragile impeto mediatico ed è quindi soggetta a ritrarsi non appena dagli appelli accorati all’impegno globale si dovrà passare alle molto meno gratificanti e popolari scelte alternative hic et nunc. Non mi sembra però una ragione per minimizzare o banalizzare l’effetto dirompente del ‘grido di dolore’ partito da quella sedicenne che non crede più alle promesse dei ‘grandi’ (per età e per carica) ed invita tutti a mobilitarsi per difendere il Pianeta e chi vuole continuare ad abitarlo.

Confesso che mi ha fatto pena vedere come radicate realtà associative e partitiche di matrice ambientalista stiano ora cercando di cavalcare l’imprevedibile nouvelle vague ecologista scaturita dalla base, implicitamente confessando la propria sconfitta ma tentando di ridarsi quel ruolo trainante che, almeno in Italia, hanno perso da molto tempo. Ovviamente non c’è nulla di male nel rivendicare e rilanciare le battaglie pregresse, collegandole a mobilitazioni spontanee e finora sfuggite ad ogni organizzazione. Rivedere ovunque milioni di persone scese in piazza – molti dei quali giovani da molti di noi dati per ‘persi’ alla causa ambientalista – non può che ridarci speranza ed aprire nuove prospettive. Sappiamo bene, d’altra parte, quanto gli entusiasmi dei nostri figli spesso durino poco e quando invece dipendano da stimoli mediatici di corto respiro ed assai poco prevedibili. Le manifestazioni di massa e gli appelli, in ogni caso, non possono cadere nel vuoto e devono trovarci pronti a ripartire, possibilmente insieme e in modo coordinato, con un percorso di opposizione all’attuale modello di sviluppo, per costruire alternative concrete e credibili.

Non si tratta di sventolare le soluzioni di una spesso equivoca green economy né di accontentarsi di una ‘nicchia ecologica’ dentro la quale far confluire esperienze di coltivazione ed allevamento ‘biologici’ o di energia ‘pulita’, quasi si trattasse di lodevoli eccezioni che confermano la regola. Bisogna piuttosto creare una coscienza ambientale diffusa, alimentare ‘buone pratiche’ e stimolare i giovani a lottare per il loro futuro, ma senza fingere ipocritamente di non sapere che questo modello di produzione e consumo è frutto d’una logica ben precisa ed è controllato da equilibri politici e geo-strategici cui in tanti non sembrano disposti a rinunciare. Il vecchio slogan ‘agire localmente e pensare globalmente’ è allora quanto mai appropriato ed attuale.  Un impegno personale e collettivo dal basso appare indispensabile e nessuna mobilitazione di massa, da sola, può rimpiazzarlo. E’ altresì vero che rilanciare le battaglie ambientaliste non basta a farci uscire dall’imbuto nel quale ci siamo cacciatati, scegliendo in troppi di sostenere le ragioni di quella ristretta minoranza che ha risorse e potere per imporre violentemente il proprio dominio alla stragrande maggioranza degli esseri umani. Il fatto che le piazze si riempiano di giovani che rivendicano il loro diritto al futuro deve farci piacere, perché prelude ad una nuova stagione dell’ambientalismo ma soprattutto perché è un chiaro segnale della rivendicazione di un protagonismo per troppo tempo soffocato dallo stile di vita individualista e consumista nel quale gran parte di loro sono stati educati. La lezione di Greta è importante anche perché ricorda ai giovani come lei che si ha diritto a pretendere che gli adulti mettano finalmente in pratica decenni di promesse a vuoto, ma a patto che in prima persona si sappiano fare scelte nette e radicali, attuando il saggio monito a gandhiano ad essere noi per primi il cambiamento che vorremmo vedere nel mondo.

Copertina di ‘Apocalittici e integrati di Umberto Eco

A mio avviso, però, ci sono tre aspetti meno positivi che emergono da queste imponenti mobilitazioni globali per garantire un futuro all’umanità. Il primo (senza ovviamente prendersela con la ragazza svedese…) mi sembra l’insistenza eccessiva su una prospettiva antropocentrica da cui si inquadrano le allarmanti problematiche ambientali, confermando un’ottica che – incurante degli appelli di tanti ecologisti e dello stesso Papa Francesco – non riesce a prescindere da una morale puramente utilitaristica e strettamente umana.  Il secondo limite di questo pur entusiasmante boom d’interesse in campo ambientalista mi sembra scaturire dai ragionamenti antitetici tipici della cultura occidentale, mirabilmente evidenziato già negli anni ’60 da Umberto Eco.  La fastidiosa, quanto rituale, contrapposizione degli ‘apocalittici’ agli ‘integrati’, infatti, ci ripropone una società dove non avviene mai una sintesi ed in cui si alternano irrazionalmente spinte contrapposte. L’insistenza talvolta un po’ truce e catastrofica sulle minacce al ‘futuro’ dell’umanità ritrova infatti spazio e slancio, ma ciò avviene in una società ancora in larga parte anestetizzata dai media, inebetita dalla corsa ai consumi e mentalmente prona ad un pensiero unico che rende sempre più omologate le culture, cancellando le diversità e tacitando le coscienze. L’antitesi pura e semplice fra la rassegnazione degli integrati ed il terrore degli apocalittici, anche in questo caso, potrebbe portarci pericolosamente fuori pista. E questo non perché l sviluppo alternativo ipotizzato rivesta un carattere ‘profetico’ – aspetto invece positivo – bensì perché l’utopia deve comunque incarnarsi sempre in un contesto di realtà, offrendo strumenti concreti ed indicando vie praticabili per andare in quella direzione ‘ostinata e contraria’.

Questa insistenza sull’ansia, sul terrore per una catastrofe prossima ventura, infine, costituisce il terzo limite che credo vada superato. La paura, da sempre, non produce frutti buoni. Al contrario, alimenta talvolta spesso meccanismi di egoistica autodifesa che possono trasformarsi in reazioni irrazionali, violente ed incontrollabili.  Superare la paura del cambiamento, si sa, è un passo fondamentale per trasformare il mondo, a partire dal nostro orticello quotidiano. Cambiare solo perché si ha paura, viceversa, è un movente molto parziale, che si rivela spesso controproducente. Come osservano molti psicologi, infatti, la paura – oltre a paralizzarci – può impedirci di vedere con chiarezza ciò di cui abbiamo davvero bisogno oppure potrebbe nutrire paranoie, che sfociano nella ricerca di ‘nemici’ da combattere più che di strutture e modalità cui opporci. Nessuna rivoluzione – compresa quella ‘verde’ – sarà mai un ‘pranzo di gala’, per citare una celebre frase di Mao Zedong, in quanto richiede impegno continuo, sforzi personali, inevitabili conflittualità e pesanti sacrifici. Pensare che essa possa essere alimentata solo dal terrore della fine imminente, però,  ritengo che sia una pericolosa illusione ed un’irrazionale tentazione.

Quando cercavo un titolo da dare a questo mio scritto mi è sorta spontanea l’associazione d’idee tra il nome della ormai celeberrima sedicenne svedese che è diventata la leader del nuovo movimento contro i cambiamenti climatici e quello di una bambina che, insieme col fratello, era protagonista di una non meno celebre fiaba dei fratelli Grimm.  Chi, infatti, non conosce la cupa vicenda di Hansel e Gretel, abbandonati dai genitori in un fitto bosco e poi finiti nelle grinfie di una orribile strega, che li allevava per poi potersene cibare? Ebbene, mi è venuto spontaneo il parallelo con la Greta di oggi, che si sente altrettanto drammaticamente abbandonata dagli adulti – colpevoli ed irresponsabili – nel folto di una oscura foresta fatta d’inquinamento e piaghe ambientali, in preda alla voracità maligna di un falso sviluppo che porta alla distruzione ed alla morte. Volendo continuare nella metafora, è il caso di notare che la ‘casa’ che ospita quell’essere malefico e mortifero risulta però esteriormente attraente, fatta com’è di tanti dolciumi invitanti, proprio come invitanti sono nella realtà le seduzioni del consumismo sfrenato e della crescita senza limiti né remore.  A tutto ciò bisognerebbe allora contrapporre un vero progetto, non reazioni istintive né paure paralizzanti. La strega di un falso sviluppo – energivoro iniquo e incompatibile con gli equilibri ecologici – va combattuta ritorcendole contro le sue stesse armi. Al ‘riscaldamento globale’ del forno nel quale stanno per essere gettati, Hansel e Gretel alla fine condanneranno proprio la megera che li teneva prigionieri, annullandone così per sempre la malefica seduzione.  Si tratta di un riferimento puramente allegorico, certo, ma penso che possa comunque farci riflettere sulla necessità di lavorare insieme per uscire finalmente dalla maledizione di un finto ed allettante benessere, fondato però sulla depredazione delle risorse e sullo sfruttamento di tanti esseri umani.

© 2019 Ermete Ferraro   

“Generale, quelle 5 stelle…”

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Il Gen. Sergio Costa

La Repubblica italiana è l’unico stato con un ‘generale a cinque stelle’. Normalmente, infatti, i gradi degli ufficiali superiori delle forze armate si fermano alle quattro stellette, che accompagnano la classica ‘greca’. Però il generale dei carabinieri Sergio Costa – già comandante per la Campania del Corpo Forestale dello Stato – sembra fare eccezione, visto che le ‘cinque stelle’ egli non le porta più cucite sulle mostrine o le controspalline, ma direttamente sul cuore. Non è un caso, infatti, che il nome di Costa come membro del Governo sia stato subito anticipato dal ‘capo politico’ del M5S, pronostico regolarmente confermato dalla sua nomina a Ministro dell’Ambiente del neo-esecutivo pentastellato-leghista, presieduto dal premier Giuseppe Conte. Ebbene, come scrivevo già nel precedente articolo sul mio blog [i], questa è la sola scelta che mi lascia soddisfatto nel contesto della compagine governativa cosiddetta giallo-verde, probabilmente perché si tratta dell’unico segnale di svolta ambientalista all’interno di un assai poco confortante quadro politico di stampo reazionario. Non ripeto qui le mie perplessità – per adoperare un eufemismo – su un esecutivo che sta innegabilmente virando a destra, in senso populista ma soprattutto seguendo una deleteria visione securitaria, nazionalista e xenofoba, strizzando un occhio alla Russia putiniana e l’altro alla ‘America First’ trumpiana.

Per quanto molti, anche fra amici e compagni, intessano lodi o manifestino speranzose aperture nei confronti di tale ‘governo del cambiamento’, io non posso farci niente: lo strano ‘presepio’, messo insieme in modo raffazzonato dal duo Salvidimaio, proprio “nun me piace”.  Lo so, qualcuno obietterà, proprio come faceva Luca Cupiello: «Come si può dire: ‘Non mi piace’, se quello non è finito ancora? ». [ii] Prendendo in prestito le battute di Nennillo, rispondo: «Ma pure quando è finito non mi piace […] Ma guarda un poco, quello non mi piace, mi deve piacere per forza?» [iii] Ciò premesso, devo ammettere che, pur in questo spiacevole scenario, la ‘statuina’ di Sergio Costa mi convince, dal momento che egli porta al Ministero dell’Ambiente sia la sua qualificazione di laureato in Agraria, con un master in Diritto dell’Ambiente, sia la sua profonda competenza in materia d’investigazioni ambientali, che lo hanno portato a svolgere un ruolo centrale nella tragica vicenda della ‘terra dei fuochi’, facendolo giungere meritoriamente ai vertici della Forestale e poi dei Carabinieri per l’Ambiente [iv]. Personalmente, ho avuto il piacere di conoscerlo e di apprezzarne la professionalità, la dirittura morale e la disponibilità ad approfondire segnalazioni e denunce. Credo quindi che si possa accogliere con soddisfazione la sua scelta come responsabile di un Dicastero dove dovrebbe imprimere una netta svolta, dopo anni d’incuria che hanno fatto degenerare vecchi problemi ambientali e spuntare nuove aggressioni all’integrità del nostro territorio. Eppure…

generale a 5 stelle

Five Stars General ?

Eppure questo stimabile ‘generale a 5 stelle’ non potrà prevedibilmente capovolgere – almeno da solo – la logica deleteria che ha subordinato finora i diritti dell’ambiente agli interessi economici, leciti ed illeciti, che lo hanno di fatto devastato. Sfruttare le sue indubbie capacità di contrasto degli abusi e degli ecoreati è cosa buona e giusta, ma non basta. Scoprire e denunciare con decisione comportamenti fuori legge in tali ambiti è solo il primo passo, ma rischia di farci dimenticare che l’intero modello di sviluppo da noi caparbiamente perseguito è di fatto incompatibile con il rispetto degli equilibri ecologici, con la salvaguardia della biodiversità e con la pur auspicata inversione di tendenza in ambito energetico. Non ho alcun dubbio che questo esperto investigatore ambientale nel suo nuovo incarico saprà dare – come ha dichiarato – la priorità al controllo delle discariche, all’inquinamento atmosferico, alla tante ‘emergenze’ ed agli abusi di ogni genere che stanno distruggendo le meraviglie del nostro Paese. Dove forse si sbaglia è quando dichiara: « L’ambiente è una cosa seria, centrale, e appartiene a tutti. Non c’è maggioranza o opposizione nella salvaguardia delle nostre terre». [v]E non certamente perché io non condivido la prima parte del ragionamento, ma perché non sono affatto convinto che sulla salvaguardia dell’ambiente siano tutti, naturalmente, concordi. La verità è che chi continua a perseguire dichiaratamente la ‘crescita’ e l’assurdo miraggio di uno sviluppo illimitato non sa che farsene della ‘salvaguardia delle nostre terre’. Chi sta irresponsabilmente formando intere generazioni a comportamenti consumistici ed energivori è di fatto un nemico dell’ambiente. Chi antepone la legge del profitto e della speculazione a quella del bene comune non è, e non sarà mai, un alleato di chi al contrario vuole impedire che le nostre terre (e la Terra più in generale) si trasformino in una discarica, che non riuscirà mai a smaltire ciò che la società dello spreco e del rifiuto produce ogni santo giorno.

5 STELLEOvviamente faccio i migliori auguri di buon lavoro a Sergio Costa, un illustre Napoletano ed un grintoso ambientalista piazzato in prima linea dal governo penta-leghista, dal quale sono certo che riceveremo presto segnali positivi. Però, lo ripeto, questo non può bastare. Delle ‘cinque stelle’ da cui prende nome il Movimento che lo ha fortemente voluto all’Ambiente – come ho già osservato nel mio precedente commento – temo che alcune possano già essere definite ‘cadenti’.  Se si  pensa che esse si riferivano originariamente ad: acqua, ambiente, trasporti, sviluppo ed energia [vi], è impossibile non notare quanto quella formazione politica si sia già discostata da quella ‘carta degli intenti’ di soli nove anni fa [vii] . Le priorità del Movimento attuale, di lotta e di governo, si direbbero ben altre, visto che alle questioni ambientali il ‘Contratto’  sottoscritto dal duo Di Maio-Salvini è dedicato solo un capitoletto, peraltro di tono astrattamente dichiarativo più che concretamente programmatico. Certo, si parla ancora di: ‘buone pratiche’, ‘economia circolare’, ‘azioni contro lo spreco’, ‘rischio idrogeologico’, ‘processi di sviluppo economico sostenibili’, ‘produzione da fonti rinnovabili’ e via lodevolmente enunciando. [viii] Da quelle tre paginette e mezza, però, non emergono impegni precisi, obiettivi chiari anche se limitati, scelte prioritarie, quelle cioè che ci si aspettava da un documento che si autodefiniva, appunto, come un ‘contratto’.

« Potrebbe sembrare un bel libro dei sogni, se dietro quest’elenco non si giocasse il futuro del Paese in tema di progresso sostenibile, tutela della salute dei cittadini e sopravvivenza delle future generazioni. E comunque, al di là del contratto, l’azione politica non potrà prescindere dalla “Strategia Nazionale sullo Sviluppo Sostenibile”, il documento di riferimento degli impegni italiani sottoscritto nei consessi internazionali, dal quale partire per implementare le politiche ambientali. Politiche che saranno improntate, certamente, ad un sano pragmatismo che al neo Ministro gli viene dall’esperienza maturata in questi anni sul campo…» [ix]

Ecco, appunto: un “bel libro dei sogni”. Eppure nelle rimanenti 54 pagine del ‘Contratto’ si prospettano in genere soluzioni, azioni e risposte più nette, anche se spesso appartenenti all’armamentario ideologico della destra reazionaria più che ad una forza progressista. E poi:  quale “sano pragmatismo” ci aspettiamo dal nuovo ministro? Quello di chi è consapevole che il mondo non si cambia in un giorno, oppure quello che ha connotato la parola sostenibilità nel senso ambiguo dell’ambientalismo ‘che ci possiamo permettere’, senza turbare troppo gli equilibri economici e le compatibilità finanziarie nazionali ed internazionali?

download (1)Sono certo che, nel caso di Costa, il pragmatismo del politico non tradirà i convincimenti ambientalisti della persona. Sta di fatto, comunque, che egli si trova a far parte di un esecutivo che esprime ben altre scelte e priorità, a cominciare da quella – martellante – delle politiche di respingimento dei migranti e di tutela degli ‘interessi nazionali’. Beh, se una cosa avrebbe dovuto insegnarci l’esperienza ultratrentennale dei Verdi – intesi come soggetto politico nato per superare l’ambientalismo settoriale e per configurare un progetto globale ed alternativo di società e di sviluppo – era proprio che un vero ecologismo non può mai essere ridotto a scelte auspicabili, ma comunque settoriali. Essere ‘verdi’ – secondo i ‘quattro pilastri’ del movimento a livello internazionale – dovrebbe risultare dall’integrazione di dimensioni strettamente correlate fra loro: “Saggezza ecologica, Giustizia sociale, Democrazia dal basso e Nonviolenza” [x]. Ebbene, questo governo, assai impropriamente definito dai media “giallo-verde”, non può farci credere che una svolta ambientalista si possa reggere solo su uno di questi pilastri, buttando giù gli altri tre. Siamo di fronte infatti ad uno dei governi più destrorsi di sempre, che continua a cavalcare il populismo più becero, fiutando l’aria di una più generale svolta autoritaria, nazionalista e militarista sia a livello europeo, sia sul piano globale. E’ vero che, per citare l’amara canzone di Gaber, ormai non distinguiamo più “cos’è la destra e cos’è la sinistra” [xi], però non ci si può chiedere di ingoiare i bocconi amari di politiche poliziesche e muscolari in nome della lotta alle ecomafie. Non si può pensare di  farci chiudere gli occhi sulla cancellazione di ogni principio di progressività fiscale, di rifiuto dell’invasività ambientale delle grandi opere o di tutela dei diritti fondamentali sol perché ci si promette, un po’ vagamente, di sostenere le energie alternative.

«Generale, queste cinque stelle, / queste cinque lacrime sulla mia pelle / che senso hanno dentro al rumore di questo treno, / che è mezzo vuoto e mezzo pieno /e va veloce verso il ritorno…» [xii] Così cantava Francesco  de Gregori giusto 40 anni fa. Ebbene, faccio i miei auguri e saluto cordialmente il ‘generale a 5 stelle’ Sergio Costa (anche se, da antimilitarista, eviterò di mettermi sugli attenti…), ma non posso fare a meno di chiedermi anch’io “che senso hanno [quelle cinque stelle] dentro al rumore di questo treno” sul quale è salito. Un treno che sembra andare “veloce verso il ritorno” ad un’Italia nazionalista, poliziesca e militarista, piena di paure e diffidenze, che speravamo di esserci lasciati alle spalle.

© 2018 Ermete Ferraro

—-N O T E  ————————————————————————

[i] E. Ferraro, Hanno fatto Trenta. Non facciano 31 ( 02.06.2018)  > https://ermetespeacebook.com/2018/06/02/hanno-fatto-trenta-non-facciano-31/

[ii]  E. De Filippo, Natale in casa Cupiello  (1931) – Atto I > http://www.duepuntotre.it/2015/11/natale-in-casa-cupiello.html

[iii] Ibidem

[iv]  Cfr. “Sergio Costa” su Wikipedia > https://it.wikipedia.org/wiki/Sergio_Costa

[v] Nino Femiani, “Il ministro Sergio Costa: ‘Io, peone della Terra dei fuochi. All’Ambiente ci vuole grinta” (02.06.2018), Il quotidiano.net > https://www.quotidiano.net/politica/sergio-costa-1.3952659

[vii] Cfr. la “Carta di Firenze” del M5S del 2009 > https://www.movimento5stelle.it/listeciviche/documenti/carta_di_firenze.pdf

[viii] Cfr. Il contratto di governo (18.05.2018) > https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/05/18/governo-m5s-lega-il-contratto-di-governo-versione-definitiva-del-testo/4364587/

[ix] S. Illomei, “Le priorità del neo-ministro dell’Ambiente Sergio Costa”, Formiche (giugno 2018) > http://formiche.net/2018/06/ministro-ambiente-costa/

[x] Cfr. Four Pillars of the Green Party >  http://greenpolitics.wikia.com/wiki/Four_Pillars_of_the_Green_Party  – Vedi anche: Charter of the European Greens > https://europeangreens.eu/node/5745

[xi]  G. Gaber “Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra” > http://testicanzoni.mtv.it/testi-Giorgio-Gaber_28896/testo-Destra-sinistra-2304830

[xii] F. De Gregori,  Generale (1978) > http://www.angolotesti.it/F/testi_canzoni_francesco_de_gregori_125/testo_canzone_generale_7177.html

#Nonfossilizziamoci!

downloadQualche volta mi chiedo perché non sono come tanti altri amici che, beati loro, riescono ad occuparsi di una sola questione, per cui il loro impegno è certamente più continuativo ed efficace. Il fatto è che la mia natura mi porta a stabilire delle relazioni fra le cose di cui mi capita di occuparmi, per ragioni di lavoro o per scelta personale. Ciò comporta che, fin dagli anni ’70,  il mio impegno non si è limitato all’opposizione a guerra e militarismo in chiave di obiezione di coscienza, resistenza nonviolenta e difesa alternativa. Già allora, infatti, non mi sfuggivano gli aspetti sociali e quelli ambientali connessi ai conflitti bellici e questo mi ha consentito di approfondire la mia analisi e d’impegnarmi, in seguito, anche in questi altri due ambiti d’azione.

Ecco perché, a distanza di 40 anni, continuo testardamente a cercare connessioni fra problematiche diverse, anche se questo rende forse più dispersivo il mio intervento, costringendomi a seguire questioni apparentemente distinte e separate. In un’ottica eco pacifista ed eco sociale, però, le cose risultano molto più intrecciate e richiedono risposte coordinate. Ciò è possibile, però, solo se si ha alle spalle una visione globale, un sistema di valori, insomma, un pensiero forte. E’ possibile, soprattutto, se riusciamo a sconfiggere il pensiero unico e le semplificazioni di una politica volgarizzata ad esercizio del potere, privo d’idee ma soprattutto di vere idealità.

Il mio slogan #nonfossilizziamoci – ripreso nel titolo – è quindi un invito ad uscire dalla logica approssimativa dei luoghi comuni, delle finte evidenze, delle contrapposizioni insanabili e delle soluzioni inevitabili. L’appello a non fossilizzarsi – oltre ad alludere ovviamente alla campagna referendaria per il Sì contro le trivellazioni sine die nelle acque territoriali italiane – è allora un generale e pressante richiamo ad esercitare le proprie facoltà di analisi e di giudizio, anziché affidarci alle chiacchiere interessate diffuse dai media ed alle semplificazioni che fanno comodo solo a chi cerca di non farci pensare con la nostra testa.

Non fossilizzarsi vuol dire quindi anche rifiutare la colpevole faciloneria di chi ci dice che rinunciare alle risorse fossili nazionali per acquistarle da altri sarebbe una follia ed uno spreco assurdo, sapendo bene che, viceversa, una vera pazzia è proprio insistere nel raschiare il barile in esaurimento di tali risorse, in totale contraddizione con gli impegni assunti per invertire la rotta, sì da scongiurare gli effetti catastrofici dei cambiamenti climatici. Non fossilizzarsi significa uscire dalla logica della dipendenza da fonti energetiche che ci hanno portato all’insostenibilità ecologica, minacciando interi ecosistemi ed inquinando mari e terre, solo per mantenere in piedi un modello di sviluppo energivoro e profondamente iniquo.

#Nonfossilizziamoci!  è il grido di chi ha capito da tempo che rincorrere ancora petrolio e gas naturale è solo un bieco regalo alle multinazionali ed un insopportabile ostacolo alla valorizzazione delle fonti energetiche rinnovabili, pulite e disponibili per tutti, come il sole il vento e l’acqua. E’ questo il nodo da superare se vogliamo davvero andare verso quella “Civiltà del Sole” che non si esaurisce banalmente in una maggiore diffusione di sistemi fotovoltaici o di impianti eolici sul nostro territorio, ma è una visione più ampia e globale, che comprende concetti come efficienza, risparmio, democrazia energetica, autogestione delle risorse del territorio.

#Nonfossilizziamoci significa anche: non ostiniamoci a ragionare con la mentalità di chi crede ciecamente che il progresso tecnologico risolverà sempre e comunque i problemi che la stessa tecnologia sta creando, se non è ispirata al senso del limite ma guidata solo dall’avidità e dalla voglia di sfruttare a proprio piacimento la natura e le persone. Non è un caso che fossilizzarsi vuol dire rinunciare alla naturalità per una rigidità che è la negazione stessa della vivacità. Basta sfogliare un qualsiasi dizionario per rendersi conto che ciò che si fossilizza è ridotto da organismo vivente allo stato di minerale. Fossilizzarsi – ci spiega qualunque lessico – equivale a ‘sclerotizzarsi’, a ‘fissarsi su schemi rigidi’, ad ‘assumere una forma rigida e definitiva’, a ‘fissarsi su idee e principi antiquati, rifiutando qualsiasi rinnovamento’.

Gli innovatori, pertanto, non sono certo quelli che difendono a spada tratta la scelta delle trivellazioni petrolifere e di gas naturale. Il loro, infatti, è un modello di sviluppo economico e sociale ‘fossilizzato’ in una visione rigida e chiusa al nuovo; ancorato ad equilibri internazionali che ci vedono subalterni; difeso da aggressioni neocoloniali e da guerre infinite. Già, perché una forma meno evidente di ‘fossilizzazione’ delle dinamiche politiche è la supina dipendenza da quel complesso militare-industriale che non si limita a produrre ed esportare armamenti, ma coltiva vecchie conflittualità ed alimenta cinicamente occasioni per nuovi conflitti armati.

#Nonfossilizziamoci!  è anche un invito pressante a smetterla di ridurre la politica a mero  giacimento da cui estrarre profitti e posizioni di potere. Dobbiamo opporci ad un futuro per i nostri figli e nipoti che si presenta sempre più inquinato da cemento e catrame, ma anche ad un modo di gestire la cosa pubblica che la sta trasformando sempre più in affare privato, quando non in ‘cosa nostra’. Una civiltà ‘solare’  è dunque anche quella che restituisce alle persone ed alle comunità il potere di scegliere, di decidere al livello più prossimo, di sperimentare forme nuove e alternative di economia e socialità, su scala minore e più gestibile a livello locale.

Non fossilizzarsi, infine, è un richiamo alla responsabilità, al rispetto della vita e della biodiversità, all’importanza del dialogo e del confronto. E’ uno stimolo a ricercare modalità nuove e prive di violenza per capire e risolvere i conflitti, per uscire da logiche assolutiste ed integraliste, per contrapporre la vita e la trasformazione naturale alla rigidità intollerante di chi vorrebbe farci credere che esiste un solo pensiero, una sola lingua e, in prospettiva, un solo ‘grande fratello’. Certo, la fossilizzazione è sì un processo di conservazione di determinate realtà, ma ciò avviene a spese della loro natura biologica, cioè facendole morire. I termini scientifici che descrivono tale processo, ad esempio, sono: decomposizione, disarticolazione, distruzione chimica biologica e meccanica, alterazione. Ma a noi non serve conservare qualcosa a condizione di farla morire o di cristallizzarne in modo statico la realtà.

Nel Vangelo secondo Matteo troviamo, fra gli altri, questo sconcertante episodio: “Uno dei discepoli gli disse: ‘Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre’: E Gesù gli disse: ‘Seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti’…” (Mt 8:21). Ebbene, lasciando stare le considerazioni di ordine teologico – anche se anche fanno parte di quel pensiero globale che mi porta a ragionare complessivamente sulle cose – questo passo credo che possa farci riflettere sulla necessità di rompere gli schemi mentali per aprirsi ad una logica diversa e ad un’etica più radicale. Lasciare che i morti seppelliscano i loro morti è un imperativo che può sembrare spietato, ma che in realtà esalta la libertà dell’uomo, richiamandolo ad impegnarsi per la vita invece di bloccarsi nella logica della morte. Ecco perché, parafrasando Matteo, possiamo traslare così il senso del brano:  “Lasciamo che sia chi si è fossilizzato a disseppellire i suoi fossili”. Noi no, perché siamo per la difesa della vita, della natura, della biodiversità e di tutte le ricchezze per le quali Francesco d’Assisi ‘laudava’ e benediceva il Creatore che, come ha proclamato lo stesso Gesù: “…non è il Dio dei morti, ma dei viventi” (Mc 12:27).

© 2016 Ermete Ferraro (http://ermetespeacebook.com )

SOL PERCHE’…

Come trasformare il Sole da nemico in alleato

di ERMETE FERRARO (*)

downloadSOL PERCHÉ l’attenzione globale resta focalizzata sul terrorismo più che sui terribili scenari che si prospettano a livello ambientale, non possiamo accettare che l’opinione pubblica non  sia cosciente che alla Conferenza di Parigi sul Clima ci stiamo giocando  gran parte del nostro futuro.  Del resto, non sembra esserci sufficiente coscienza neppure del fatto che lo stesso terrorismo ha origine in fenomeni per nulla estranei al modello di sviluppo attuale ed al disastro che sta provocando sugli ecosistemi, comportando cambiamenti climatici a livello planetario. I Grandi della Terra (che come USA e CINA del nostro pianeta sono soprattutto i più grandi inquinatori) hanno pochi giorni per raggiungere un’intesa sui provvedimenti da adottare per contrastare i cambiamenti climatici globali.  Ma è in gioco la Terra e l’intera umanità, non la supremazia di uno Stato o di una federazione rispetto agli altri, per cui una tal partita deve coinvolgere tutti noi, che non possiamo restarne spettatori. Anche se i media insistono sugli accordi di vertice raggiungibili in quella sede, dobbiamo quindi far sentire la nostra voce, possibilmente anche a nome di tanti altri esseri non umani, che non hanno alcuno strumento per far valere il loro diritto alla vita. Ecco perché agli appelli  a far presto e bene – fra cui quello, accorato, di Papa Francesco sulla ‘cura della casa comune’  – dovrebbero seguire scelte inequivocabili, non compromessi pasticciati o mere promesse.

SOL PERCHÉ tali promesse sono presentate come  vere e proprie rivoluzioni, non illudiamoci che siano sufficienti a fronteggiare  i disastri ambientali di cui siamo già testimoni. Gli impegni prospettati finora dai 180 stati partecipanti a COP21, infatti, non assicurano affatto il contenimento a 1,5-2 gradi del riscaldamento globale, ma rischiano di portarlo, entro il secolo, a +2,7 gradi. Non possiamo assistere impotenti a questo assurdo mercanteggiare sulla possibilità di distruggere gli equilibri sul nostro pianeta, soprattutto se le soluzioni ci sono da decenni e manca solo la volontà politica di praticarle. La biosfera è un bene comune dell’umanità e nessuno ha il diritto di accaparrarsi le risorse naturali e di mettere in forse la sopravvivenza di milioni di esseri umani, oltre che di animali e di piante. La realtà, però, è che c’è ancora chi pretende di monopolizzarle, se sulla nostra Terra si registrano ben 79 conflitti determinati da cause ambientali, di cui 19 valutati di intensità altissima (4/4).  Il legame tra una politica energetica predatoria e la ricerca di un’egemonia economica e politica attraverso una guerra combattuta ‘a pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni – per citare il Pontefice – è ormai evidente ed oggettivamente scandaloso. E’ indispensabile far crescere la coscienza collettiva di questo perverso rapporto e bisogna mobilitarsi contro un modello di sviluppo che persegue una crescita illimitata, incompatibile con gli equilibri ecologici, imponendosi con le armi ma anche col falso mito del progresso tecnologico che risolve ogni problema e col modello di vita globalizzato delle ‘monoculture della mente’.

86855548_gettyimages-494954212SOL PERCHÉ ci mostrano il Sole come la causa del riscaldamento globale e dei suoi guasti ambientali, non dobbiamo vederlo come un nemico. Esso, al contrario,  è la fonte stessa della vita del nostro pianeta e la nostra più grande risorsa energetica. Questa verità è di per sé evidente e, del resto, perfino gli stati più inquinatori – fra cui USA  e Cina – stanno facendo grandi progressi in direzione di una valorizzazione di questa immensa risorsa energetica. Ma mentre i ‘grandi’ possono permettersi di premere contemporaneamente sul pedale sia delle fonti fossili sia di quelle rinnovabili,  a partire proprio dal solare, agli stati minori non è facile seguirne l’esempio. Svanita bruscamente l’illusione dell’energia nucleare,  troppo spesso si sta ripiegando sulla folle politica delle trivellazioni, per raschiare il fondo del ‘barile’ delle risorse fossili. Però la stessa rivoluzione del Solare non può essere confusa con la pura e semplice diffusione della tecnologia fotovoltaica, se la costruzione di centrali solari ed il fiorire selvaggio d’impianti del genere non tengono conto del loro impatto ambientale o non modificano le modalità di produzione e distribuzione dell’energia elettrica.  Sebbene realtà geopolitiche enormi come il Brasile o la stessa Cina si dichiarino pronte a ricavare sempre più energia dal Sole, non è detto che si realizzi una vera rivoluzione ‘elio-centrica’, se il modello produttivo e distributivo resterà centralizzato e porterà l’ambiguo marchio delle majors dell’inquinamento globale. Il rischio d’un nuovo colonialismo energetico – sfruttando il sole con megacentrali  nei deserti del nord-Africa per esportare elettricità magari in Germania – potrebbe in effetti avere conseguenze negative, confermando un modello predatorio causa di danni e conflitti.

SOL PERCHÉ ci fanno sapere che in  Italia l’energia da fonti rinnovabili copre il 20% della richiesta e rappresenta addirittura la prima fonte di generazione elettrica (43% della produzione nazionale lorda), questo incoraggiante dato non rappresenta ancora l’affermazione d’un nuovo modello energetico. Resta il grave problema dei trasporti e della produzione di calore (il settore termico impiega il 50% del fabbisogno energetico) ed il solare in senso stretto non supera il 20% delle fonti rinnovabili impiegate (contro il quasi 48% dell’idroelettrico). Insomma, al di là dei trionfalismi,  la realtà è che il nostro ‘Paese del Sole’ si limita ad utilizzare tale risorsa in una percentuale inferiore all’8% (dati Terna 2014). D’altronde, perché il Sole non resti una risorsa energetica tra le altre ma rappresenti un’alternativa reale ed effettiva, bisogna cambiare in primo luogo la stessa idea di ‘sviluppo’. In caso contrario, sarà difficile far accettare ai paesi del c.d. Terzo Mondo (le developing countries) che ci si accorda per ridurre le emissioni proprio quando essi cominciano a produrre ed a consumare come noi abbiamo fatto finora, senza troppi scrupoli. Se invece con ‘sviluppo’ si continuerà ad indicare un indefinito progresso tecnologico ed una crescita esponenziale dei consumi, sarà impensabile invertire la marcia e scongiurare l’incombente catastrofe ecologica.

PERCHÉ IL SOLE diventi il punto centrale della ‘Civiltà’ auspicata da Antonio D’Acunto, cui è ispirata la proposta popolare di legge regionale che due anni fa è diventata legge in Campania, non ci si può accontentare di un puro e semplice incremento della percentuale di elettricità ricavata da quella fonte. Occorre ripensare collettivamente e responsabilmente un modello alternativo di sviluppo, fondato sul controllo democratico e decentrato delle risorse e sulla scelta prioritaria delle fonti rinnovabili, non solo perché ecologiche, ma anche diffuse, non monopolizzabili e gestibili dalle comunità locali. Ebbene, in Campania eravamo riusciti a far approvare all’unanimità dal Consiglio Regionale una legge rivoluzionaria in materia energetica, per aprire il capitolo di uno sviluppo alternativo ed eco-compatibile. Purtroppo il colpevole immobilismo della Giunta –dopo l’iniziale tentativo di boicottare la  L.R. n.1/2013 (Cultura e diffusione dell’energia solare il Campania), le hanno impedito di produrre almeno in parte i suoi effetti.  Eppure la Campania avrebbe potuto essere la regione-leader d’una pianificazione energetica decentrata, contrastando non solo assurdità come trivellazioni in mare e geotermia selvaggia, ma anche un uso del fotovoltaico e dell’eolico spesso irrispettoso delle risorse agricole e degli equilibri ambientali, in quanto improntato a mera speculazione o ad operazioni di dubbia trasparenza.

PERCHÉ IL SOLE diventi davvero il simbolo di quella ‘civiltà’ più equa, pacifica ed ecologica che tanti di noi auspicano, dobbiamo quindi fare molti passi avanti. La Conferenza di Parigi è l’ultima spiaggia per portare a casa almeno dei risultati parziali per un contrasto dei cambiamenti climatici. Non è pensabile, però, che il futuro dell’intera umanità –e del nostro stesso pianeta – dipendano solo dalle mediazioni in corso e dal dosaggio delle parole che sanciranno i protocolli che dovrebbero impegnare gli stati partecipanti. Deve aumentare il livello di consapevolezza ambientale dei cittadini e si devono praticare tutte le possibili soluzioni per ridurre le emissioni, partendo dal risparmio energetico ed usando modelli di produzione e di consumo a basso impatto energetico. Perché il sole non è certo il nemico da battere, ma il nostro più grande alleato nella lotta al surriscaldamento globale. La “Civiltà del Sole” che noi proponiamo consente a tutti di affermarsi, come persone e come comunità, utilizzando un bene comune a vantaggio di tutti. Perché  ‘messor lo frate Sole’  di san Francesco –  bellu e radiante cum grande splendore” – è il simbolo stesso della vita; una sorgente inesauribile di energia che non ha padroni ma solo fruitori. Perché il Sole è il nostro futuro e non vogliamo che la compromissione degli equilibri ecologici scippi tale futuro a noi ed ai nostri figli e nipoti.

 (*) Ermete Ferraro, ecopacifista, è il Presidente della Rete Campana per la Civiltà del Sole e della Biodiversità   (http://www.laciviltadelsole.org  ) .                                                                                               ————————————————————

© 2015 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELLA SOSTENIBILITA’

SOSTIENE BRUNTLAND…..

Un tormentone letterario-filosofico della prima metà degli anni ’80 fu il romanzo del praghese Milan Kundera “L’insostenibile leggerezza dell’essere”. Questo titolo mi è tornato in mente leggendo un commento di Alberto Mingardi su La Stampa, nel quale così si esordisce:

“C’è chi dice no: anche se non sa tanto bene a che cosa. Il caso dell’Expo è interessante. Appena incominciato, ha già trovato i suoi contestatori. I quali, se li si prende sul serio, pare abbiano in mente un altro modello di sviluppo: che finisce per essere proprio lo stesso che hanno in mente i sostenitori dell’Expo. Questi ultimi hanno tarato la loro «Carta di Milano» su un concetto studiatamente opaco: quello di «sostenibilità». [1]

Se è evidentemente falsa l’affermazione che gran parte dei contestatori dell’EXPO non sappiano neanche a cosa si oppongono e perché, su un’altra sono invece d’accordo: quello di sostenibilità è un concetto “studiatamente opaco”. E sulla opacità di certe idee – o meglio, sulla loro voluta ambiguità – si possono costruire illusori castelli in aria, ma anche erigere i padiglioni della esposizione universale di Milano.
Sviluppo_sostenibile.svgIl termine in sé, entrato in circolazione dopo la pubblicazione del Rapporto Bruntland nel 1987, ha avuto una vita abbastanza breve ma travagliata. La sua definizione più nota e condivisa, contenuta in quel documento, era la seguente:

“equilibrio fra il soddisfacimento delle esigenze presenti senza compromettere la possibilità delle future generazioni di sopperire alle proprie”  [2].

Tutto, allora, sembrava chiaro ed evidente. Fatto sta, però, che su questa base si sono sviluppate correnti di pensiero e proposte assai diverse, per cui il pur accattivante concetto di ‘sviluppo sostenibile’ purtroppo resta vago, come si sottolinea anche in un documento elaborato in occasione d’un incontro sulla ‘Sostenibilità globale’ , promosso dall’O.N.U. nel 2012.

“Lo sviluppo sostenibile è un concetto fluido e nei due passati decenni sono emerse varie definizioni. Nonostante un dibattito in corso sul suo significato attuale, si tende ad enfatizzare pochi concetti comuni. […] Sebbene ci sia un generale consenso sul fatto che lo sviluppo sostenibile richieda una convergenza fra i tre pilastri dello sviluppo economico, della giustizia sociale e della protezione ambientale, il concetto resta elusivo…” [3]

Fluido, elusivo, opaco: tre aggettivi che sottolineano come l’idea stessa di sostenibilità sia stata viziata da una scarsa chiarezza sulla sua effettiva applicabilità ad una visione economica che, viceversa, diverge sempre più da una concezione ecologica. Ne consegue quella che nel titolo ho chiamato “l’insostenibile leggerezza della sostenibilità”, per indicare l’insopportabile ambiguità ed irrilevanza d’un principio forte degradato a pensiero debole, a parola-attaccapanni.

Perché il concetto di ‘sviluppo sostenibile’ possa essere preso in considerazione, diventando invece solido, stabile e trasparente, bisogna dunque smetterla con l’ambiguità di chi vuole ad ogni costo salvare capre e cavoli, iniziando a fare scelte sicuramente impegnative ma non rinviabili.

Un’immagine che rende bene il concetto originario e globale di ‘sostenibilità’ – ma che nella sua evidenza mostra subito quanto sia ambiguo e perfino mistificatorio cercare di applicarla all’attuale modello di sviluppo – è sintetizzata dall’intersezione grafica dei tre ‘campi’ d’intervento (sociale, ambientale ed economico):

  • Sostenibilità economica: intesa come capacità di generare reddito e lavoro per il sostentamento della popolazione.

  • Sostenibilità sociale: intesa come capacità di garantire condizioni di benessere umano (sicurezza, salute, istruzione, democrazia, partecipazione,giustizia), equamente distribuite per classi e genere.

  • Sostenibilità ambientale: intesa come capacità di mantenere qualità e riproducibilità delle risorse naturali. [4]

Ebbene, l’area derivante dall’intersezione delle tre componenti dovrebbe rappresentare ciò che si comunemente si indica con l’espressione sviluppo sostenibile, che dovrebbe essere caratterizzata da tre concetti-chiave: equità, vivibilità e realizzabilità. Sfido chiunque, però, ad affermare che l’attuale modello di sviluppo – presentato ormai come il solo possibile dai fautori del pensiero unico – risponda davvero a tali requisiti. Non bisogna essere ‘no global’ né ‘antagonisti’, infatti, per accorgersi che le nostre società diventano sempre meno giuste e vivibili e che la conciliazione fra economia ed ecologia è ancora molto lontana.

Eppure c’è qualcuno che, come Mingardi nel citato articolo su ‘La Stampa’, insiste proprio sul paradosso per cui l’EXPO di Milano sarebbe contestato proprio da chi propugna un modello di sviluppo che è quello che i suoi organizzatori avrebbero in mente. Ma è davvero così?

ESPOSIZIONE..A LA CARTE

carta di milanoAlla base di questa edizione dell’Esposizione Universale – che ha come tema centrale “Nutrire il Pianeta – Energia per la vita” – è stata posta la Carta di Milano,  [5] un solenne documento presentato come la base teorica per “affermare il diritto al cibo come diritto umano fondamentale”. Si tratta di una dichiarazione d’intenti che dovrebbe conferire autorevolezza etica ad un evento miliardario, che invece appare sostanzialmente in linea con l’attuale visione produttivista e consumistica.

In essa, ovviamente, ritroviamo affermazioni assolutamente condivisibili ed appelli sottoscrivibili, ma quel documento mi sembra un’ulteriore dimostrazione di quanto possa essere ambiguo il concetto di sostenibilità se diventa uno strumento multiuso come un coltellino svizzero.

La Carta di Milano, ad esempio, racchiude una serie di dichiarazioni che, da un lato, non mancano di fotografare l’evidente in-sostenibilità del nostro modello di produzione e di consumo. Dall’altro, però, focalizzano l’attenzione sulle criticità derivanti dalla cattiva gestione di questo modello (sprechi, disuguaglianze, scarsa consapevolezza, carente partecipazione, mancanza di adeguata innovazione), come se si trattasse solo di difetti, errori, effetti collaterali.

Basta sfogliarne il testo per trovare affermazioni sottoscrivibili da un punto di vista ecologico e sociale, come quelle raggruppate sotto il titolo “siamo consapevoli che…”. Penso che nessuno, infatti, potrebbe dichiararsi in disaccordo col fatto che il problema sia quello di “nutrire una popolazione in costante crescita senza danneggiare l’ambiente”,oppure che il cibo sia un elemento identitario d’un popolo e delle singole persone, o sul fatto che “è possibile favorire migliori condizioni di accesso a cibo sano e sufficiente nei contesti a forte urbanizzazione, anche attraverso processi inclusivi e partecipativi che si avvalgano delle nuove tecnologie”.

Direi quasi che si tratta di ovvietà, a meno che non ci sia qualcuno che dichiari apertamente la volontà di danneggiare l’ambiente e di negare il diritto al cibo ad intere popolazioni. Anche sul fatto che “una corretta educazione alimentare, a partire dall’infanzia, è fondamentale per uno stile di vita sano e una migliore qualità della vita” suppongo che non ci siano discussioni. Altrettanto scontata e generica, poi, appare l’esigenza di “adottare un approccio sistemico, attento ai problemi sociali, culturali, economici e ambientali e che coinvolga tutti gli attori sociali e istituzionali”.

Anche nelle altre sezioni della Carta di Milano, del resto, c’imbattiamo in affermazioni sacrosante, come ad esempio la convinzione che “il cibo abbia un forte valore sociale e culturale, e non debba mai essere usato come strumento di pressione politica ed economica”  o anche quella che ribadisce quanto sia importante tutelare la diversità biologica: “l’attività agricola [è]fondamentale non solo per la produzione di beni alimentari ma anche per il suo contributo a disegnare il paesaggio, proteggere l’ambiente e il territorio e conservare la biodiversità.”

Tutto vero e giusto. Il problema è che queste considerazioni – pur parlando di “ingiustificabili disuguaglianze”, d’insopportabili sprechi alimentari e di sfruttamento eccessivo delle risorse naturali – non vanno oltre il livello della diagnosi, guardandosi bene dall’individuare le cause dei mali che denunciano.

Ma è proprio vero che si tratta solo di disfunzioni, diseconomie e criticità  di un sistema di per sé valido ed accettabile, o piuttosto siamo di fronte alle ovvie conseguenze di un modello economico-sociale di per sé iniquo, antiecologico e predatore di risorse?  La Carta di Milano non dà una risposta, mantenendo l’ambiguità del concetto di sviluppo sostenibile inteso come obiettivo da perseguire mediante una semplice correzione di rotta,  non certo come cambiamento profondo e radicale di un modello di per sé ecologicamente e socialmente insostenibile.

Se andiamo a leggere le proposte operative, il documento ci offre indicazioni e strumenti che hanno a che fare solo con il miglioramento della situazione attuale, in una visione riformista del problema. A noi cittadini, alla società civile ed alle imprese , infatti, si richiedono: maggiore consapevolezza e senso di responsabilità; pratiche virtuose per la riduzione dell’impatto ambientale (come il riuso ed il riciclaggio): creatività ed impegno civile; recupero e redistribuzione delle eccedenze alimentari; diversificazione delle produzioni agricole e maggiore attenzione al benessere degli animali. Come a dire: se il sistema funziona male. Tocca a voi darvi una regolata ed essere più responsabili.

Ai governi e alle istituzioni internazionali, inoltre, si richiede:

  • di adottare misure normative che rendano “effettivo il diritto al cibo e la sovranità alimentare”, rafforzando la legislazione in materia agro-alimentare e coordinandosi con le organizzazioni;
  • di tutelare giuridicamente il cibo da frodi e pratiche scorrette, promovendo la sicurezza alimentare e diffondendo “la cultura della sana alimentazione”;
  • di “declinare buone pratiche in politiche pubbliche e aiuti allo sviluppo che siano coerenti coi fabbisogni locali, non emergenziali e indirizzati allo sviluppo di sistemi alimentari sostenibili”;
  • di promuovere la ricerca e lo sviluppo in materia alimentare, migliorando l’efficacia nella produzioni e riducendo gli sprechi al consumo;
  • di “considerare il rapporto tra energia, acqua, aria e cibo in modo complessivo e dinamico, ponendo l’accento sulla loro fondamentale relazione, in modo da poter gestire queste risorse all’interno di una prospettiva strategica e di lungo periodo in grado di contrastare il cambiamento climatico”.

Mi sembra evidente che, fatta eccezione per quest’ultimo punto, un po’ più esplicito e qualificante, ciò che la Carta di Milano ci propone non ha proprio nulla di alternativo, proponendo di fatto solo la rimodulazione dell’attuale modello agro-alimentare, in chiave di maggiore efficienza (sul piano economico) e di più diffusa e consapevole partecipazione (sul piano civico-sociale).

Ma siamo certi che sia questa la sostenibilità da perseguire?
sustainability

UN MANIFESTO PER L’ALTERNATIVA

Il 22-23 aprile scorso si è tenuto a Brescia, presso la Fondazione Micheletti, un convegno sulle “tre agricolture” (industriale, biologica ed ecologica), in vista del quale è stato predisposto un documento, il Manifesto di Brescia [6], che annovera tra i suoi primi firmatari Giorgio Nebbia, Alberto Berton, Guido Pollice, Pier Paolo Poggio e Giovanna Ricoveri.

Si tratta ovviamente di una disamina molto più critica sull’insostenibilità della nostra agricoltura industrializzata, chimicizzata e standardizzata, causa prima dei guasti ambientali e delle ingiustizie economiche stigmatizzate dallaCarta di Milano, senza però individuarne le responsabilità reali.

Nel suo linguaggio essenziale si afferma infatti che:

“Negli ultimi due secoli si è verificata una rottura dei vincoli naturali con l’avvento di una modernizzazione che ha promesso di soddisfare i bisogni fondamentali di popolazioni in rapida crescita attraverso l’industrializzazione dell’agricoltura, dell’allevamento e pesca, nonché della trasformazione e distribuzione degli alimenti. Tale industrializzazione, facendo perno sulla meccanizzazione, sull’impiego di sostanze chimiche come concimi e pesticidi e su una selezione genetica orientata alle varietà a resa elevata, si è imposta nei paesi di più antico e consolidato sviluppo, come quelli europei e americani, con una forza capace di travolgere tutte le resistenze. L’agricoltura, nella visione corrente, è così diventata un reparto dell’industria, adottandone la logica di standardizzazione, uniformazione, economie di scala, espulsione e precarizzazione della manodopera.”

Il ‘peccato originale’ da cui scaturiscono i mali denunciati, dunque, va individuato nel fatto che – in nome del progresso – l’agricoltura ha visto violato il suo legame con la natura, divenendo sempre più una realtà affidata al sapere scientifico e tecnologico ed a scelte verticistiche, che l’hanno sottratta al controllo e alla gestione diretta delle comunità locali.

A quel modello di sviluppo agricolo – dominato sempre più dalle multinazionali e soggetto a manipolazione e brevettazione delle stesse risorse naturali – è ovviamente corrisposto un modello di alimentazione e, più in genere, di consumi e di stili di vita.

“Questa macchina, sostenuta da una formidabile azione pubblicitaria, talvolta mascherata da informazione scientifica, presenta delle crepe e vibrazioni pericolose, sembra procedere alla cieca orientata solo dalla logica del profitto, creando guasti eccessivi sul suolo su cui  poggia, nella sua avanzata arreca danni alle forme viventi  e alle stesse persone che trascina nella sua marcia apparentemente inarrestabile…”

Ma un modello di economia fondato unicamente sulla ‘logica del profitto’ e del tutto incurante del rispetto degli equilibri biologici e di quelli sociali non potrà mai diventare sostenibile, almeno nel senso originario del termine.  Se partiamo dalla definizione sintetica riportata all’inizio, infatti, non si comprende come un sistema fondato sulla massimizzazione del profitto possa conciliarsi con l’esigenza di garantire lavoro e cibo alla popolazione mondiale, benessere e giustizia ai singoli ed alle comunità locali e la qualità e riproducibilità delle risorse naturali.

Come fa, ad esempio, una visione economica che alimenta lo spreco a ridurre gli sprechi?  Come può uno sviluppo fondato sull’accentramento delle risorse energetiche promuovere pratiche di controllo decentrato di fonti rinnovabili da parte delle comunità locali?

Come possiamo aspettarci una semplice ‘razionalizzazione’ di un’agricoltura industrializzata “incompatibile con l’ecosfera e la vita degli ecosistemi, come appare dalle crescenti manifestazioni di cambiamenti climatici, di erosione del suolo, di perdita di fertilità e di biodiversità, di inquinamento delle acque ad opera dei residui di concimi e pesticidi e dei residui della zootecnia.” ?

Ovviamente si tratta di una domanda retorica, poiché – per parafrasare l’evangelista Luca – “Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dalle spine, né si vendemmia uva da un rovo…” [7]. E’ inutile aspettarsi che l’albero del profitto dia frutti di giustizia e di rispetto dell’ambiente, che sono invece la logica conseguenza di un modello produttivo profondamente diverso, di un’economia che nasca ecologica e non finga di diventare tale, per riparare i danni già commessi.

“L’agricoltura ecologica, rispondente ai bisogni e alle necessità dell’oggi, può e deve raccogliere e superare l’eredità sia dell’agricoltura contadina  sia di quella industriale […]. La sua affermazione, passando da situazioni di nicchia a fenomeno socialmente rilevante, le consentirà di svolgere un ruolo prezioso di rigenerazione sul piano culturale, ecologico ed economico rimettendo al centro dell’operare umano il valore del saper fare e della manualità, il valore del lavoro e del suo senso, il valore delle cose e delle relazioni, il valore del tempo, dei tempi dell’attesa, del silenzio e dell’otium come opportunità di conoscenza, come capacità di godere della vita senza consumarla.” 

Non si tratta di considerazioni puramente filosofiche o del vagheggiamento di utopie georgiche. Sono in realtà prospettive per la cui realizzazione già da tempo operano migliaia di persone, scegliendo stili di vita alternativi, seguendo modelli di alimentazione più sana e naturale, riprendendosi le risorse energetiche che sono di tutti, producendo con ritmi e modalità biologiche, uscendo dalla trappola di un consumismo che produce rifiuti e nevrosi.

Insomma, l’alternativa c’è, un altro mondo è possibile. Non credo proprio, però, che saranno le raccomandazioni della Carta di Milano a promuovere un vero cambiamento, che è invece il frutto di quella che, con Antonio D’Acunto, chiamerei “la Civiltà del Sole”.  E concludo proprio con le parole di questo carissimo amico e maestro, citando il suo “decalogo” per conciliare economia ed ecologia:

“ 1 – La sostenibilità energetica e della materia nella produzione dei beni materiali e di consumo, con il crescente, fino al totale impiego del Sole, del rinnovabile e del riciclo della materia;

2 – La tutela della Biodiversità animale, vegetale e del volto del Pianeta;

3- La tutela e la preservazione integrale da inquinamento dei Beni Comuni, acqua, aria, etere;

4 – La tutela della storia e della cultura umana e dei beni da essa prodotti;

5 – Il diritto di ciascuna persona umana a realizzarsi con il lavoro e perciò la politica per la piena occupazione;

6 – La produzione ed il lavoro quali arricchimento dei valori dell’Uomo e del Pianeta;

7 – L’agricoltura e l’alimentazione nella naturalità e nella rinnovabilità;

8 – La Salute quale diritto inalienabile di tutti i cittadinim al livello massimo consentito dalle conoscenze di oggi;

9 – Il diritto alla scuola, alla crescita culturale, all’università ed alla ricerca scientifica, umanistica e tecnologica;

10 – La solidarietà. “ [8]

Si tratta di poche e semplici indicazioni, ma su di esse possiamo costruire un futuro davvero sostenibile, insieme e dal basso.

© 2015 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

[1] A. Mingardi, Contro la fame funziona anche il mercato > http://www.lastampa.it/2015/05/01/cultura/opinioni/editoriali/contro-la-fame-funziona-anche-il-mercato-zkaVazNLTuQXEfagFvtkJJ/pagina.html

[2] Bruntland Commission, Our Common Future, World Commission on Environment and Development (WCED), 1987, p.43

[3] Sustainable Development  – from Bruntland to Rio 2012, Background Paper for consideration by the High Level Panel on Global Sustainability, 19 September 2010 – Prepared by John Drexhage and Deborah Murphy, International Institute for Sustainable Development (IISD), U.N. (September 2010) , p. 2 > http://www.un.org/wcm/webdav/site/climatechange/shared/gsp/docs/GSP16_Background%20on%20Sustainable%20Devt.pdf

[4] Cfr. articolo: http://it.wikipedia.org/wiki/Sviluppo_sostenibile e relativo grafico

[5] Leggi il testo in: http://carta.milano.it/la-carta-di-milano/ Le citazioni seguenti sono tratte da questo documento.

[6]  Leggi il testo in: http://www.bfdr.it/index.php?option=com_docman&view=download&alias=5-manifesto-di-brescia&Itemid=127  Le citazioni seguenti sono tratte da questo documento.

[7]  Vedi:  Lc 6,44

[8]  Antonio D’Acunto, La necessità di nuovi indicatori di un’economia che nasca dall’ecologia > http://www.terraacquaariafuoco.it/index.php/un-economia-che-nasca-dall-ecologia/43-la-necessita-di-nuovi-indicatori-di-un-economia-che-nasce-dall-ecologia

RELIGIONI PER LA TERRA

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Salvaguardare la Terra, insieme, da credenti 

Si è tenuto lo scorso mese a New York, in occasione del pretenzioso quanto inutile Vertice ONU sul Clima, anche un importante incontro inter-religioso sul tema del ruolo delle varie fedi nella salvaguardia della Terra. Ovviamente, da noi non ne è giunta notizia e solo qualche ambientalista un po’ più attento e motivato ha potuto apprendere della discussione che si è sviluppata presso il Seminario dell’Unione Teologica newyorkese, con partecipazione di ben 200 “leaders spirituali” provenienti da tutte le parti del mondo e rappresentanti tradizioni religiose molto diverse.

Scopo della conferenza era la ricerca di una piattaforma comune, capace di esprimere le preoccupazioni e gli impegni delle religioni mondiali e di suscitare un’azione fondata sulla fede.

Come si legge in un comunicato stampa diramato già il 15 luglio sull’evento:

“Quest’azione sarà a sostegno di un giusto trattato sul clima e di nuove misure, all’interno delle nazioni, religioni e culture,che saranno necessarie per supportare il trattato e proteggere i più vulnerabili tra noi, in un tempo in cui i profitti hanno la priorità sul benessere delle persone e gli effetti dell’inquinamento stanno per essere avvertiti nelle modalità climatiche estreme, in una esacerbata instabilità sociale e nel calo della qualità del cibo, dell’aria e dell’acqua.[…] “I leader religiosi che si sentono chiamati a proteggere il creato stanno avvertendo l’urgenza di questa crisi e stanno cercando i modi per essere efficaci – ha dichiarato la Rev.Dr.ssa Serene Jones, presidente del Seminario dell’Unione Teologica – Ora per noi è giunto il tempo di andare insieme, attraverso le questioni che ci dividono e le tradizioni divergenti, e di usare la nostra portata ed influenza per il bene della Terra che condividiamo”. [1]

Lo stesso concetto è stato ribadito da Karenna Gore e dalla stessa dr.ssa Jones il 19 settembre 2014 in un intervento sull’edizione online della rivista TIME, sottolineando che affrontare la crisi climatica mondiale:

“…non è solo una sfida scientifica e politica, è un urgente imperativo morale[…] Essa si riferisce profondamente al significato della vita piuttosto che limitarsi ad aggiustare i suoi meccanismi […] Ha implicazioni per l’esistenza dello stesso mondo e per il posto dell’umanità al suo interno. Si terrà una conversazione guidata dai valori, per cambiare la cultura materialista ed orientata al consumo, che assegna un valore solo alle cose quantificabili in senso finanziario. L’incontrollato modello di massima produzione, guidato dal profitto, sta divorando ciò di cui noi ci prendiamo più cura: l’aria e l’acqua  pulita ed il benessere delle famiglie più vulnerabili. Abbiamo bisogno di una nuova equazione morale…”  [2] .

Sul palco della Conferenza di sono alternati pastori battisti e rabbini ebrei, il presidente della Caritas delle Filippine ma anche un imàm e il direttore d’una fondazione islamica per l’ecologia e le scienze ambientali, insieme a molti altri esponenti di tradizioni religiose orientali, fra cui un capo pellerossa, un cappellano indù e la famosa leader ecologista Vandana Shiva. Le immagini del video che ne riprende gli interventi, intervallati da canti [3] , ci restituisce un variopinto e stimolante mondo di congregazioni ed organizzazioni che da anni s’impegnano in prima persona in difesa della pace e dell’integrità del creato e che vogliono coordinarsi per rendere più efficaci i loro sforzi.

In effetti, già da molti anni è in atto un processo di ripensamento profondo del ruolo dei credenti (e quindi delle chiese e delle organizzazioni a base religiosa) nella promozione non solo di stili di vita alternativi, rispettosi degli equilibri naturali come dell’equità sociale, ma anche di un vero e proprio movimento, che stimoli attivamente un autentico cambiamento in senso ambientalista del modello di sviluppo e delle politiche che ad esso s’ispirano. Ma c’è bisogno di più e di meglio.

“Dobbiamo approfondire ed espandere il movimento mondiale per combattere il cambiamento climatico e cogliere la sua traiettoria morale. Molti leader religiosi stanno già trasformando i loro approcci al ministero ed al servizio, determinati a raggiungere i piccoli cambiamenti che possono aggregare in un movimento globale. Questi devono essere accompagnati dal sostegno ad azioni strategiche coraggiose, per spostare il potere lontano da quelli che non prendono la terra in considerazione.” [4]

Il coraggio di passare dal dire al fare

Il fatto è che tali “azioni strategiche coraggiose” da parte delle varie chiese e congregazioni non possono però limitarsi ai discorsi o alla pubblicazione di documenti più o meno ufficiali, di lettere pastorali o di articoli su riviste specializzate in teologia e studi religiosi più in generale. Strumenti senza dubbio importanti ed utili per comunicare un pensiero che cambia e si va raffinando in materia ecologica, ma che non mi sembra che segnino momenti effettivi di trasformazione di tante comunità, che viceversa restano  troppo spesso ancorate a valori tradizionali e ad una visione della fede statica, diffidente verso ogni contaminazione.

Certo, “piccoli cambiamenti” nella visione dei problemi quotidiani (dall’alimentazione alla questione dei rifiuti; dall’uso prudente di tecnologie di cui non si conosce l’impatto ambientale all’attenzione verso i diritti degli animali non umani…) sono in atto già da parecchio tempo e molti  di essi vedono impegnati sacerdoti ed altri ministri di culto, nella veste di guide e promotori di questa progressiva crescita della consapevolezza ambientale. Questo però non basta a scuotere davvero il generale intorpidimento della coscienza dei credenti, da troppo tempo abituati a considerare la religione come un insieme di bei principi che, quando pure sono effettivamente conosciuti, restano comunque teorici e sconnessi dalle scelte quotidiane e dall’agire comune.

Basti pensare a come rapidamente si è raffreddato l’impeto che, un anno fa, aveva spinto migliaia di persone a scendere in piazza contro il “biocidio” perpetrato consapevolmente e per decenni ai danni del territorio dell’ex Campania Felix e dei suoi sventurati abitanti. Oppure si pensi a pur fondamentali questioni di etica ambientale, come quella riguardante la modificazione biologica della realtà naturale e la brevettazione dei cicli produttivi ad opera dei potenti sostenitori degli O.G.M., ai quali si contrappongono obiezioni sempre più flebili, esclusivamente sul piano “scientifico” e con pochi riferimenti alle conseguenze economico-politiche d’impostazioni promosse da chi cerca di convincerci che manipolare la stessa vita sia un vantaggio per l’umanità.

In un mio precedente intervento [5] concludevo il mio appello a sviluppare e diffondere i principi e gli obiettivi della “ecologia cristiana” citando le parole del noto teologo Jurgen Moltmann:

“Le crisi ecologiche distruggono le condizioni vitali del pianeta. Per conservarlo malgrado le forze distruttive, abbiamo bisogno (…) di un invincibile amore per la Terra. C’è forse un riconoscimento maggiore e un amore più forte della fede nella presenza di Dio nella Terra e nelle sue condizioni di vita? Abbiamo bisogno di una teologia della Terra e di una nuova spiritualità della creazione.” [6]

Ebbene, il meeting inter-religioso di New York ha sicuramente fatto un passo importante in quella direzione, ma non è un caso che i nostri media l’abbiano ignorato del tutto, impegnati com’erano a rivolgere la propria attenzione solo alle retoriche ed inutili enunciazioni al vertice dell’ONU dei c.d.“grandi della terra”, che di grande hanno soprattutto la faccia di bronzo che gli consente di fingere di proporre soluzioni ai problemi di cui in larga parte, invece, sono responsabili…

Del resto, da noi in Italia, è già difficile sentir parlare di incontri inter-religiosi, qualunque ne sia il contenuto, dal momento che permane nel sentire comune una sottile diffidenza verso ogni apertura ecumenica del mondo cattolico a messaggi “altri”, visti come un terreno scivoloso e pieno di pericoli di “contaminazione” ideologica oltre che teologica. Il fatto è che un movimento inter-religioso come quello che si è manifestato alla conferenza newyorkese non ha un corrispettivo nella nostra realtà, nella quale d’altra parte si è alzata sempre più spesso la voce di grandi Pontefici (da Paolo VI a Giovanni Paolo II, da Benedetto XVI a Papa Francesco) per ribadire la centralità della questione ambientale, non solo nella tradizionale ottica dell’etica ecologica, ma anche in quella di una teologia ecologica più profonda e non antropocentrica.

Ciò nonostante, discorsi come quello sull’armonia dell’uomo con la natura e su un ruolo dell’umanità che non sia di “dominazione” sul Creato vengono molto spesso rigettati come estranei alla tradizione cattolica, come un insidioso tentativo d’introdurre in essa elementi animistici, se non addirittura paganeggianti.  Ecco allora che frasi come quella che troviamo in conclusione del comunicato stampa sulla conferenza delle Religioni per la Terra (“Abbiamo bisogno di sfruttare la potenza della fede di influenzare il cambiamento sociale . Il benessere della nostra terra dipende da esso . Cosa c’è di più sacro?”) rischiano di diventare oggetto della preconcetta critica alla “sacralizzazione della natura” che parte di movimenti cattolici tradizionalisti, ma spesso anche da alcuni vescovi e teologi allergici all’ambientalismo.

Qualcosa si muove anche in Italia 

Per fortuna, però, le cose stanno cambiando anche in Italia, anche se molto lentamente. Basti pensare al fatto che nello stesso mese di settembre, quasi in contemporanea con la Conferenza di New York, si sono tenuti due incontri pubblici molto interessanti sulla questione ambientale, uno a Lecce e l’altro a Reggio Emilia. “Religione, ambiente e salvaguardia del Creato: la Chiesa leccese in un dialogo a più voci” è il titolo che un quotidiano locale online dedica alla prima iniziativa, cui ha partecipato l’Arcivescovo metropolita di Lecce, mons. Domenico Umberto D’Ambrosio, ed il suo delegato per ecumenismo, ma anche esponenti di altre religioni, come l’imàm locale, oltre ad un rappresentante della comunità ebraica, di quella metodista e della chiesa ortodossa.“Un’occasione per condividere e potenziare, attraverso la preghiera, l’impegno di educare e responsabilizzare tutti, a una cultura di prevenzione, ispirata dalla verità delle differenti fedi. Nessuno deve restare spettatore, ma tutti protagonisti vigilando con cura e accrescendo la cultura ecologica. Aiutati dalla forza della preghiera possiamo cambiare  e rinnovare la faccia della nostra terra nel giusto scambio d’amore fra la Creazione e il Creatore” [7]

Queste parole ci fanno avvertire una sintonia con un movimento dei credenti che non può che essere globale, proprio perché i problemi ambientali sono riscontrabili su scala globale e richiedono non solo l’impegno dei singoli, ma anche decisioni chiare ed autorevoli al massimo livello.

“Salvare il creato. Tre giorni di Ecohappening, ambientalisti in missione per conto di Dio” è invece il titolo dato da un altro quotidiano locale online ad un incontro pubblico che si è svolto a Reggio Emilia dal 12 al 14 settembre 2014 e che ha impegnato mons. Paolo Rabitti (arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio) ed alcune parrocchie locali, insieme con varie istituzioni ed associazioni, in un ampio dibattito sul tema “Custodire il creato: la tutela ambientale”, ma anche in momenti seminariali, rivolti alla formazione dei giovani .[8]

Infine, dall’8 all’11 ottobre si è tenuta a Napoli un’iniziativa promossa dall’associazione cattolica Greenaccord , in collaborazione con la Caritas dell’Arcidiocesi di Napoli, dedicata allo sviluppo di una “filiera anti-fame” che aiuti ogni giorno 5000 poveri della città e, al tempo stesso, costituisca una riflessione sulle conseguenze dell’attuale modello di sviluppo sulla difficile condizione delle persone socio-economicamente più deboli e sulla grave perdita di biodiversità.

“Da qui l’idea di costruire il modello Rifiuti Zero portato avanti da Ambiente Solidale, insieme alla Caritas Diocesana partenopea, con il Programma di Contrasto alla Povertà Alimentare. L’idea è puntare sul recupero delle eccedenze alimentari della grande distribuzione organizzata e dei produttori locali, aumentando il paniere dei prodotti da distribuire alle fasce più deboli della popolazione attraverso le parrocchie e le associazioni aderenti.” [9].

Il cammino da percorrere resta ancora molto lungo e difficile e, ad esempio, la sollecitazione ad aprire un dibattito nel merito, rivolta proprio all’Arcivescovo di Napoli, Card. Crescenzio Sepe, da me e dall’amico Antonio D’Acunto, a nome della Rete Campana per la Civiltà del Sole e della Biodiversità [10], purtroppo resta tuttora senza risposta.

Bisogna anche tener conto della persistente ostilità di sedicenti movimenti cattolici per l’ambiente, che concentrano la loro azione sull’opposizione pregiudiziale ad ogni seria riflessione in materia di eco-teologia [11]. Ma si deve anche tener conto del dibattito tuttora aperto e di alcune esperienze che, come quelle citate, lasciano sperare in un cambiamento effettivo.

Ciò che non bisogna fare invece è arrendersi, rassegnandosi tristemente all’idea che le battaglie ambientaliste per un’energia diffusa, pulita ed ecosostenibile o per un’alimentazione naturale e rispettosa degli animali debbano restare estranee al rinnovamento delle Chiese ed al loro impegno sociale e pastorale.

In tal senso l’attesa enciclica di Papa Francesco sull’impegno ecologico dei credenti sarà senz’altro un fondamentale stimolo alla diffusione di una visione alternativa. Ma ciò non sarà comunque sufficiente se non si moltiplicheranno iniziative dal basso per coniugare la fede cristiana con la cura del Creato, di cui troppo spesso dimentichiamo di essere custodi e non padroni. [12]

© 2014 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

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 NOTE: 

[1] http://ipcc.ch/report/ar5/docs/Religions_for_the_Earth.pdf

[2] http://time.com/3404006/religions-for-the-earth-redefining-the-climate-crisis/

[3] http://new.livestream.com/unionseminary/religionsfortheearth

[4]  http://ipcc.ch/report/ar5/docs/Religions_for_the_Earth.pdf, cit.

[5]  https://ermeteferraro.wordpress.com/2013/10/21/unecologia-cristiana-per-unagape-cosmica/

[6]   J. Moltmann, “Il futuro ecologico della teologia cristiana” http://www.ildialogo.org/parola/Approfondimenti_1340200959.htm

[7] http://www.leccenews24.it/attualita/religione-ambiente-e-salvaguardia-del-creato-la-chiesa-leccese-affronta-un-dialogo-a-piu-voci.htm

[8] http://www.reggioreport.it/2014/09/salvare-il-creato-tre-giorni-di-ecohappening-lambientalismo-secondo-o-cattolico/

[9] http://www.greenaccord.org/press-room/la-%E2%80%9Cfiliera-anti-fame%E2%80%9D-che-aiuta-i-poveri-di-napoli#.VDl0SWd_uSp

[10] Cfr. www.laciviltadelsole.org  e, in particolare la pagina sull’etica ambientale: http://www.laciviltadelsole.org/etica-ambientale.html# /

[11] http://christusveritas.altervista.org/ambientalismo.htm

http://www.movimentoazzurro.org/sites/default/files/allegati/ambientalismo_cattolico.pdf

http://cristianesimocattolico.tumblr.com/post/96343245092/quando-i-vescovi-fanno-gli-ambientalisti

[12]  Vedi in proposito altri articoli sull’argomento: http://www.webethics.net/corsoepa/introduzione ;

http://idr.seieditrice.com/materiali-didattici/secondaria-ii-grado/ecologia-e-cristianesimo/ ;

http://www.spazioambiente.org/DOCUMENTI/2005/seminario%20RELIGIONE/relazione%20Padre%20VALENTI.pdf

PORCA MISERIA!

miseriaSono stato recentemente invitato alla presentazione di Miseria ladra’, lodevole campagna promossa da Libera e dal Gruppo Abele “per combattere la povertà e per l’inclusione sociale”, cui hanno già aderito centinaia di associazioni e diverse amministrazioni comunali. Al Dormitorio Pubblico di Napoli si sono alternati i rappresentanti di varie realtà locali impegnate in tal senso, ma il mio intervento ha richiesto una premessa. Non era così scontato, infatti, che un esponente d’una Rete associativa che si occupa di energie alternative portasse la sua adesione ad un’iniziativa del genere. A prescindere dalle mie motivazioni personali (da trent’anni mi occupo di lavoro sociale di base e sono tuttora impegnato nella Caritas della mia parrocchia) ho cercato quindi di spiegare perché un impegno ambientalista ed ecopacifista non può prescindere da quello sociale e da una visione solidaristica della società.

Dal dépliant distribuito alla conferenza apprendiamo che, secondo il rapporto ISTAT del 2012, quasi 10 milioni d‘italiani si trovano in condizione di povertà relativa e quasi 5 in stato di povertà assoluta. Un italiano su tre – per Eurostat – risulta a rischio povertà ed ancora più preoccupante è il dato secondo il quale i minori indigenti sono ormai quasi un milione, con un’impennata anche della dispersione scolastica, giunta al 18,2%. Il 63% delle famiglie è stata costretta a ridurre la spesa per alimenti ed il 40% deve vivere in condizioni definite di “deprivazione materiale”. I ‘senza fissa dimora’, infine, sono circa 50.000, ma la situazione si aggrava ogni giorno di più.

Ebbene, di fronte a questi sconfortanti dati statistici, la prima ed ovvia reazione è quella di prendercela con i “governi ladri”, cioè col mix di corruzione, cinismo e disinteresse per la condizione reale dei cittadini che da troppo tempo sembra caratterizzare la classe politica italiana, alimentando una comprensibile reazione di sfiducia e diffidenza verso chi ci amministra.    E’ innegabile che le responsabilità maggiori siano imputabili alle scelte di chi si è alternato finora al governo centrale e nelle giunte locali, ma ritengo comunque semplicistico e qualunquistico prendersela solo con chi ha direttamente gestito il denaro pubblico. Penso infatti che il vero nodo del problema non sia tanto l’individuazione dei responsabili ‘in solido’ del progressivo depauperamento delle persone e delle realtà collettive, quanto la ricerca dei meccanismi economici e sociali che caratterizzano un modello di sviluppo che genera solo ingiustizia, sfruttamento e miseria, per non parlare dei conflitti che suscita, in ambito nazionale ed internazionale .

E’ evidente che disuguaglianza e precarietà alimentano le mafie, che ne traggono evidenti e crescenti utili, esasperando il processo di degrado sociale e fomentando la corruzione politica. Sarebbe però ipocrita puntare il dito solo contro mafiosi e camorristi, facendo finta che la struttura stessa della società – quella che una volta si chiamava establishment – non sia marcia e di per sé causa di degrado morale e di devastazione ambientale, prima ancora che di devianza criminale.

Insomma, la violenza che pervade ed inquina la nostra società, acuendo disuguaglianze e rendendo incerto il futuro delle nuove generazioni, è quella sottesa ad un modello di sviluppo predatorio, iniquo ed antiecologico. L’analisi fatta da Libera non manca di ribadirlo nell’opuscolo citato, sottolineando opportunamente che: “criminalità organizzata, corruzione e distruzione ambientale si rafforzano, a scapito dei diritti, della coesione sociale e della partecipazione dei cittadini, sempre più dipendenti dalle istituzioni”.

Ciò che, a mio avviso, non emerge abbastanza chiaramente è che da una società fondata sullo sfruttamento illimitato delle risorse naturali e degli esseri umani, che violenta la natura proprio come le persone, non c’è da aspettarsi nulla di diverso. Ecco perché una scelta chiaramente e radicalmente ecologista comporta il superamento del modello di sviluppo dominante e dello stesso concetto di ‘crescita’, che si dà troppo spesso per scontato, come se si trattasse di un dato neutro. Eppure dovremmo ormai esserci resi conto quella crescita –  se non è sottoposta ai limiti posti dalla stessa natura e dalla morale umana – non è affatto indipendente dalla violenza che colpisce sia la prima sia la seconda, nella scientistica convinzione – o meglio, presunzione… – che c’è sempre un rimedio a tutti i guai che stiamo producendo sul nostro Pianeta.

La dantesca “aiuola che ci fa tanto feroci” sta subendo il peso maggiore di questa continua sfida alle leggi di natura, alla ricerca sfrenata dell’arricchimento di pochi, che porta con sé il depauperamento dei più, e del potere di alcuni su tutto e tutti, che genera dipendenza e marginalità in chi è costretto a subirlo. Ecco perché non possiamo illuderci di rendere meno ingiusta la nostra società senza una radicale svolta nel senso d’un modello economico e sociale alternativo all’attuale.

Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo,che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello“scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”[…]Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza. Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro,come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete. La cultura del benessere ci anestetizza…”  (Francesco, Evangelii gaudium, 53-54)

Quelle di Papa Francesco sono parole chiare e forti: la miseria e l’emarginazione non sono effetti collaterali dello sviluppo, ma negazione d’un autentico sviluppo. I nostri stili di vita consumistici sono la causa stessa dello sfruttamento di larga parte dell’umanità, non certamente un obiettivo da consolidare e, peggio ancora, da esportare nei c.d. ‘paesi sottosviluppati’, come si vorrebbe far credere. Se poi usciamo dall’ottica d’un etica e di una politica rigidamente antropocentriche e consideriamo con più attenzione gli immani disastri e gli squilibri ecologici che questo modello di sviluppo sta provocando, credo che la necessità di uno stretto rapporto tra impegno sociale e quello ambientale risulti ancora più evidente.

Libera e le altre realtà che hanno lanciato la campagna ‘Miseria ladra’ propongono una strada da percorrere insieme. Le indicazioni sono sostanzialmente tre: (a) uscire dalla crisi “tutti insieme”, per difendere “l’interesse generale, restituendo speranza nel futuro” ; (b) costruire un “percorso partecipato ed una rete di pari tra pari”, per lanciare una nuova proposta sul welfare; (c) porre in atto “strumenti concreti di contrasto alla povertà”, in un’ottica di confronto con le istituzioni e di partecipazione.  Questo percorso comune è stato poi concretizzato in “10 misure per rendere illegale la povertà”, che chi aderisce alla campagna dovrebbe condividere: (1) fondo sociale per la non autosufficienza; (2) moratoria sui crediti di Equitalia e banche; (3) pagamenti certi della pubblica amministrazione verso chi fornisce beni e servizi; (4) agricoltura sociale e risanamento idro-geologico, riconvertendo il sistema produttivo ed energetico; (5) sospensione degli sfratti esecutivi per i più bisognosi; (6) destinazione sociale del patrimonio immobiliare sfitto delle città; (7) residenza presso i municipi dei soggetti senza fissa dimora; (8) introduzione del reddito minimo di cittadinanza; (9) difesa dei beni comuni e ‘pubblicizzazione’ dei servizi essenziali; (10) rinegoziazione del debito pubblico.

Ebbene, si tratta di proposte concrete e condivisibili, che si possono certamente sottoscrivere. Ciò che mi sembra manchi in questo percorso, invece, è una prospettiva più chiara e netta di un’alternativa da costruire, più che di una ‘terapia’ cui sottoporre il sistema attuale. La questione centrale, a mio avviso, non è“rendere illegale la povertà”  quanto rendere illegale lo sfruttamento, che sta alla base del sistema economico che in troppi ormai considerano l’unico, in quanto sarebbe privo di alternative credibili. Sfruttare le risorse naturali è l’altra faccia di un modello che sfrutta le persone e si sostiene grazie all’imperialismo economico e militare. Può forse sembrare un’affermazione troppo netta e schematica, ma credo che sia finito il tempo dei giochi di parole e delle razionalizzazioni che cercano di conciliare cose inconciliabili.

Certo, la mia formazione cristiana e nonviolenta mi ha abituato a percorrere tutte le strade intermedie ed a perseguire tutte le soluzioni che possano mediare nei conflitti. Mi ha però insegnato anche che non si può servire Dio ed il denaro (“οὐ δύνασθε θεῷ δουλεύειν καὶ μαμμωνᾷ” Mt. 6,24) e che la logica dell’arricchimento e la corsa al potere creano solo poveri e marginali. Lo stesso peccato originale è frutto dell’arroganza umana, che non vuole riconoscere limiti e persegue l’onnipotenza a tutti i costi, con la tragica conseguenza di considerare la sottomissione degli altri e della stessa Terra come il prezzo da pagare per la propria affermazione.

Quella che il Papa chiama ‘globalizzazione dell’indifferenza’, allora, non si combatte solo con misure ‘compensative’, come fondi sociali, moratorie dei debiti, sospensione degli sfratti o revisioni del debito pubblico. Sono provvedimenti certamente necessari a rompere la nostra colpevole indifferenza, ma non sufficienti a smantellare i muri d’ingiustizia che creano esclusione e subordinazione. Più ‘strutturali’, come si diceva una volta, mi sembrano invece sia l’indicazione ad agire in direzione dell’agricoltura sociale e del risanamento ambientale, opponendosi al dissesto idrogeologico ed alle minacce alla biodiversità naturale, sia la difesa dei beni comuni e dei servizi pubblici essenziali, restituendo loro la natura collettiva e sociale. Sottrarre le risorse ambientali ed i beni comuni alla logica dell’accaparramento e del controllo, infatti, è il primo passo per costruire una società in cui lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno diventi la sola e vera garanzia dello sviluppo di tutti.

La Civiltà del Sole, di cui io e tanti altri stiamo cercando di diffondere i principi, cerca appunto di affermare non solo l’importanza fondamentale d’una riconversione energetica verso le fonti pulite, rinnovabili e diffuse, ma anche un modello di società più decentrata, comunitaria ed autosufficiente. Ecco perché non possiamo disinteressarci della marginalità sociale e delle vecchie e nuove povertà, dal momento che un modello alternativo di sviluppo sarebbe la risposta più globale anche ad esse. Oltre 300 anni fa Tommaso Campanella scriveva: “Più naturale è il dominio e la comunità dove il bene è più comune a tutti: e violento è più, dove è manco comune.”, sintetizzando così il principio su cui si basava la sua utopica ‘Città del Sole’. Per passare dall’impoverimento a quello che in inglese si chiama empowerment (emancipazione, crescita di potere…) è necessario quindi fare delle scelte alternative ad un modello fondato sul dominio che non rispetta né la natura né la comunità umana.  Il vero ladro di diritti, infatti, non è la miseria ma il sistema iniquo che la genera ed al quale dobbiamo opporci, se vogliamo non solo promuovere l’inclusione sociale ma costruire davvero ‘il bene comune’.

© 2014 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )