La resistenza civile funziona, da un secolo.

Uscire dagli stereotipi sulla ‘difesa della patria’

In occasione della Giornata Internazionale della Nonviolenza [i] – vorrei andare oltre le frasi di circostanza tipiche di ogni anniversario per affrontare un punto centrale ma spesso trascurato di questa radicale scelta etica e politica: il suo modello alternativo di difesa. Mai come in questi lunghi mesi di guerra in Ucraina abbiamo assistito a ripetitive discussioni mediatiche sul sacrosanto diritto alla difesa di un popolo il cui territorio sia stato invaso militarmente da una soverchiante potenza straniera. Anche nei martellanti ed angoscianti réportages dall’Ucraina (peraltro mai riscontrati in altre circostanze belliche) si è ribadito che non si era minimamente da mettere in discussione la legittimità della difesa armata di quella nazione e, conseguentemente, che l’unica forma di solidarietà possibile da parte degli stati ‘democratici’ doveva essere l’invio di massicci aiuti economici, ma soprattutto militari, a sostegno della sua ‘resistenza’ all’invasore.

Eppure, in questo convulso moltiplicarsi d’interventi sulla una delle guerre in atto, alla scontata retorica nazionalista e militarista di chi esalta il coraggio di quelli che difendono eroicamente la patria dal nemico arrogante e violento ho sentito raramente contrapporre argomentazioni che non si limitassero ad invocare un po’ genericamente la pace o ad evocare interventi diplomatici e/o azioni sovranazionali esterne, di cui purtroppo abbiamo già conosciuto, e verifichiamo tuttora, la scarsa efficacia, la limitata credibilità e la ridotta ‘terzietà’.

Purtroppo, ai pur apprezzabili e condivisibili appelli all’immediata cessazione delle operazioni di guerra, all’armistizio, al ricorso a mediazioni internazionali ed alla solidarietà attiva cogli oppositori a una guerra cinicamente mascherata da ‘operazione militare speciale’, molto raramente sono seguite indicazioni e proposte che prefigurassero una strada davvero alternativa alla difesa militare.

Eppure, a mezzo secolo dalla legge che in Italia riconobbe il diritto all’obiezione di coscienza [ii], non dovrebbero mancare fonti (bibliografiche ed esperienziali) cui attingere per argomentare non soltanto la propria opposizione al militarismo ed il disarmo, ma anche la scelta d’una modalità difensiva non armata civile popolare e nonviolenta [iii]. E non solo per motivazioni di natura etica e/o religiosa, ma perché si è fermamente convinti che una difesa alternativa a quella armata, oltre che moralmente giusta, è realmente praticabile ed efficace.

Il fatto è che più di 30 anni di analisi, studi e proposte anche legislative sulla transizione ad un modello non violento di difesa [iv] sono state spazzate via dalla legge che nel 2004 ha abolito il servizio militare obbligatorio, ma al tempo stesso ha fatalmente azzerato il crescente movimento di obiettori di coscienza alla leva e alla stessa guerra. Quella guerra che la nostra Costituzione repubblicana all’art. 11 “ripudia” inequivocabilmente, pur proclamando all’art. 52 che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Quella guerra che è ‘follia’ ed a cui legittimamente hanno obiettato coloro i quali ritenevano che il dovere di difendere la propria terra e le istituzioni nazionali non coincidesse affatto con l’addestramento a (e la pratica di) una tradizionale difesa armata, bensì con l’impegno civile a salvaguardare comunità e territori, anche e in primo luogo con metodologie operative non militari e non violente.

Per un percorso verso la ‘transizione difensiva’

Nella nota relazione di accompagnamento del disegno di legge per l’istituzione in Italia di un Dipartimento per la Difesa Civile Non Armata e Nonviolenta vengono ricapitolati alcuni di questi compiti nei seguenti: la difesa civile, che – al contrario di quella militare – usa mezzi e strumenti coerenti con le finalità perseguite ha, tra gli obiettivi dichiarati, la difesa della Costituzione e dei diritti civili e sociali in essa enunciati; la predisposizione di piani per la difesa civile non armata e nonviolenta, compresa la formazione della popolazione; le attività di ricerca per la pace, il disarmo, la risoluzione dei conflitti e la conversione a fini civili delle industrie belliche; la prevenzione dei conflitti armati, la mediazione, la riconciliazione, la promozione dei diritti umani, l’educazione alla pace e al dialogo inter-religioso, in particolare nelle aree a rischio di conflitto, in stato di conflitto o di post-conflitto; il contrasto, infine, delle situazioni di degrado sociale, culturale ed ambientale [v].

Ma il travagliato percorso verso l’istituzione di una componente non militare della difesa italiana non è iniziato solo otto anni fa con la presentazione d’una proposta di legge d’iniziativa popolare [vi], ripresa dopo un anno dalla Proposta d’iniziativa parlamentare C 3484 [vii] e rafforzata cinque anni dopo da una ‘petizione costituzionale’ ai Presidenti dei due rami del Parlamento [viii], rimasta finora senza riscontri da parte di una classe politica ottusa e diffidente. In effetti il cammino in quella direzione era già stato preceduto negli anni ’80 da intenso lavoro preliminare, condotto da noti esponenti dei movimenti nonviolenti italiani, in primis da Antonino Drago. Essi – oltre a studiare e diffondere le teorie della Difesa Popolare Nonviolenta (DPN) e le sue esperienze storiche più significative – si sono basati su alcuni pronunciamenti della Corte Costituzionale per sancire il principio che la difesa di cui parla l’art. 52 non è esclusivamente quella armata, per cui lo stato italiano, con un apposito Comitato ministeriale, avrebbe dovuto avviare un percorso normativo di transizione verso la DPN.

 La sentenza… affermava che la Costituzione ammette, accanto alla difesa armata, una difesa non armata […] Quindi l’importante novità è che da qualche tempo il concetto di ‘difesa non armata’ è entrato ufficialmente nell’ordinamento giuridico italiano […] Si noti che, a partire dalla sentenza n. 164/85, la Corte Costituzionale ha implicitamente programmato anche il transarmo […] In questa direzione…nel 1998 è stata approvata la legge 230, di riforma dell’obiezione di coscienza e del servizio civile, ora chiamato ‘alternativo’ a quello militare […]  3) l’organizzazione e la programmazione dell’Ufficio Nazionale del Servizio Civile (UNSC) […] 4) tra le competenze dell’UNSC è prevista, all’art. 8, quella di “predisporre, di concerto col Dipartimento per il coordinamento della protezione civile, forme di ricerca e sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta” […] Ma poi lo Stato italiano ha progettato… di sospendere l’obbligo di leva…dal gennaio 2005 […] questa decisione appare una maniera per far scomparire dall’orizzonte i tanti obiettori di coscienza e allo stesso tempo di svuotare il problema politico della nascita istituzionale della difesa non armata [ix].

Il cammino iniziato in Italia nel 1967 col saggio di Capitini sulle “tecniche della Nonviolenza” [x], da 17 anni si è arenato non solo nelle secche di una politica ideologicamente ostile, ma anche per una diffusa ignoranza dei fini e mezzi della DPN e più in generale dei principi e metodi della Nonviolenza, alla quale nessuna istituzione o organizzazione è tuttora in grado di addestrarci.

Da ‘persuasi della Nonviolenza’ a ‘addestrati alla DPN’

È innegabile che una serie di secolari caratteristiche storiche ideologiche e religiose abbiano reso gli italiani meno sensibili ad una cultura e ad un’etica politica di stampo prevalentemente orientale (induista in particolare) e protestante (tipica di alcune denominazioni come valdesi, battisti, quaccheri, etc.). Infatti la tendenza della teologia morale cattolica a teorizzare il principio della ‘guerra giusta’ – sancito e consolidato da secoli di tradizione patristica e di magistero ecclesiale – si è interrotta solo nella seconda metà del XX secolo.

 Il papa Giovanni XXIII, per esempio, nella sua enciclica Pacem in Terris mise di fatto in discussione tutti e tre i principi della guerra giusta, affermando che, nell’era degli armamenti atomici, fosse addirittura «alienum a ratione bellum iam aptum esse ad violata iura sarcienda» («estraneo alla ragione [ritenere] che la guerra possa essere uno strumento adatto per rivendicare dei diritti violati». Significativamente, il concilio ecumenico Vaticano II si rifiutò anche solo di parlare di “guerra giusta” nei suoi documenti ufficiali, adottando piuttosto le riflessioni sulla legittima difesa in campo internazionale come unico ambito in cui affrontare il tema della tutela dei diritti dei popoli nell’ambito del bene dell’intera umanità (Gaudium et spes, 77-82)… [xi]

Non è un caso che i profeti della nonviolenza (da Thomas Merton a Giorgio La Pira, da don Lorenzo Milani a don Primo Mazzolari) non abbiano avuto vita facile nella Chiesa Cattolica, che però dal Concilio Vaticano II ha subito una profonda riconversione, testimoniata dal magistero di pontefici come il citato Giovanni XXIII, ma anche Paolo VI, Giovanni Paolo II. Benedetto XVI e l’attuale papa Francesco [xii]. Inoltre va detto che movimenti come la cattolica Pax Christi (1945) o di matrice originariamente protestante come il Movimento Internazionale della Riconciliazione (1952) negli ultimi decenni hanno lodevolmente contribuito a diffondere in Italia una visione etico-spirituale pacifista e nonviolenta, alimentando il movimento per l’obiezione al servizio militare ed alla guerra.

Ciò che invece è mancato – quanto meno da quel 2005 che ha segnato la fine dell’esperienza diffusa e significativa del servizio civile alternativo – è stata la l’opportunità e capacità di progettare, organizzare e gestire la formazione ad un modello alternativo di difesa, facendone conoscere principi e metodi e addestrando i cittadini ad una resistenza non armata civile e popolare. Eppure già negli anni ’60 e ’70 erano stati diffusi alcuni interessanti ‘quaderni della DPN’ che documentavano varie esperienze storiche, nazionali ed internazionali, di difesa non armata. Dal 1994 in poi essi sono stati parzialmente ripresi dal Centro Studi Difesa Civile, che ha pubblicato ulteriori contributi relativi ad esperienze di resistenza non violenta in Italia, in Europa e in altri ambiti geografici. [xiii] Un piccolo contributo ho cercato di darlo anch’io, affrontando le Quattro Giornate di Napoli del 1943 in una prospettiva diversa, né populisticamente oleografica né retoricamente resistenzialista [xiv].

Un ottimo contributo ad uscire dalla genericità di una scelta etica non supportata da esperienze reali e da una concreta formazione alla pratica della DPN è stato inoltre il libro di Antonio Lombardi [xv], che illustrava il ‘funzionamento’ di una nonviolenza che puntasse ad essere costruttiva ed efficace, soffermandosi sulle caratteristiche di tale strategia alternativa ma anche sull’effettivo addestramento all’azione diretta e sulla formazione al lavoro su di sé.

Purtroppo – ha sottolineato Antonino Drago – l’impasse italiana, che ha impedito l’avvio d’un servizio civile strettamente connesso alla sperimentazione concreta e diffusa della DPN, è in parte dovuta alle stesse associazioni in cui il servizio civile si è finora prestato, che evidentemente non se la sono sentita di sostenere un modello alternativo di difesa o temono la perdita di finanziamenti statali per il terzo settore.

Un secolo di esperienze nella DPN ne dimostrano l’efficacia

Tra i problemi che in Italia hanno rallentato la diffusione delle informazioni su modelli alternativi di difesa – oltre allo sfilacciarsi dei movimenti nonviolenti ed all’assenza di una consolidata tradizione di ricerca accademica sulla pace – ci sono la scarsa diffusione della letteratura in materia (fruita quasi solo dagli ‘addetti ai lavori’ o comunque da persone già consapevoli) e soprattutto la mancata traduzione di alcune opere fondamentali di autori stranieri. Fatta eccezione per alcuni classici – ad es. i contributi di Gene Sharp [xvi], di Theodor Ebert [xvii] e di Johan Galtung [xviii], sulle cui differenze teoriche si è soffermato Drago) [xix] – scarseggiano infatti testi in italiano utili a tale formazione. Ciò è particolarmente vero se si esce dalle teorizzazioni per affrontare la DPN in modo più empirico, analizzando le esperienze storiche registrate nell’ultimo secolo in vari contesti geografici ed esaminandone la reale funzionalità ed efficacia.

Un interessante libro in tal senso è quello di Sibley – O’Brien, intitolato “After Gandhi”, una rassegna dei casi più significativi, dal Vietnam di Thich Nhat Hahn alla lotta di Martin Luther King e Rosa Parks per i diritti civili dei neri statunitensi; dalla battaglia anti-apartheid di Mandela in Sudafrica ai movimenti insurrezionali in Argentina e Kenya o alla ‘rivoluzione di velluto’ di Havel in Cecoslovacchia. Ma il testo fondamentale per dimostrare quanto efficace e vincente possa essere un modello di difesa civile e nonviolenta rispetto a quella militare (purtroppo non ancora tradotto in italiano) resta l’esaustivo studio di due ricercatrici statunitensi, Erica Chenoweth e Maria J. Stephan “Why Civil Resistance Works” (“Perché la resistenza civile funziona”) [xx]. Un approccio pragmatico e scientifico alla “logica strategica del conflitto nonviolento”, che si avvale dei metodi statistici per provare che la resistenza civile ha avuto spesso la meglio su quella militare ed armata.

Lo studio di Chenoweth e Stephan è la prima analisi che utilizza metodi quantitativi di grandi dimensioni N per confrontare l’impatto dei metodi violenti e nonviolenti nel determinare il cambiamento sociale. Hanno sviluppato un set di dati NAVCO (Nonviolent and Violent Campaigns and Outcomes) che analizza 323 esempi storici di campagne di resistenza civile avvenute in un arco di oltre cento anni […] Chenoweth e Stephan mostrano che i metodi nonviolenti sono più efficaci della lotta armata. Nei casi esaminati, le campagne non violente hanno avuto successo il 53% delle volte, rispetto a un tasso di successo del 26% quando è stata impiegata la violenza. I metodi non violenti hanno avuto lo stesso successo nei regimi democratici e nelle dittature repressive. L’analisi mostra che le forme di lotta non violente hanno maggiori probabilità di produrre cambiamenti sociali e politici che portano a società più libere e democratiche [xxi].

I recenti imbarazzati silenzi – talvolta perfino da parte dei pacifisti – di fronte alle incalzanti e categoriche affermazioni sull’assenza di vere alternative alla resistenza armata di un popolo vittima di un’invasione attestano quanto poco noti siano ancora questi dati di fatto. Non basta infatti parlare genericamente di ‘vie diplomatiche’ o di ‘mezzi pacifici’ se non si è in grado di contrapporre un’alternativa difensiva nonviolenta non solo eticamente preferibile, ma anche pragmaticamente valida ed efficace. Studiarne e farne conoscere i casi storici, come esempio di gandhiano ‘programma costruttivo’, dovrà dunque diventare un impegno prioritario per i movimenti antimilitaristi, no-war e pacifisti che non si accontentino di convincere, ma vogliano anche vincere le loro battaglie nonviolente.


Note

[i]   Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Giornata_internazionale_della_nonviolenza  e https://www.onuitalia.it/2-ottobre-giornata-internazionale-della-non-violenza/   

[ii] Cfr. “50 anni di obiezione per la pace”, numero monografico di AZIONE NONVIOLENTA, anno 59, n. 652 (4/2022)   https://www.azionenonviolenta.it/azione-nonviolenta-4-2022-anno-59-n-652/

[iii]  Cfr. Enrico PEYRETTI, Difesa senza guerra Bibliografia storica delle lotte non armate e nonviolente, Taranto, PeaceLink, 2012. https://www.peacelink.it/storia/a/36008.html

[iv] Cfr. in particolare, Antonino DRAGO, Difesa popolare nonviolenta. Premesse teoriche, principi politici e nuovi scenari, Torino, E.G.A., 2006

[v] Gianmarco PISA, “La Difesa Civile e il Servizio Civile a quindici anni dalla Legge 64”, Pisa, Scienza e Pace – Research Paper n. 35 – Aprile 2016

[vi] Cfr. documentazione relativa alla Campagna nazionale “Un’altra difesa è possibile”, ed in particolare il testo presentato alla Suprema Corte di Cassazione: https://www.difesacivilenonviolenta.org/la-proposta-di-legge/

[vii] Cfr. https://www.camera.it/leg17/126?tab=&leg=17&idDocumento=3484&sede=&tipo=

[viii] Cfr. https://www.difesacivilenonviolenta.org/wp-content/uploads/2020/06/Petizione-al-Parlamento-DCNANV.pdf

[ix] A. DRAGO, op. cit., p 368-389. Vedi anche: Idem, L’ingresso della Difesa Popolare Nonviolenta (DPN) nella legislazione italiana, PeaceLink, 2005. https://www.peacelink.it/disarmo/a/13056.html . Un interessante documento da consultare è anche: Presidenza del Consiglio dei Ministri- Ufficio Naz. Per il Serv. Civile, La Difesa civile non armata e nonviolenta (DCNAN), Roma, 2006. https://www.serviziocivile.gov.it/media/561235/DCNAN-30-gen-06.pdf

[x]  Cfr. Aldo CAPITINI, Le tecniche della Nonviolenza, Milano, Libreria Feltrinelli, 1967

[xi] Voce “Guerra giusta” in Wikipedia. https://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_giusta_(teologia)#: ~:text=%C2%ABSant’Agostino%20afferma%3A%20%22,imboscata%20agli%20abitanti%20di%20Ai.%C2%BB

[xii] Cfr. Movimento Internazionale della Riconciliazione, La colomba e il ramoscello. Un progetto ecopacifista, Torino, E.G.A., 2021, pp. 102-105

[xiii] Cfr. Centro Studi Difesa Civile, “I Quaderni – dalla Ricerca all’Azione”, Roma, CSDC, 1994-2021. https://www.pacedifesa.org/category/quaderni/

[xiv] Cfr. Ermete FERRARO: (1985) “La Resistenza Napoletana e le Quattro Giornate: un caso storico di difesa civile e nonviolenta”, Verona, Azione Nonviolenta, XXII-10 (pp.15-17; (1986) “Un caso storico di difesa popolare”, Napoli, Il Tetto, XXIII, n. 133/1986 (pp.86-95); (1993) “La resistenza napoletana e le Quattro Giornate: un caso storico di difesa civile e popolare”, in: AA.VV., Una strategia di pace: la difesa civile nonviolenta (pp.89-95), Bologna, Fuori Thema; (1993) “Le trenta giornate di Napoli”, in: AA.VV., La lotta non-armata nella Resistenza, Roma, Centro Studi Difesa Civile (Quaderno n.1)

[xv] Antonio LOMBARDI, Satyagraha – Manuale all’addestramento alla difesa popolare nonviolenta, Bozzano (LU), 2014

[xvi] Gene SHARP, Politica dell’azione nonviolenta, Torino, E.G.A., 1986

[xvii] Theodor EBERT, La difesa popolare nonviolenta. Un’alternativa democratica alla difesa militare, Torino, E.G.A., 1984

[xviii] Johan GALTUNG: Ci sono alternative! – Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1986; Gandhi oggi. Per una Alternativa politica nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1987; Pace con mezzi pacifici, Ediz. Esperia, Milano, 2000

[xix] Cfr. A. DRAGO, op. cit., pp. 375-384

[xx]  Anne SIBLEY O’BRIEN & Perry Edmond O’BRIEN with Tharanga YAKUPITIYAGE, After Gandhi – One Hundred Years of Nonviolent Resistance, Watertown, Charlsbridge, 2018 ; Erica CHENOWETH & Maria J. STEPHAN, Why Civil Resistance Works – The Strategic Logic of Nonviolent Conflict, New York, Columbia University Press, 2011 (i dati principali emergenti dal libro di Chenoweth e Stephan sono stati publicati da Antonino DRAGO nel suo libro Le rivoluzioni nonviolente nell’ultimo secolo, Aracne, Roma, 2010) .

[xxi] Cfr. Why Civil Resistance Works, review  by David Cortright (https://www.e-ir.info/2013/01/17/review-why-civil-resistance-works/

© 2022 Ermete Ferraro

Etimostorie #3: RICONCILIAZIONE

 Le parole per dirlo…

Far parte di un Movimento che porta nella sua ragione sociale la parola riconciliazione non è come aderire ad una qualsiasi organizzazione genericamente pacifista. Ma diciamo la verità: questo termine resta non molto familiare alla cultura cattolica, pur riferendosi ad un concetto genuinamente evangelico. Infatti, l’I.F.O.R. (International Fellowship of Reconciliation) fu ispirata già nel 1914 – e fondata ufficialmente nel 1918, dopo la carneficina della prima guerra mondiale – da appartenenti alla cultura protestante, in particolare all’ambiente del pacifismo di matrice quacchera, a sua volta derivante dalla corrente calvinista-puritana. [i]  

‘Riconciliazione’, linguisticamente parlando, è comunque un significante che racchiude varie sfumature di significato. Trattandosi di un termine appartenente alla dottrina ebraico-cristiana, bisogna perciò risalire ai vocaboli originari ed alla loro evoluzione semantica. Il concetto di ‘riconciliazione’ ricorre nella Bibbia otto volte: cinque nell’Antico Testamento (la Tanach degli Ebrei) e tre nel Nuovo. Nel primo caso lo troviamo nel Levitico, nel II libro delle Cronache e tre volte nei libri profetici (due in Ezechiele ed una in Daniele[ii], espresso in lingua ebraica tre volte da כָּפַר (kafar) e due da חָטָא (chatà). Il primo vocabolo è una radice primitiva, che indicava letteralmente l’azione di ‘ricoprire’ (ad es. una strada col bitume) e in senso traslato quella di ‘perdonare’, ‘condonare’, ‘annullare’, ‘cancellare’ etc. Il secondo si riferiva ad azioni simili, come quella di ‘purificare’, ‘sopportare una perdita’, ‘espiare’, pur designando anche concetti come ‘sbagliare’ o ‘commettere peccato’. [iii]  

Nella versione originale del Nuovo Testamento, in lingua greca questo concetto ricorre tre volte ed è utilizzato solo nelle Epistole: due voltenella II Lettera ai Corinzi ed una nella Lettera ai Romani. Il vocabolo utilizzato da Saul/Paolo di Tarso è καταλλαγ (katallaghé) ed il relativo verbo καταλλάσσω (katallàsso), il cui significato letterale aveva a che fare con lo scambio commerciale, il cambio di monete, mentre in senso traslato indicava azioni come: ‘riconciliare qcn.’, ‘tornare nel favore di qcn.’, ‘essere riconciliato con qcn.’. Esso a sua volta derivava dal verbo allàsso’ – preceduto dal prefisso preposizionale katà – che significava ‘trasformare’, ‘scambiare’, ‘rendere altro’ (àllos, -e, -on).

Ma è nella traduzione in lingua latina dell’intera Bibbia – la Vulgata di san Girolamo cui sono ispirate le versioni successive – che compare la parola reconciliatio, alla base dei vocaboli attualmente usati, con poche varianti, negli idiomi neolatini (réconciliation, riconciliazione, reconciliaciòn, reconciliação, reconciliere…) ed anche in lingua inglese (reconciliation), laddove in tedesco è stato utilizzato Versöhnung, la cui radice Sühne rinvia al concetto di ‘espiazione’. [iv]In arabo il vocabolo-nome adoperato è توفيق (tawfiq, da una radice semitica che significa accettazione, conciliazione), mentre in hindi abbiamo सुलह (sulah, derivante dalla radice persiano-araba che indicava la pace, l’accordo).

Se dal verbo latino reconciliare – che traduceva nella lingua dell’impero romano il kafàr ebraico ed il greco katallàsso – scorporiamo i due morfemi modificanti (cioè i prefissi preposizionali re = di nuovo e cum = insieme) ed il suffisso verbale -are, resta come cuore della parola il lessema -cili. Non tutti i dizionari etimologici concordano sul suo significato, attribuendolo ora ad antiche radici verbali (cillo /cilleo/cello), a loro volta derivanti dal greco kéllo (= muovere, spingere), oppure da kaléo (= chiamare). Nel primo caso ‘riconciliare’ significherebbe ‘spingere di nuovo insieme’; nel secondo ‘ri-chiamare insieme’, con una sfumatura semantica che introduce comunque il ruolo d’un mediatore/conciliatore. Da questa divagazione etimologica mi sembra che emergano tre considerazioni:

(a) il concetto ebraico-veterotestamentario di ‘riconciliazione’ (kafàr/chatà) ha sicuramente a che fare col per-dono / con-dono delle azioni negative che hanno ferito una o tutte le parti in causa di un conflitto, grazie alla decisione di cancellare/ricoprire/azzerare quelle situazioni dolorose, senza escludere la espiazione del male provocato;

(b) nell’analogo concetto greco-neotestamentario compare un concetto nuovo: quello di trasformazione/scambio reciproco, nel senso di superamento di una situazione conflittuale cercando un punto d’intesa ‘altro’, del tutto nuovo;

(c) la versione latina non traduce alla lettera né il vocabolo ellenico né il suo antecedente semitico ed introduce altri elementi. Emerge il ruolo di chi svolge la mediazione fra le parti in conflitto (limitandosi a ‘chiamarle’ o ‘spingendole’ ad un dialogo), ma bisogna tener conto anche del fatto che il prefisso latino re-, infatti, ha un significato un po’ ambiguo, in quanto “esprime per lo più il ripetersi di un’azione nello stesso senso o in senso contrario” [v]Nel primo caso il risultato della mediazione porterebbe al ripristino d’una situazione pre-conflittuale (e quindi ad un ritorno al passato), mentre nel secondo condurrebbe ad una soluzione contraria se non opposta, comunque diversa e quindi nuova.

Ma che cosa intendiamo esattamente, oggi, con questa parola? Secondo il dizionario di Repubblica, è definibile come: “Azione, risultato e modo del riconciliare o del riconciliarsi […] SIN. Rappacificazione” [vi]Molto simile anche la definizione del Dizionario Garzanti: “1. il riconciliare, il riconciliarsi, l’essere riconciliato; rappacificazione [+ con]” [vii]e quella del Corriere: “1.Ripresa di rapporti buoni o corretti dopo un litigio o una fase di distacco SIN rappacificazione; fine delle ostilità militari, politiche, ideologiche ecc. fra componenti diverse di una nazione: politica di r.” [viii]. Non dissimili le spiegazioni fornite da Treccani (“1. rimettere d’accordo, far tornare in pace o in buona armonia…”), Hoepli (“1. conciliare di nuovo, mettere d’accordo, rappacificare…”) e Garzanti linguistica (“1. rimettere d’accordo, far tornare in buona armonia; rappacificare [+ con]”. [ix]  per quanto riguarda altre lingue, non fornisce maggiori approfondimenti la consultazione del francese Larousse (“Action de réconcilier des adversaires, des gens fâchés entre eux; fait de se réconcilier…” [x]  né degli inglesi Merrian-Webster (“to restore to friendship or harmony…” [xi] e Cambridge (“a situation in which two people or groups of people become friendly again after they have argued…”. [xii]

In tutti i casi, infatti, la ‘riconciliazione’ è definita come un’azione (come è evidente dal suo stesso suffisso), il cui fine sarebbe: (a) ri-prendere rapporti corretti, (b) rap-pacificare soggetti in conflitto, (c) far tornare l’armonia perduta, (d) ri-pristinare rapporti amichevoli dopo una lite. Torna insistentemente – come nel lemma originario – quel prefisso re- che sottintende una ripetizione, un ritorno ad una situazione di partenza o comunque il rinnovamento d’uno stato precedente.

Ma è davvero questo il significato di ‘riconciliazione’ e del suo abituale sinonimo ‘rappacificazione’? Si tratta di promuovere atteggiamenti e comportamenti che facciano tornare soggetti in conflitto a precedenti rapporti di amicizia ed accordo (il latino pax, oltre a ricordarci la parola italiana ‘patto’rinvia all’antica radice sanscrita *paç /pak/pag, che significava: legare, unire, saldare, accordare), oppure la ‘riconciliazione’ dovrebbe essere qualcosa di diverso e di più profondo?

‘Riconciliare’ e ‘riconciliarsi’, in definitiva, vuol dire fare dei passi indietro, verso un teorico passato migliore da ripristinare, oppure significa darsi una prospettiva del tutto nuova, originale e che punta al futuro?


Note

(*) Questo articolo è stato estratto da un mio precedente saggio: Ermete Ferraro, RICONCILI-AZIONI, Ermetespeacebook, 12.05.2020 > https://ermetespeacebook.blog/2020/05/12/riconcili-azioni/

[i] Vedi: AA. VV., Teoria e pratica della Riconciliazione, Torre dei Nolfi (AQ), Ed. Qualevita, 2008

[ii] Vedi: ‘Reconciliation’ in Blue Letter Bible > https://www.blueletterbible.org/search/search.cfm?Criteria=Reconciliation&t=KJV#s=s_primary_0_1

[iii] Vedi in Blue Letter Bible >  https://www.blueletterbible.org/lang/lexicon/lexicon.cfm?Strongs=H3722&t=KJV     e https://www.blueletterbible.org/lang/lexicon/lexicon.cfm?Strongs=H2398&t=KJV

[iv] Vedi: “Versöhnung” in D.W.D.S. > https://www.dwds.de/wb/Vers%C3%B6hnung

[v]  Voce “re-“ in Treccani, Vocabolario onlinehttp://www.treccani.it/vocabolario/re/

[vi] https://dizionari.repubblica.it/Italiano/R/riconciliazione.html

[vii] https://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=riconciliazione

[viii] https://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/R/riconciliazione.shtml

[ix] https://dict.numerosamente.it/definizione/riconciliare

[x]  https://www.larousse.fr/dictionnaires/francais/r%C3%A9conciliation/67102

[xi] https://www.merriam-webster.com/dictionary/reconciling

[xii] https://dictionary.cambridge.org/dictionary/english/reconciliation

[xiii] Enrico Peyretti, “Appunti sulla nozione di riconciliazione”, in: Teoria e pratica della Riconciliazione, cit., pp. 35-36 (sottolineature mie)

[xxii] Ibidem, p. 78

Risposte nonviolente al terrorismo

  1.  Il quadro di riferimento

green dove 1In un precedente articolo dello scorso novembre [i]  mi ero occupato della praticabilità – oltre che della necessità – di forme di resistenza al terrorismo alternative a quelle cui ci hanno voluto assuefare, come se rispondere alle stragi con stragi ancora maggiori fosse l’unica possibilità. In quello intervento, in particolare, mi ero soffermato sul clima di paura, d’insofferenza e di reazione che si era creato dopo i tragici fatti di Parigi, sottolineando come il terrorismo abbia messo a dura prova le nostre fragili sicurezze, inducendo nella maggioranza delle persone un istintivo meccanismo di autodifesa dall’oscura minaccia al nostro stesso modello di vita. La guerra mondiale ‘a pezzetti’, l’insidioso stragismo ‘della porta accanto’ e la ripugnante strategia del terrore, infatti, hanno  suscitato reazioni isteriche. Hanno evocato i peggiori incubi della nostra società globalizzata ed omogeneizzata dal pensiero unico; troppo radicata nel proprio modello di sviluppo per accorgersi delle proprie contraddizioni e, soprattutto, per ammettere che la sua non è l’unica modalità socio-economica e culturale possibile. Ebbene, sei mesi dopo, quel clima di paura e di sospetto sta continuando a generare mostri, alimentando la prevedibile ascesa delle destre nazionaliste e xenofobe e colpendo tutti quelli che, per fuggire a guerre e miseria, ingrossano le file dei migranti nella nostra Europa. Gli ultimi convulsi avvenimenti –sul piano sia del conflitto armato che infiamma il Medio Oriente, sia dei presunti attacchi terroristici di questi giorni – stanno quindi riaprendo una ferita mai rimarginatasi, gettando altra benzina sul fuoco.

Il fatto è che bisogna sì reagire ad un progetto ferocemente integralista e fondato su morte e distruzione, ma bisogna farlo nella maniera esattamente opposta, con le modalità creative e costruttive che la nonviolenza attiva può indicarci. L’alternativa alla barbarie – quella degli attentati ma anche quella dei bombardamenti sui civili – può fondarsi solo su strategie opposte alle logiche di morte, dal momento che “la violenza è il problema, mai la soluzione” [ii]. Il guaio è che l’opinione pubblica continua a restare in preda agli imbonitori della difesa militare, secondo i quali le nostre città diventerebbe più sicure con blindati nelle piazze e soldati armati di mitra agli incroci. Eppure la verità è sotto gli occhi di tutti: la gente si sente ancora più in pericolo in questo clima di guerra quotidiana, che non ci difende affatto dal terrorismo ma, al contrario, ne realizza proprio la finalità principale, che è quella di spargere ovunque paura e diffidenza. Peraltro, come sottolineavo già in un  intervento dell’aprile 2015 [iii] , la martellante propaganda anti-islamista di questi mesi ha sortito l’unico risultato di generare un estremismo jihadista ancor più feroce, evocando un assurdo clima da crociata e radicalizzando conflitti che erano, fra l’altro, frutto di scelte sbagliate delle potenze occidentali. Eppure si continua a considerare il terrorismo come un fenomeno del tutto indipendente, contro il quale si possono solo assumere provvedimenti drastici per difendere la nostra preziosa ‘civiltà’. Gli interventi armati contro l’avanzare dell’estremismo islamista – che fino a poco tempo fa si evitava pudicamente di denominare ‘guerra’ – si stanno perciò concretizzando sempre più, come se fossero davvero un rimedio all’instabilità politica, alla repressione del dissenso, alle operazioni terroristiche, alla povertà ed all’abbandono che affliggono intere popolazioni, il cui disperato e massiccio esodo verso i nostri confini e le nostre coste sembrerebbe l’aspetto che più ci preoccupa di tale drammatica situazione.

Il fatto è che, al di là della deprecabile malafede di chi ha finora attizzato il fuoco dei conflitti interni ed internazionali e adesso si atteggia a pompiere della situazione, credo che vada sempre tenuto presente il principio ippocrateo: “primum non nocere” . Ecco perché, pur volendo prescindere da considerazioni etiche e dal rifiuto di principio della guerra come metodo di risoluzione delle controversie e dei conflitti, dobbiamo comunque deciderci a prendere atto che anni e anni d’interventi militari negli infiammati scenari mediorientali hanno solo aggravato la situazione, che vede sempre più giovani disperati arruolarsi nelle milizie di Da’ish (ad-Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāqi wa sh-Shām).                 Cerchiamo almeno di non far finta che si tratta di forze oscure o di fenomeni che trascendono la nostra realtà. Non siamo di fronte alla ferocia di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte e pertanto non ci servono bacchette, pozioni o formule magiche per esorcizzare tali inquietanti presenze. Interventi armati e politiche sicuritarie e xenofobe rappresentano le solite ricette fallimentari ed antidemocratiche di chi si ostina a non voler vedere la realtà di un mondo lacerato da ingiustizie, divisioni e violenze. Per contrastarle, però, bisogna che il movimento pacifista, italiano ed internazionale,  impari a contrapporre ad esse soluzioni realmente alternative e nonviolente, sviluppando la ricerca sulla pace, promuovendo esperienze di educazione alla pace e compiendo azioni concrete e quotidiane per la pace.

  1. Prevenzione, difesa nonviolenta, corpi civili di pace

1185067_720472841312856_467797743_nEra questo il sottotitolo del libro che Alberto L’Abate e Lorenzo Porta hanno curato nel 2008 sul tema “L’Europa e i conflitti armati” [iv]. A distanza di otto anni ritengo che quelle proposte restino sostanzialmente valide, anche se lo scenario internazionale è indubbiamente mutato, e non certo in meglio. In sintesi, la loro tesi è che, essendoci varie forme di terrorismo (ad es. ‘di Stato’ o ‘dal basso’), le risposte devono ovviamente essere flessibili, in quanto l’opposizione antimilitarista alla guerra va bene nel primo caso, mentre nel secondo è il caso di ricorrere a strategie di difesa popolare nonviolenta sul territorio, alla mediazione sociale ed alla progettazione partecipata di interventi rivolti ai migranti. Credo che anche adesso le soluzioni alternative perseguibili debbano tener conto di questo trinomio, prevenendo tutte le azioni che alimentano i conflitti, praticando le numerose tecniche della D.P.N. ed allargando l’intervento dei corpi civili di pace. Per prima cosa però, dovremmo demistificare i diffusi luoghi comuni che provocano reazioni inconsulte, come quelli che amplificano la portata degli attacchi terroristici e delle stragi, facendoceli avvertire come un’incombente minaccia alla nostra sicurezza. In un recente articolo sul Washington Post, infatti, questo mito negativo viene sfatato da due studiosi del norvegese P.R.I.O. (Peace Research Institute Oslo), dimostrando che la violenza  esercitata dagli estremisti islamici ha colpito in primo luogo i loro stessi correligionari e connazionali.

 <<I Musulmani stanno combattendo principalmente l’uno contro l’altro, non contro l’Occidente. Mentre gli attacchi nei confronti dei non-Musulmani  comprensibilmente attirano di più l’attenzione dei ‘media’ occidentali, la stragrande maggioranza delle insurrezioni islamiste stanno colpendo i governi nei Paesi a maggioranza musulmana. Infatti, nel corso degli ultimi tre anni, più del 90% delle vittime in tutte le guerre civili sono nei Paesi musulmani, in particolare in Siria, ma anche in Afghanistan e Iraq…>> [v]

Dovremmo smetterla di lanciare gridi allarmistici e pensare piuttosto ad evitare che ogni intervento occidentale si trasformi in ulteriore impulso a nuovi conflitti armati. Se è vero che la fragorosa comparsa sulla scena dell’ ISIS  ha cambiato la nostra visione del terrorismo, dobbiamo però prendere atto che, come osservava Jean-Marie Müller in un editoriale dello scorso novembre:

<<…Da’ish non è lo Stato che pretende d’essere, ma si tratta d’una organizzazione strutturata militare e politica che occupa certi territori e svolge azioni belliche in Iraq ed in Siria. Pertanto, Da’ish non verrà a fare la guerra in Francia e la Francia non progetta alcun intervento sul terreno mediorientale […] Il problema è che proprio la cultura che domina le nostre società è strutturata in base all’ideologia della violenza necessaria, legittima ed onorevole. Disarmare il terrorismo vuol dire disarmare prima quest’ideologia, così da costruire una cultura fondata su un’etica di rispetto, di fraternità e di nonviolenza. Poiché il vero realismo è quello di chi vede nell’estrema ignominia della violenza terroristica l’evidenza della nonviolenza. ‘Il sangue – diceva Victor Hugo – si lava con le lacrime, non col sangue’ …>> [vi]

Ma demistificare il terrorismo mediatico di chi ci vuol fare sentire minacciati nella nostra sicurezza e nella nostra stessa identità socio-culturale è solo il primo passo. Bisogna poi comprendere a fondo il fenomeno terroristico e le sue cause e distinguerlo dalla guerra, che è ben altra cosa. Per citare ancora un noto teorico della nonviolenza come Müller:

<<Il terrorismo non è la guerra. La sua strategia, viceversa, pone come postulato il rifiuto della guerra. Ciò che caratterizza la guerra è la reciprocità delle azioni decise ed intraprese da ciascuno dei due avversari. Ora, per la precisione, di fronte all’azione dei terroristi nessuna azione reciproca può essere intrapresa dai decisori opposti. Questi si trovano infatti nella incapacità di rispondere colpo su colpo a un avversario senza volto e che si nasconde…>> [vii]

Ecco perché, argomenta Müller, alla retorica antiterrorista che parla di ‘negazione del valore della vita umana’ si dovrebbe replicare che, conseguentemente, per sconfiggere il terrorismo di dovrebbe agire con la più grande prudenza e nel massimo rispetto della vita, non certamente i base alla logica mortifera della guerra.

<<Difendere la civiltà, in primo luogo, vuol dire rifiutare di lasciarsi contaminare da questa ideologia. Ciò esige che si rinunci alle operazioni militari che implicherebbe inevitabilmente che si ammazzino degli innocenti […]Pertanto, una volta riconosciuto questo diritto e questo dovere di legittima difesa, la vera questione è sapere quali sono i mezzi legittimi ed efficaci di questa difesa […] Ma per vincere il terrorismo è il caso di sforzarsi di comprenderne le cause e gli obiettivi  […] Per sradicare il terrorismo bisogna sforzarsi di comprenderne le radici storiche, sociologiche ed ideologiche che l’alimentano. […] Se il terrorismo non è la guerra, può ugualmente essere un mezzo di continuare la politica. Possiede allora la propria coerenza ideologica, la propria logica strategica e la propria razionalità politica.  Allora non serve a niente negarlo, brandendo la sua intrinseca immoralità. Dal momento in cui sarà riconosciuta la dimensione politica del terrorismo, diventerà possibile cercare la soluzione politica che esso esige. La maniera più efficace per combattere il terrorismo è privare i suoi autori delle ragioni politiche che essi invocano per giustificarlo [..] Da quel momento, per vincere il terrorismo non è la guerra che bisogna fare, ma è la giustizia che bisogna costruire>> [viii]

Prevenzione, dunque, significa cambiare radicalmente le nostre politiche, che di guerre e terrorismo spesso sono la causa prima, ma anche comprendere le dinamiche di questi fenomeni violenti, per poi fronteggiarli con interventi di matrice opposta. Il guaio è che tali soluzioni alternative risultano quasi pressoché sconosciute a quelle stesse popolazioni che dovrebbero metterle in atto, ma non ne conoscono i principi teorici, le strategie pratiche né le esperienze già realizzate in tal senso.  La difesa civile nonviolenta (D.P.N.), infatti, è di fatto ignota non solo alla gente comune, ma perfino alla maggioranza degli studiosi di questioni internazionali . D’altra altra parte, il ruolo dei corpi civili di pace (C.C.P. ) viene spesso ignorato oppure scambiato con la cooperazione internazionale o con azioni volontaristiche ed umanitarie portate avanti negli scenari bellici.  Cerchiamo quindi di fare un po’ di chiarezza e di prospettare alcune possibilità per uscire dal circolo vizioso guerra-terrorismo-guerra.

  1. Quali risposte nonviolente al terrorismo?

guerramedioorienteGià nel mio contributo di un anno fa, richiamando un contributo di Eli McCarthy (docente di studi sulla pace all’Università statunitense di Georgetown) cercavo di chiarire quali sarebbero le soluzioni possibili per indurre le popolazioni locali a resistere nonviolentemente all’integralismo islamista ed alle sue operazioni terroriste. In quell’occasione, infatti, citavo gli otto punti della sua proposta [ix], sintetizzabili ulteriormente nei seguenti interventi in loco:

  1. Diminuire le risorse umane, attraverso politiche che dissuadano la persone dall’unirsi alle organizzazioni come l’ISIS, venendo loro incontro con l’offerta di opportunità che rispondano ai loro veri bisogni economici, sociali e culturali;
  2. Promuovere la nascita di gruppi di cittadini per dare più peso alla società civile, riducendo il potere sanzionatorio militare e poliziesco sulla comunità locale;
  3. Ridurre l’intoccabilità di certi principi, mettendo in discussione la sostenibilità etica e religiosa sia delle azioni terroristiche, sia della repressione violenta nei confronti delle donne e delle minoranze interne;
  4. Ridurre le risorse materiali, stimolando la gente del posto a rifiutare o ritardare il pagamento di tasse che alimentino quel regime;
  5. Creare istituzioni alternative e svolgere iniziative di resistenza e non-collaborazione attuando azioni tipiche del repertorio della DPN.

Che qualcosa si stia lentamente muovendo lo si deduce da alcuni segnali positivi, provenienti da aree di crisi come il Pakistan, dove cresce l’opposizione alle risposte violente del governo e finalmente maturano risposte alternative, come quelle proposte da Rwadan Tehreek, il movimento per la tolleranza, che ha organizzato uno sciopero della fame ed un sit-in davanti all’edificio dell’assemblea del Punjab. Secondo il presidente musulmano dell’organizzazione, Abdullah Malik:

<<Il Governo deve attuare una politica di lungo periodo rivedendo il suo programma, cancellando le leggi che spingono all’odio e annunciando una politica globale per demilitarizzare la società. Le autorità devono bandire tutti i tipi di armi e adempiere alla loro responsabilità costituzionale di garantire sicurezza e protezione a tutti i cittadini.>> [x]

Purtroppo l’incalzare degli eventi è tale che non possiamo accontentarci di questi timidi segnali di conversione alla resistenza nonviolenta. Occorre quindi che i paesi occidentali – a partire da quelli dell’Unione Europea – facciano scelte alternative ed intraprendano da subito azioni concrete per invertire la rotta. Un prezioso ‘decalogo’ in tal senso ce lo ha fornito il nostro Nanni Salio, in un articolo apparso a novembre 2015 sul sito del Centro Studi Sereno Regis di cui è stato l’animatore ed il direttore fino alla sua scomparsa, lo scorso febbraio. In questo scritto egli elencava le seguenti dieci azioni alternative:

 1. Interrompere il flusso di armi ai belligeranti  

2. Interrompere i finanziamenti ai gruppi jihadisti

3Affrontare con decisione e concretamente i problemi dei rifugiati, migranti, profughi.  

4. Offrire valide alternative ai giovani immigrati nei paesi occidentali, che vivono in condizioni di degrado e disagio sociale.

5. Avviare processi di negoziato e dialogo con le controparti…

6. Affrontare con serietà, impegno e decisione la questione Israele-Palestina…

7. Istituire una commissione Verità e Riconciliazione per facilitare i negoziati e indagare sulle responsabilità storiche passate e recenti …

8Lavorare alla costruzione di una confederazione del Medio Oriente, sulla falsariga di altre confederazioni già esistenti

9Coordinare azioni di polizia internazionale, che non sono guerra in senso stretto, per individuare e catturare i responsabili degli attentati e processarli

10Avviare processi di ricostruzione partecipata, per rimediare ai gravi danni inflitti alle popolazioni civili con i bombardamenti. >> [xi]

Come si vede, anche in questo caso si tratta di ripercorrere i sentieri delle strategie nonviolente, arrestando innanzitutto il flusso di armi e denaro ai belligeranti, aprendosi a politiche di accoglienza e integrazione dei migranti e studiando provvedimenti di politica estera che si diano l’obiettivo di sanare i conflitti, mediare tra le parti e contribuire a ricostruire le comunità locali, decimate e sconvolte da anni di guerra e di stragi.

C’è poi da ricordare l’articolo che il noto attivista quacchero statunitense George Lakey pubblicò nel gennaio 2015 sulla rivista online Waging Nonviolence, in cui proponeva ed argomentava “Otto modi per difendersi nonviolentemente dal terrorismo”.  Anche in questo caso ne riporto sinteticamente il contenuto:

  1. Costruzione di alleanze e l’infrastruttura di sviluppo economico. La povertà e il terrorismo sono indirettamente collegati. Lo sviluppo economico può ridurne il reclutamento e guadagnare alleati, soprattutto se lo sviluppo è fatto in modo democratico….

 2. Ridurre l’emarginazione culturale. Come la Francia, la Gran Bretagna ed altri paesi hanno imparato, emarginare un gruppo all’interno della propria popolazione non è sicuro o sensato; terroristi crescono in queste condizioni. Questo è vero anche a livello globale….

 3. Protesta nonviolenta / campagne tra i difensori, ed inoltre mantenimento della pace civile e disarmato. Il terrorismo avviene in un contesto più ampio e quindi ne è influenzato . Alcune campagne di terrore sono fallite perché hanno perso il sostegno popolare…

4Educazione ed addestramento al conflitto. Ironia della sorte, il terrore spesso si verifica quando una popolazione cerca di sopprimere i conflitti invece di sostenere la loro espressione. Una tecnica per ridurre il terrore, quindi, è quella di diffondere un atteggiamento pro-conflitto e le competenze nonviolente che sostengono le persone impegnate in un conflitto, per dare piena voce alle loro rimostranze…

5Programmi di recupero post-terrorismo. Non tutte le forme di terrore possono essere prevenute, come accade per il crimine. Tenete conto che i terroristi spesso hanno l’obiettivo di aumentare la polarizzazione….

6. La polizia come ufficiali di pace: l’infrastruttura di norme e leggi. Il lavoro di polizia può diventare molto più efficace attraverso una maggiore politica di comunità e la riduzione della distanza sociale tra la polizia e i quartieri che essa serve. In alcuni paesi questo richiede una ri-concettualizzazione della polizia, da difensori della proprietà del gruppo dominante ad autentici agenti di pace …

7. Cambiamenti di politica e il concetto di comportamento sconsiderato. Talvolta i governi fanno scelte che invitano – quasi vanno cercando – una risposta terrorista … .. Per proteggersi dal terrore, i cittadini di tutti i paesi hanno bisogno di ottenere il controllo dei loro governi e costringerli a comportarsi di conseguenza.

8. Negoziazione. Di frequente i governi dicono: “Noi non negoziamo con i terroristi”, ma quando lo fanno spesso stanno mentendo. I governi hanno sovente ridotto o eliminato il terrorismo proprio attraverso la negoziazione e le capacità di negoziazione continuano a diventare sempre più sofisticate…>> [xii]

Concludendo, è evidente che da noi in Italia c’è ancora molto da fare perché si apra un vero confronto sulle strategie più efficaci per contrastare il terrorismo con modalità alternative. Il movimento per la pace, purtroppo, si presenta frammentato e quindi ancora più debole, mentre le significative esperienze di ricerca sulla pace e di educazione alla pace finora attuate rischiano di essere sommerse dallo strisciante indottrinamento bellicista, giunto massicciamente anche nelle scuole. Eppure, proprio per questo, bisogna che dai movimenti antimilitaristi e nonviolenti ripartano segnali chiari di mobilitazione civile, d’impegno quotidiano, di dialogo finalizzato ad un’azione comune.

Quel che è certo è che bisogna partire dalla formazione al pensiero nonviolento e dall’addestramento alle tecniche della nonviolenza attiva. Mi sembra altrettanto evidente, poi, che bisogna costruire anche un patto tra pacifisti ed ecologisti, perché guerra e terrorismo costituiscono un gravissimo pericolo per l’ambiente naturale e le comunità locali, dal momento che, come affermavo già un anno fa:

 <<… le catastrofi umanitarie corrispondono quasi sempre a quelle ecologiche, essendo frutto della stessa violenza cieca ed irresponsabile>> [xiii]

Ecco perché pace, giustizia e salvaguardia della ‘casa comune’ – come ci ha ricordato Papa Francesco nella sua ultima enciclica – sono strettamente collegate e richiedono risposte organiche. E’ indispensabile infatti che gli uomini facciano pace tra loro ma anche con la natura, ma purtroppo le cose vanno diversamente:

<<La politica e l’economia tendono ad incolparsi reciprocamente per quanto riguarda la povertà e il degrado ambientale. Ma quello che ci si attende è che riconoscano i propri errori e trovino forme d’interazione orientate al bene comune. Mentre gli uni si affannano solo per l’utile economico e gli altri sono ossessionati solo dal conservare o accrescere il potere, quello che ci resta sono le guerre o accordi ambigui, dove ciò che meno interessa alle due parti è preservare l’ambiente e aver cura dei più deboli…>> [xiv]

Al messaggio di morte e distruzione che vengono da guerre e terrorismo, dunque, bisogna contrapporre risposte di vita, relazioni più giuste ed una difesa della casa comune dell’umanità, che già 700 anni fa l’Alighieri definiva: “l’aiuola che ci fa tanto feroci”. [xv]     La ferocia dei terroristi è la stessa delle guerre e della sistematica distruzione degli ecosistemi ed ha la stessa origine. La nonviolenza è l’unica soluzione possibile da adottare, prima che sia troppo tardi.

NOTE ———————————————————–

[i]  Ermete Ferraro (2015), “Resistere, nonviolentemente “, Ermete’s Peacebook, novembre 2015 > https://ermetespeacebook.com/2015/11/19/resistere-nonviolentemente/

[ii]  Monde sans Guerre et sans Violence (2015), “La violence est le probleme, jamais la solution” > https://www.pressenza.com/fr/2015/11/la-violence-est-le-probleme-jamais-la solution

[iii]  Ermete Ferraro (2015),”La colomba verde ed il califfo nero”, Ermete’s Peacebook, Aprile 2015 > https://ermeteferraro.wordpress.com/2015/04/02/la-colomba-verde-e-il-califfo-nero/

[iv] Alberto L’Abate, Lorenzo Porta (2008), L’Europa e i conflitti armati, Firenze, University Press > vedi e-book ( https://books.google.it/books?id=bmw04syro0wC&printsec=frontcover&dq=L%27Europa+e+i+conflitti+armati&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiQyeCS5erMAhWBFRQKHRmzCngQ6AEIHTAA#v=onepage&q=L’Europa%20e%20i%20conflitti%20armati&f=false )

[v] Nils Petter Gledisch and Ida Rudolfsen  (2016), “Are Muslim contries more violent ?”, Washington Post, 05.16.2016 > https://www.washingtonpost.com/news/monkey-cage/wp/2016/05/16/are-muslim-countries-more-violent/ (traduz. mia).

[vi] Jean-Marie Müller (2015), “La France est-elle en guerre?”, MIR France, 18.11.2015 http://mirfrance.org/MIR/?p=295 (traduz. mia)

[vii]  Ibidem

[viii] Ibidem

[ix] Eli McCarthy (2015), “ISIS: Nonviolent Resistance?” , Huffington Post > http://www.huffingtonpost.com/eli-s-mccarthy/isis-nonviolent-resistance_b_6804808.html   (traduz. mia)

[x] Alessandro Graziadei (2016), “Pakistan: una risposta nonviolenta al terrorismo”, Unimondo, 222.02.2016 > http://www.unimondo.org/Guide/Guerra-e-Pace/Conflitti/Pakistan-una-risposta-nonviolenta-al-terrorismo-155592

[xi] Giovanni Salio (2015), “I due terrorismi  e le alternative della nonviolenza”, (20.11.2015) >  http://serenoregis.org/2015/11/20/i-due-terrorismi-e-le-alternative-della-nonviolenza-nanni-salio/

[xii] George Lakey (2015), “8 ways to defend against terror nonviolently”, Waging Nonviolence (22.01.2015) > http://wagingnonviolence.org/feature/8-ways-defend-terror-nonviolently/ (traduz. mia)

[xiii] Ferraro (2015), “La colomba verde e il califfo nero”, cit.

[xiv] Papa Francesco (2015), Laudato si’ – Lettera enciclica sulla cura della casa comune, n. 198 >   http://w2.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html

[xv] Dante Alighieri, Divina Commedia – Paradiso, XXII, v. 151

GUERRA DI…LIBIERAZIONE?

Emanuele Filiberto Duca d'AostaFino ad un paio di giorni fa, sulle pagine dei nostri quotidiani regnava il silenzio sulla ‘missione’ militare in Libia che l’Italia si appresta non solo a svolgere con grande zelo, ma addirittura a dirigere sul piano operativo. Solo alcuni giornali, come Secolo XIX e Corriere della Sera, ci hanno informato in merito a questa operazione – segreta ma non troppo – raccogliendo più che altro le indiscrezioni trapelate grazie ad un articolo del Wall Street Journal. Un generale americano, comandante delle forze speciali in Africa, infatti, sosteneva in un’intervista che “…è già operativo a Roma un Coalition Coordination Center, in sigla CCC, un comitato di coordinamento della coalizione che combatte l’Isis. Il CCC è una «war room» in piena regola dove si pianifica l’intervento, dove si fanno simulazioni, e da dove, in futuro, si guideranno le azioni.[i]   Naturalmente i vertici politici si sono affrettati a smentire che si aspetta solo l’ok dell’ONU, dopo che il governo libico (quale?) avrà formalizzato una richiesta di aiuto militare alla coalizione, di fatto già presente da tempo sul territorio libico e comprendente anche francesi, inglesi americani e, forse, olandesi. Lo stesso Ministro degli esteri Gentiloni, d’altra parte, confermava che: «Il livello di pianificazione e di coordinamento è a un livello molto avanzato e va avanti da parecchie settimane» [ii], così come risulta chiaro il senso del recente accordo fra Italia ed USA sull’utilizzo dei droni armati di stanza alla base aerea siciliana di Sigonella.

Qualcuno, sicuramente, si sarà chiesto come diavolo è possibile che ci stiamo di fatto preparando ad intervenire militarmente in Libia senza uno straccio di ratifica da parte del Parlamento, custode della sovranità popolare? E’ vero che in questi ultimi tempi è stato molto occupato a discutere di unioni di fatto ed adozioni non di diritto, ma come mai nessuno ha ritenuto ancora che esso avesse qualcosa di dire anche sulle pericolose unioni militari di fatto e sulle nostre illegittime ‘adozioni’ degli equilibri politici d’un altro stato? La risposta è nelle precisazioni di Fiorenza Sarzanini che, in un articolo di qualche giorno fa sul ‘Corriere’, ci spiegava che il nocciolo della questione sono i c.d.”decreti missione”, grazie ai quali l’Italia si tiene le mani libere da fastidiosi passaggi parlamentari.   “Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, lo ha ribadito ieri nel corso del Consiglio supremo di difesa, sollecitando anche la rapida approvazione del decreto che ogni anno finanzia e fornisce copertura giuridica alle missioni all’estero. Le norme già varate consentono infatti di evitare il voto delle Camere, prevedendo esclusivamente un’informativa del governo alle commissioni Esteri e Difesa. Il tempo stringe, gli alleati sono già sul campo, Roma ha assicurato che «farà la propria parte» nella guerra ai terroristi dell’Isis. E dunque schiererà le navi già in attività di perlustrazione del Mediterraneo, un aereo cisterna, i Tornado di stanza a Trapani, anche due sommergibili. E potrà contare sulle basi militari del Sud, compresa Pantelleria dove da tempo sono insediati numerosi militari statunitensi”. [iii]

E chi se ne frega se la Costituzione della nostra Repubblica, all’art. 11, recita che: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…” , sancendo poi, all’art. 52, che: “L’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica…” ? L’escamotage è stato facilmente trovato, per cui la sovranità del Parlamento è ancora una volta aggirabile coi giochi di parole in Neolingua di chi sembra propenso a ripudiare la Costituzione più che la guerra. Le operazioni in Libia, conseguentemente, sono state coperte dal segreto militare e dietro il centro di coordinamento italiano della coalizione è più volte spuntata la sigla dell’A.I.S.E (Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna), quella ‘intelligence de Noantri’ su cui mi sono già soffermato a proposito della fiction televisiva che ne rivelava ai più l’esistenza.[iv]  Il Sole 24 Ore – ripreso dal quotidiano britannico The Guardian , peraltro, aveva già rivelato che ormai da settimane erano stati inviati in Libia 40 agenti segreti ed una cinquantina di ‘forze speciali operative’. Sta di fatto, comunque, che il piano di smantellamento della Costituzione avviato da Renzi aveva già previsto – per ridurre fastidiosi intralci alle decisioni governative – che anche l’art. 78 (“Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari” ) fosse modificato dalla previsione che tale dichiarazione spetti esclusivamente alla Camera dei Deputati Dal 3 marzo, però, sugli organi d’informazione si è ricominciato a parlare dell’intervento militare italiano in Libia, complice un’intervista all’ambasciatore USA che lodava il governo Renzi e lo esortava ad investire di più su questa ‘missione’, riconoscendo all’Italia la richiesta leadership ma, al tempo stesso, accollandogliene gli oneri che ne derivano. Questa esternazione ha molto infastidito il nostro premier , che – pur fiero dell’ investitura a condottiero d’un intervento armato in nord Africa senza precedenti – si è sentito tirare palesemente per la giacca, per cui si è affrettato a gettare acqua sul fuoco.

Ma intanto quotidiani come la Repubblica avevano già rotto l’imbarazzato silenzio mediatico, rivelando la portata straordinaria di questa sconcertante avventura bellica del nostro Paese.  In un articolo di Gianluca Di Feo, infatti, si squadernavano i dati relativi a piani segreti ma non troppo, informandoci che: “Di sicuro, si prepara un’operazione massiccia, la più grande mai realizzata dal 1943. Da mesi gli stati maggiori stanno elaborando piani su piani, ipotizzando un vertice italiano che gestirà uno schieramento di forze europee. La previsione minima è di 3mila militari, la massima supera i 7 mila. I due terzi saranno forniti dal nostro Paese. L’allestimento richiede circa un mese. Ma un primo contingente potrebbe muoversi nel giro di dieci giorni per prendere il controllo di un aeroporto. In ogni caso, la fase iniziale sul campo sarà interamente affidata a truppe italiane.[v]   Altro che operazione di polizia internazionale! Non sembra, del resto, che gli stessi servizi segreti siano riusciti a mantenere segreta quest’ ingombrante spedizione che, a distanza di 105 anni, ci riporta tristemente all’Italietta colonialista di Giolitti, schierata contro l’Impero Ottomano. Ed infatti è difficile nascondere operazioni che prevedono l’invio di portaelicotteri coi marò del San Marco, con al seguito altre navi per rifornimenti . E’ difficile anche negare che gli aeroporti meridionali siano da tempo stati allertati per la partenza di cacciabombardieri e che la base di Pantelleria, come conferma l’articolo di Repubblica : “servirà come scalo per il ponte aereo di elicotteri e cargo.” [vi] . Sarà pur vero che noi Italiani ci siamo abituati a tutto, compresi i blindati coi militari in assetto di guerra nelle nostre piazze. Ma far passare l’invio in Libia di 5.000 soldati come una normale operazione  è poco credibile, né può passare inosservato lo schieramento di mezzi aeronavali che poco hanno a che fare con l’ipotesi di un semplice ‘presidio’ di quei territori.  Ecco perché uno stizzito Renzi – di fronte alle notizie riportate dai giornali – ha dichiarato che: Su questo terreno ci vuole prudenza. Nessuna fuga in avanti. La situazione è troppo delicata perché ci si lasci prendere da accelerazioni “ [vii]

Certo, ci vuole prudenza. Peccato però che lo stesso Renzi stia scalpitando da mesi per ottenere la guida italiana di questa spedizione bellica, cercando di sottrarsi ad un confronto con un Parlamento peraltro fin troppo disattento in proposito. Peccato poi che l’Italia risulti palesemente preoccupata del futuro dei propri affari in Libia più di quanto lo sia di andarsi a cacciare nell’ennesima, pericolosissima, avventura militare, in barba alla Costituzione e ad un secolo di storia che a quanto pare non ci ha insegnato nulla. Non bisogna fare ‘fughe in avanti’, d’accordo. Ma questo non significa che il governo debba proseguire indisturbato a giocare alla guerra o al ‘piccolo 007’, mentre i media non devono fare troppo rumore su tali operazioni, solo per non disturbare il manovratore. Sulla stessa ‘Stampa’, fra l’altro,  è stato pubblicato un articolo che “fa i conti” sull’intervento italiano in Libica, con l’aiuto di ‘analisti militari indipendenti’ , che appaiono piuttosto perplessi nel merito. Infatti l’autore, Luigi Grassia, si chiede prudentemente: “Se l’Italia dovesse fare la guerra in Libia, o per dirla in modo più accettabile: mandare un corpo di stabilizzazione che rischia anche di dover combattere contro l’Isis, quante forze potrebbe mettere in campo? “ [viii]. La risposta è che questa eufemistica ‘stabilizzazione’  ci costerebbe cara, anche se uomini e mezzi ci sarebbero pure. Per cui l’articolista, con una punta di scetticismo, conclude: “… qui si tratta solo di numeri, di potenzialità. Che poi questi numeri possano tradursi in un intervento militare in Libia è tutta un’altra questione”. [ix]  Ebbene, fra clangori di guerra e dichiarazioni più o meno diplomatiche e prudenti di politici ed ‘analisti’, cosa dicono e cosa fanno i pacifisti di fronte a quest’ultima minaccia del complesso militare-industriale che rischia di coinvolgerci in prima persona in un conflitto bellico senza precedenti? E, soprattutto, come reagiscono gli Italiani, di fronte ai quali si è agitato a lungo lo spettro della minaccia ISIS unita a quella della pretesa ‘invasione’ da parte dei profughi? In questo campo, in particolare, la mistificazione è stata massiccia, visto che – come ci ricorda un articolo de ‘il Manifesto’, nel 2015 l’Italia ha speso 800 milioni di euro per accogliere i rifugiati, a fronte di 1 miliardo e mezzo spesi per inutili e dannose ‘missioni’ all’estero.[x]

La verità è che per reagire efficacemente – al di là di comunicati e prese di posizione –  il movimento per la pace italiano deve ritrovare la forza per superare antiche divisioni che ne frammentano l’azione. Ciò non significa affatto chiudere gli occhi davanti alle differenze nelle analisi o nelle strategie di azione. Dico soltanto che è arrivato il momento di andare oltre la politologia teorica – che ci fa sentire appagati dalla comprensione delle dinamiche in corso – per manifestare in piazza e gridare chiaro e forte non solo il nostro dissenso, ma anche la nostra proposta antimilitarista e nonviolenta. Da un secolo le alternative alla guerra esistono e sono senz’altro più efficaci, come dimostrano vari studi accademici in proposito. Bisogna però far capire alla gente che pacifismo non è passività, bensì resistenza nonviolenta, accompagnata da educazione alla pace e concreta azione per la pace, in tutte le sue dimensioni. Ecco perché condivido ciò che scrive Mao Valpiana sull’urgenza di offrire risposte alternative a quest’assurda avventura militare in Libia: Bisogna intervenire, ma con obiettivi, strategia e mezzi giusti. Esistono altre strade. Il caos libico non accetta scorciatoie. Occorre agire per mettere in sicurezza vite umane, spegnere il fuoco, ma senza produrre ulteriori vittime. Sono tante le cose da fare: la ricostruzione dell’assetto statuale libico, sostenendo con la diplomazia e la politica l’iniziativa per un accordo tra le parti e per un’azione internazionale sotto egida Onu di contrasto all’Is; la valorizzazione e la partecipazione della società civile; il coinvolgimento della Lega araba e dell’Organizzazione degli stati africani, anche al fine di mettere alle strette Qatar e Arabia saudita che finanziano le guerre in corso; bloccare le fonti di finanziamento del terrorismo, la vendita delle armi, lo sfruttamento dei disperati; garantire da parte dell’Europa assistenza umanitaria ai profughi; mettere in campo un’operazione di salvataggio”. [xi]  L’Italia ripudia la guerra e francamente credo che pochi Italiani – nonostante il martellamento mediatico sul pericolo ISIS – credano davvero che quella che si sta preparando sia una guerra di… libierazione. Ma ripudiare la guerra non può significare starsene con le mani in mano seguendo alla televisione l’evolversi degli eventi. Bisogna quindi obiettare con forza al militarismo che invade le nostre strade e penetra fin nelle scuole dei nostri figli e proclamare che la forza collettiva e diffusa della nonviolenza è l’unica via per uscirne.

NOTE _____________________________________________

[i]  F. Grignetti, “A Roma la war room anti-Isis che guiderà le azioni alleate in Libia” , Il Secolo XIX 02.03.2016) http://www.ilsecoloxix.it/p/italia/2016/03/02/ASqQmFoB-guidera_azioni_alleate.shtml

[ii]  Ivi

[iii] Fiorenza Sarzanini, “Intervento il Libia: ok a missioni segrete dei corpi speciali” , Corriere della Sera 16.02.2016) http://www.corriere.it/esteri/16_febbraio_25/intervento-libia-ok-missioni-segrete-nostri-corpi-speciali-ccd07350-dc03-11e5-b9ca-09e1837d908b.shtml

[iv]  Ermete Ferraro, Ragion di Stato…Maggiore, http://ermetespeacebook.com/2015/01/16/ragion-di-stato-maggiore/

[v]  Gianluca Di Feo, “Libia, nuclei d’assalto e sostegno dal mare: Italia pronta all’intervento”, la Repubblica 04.03.2016  http://www.repubblica.it/esteri/2016/03/04/news/il_dossier_il_primo_contingente_potrebbe_muoversi_entro_10_giorni_ma_restano_i_dubbi_sul_quadro_legale_e_sugli_obiettivi-134727115/

[vi]  Ivi

[vii] Fabio Martini, “Renzi sceglie la prudenza: ‘Il Libia niente fughe in avanti”, La Stampa 04.03.2015 https://www.lastampa.it/2016/03/04/italia/politica/renzi-sceglie-la-prudenza-in-libia-niente-fughe-in-avanti-yz4nLVtxDSmrIuGy9Xue0H/pagina.html

[viii] Luigi Grassia, “Intervento in Libia: gli analisti fanno i conti” , La Stampa, 04.03.2015 https://www.lastampa.it/2016/03/04/esteri/intervento-in-libia-gli-analisti-fanno-i-conti-dOXIk5FNBsAbGKfuwtvV9L/pagina.html

[ix]  ivi

[x]  Ignazio Masulli, “Le due guerre dell’Europa”, il Manifesto 03.03.2016, p. 5 (cfr. http://ilmanifesto.info/edizione/il-manifesto-del-03-03-2016/ )

[xi]  Mao Valpiana, “Il Libia la storia si ripete ma un’altra difesa è possibile”, Huffington Post 04.03.2016  http://www.huffingtonpost.it/mao-valpiana/in-libia-la-storia-si-ripete-ma-unaltra-difesa-e-possibile_b_9381754.html

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© 2016 Ermete Ferraro ( http://ermetespeacebook.com  )

OIKO-NOMIA VS DEATH-ECONOMY

Scrivendo un precedente articolo sul concetto di “economia di morte” e sulle sue implicazioni (https://ermeteferraro.wordpress.com/ 2011/12/13/ thanatoikonomia-death-economy) mi ero ispirato ad un’originale contributo di Sergio Altieri, uno scrittore ‘noir’, per riportare il discorso all’attualità del disastro finanziario che sta travolgendo stati e mercati.

Quella che allora avevo chiamato thanato-oikonomìa, conferendo una tragicità greca all’espressione inglese death-economy, mi sembrava infatti la concettualizzazione di una realtà sotto gli occhi di tutti. Una realtà in cui l’economia è diventata “un algoritmo ineluttabile verso il baratro”, caratterizzata com’è da una guerra infinita che si autoalimenta e, parallelamente, dalla crisi mortale degli stati, trascinati nella spirale stagnazione-inflazione-recessione-depressione-collasso.

Il trionfo del profitto a ogni costo, con ogni mezzo, contro ogni ostacolo” – per citare ancora Altieri – è del resto strettamente connesso all’escalation guerrafondaia che manipola l’opinione pubblica con una sorta di guerra psicologica, per meglio dimostrare l’ineluttabilità di quella guerreggiata. In questo senso, l’economia in sé, almeno come viene comunemente rappresentata, è diventata sinonimo di death-economy. E questo perché da troppo tempo non è più un mezzo per assicurare vita, sicurezza e benessere (nel senso più ampio, sintetizzato dal temine ebraico shalom ), bensì un pernicioso strumento di morte e di distruzione.

Ci ripensavo leggendo l’appello “Furto d’informazione”,  pubblicato da il manifesto del 24.7.2012, i cui sottoscrittori denunciano la “sistematica deformazione della realtà e una intollerabile sottrazione d’informazioni a danno dell’opinione pubblica” , riferendosi alla diffusa rappresentazione degli sbocchi alla crisi economica attuale come “comportamenti obbligati (‘non-scelte’)”. I firmatari dell’appello, fra l’altro, sottolineano che una controversa dottrina economica come il neoliberalismo, ritenuta da molti quanto meno corresponsabile della crisi, viene invece assunta “come autoevidente, sottraendo a milioni di cittadini la nozione della sua opinabilità e impedendo la formazione di un consenso informato, presupposto della sovranità democratica”. Questo martellante ”pensiero unico” – che orwellianamente viene diffuso dai media come la dottrina – è di fatto alla base della visione d’economia che ci viene propinata come se fosse vangelo, costringendo chi dissente a recitare il ruolo di pericoloso eretico e sovversivo.

Eppure, come illustra un interessante articolo a pag. 6 dello stesso numero del quotidiano, basterebbe tornare alle radici greche del termine “economia” per scoprire che quella di cui oggi si parla e straparla è altra cosa. Edoardo Vanni – nella sua nota titolata “In senso della misura. Le lezioni di economia di quei soloni dei greci”- ci aiuta a restituire senso e sostanza a quest’abusata parola, riportandoci semanticamente alla sua origine ed alla sua antinomia con un altro termine greco, molto più vicino alla nostra accezione attuale di “economia”. La distinzione che facevano gli antichi Greci, ci ricorda, era fondamentalmente tra “oikonomìa” (attinente, come dice il nome, alla gestione della casa, della famiglia, della comunità, e comunque legata al valore d’uso) e “krémata”, un concetto connesso invece al mondo delle cose materiali e quindi al valore di scambio, configurabile quindi come “arte di accumulare ricchezza”.

Ebbene, la polis greca riuscì allora a realizzare un obiettivo che oggi sembra irreale: dare un metron, cioè una misura, un limite, all’arricchimento smisurato ed al profitto incontrollato, in nome del primato della politica e dell’interesse collettivo sulla “crematistica” e sostenendo la superiorità del  valore d’uso su quello di scambio. In questo senso, conclude Vanni, i Greci possono ancora darci lezioni ed insegnarci che non può esistere una vera “oikonomìa” senza garanzia del bene comune e, soprattutto, senza il primato della politica.

Fatta questa premessa, parlare di Death-Economy, cioè di economia di morte, appare con evidenza un controsenso semantico, un vero e proprio ossimoro. La stessa tradizionale contrapposizione fra ecologia ed economia andrebbe forse rivista, se al secondo termine restituiamo il senso originario di gestione dei beni comuni della collettività, regolato da quel metron che porta in sé il concetto ecologico ed etico di ‘limite’, sia soggettivo sia oggettivo, all’accumulo di ricchezza.

Le leggi (nomìa) che regolano la produzione e la distribuzione della ricchezza in qualunque collettività (oikos) dovrebbero avere origine, infatti, proprio da quel senso della misura che impone limiti precisi all’arricchimento sfrenato di alcuni a danno di altri e dell’intera comunità.  Non si tratta di una visione utopica ed ideale, ma piuttosto di un’impostazione alternativa che ha radici “antiche come le montagne”, per citare una nota espressione di Gandhi, non a caso teorizzatore del sarvodaya (trad.: “bene di tutti”, lo “sviluppo comune”) inteso proprio come “economia di condivisione”.

“Lo spirito di condivisione porterà alla pace, alla soddisfazione e alla fratellanza, mentre l’attuale economia porta alla violenza, che alla fine ci conduce diritti alle bombe atomiche– scriveva già nel lontano 1945 Joseph C. Kumarappa, definito “l’economista di Gandhi” – […] In un’economia sarvodaya sottolineeremo i valori umani anche in riferimento ai prezzi e ai costi, piuttosto di usare questi ultimi come guida per la produzione materiale. […]Caratteristico dell’economia capitalista è l’orgoglio del possedere, mentre l’unicità del sarvodaya risiede nel raddoppiare la gioia grazie alla condivisione delle cose con gli altri e nel dimezzare le ragioni dolore  grazie all’empatia del nostro prossimo […] Sarvodaya, con la condivisione della vita, è l’unica soluzione all’egoismo materiale che può portare alla distruzione della civiltà…” (J. P. Kumarappa, Economia di condivisione, Pisa: Centro Gandhi, 2011, P.37).

L’alternativa tra economia di condivisione e di vita ed economia di morte, dunque, era già ben chiara quasi 70 anni fa. Si tratta di una contrapposizione che affonda nella polis dei Greci ed arriva fino agli economisti alternativi come Barry Commoner, secondo il quale “Possiamo ricavare una lezione fondamentale dalla natura: niente può sopravvivere sul pianeta se non diventa parte cooperativa di un tutto più vasto e globale” (B. Commoner, Il cerchio da chiudere, Milano: garzanti, 1987, p.60).

Chiudere il cerchio dell’economia ecologica e nonviolenta, insomma, vuol dire rivedere la nostra stessa idea di economia, giungendo a quella “Eco-economy” di cui ha parlato Lester R. Brown nel suo omonimo libro del 2001. Già dieci anni fa, infatti, egli denunciava che l’attuale economia “sta distruggendo i sistemi che la sostengono e dilapidando le risorse che costituiscono il suo capitale naturale. Le domande dell’espansione economica, così come sono strutturate oggi, stanno superando le capacità produttive degli ecosistemi…” (L. R. Brown, Eco economy – Una nuova economia per la Terra, Milano: Editori Riuniti, 2003, p.30).  Costruire una nuova economia di vita e sconfiggere quella di morte, allora, è la sfida fondamentale per chi vive la tragedia attuale di una folle ricchezza che produce povertà e di uno sviluppo che genera sottosviluppo. E’ un imperativo categorico per chi non si rassegna ad accettare supinamente che i beni comuni siano accaparrati da pochi e che questi ultimi possano scatenare guerre per difendere i loro assurdi privilegi, dando così un’immagine chiara, sebbene fosca, di ciò che s’intende per “economia di morte”. Eppure il problema è molto più antico e altrettanto antica ne è la consapevolezza e la sfida all’ineluttabilità di una visione “krematista” più che propriamente “eco-nomica” del mondo.

“Fin dove volete arrivare, ricchi, con le vostre insane brame? Volete forse essere i soli ad abitare la Terra? Perché cacciate colui con cui avete in comune la natura e pretendete di possedere per voi la natura? La terra è stata creata come un bene comune per tutti, per i ricchi e per i poveri: perché, ricchi, vi arrogate un diritto esclusivo sul suolo? La natura che tutti partorisce poveri, non conosce ricchi. […] La natura dunque ignora le distinzioni quando nasciamo, le ignora quando moriamo. Ci crea tutti uguali….” (Ambrogio, Naboth, 12,53 , Milano-Roma 1985, pp.131-33).

Le parole di uno dei più grandi “dottori della Chiesa” –  scritte intorno al 390 d.C.- e quindi 1600 anni fa, ispirandosi a sua volta alla triste storia di Naboth, raccontata nel I Libro dei Re – ci riportano ad una saggezza antica che l’umanità ha smarrito, ma che deve assolutamente recuperare. Prima che sia troppo tardi e che la logica della distruzione e della morte prevalgano su quella della costruzione comune e della vita.

© 2012 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

Digressione

Premetto che ho un’abitudine che ritengo positiva: evito di sentenziare, parlando o scrivendo, su cose che non conosco a sufficienza e che non ho approfondito. Per uno come me, che di problemi connessi alla pace ed alla nonviolenza si occupa dai lontani anni ’70, è difficile, però, non prendere posizione su una questione scottante come quella riguardante l’opposizione al regime siriano e le prospettive d’un intervento militare esterno, che tanti continuano ad evocare come ‘la’ soluzione.

Eppure non è facile assumere una decisione, quando si è costretti a farlo all’interno della capziosa scelta obbligata tra democrazia e pace, sulla quale lo stesso movimento pacifista italiano, già non molto in salute, recentemente sembra essersi spaccato in due tronconi.

Mi viene in mente Ulisse e la sua mitica ed ingegnosa sfida alle sirene, che avrebbero voluto farlo naufragare attirandolo tra Scilla (“colei che dilania”) e Cariddi  (“colei che risucchia). Lo scaltro Odisseo se la cavò facendosi legare e turare le orecchie, in modo da riuscire a guardare in faccia le due mostruose creature, resistendo però alle loro tentazioni.

Nel mio piccolo, anch’io allo stesso modo non vorrei farmi trascinare in un’assurda scelta fra la Scilla di un intervento armato e la Cariddi di una neutralità che scivoli nella complicità col regime di Assad.  Mi sembra infatti abbastanza evidente che la questione siriana, come viene posta dalla maggioranza dei media, sia l’ennesima dimostrazione del solito, subdolo, armamentario di propaganda bellicista travestita da reazione internazionale ad un regime sanguinario. Proprio su questo particolare aspetto mi sono recentemente soffermato in due articoli sulle “Psy-Ops” che il complesso militare-industriale organizza da sempre, utilizzando le sofisticate armi della guerra psicologica e reclutando insospettabili alleati perfino in campo opposto (1).

Sono peraltro convinto che simili tecniche non siano estranee neppure alla propaganda dei pacifisti a senso unico, sempre pronti ad additare i complotti interventisti dell’imperialismo dei petrodollari, ma troppo reticenti sulle feroci dittature cui le rispettive popolazioni tentano di opporsi, spesso in modo diretto e nonviolento. Ecco perché un po’ tutti, come Ulisse, per non farci ammaliare dalle sirene delle contrapposte propagande, dobbiamo demistificare le loro campagne mediatiche, evitando di cadere nella trappola di chi utilizza una sorta di ricatto psicologico per farci propendere per una o per l’altra soluzione. Scegliere tra due mezze verità, infatti, significa accettare comunque almeno una mezza menzogna. Ma per chi crede che la Nonviolenza sia “la forza della verità” (il gandhiano satyagraha) questa non è certo la soluzione giusta.

Fra la dilaniante Scilla di una pelosa solidarietà coi ribelli, che puntualmente culmina in un’illegittima e violenta aggressione armata allo ‘stato canaglia’ di turno, e la risucchiante Cariddi di un antimperialismo    ‘a prescindere’, che finisce però col legittimare le peggiori dittature, sono convinto che esista una terza possibilità. L’alternativa sia all’interessato interventismo militare sia al colpevole disimpegno negazionista va cercata in ciò che, da decenni, i pacifisti hanno chiamato ‘difesa popolare nonviolenta’, intendendo con questa formula la resistenza civile non armata e sociale di un’intera popolazione al proprio regime dittatoriale, così come ad un’occupazione militare straniera. Il vero problema è che il dibattito avviato positivamente in Italia sulla difesa popolare nonviolenta (DPN) e sulle tante esperienze storiche di resistenza popolare e dal basso a regimi ed occupazioni, alla fine degli anni ’90, si è purtroppo arenato nelle secche di un’incostituzionale controriforma governativa, sulla quale nessuna forza politica ha mai detto una parola. L’abolizione del servizio di leva, infatti, ha scardinato l’ipotesi pazientemente costruita di una componente strettamente civile e nonviolenta delle difesa italiana, facendo sparire in un sol colpo sia gli obiettori di coscienza sia l’ipotesi d’un servizio civile finalizzato alla DPN. In questo quadro – ottimamente sintetizzato in un articolo di Antonino Drago pubblicato anche sul sito di Peacelink (2),  non c’è da meravigliarsi se il dibattito su questa reale alternativa alla difesa ed alla resistenza armata si è progressivamente spento tra gli stessi pacifisti, restando invece confinato al livello teorico di una “ricerca sulla pace” esclusivamente accademica. Lo stesso termine “nonviolenza” ha da troppo tempo cominciato a perdere la sua valenza alternativa, riducendosi ad una semplice etichetta politicamente neutra o, nei casi peggiori, diventando imbarazzante copertura per discutibili istituzioni internazionali, spesso foraggiate da fondazioni, multinazionali e perfino ministeri della difesa.  Mentre i veri nonviolenti perdevano tempo prezioso a disquisire sulla soluzione migliore, dibattendo ad esempio tra “difesa sociale” e “difesa nonviolenta”, una spregiudicata cricca d’intellettuali si è di fatto appropriata questo termine, non più come idea rivoluzionaria e globale, bensì come denominazione di comodo, che offrisse una sponda “pacifista” alle strategie interventiste dei governi “alleati”. A tal proposito, è quanto meno sconcertando scoprire che due delle più autorevoli istituzioni americane intitolate alla nonviolenza – l’Albert Einstein Istitution, il cui leader è Gene Sharp, e l’International Center for Nonviolent Conflict (ICNC), guidata dal finanziere miliardario Peter Ackerman, sono regolarmente finanziate dalle maggiore Corporations, da Fondazioni come la Ford se non, direttamente, da istituzioni patriottiche legate al Pentagono. (3) 

E’ fin troppo evidente il rischio che questo ambiguo sostegno di ambienti finanziari e militaristi alla strategia nonviolenta finisca con lo screditare del tutto le proposte di simili istituzioni, anche quando – come nel caso del guru nonviolento Gene Sharp – esse restino comunque ancorate al rifiuto della resistenza armata e degli interventi militari stranieri. (4)  Questa, però, non è una buona ragione per rinunciare alla ricerca di una strategia davvero popolare, sociale e nonviolenta per sostenere l’insurrezione dei Siriani contro il regime di Assad, pur escludendo categoricamente ogni implicazione in un nuovo, assurdo, intervento bellico in Siria.

Un’utile scheda, curata da Davide Berruti per “Unimondo” può aiutarci a riconoscere le caratteristiche di un’autentica alternativa alla difesa armata, ciò che la rende “difensiva”, “popolare” e “nonviolenta”.  Contrariamente a quanto vorrebbe farci credere una retorica propaganda neo-risorgimentale e ‘partigiana’  (che in Italia sembra accomunare in modo preoccupante la destra ‘liberale’ a quello che resta della sinistra parlamentare, contagiando perfino alcuni pacifisti nostrani), la verità è che un intervento esterno in Siria non agevolerebbe per nulla il “movimento di liberazione” in atto in quel paese, ma innescherebbe reazioni ‘a catena’ ancor più preoccupanti ed imprevedibili.

“Diversamente da quanto accade oggi, quando in presenza di guerre che l’Occidente combatte quasi esclusivamente in territorio straniero, la “difesa” dei diritti umani e della democrazia appare un concetto non sempre distinto dagli interessi di tipo economico o politico. Ecco dunque che la prima condizione che si deve verificare affinché si possa parlare di DPN è che si tratti inequivocabilmente di azioni di “difesa”. D’altra parte la forza di mobilitazione nei casi di intervento all’estero è senz’altro minore e sempre più spesso i sistemi di reclutamento sono basati su incentivi di tipo economico e/o a campagne di sensibilizzazione di tipo nazionalistico e retorico. Questo contraddice con il secondo elemento fondamentale della DPN, ovvero il fatto che sia “popolare” oltre che civile, nel senso che viene avvertita come un impegno condiviso da tutti. Questa è la diretta conseguenza del primo termine “la difesa”: un evento così drammaticamente importante che non può essere delegato ad una struttura esterna (tanto meno privata come nel caso di eserciti di mercenari o “agenzie private di sicurezza”) ma deve essere assunta dall’intera popolazione come impegno primario e fondamentale. Solo su queste basi teoriche il risultato sarà una difesa “efficace” in quanto diffusa, radicata, ampia e completa…” (5)

Ecco perché sono convinto che un intervento straniero nel conflitto siriano, per di più armato e sponsorizzato da chi ha fin troppo evidenti interessi in quello scenario, non potrebbe in nessun modo configurarsi come sostegno all’autentica resistenza nonviolenta di quella popolazione e ad una nuova ‘primavera araba’. Si configurerebbe infatti come un oggettivo appoggio all’ala più militarista ed islamista di quel movimento, seguendo lo sciagurato copione già troppo spesso messo in scena in quel contesto geo-strategico.

E’ altrettanto chiaro, d’altra parte, che non è più sufficiente prendersela col complotto imperialista guidato dagli USA, con la complicità degli stati arabi fidati e dei soliti ‘falchi’ europei. Smascherare le strategie palesi ed occulte di chi vuole l’ennesima guerra è un passaggio necessario, ma non può esaurire la proposta di chi si oppone ad essa ma non vuol chiudere gli occhi di fronte alla dura repressione che si è abbattuta sugli oppositori al regime di Assad.

Ha fatto bene Jean-Marie Muller – un altro ‘maestro’ della Nonviolenza – a dichiarare, nel luglio del 2011:

 “ L’ingerenza politica s’impone. L’urgenza è ripensare l’azione della comunità internazionale in materia di prevenzione e gestione dei conflitti e di sperimentare i metodi dell’intervento civile e nonviolento, aprendo uno spazio politico in cui possano esprimersi le iniziative di pace delle società civili…” (6)

Il guaio è che, in questi mesi, dall’insurrezione inizialmente disarmata e spontanea di tanti Siriani si è passati alla rappresentanza ufficiale del movimento da parte d’un autoproclamato “Esercito di Liberazione della Siria”, sempre più armato ed eterodiretto dai ‘soliti noti’, che non esitano ad utilizzare le armi della guerra psicologica per accrescere la tensione in quell’area e l’allarme degli stati vicini. Resoconti da quel Paese, benché parziali se non palesemente manovrati dai servizi segreti, sono puntualmente e supinamente ripresi dai media nostrani, che puntano sull’emotività per legittimare immancabili “interventi  militari umanitari”.

Solidarizzare con la legittima reazione alla lunga e pesante dittatura baathista, però, non deve impedirci di notare che quest’ennesima ‘primavera araba’ – al di là del palese sostegno occidentale – sta sviluppando ancora una volta preoccupanti spiriti islamisti, aprendo scenari che hanno poco a che vedere con la “democrazia” di cui si fanno interessate paladine le potenze occidentali.

Ha ragione, allora, ad indignarsi Johan Galtung – un altro dei ‘padri’ storici della terza via nonviolenta – quando in un recente articolo ha dichiarato:

“Siamo tutti disperati nell’assistere alle orribili uccisioni, alla sofferenza di chi è privato di tutto, dell’intero popolo. Ma che fare?Potrebbe essere che l’ONU, e i governi in generale, abbiano la tendenza a ripetere sempre lo stesso errore di mettere il carro davanti ai buoi? La formula che usano generalmente è:[1] Liberarsi del n° 1 come responsabile chiave, usando sanzioni; quindi [2] Cessate-il-fuoco, appellandosi alle parti, o intervenendo, imponendo; [3] Negoziato fra tutte le parti legittime; e quindi [4] Una soluzione politica quale compromesso fra le varie posizioni…”  (7)

L’ONU si ostina a seguire sempre lo stesso copione ma, per il celebre peace researcher, sarebbe opportuno invertire quella sequenza, partendo dall’ultimo punto (la soluzione politica), per poi giungere all’armistizio, seguito dall’uscita di scena di Assad. Ma poi, argomenta Galtung, chi ha detto che di soluzione ce n’è solo una? Moltiplichiamo il dialogo tra la popolazione siriana, promuovendolo con l’utilizzo di “facilitatori” dell’ONU, di veri esperti in mediazione popolare, e la forza della creatività avrà la meglio. Ciò che bisogna assolutamente evitare, però, è che si continui a cercare una soluzione con le braccia cariche di armi, alimentando odi e scontri quotidiani. Una soluzione si può sempre trovare ma, ammonisce Galtung:

Non con la violenza. Chiunque vinca sarà profondamente inviso agli altri, in una casa e una regione così profondamente divisa contro se stessa. Non con sanzioni, indipendentemente da quanto profonde e ampie, con la partecipazione di Russia e Cina. È come punire una persona con microbi e il suo sistema immunitario che sta lottando all’interno perché ha la febbre. Più il paziente è debole, più è contagioso. Quel che viene in mente è una soluzione svizzera. Una Siria, federale, con autonomie locali, addirittura a livello di villaggio, con sunniti, sciiti e curdi che intrattengano rapporti con i propri affini attraverso i confini. Un peacekeeping internazionale, anche per proteggere le minoranze. E non-allineata, il che esclude basi straniere e flussi di armi, ma non esclude affatto un arbitraggio obbligatorio per le Alture del Golan (e l’assetto post-giugno 1967 in generale), con lo status di membro ONU in gioco per Israele.” (8)

In un suo articolo su“Waging Nonviolence” Erik Stoner – giornalista e blogger nonviolento, membro del direttivo statunitense della War Resisters’ League – si è soffermato sulla “disciplina nonviolenta come chiave per il successo della rivolta in Siria”. In questo contesto, Stoner cita i risultati di una ricerca americana che, dopo aver analizzato 100 campagne nonviolente dal 1900 al 2006, è giunta alla conclusione che la presenza di un’ala armata di un movimento non accresca le possibilità di riuscita di una rivolta, come dimostra una tabella, da cui si evince che l’assenza di violenza in una campagna porta al 60% le probabilità della sua riuscita, contro il 46% dell’ipotesi contraria.

“ Questo non dovrebbe sorprendere, perché non solo i movimenti nonviolenti che hanno un braccio armato  riducono la probabilità di defezioni dalle forze armate, ma essi, storicamente, riducono anche la partecipazione popolare alla lotta, che è invece la chiave del successo per le campagne nonviolente.“ (9)

Purtroppo, in Italia, la ricerca sulle alternative nonviolente risulta del tutto inadeguata alla necessità di propagare i principi e le tecniche della Nonviolenza in un contesto purtroppo caratterizzato ancora da una diffusa ignoranza in materia o, peggio, da un uso strumentale di questo termine. Ancor più inadeguata, però, appare la capacità, da parte dei movimenti nonviolenti sopravvissuti, di aggiornare le proprie analisi e strategie ad un contesto in continuo cambiamento, collegandosi opportunamente alle grandi organizzazioni pacifiste ed antimilitariste internazionali. Ovviamente il rischio è che istituzionalizzare troppo la ricerca sulla pace e sulla risoluzione nonviolenta dei conflitti possa attirare, come negli Stati Uniti, le interessate attenzioni di chi ha bisogno di una sponda nei movimenti alternativi, per cui non esita a finanziare tali istituzioni e non certo per filantropia.

Quello che assolutamente va evitato è che il già debole movimento pacifista italiano continui scioccamente a frammentarsi, lasciandosi costringere alla scelta tra la Scilla d’una solidarietà che diventi intervento armato, e la Cariddi della dietrologia antiamericana, da cui scaturisca la negazione della dittatura e del diritto stesso dei siriani ad autodeterminarsi. Ecco perché, per quanto mi riguarda, non firmerò alcun appello o documento che non faccia chiarezza sulla questione siriana nel senso che ho cercato d’illustrare finora, sottovalutando la forza della nonviolenza come alternativa sia a nuove ed assurde avventure militari “umanitarie”, sia ad una grave mancanza di solidarietà verso il popolo siriano, su cui si sta esercitando la violenza contrapposta e devastante del regime di Assad e dei suoi oppositori armati e foraggiati dall’estero.

Concludo con una nota più lieve, ricordando un mio articolo sul blog risalente a ben due anni e mezzo fa, intitolato “Cos’‘e pazze!” (10)  nel quale parlavo di un episodio originale e significativo, avvenuto ad Emasa (l’attuale città siriana di Homs) nel 64 a.C. e tuttora ricordato e celebrato dalla tradizionale “Festa dei Pazzi”. Quando questa bella città, vicina a Palmira, stava per essere occupata dalle legioni romane guidate da Pompeo, il locale consiglio escogitò una curiosa soluzione. I cittadini di Emesa avrebbero dovuto fingersi tutti pazzi, comportandosi in modo stravagante e perfino rivoltante, allo scopo di far sentire profondamente a disagio i conquistatori stranieri. La trovata fu messa in atto con grande fantasia e partecipazione popolare, diventando di fatto un ingegnosa manifestazione di resistenza civile e disarmata all’arroganza dell’imperialismo romano. Purtroppo servì solo a ritardarne la conquista dell’impero seleucide e della stessa città di Emasa/Homs, ma costituì un precedente storico davvero molto significativo.

La vera sfida della “pazzia” nonviolenta, oggi come allora, s’ispira alla creatività piuttosto che alla distruttività, alla fantasia delle menti libere anziché alla violenza di chi sa solo ripetere i propri tragici errori.

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  1. E. Ferraro (2012), Quando la guerra si fa con le parole  > https://ermeteferraro.wordpress.com/2012/02/04/psy-ops-quando-la-guerra-si-fa-con-le-parole/ ) e Idem (2012), Quando la pace si fa con le parole  > https://ermeteferraro.wordpress.com/2012/02/11/peacedu-vs-psyops-quando-la-pace-si-fa-con-le-parole/
  2. A. Drago (2005), L’ingresso della Difesa Popolare Nonviolenta (DPN) nella legislazione italiana  > http://www.peacelink.it/disarmo/a/13056.html
  3. Cfr. quattro articoli di S. Bramhall, pubblicati a Marzo 2012 sul suo sito The Most Revolutionary Act , il primo dei quali s’intitola: “Perché la CIA finanzia l’addestramento alla nonviolenza?” > http://stuartbramhall.aegauthorblogs.com/2012/03/10/iwhy-the-cia-funds-nonviolence-training/ .
  4. Leggi e vedi l’intervista a Gene Sharp del 5.2.2012 di Channel 4 > http://www.channel4.com/news/gene-sharp-people-power-is-syriasweapon
  5. D. Berruti, Difesa Popolare Nonviolenta (scheda) > http://www.unimondo.org/Guide/Guerra-e-Pace/Difesa-popolare-nonviolenta/(desc)/show). Vedi anche, in inglese, l’interessante scheda pubblicata sul sito di ‘Nonviolence International’, un network statunitense di realtà nonviolente, fondato dal palestinese M. Awad > http://www.nonviolenceinternational.net/seasia/whatis/book.php?style=pfv
  6. J.M. Muller (2011), Quand le vent de la liberté souffle sur la Syrie > http://nonviolence.fr/spip.php?article578&var_recherche=Syrie
  7. J. Galtung (2012), Syria > http://www.transcend.org/tms/2012/03/syria > traduz ital. in > http://serenoregis.org/2012/03/siria-johan-galtung/.
  8. Ibidem
  9. E. Stoner (2011), Nonviolent discipline key to success in Syria > http://wagingnonviolence.org/2011/11/nonviolent-discipline-key-to-success-in-syria/#more-13471
  10. E. Ferraro (2009), Cos’’e pazze! > https://ermeteferraro.wordpress.com/2009/10/04/cose-pazze/

© 2012 Ermete Ferraro > https://ermeteferraro.wordpress.com

NOI E LA SIRIA: tra Scilla e Cariddi

ECOPACIFISMO: VISIONE E MISSIONE

di Ermete Ferraro (Referente Naz. VAS per l’Ecopacifismo)

1. Quale ecopacifismo ?

In occasione della IV Festa VAS della Biodiversità , nel 2004, fu pubblicato un mio articolo proprio con questo titolo. In quell’occasione, partendo dalla ricognizione sul significato dei concetti-base (ecologia, ecologismo, conservazionismo, ambientalismo, irenismo, antimilitarismo, pacifismo e nonviolenza), avanzavo poi la proposta di ciò che ritenevo un autentico ecopacifismo.
Anche se quindici anni d’impegno in VAS mi hanno offerto l’opportunità di fare qualcosa di concreto per l’attuazione del sano connubio tra ecologismo e pacifismo cui mi riferivo, devo onestamente riconoscere che il bilancio complessivo dei sette anni trascorsi da quell’articolo, per quanto concerne il nostro Paese, mi sembra tutt’altro che soddisfacente. Basta fare una veloce ricerca su Internet , infatti, per riscontrare la quasi totale assenza di questa proposta sullo scenario politico italiano ed internazionale. Qualche analisi e qualche esperienza organizzativa in tal senso, semmai, è riscontrabile nel mondo ispanico, dove di “ecopacifismo” si discute ancora, riconoscendogli un ruolo più chiaro nell’ambito del più complessivo movimento ecologista, verde, anticapitalista e terzomondista.
Ritengo che la carenza di un pensiero, ma ancor più di un’azione, specificamente “ecopacifista” sia frutto d’una concezione statica e sempre più pragmatica della politica, in cui le stesse ideologie ‘classiche’ hanno da tempo perso ogni capacità di attrarre e di aggregare, rimpiazzate da un movimentismo confuso e privo di prospettive, se non da correnti manifestamente antipolitiche. Lo stesso movimento pacifista d’impronta nonviolenta ha sempre stentato ad affermarsi in un panorama politico dove le uniche coordinate restavano quelle tradizionali (destra-centro-sinistra), pur essendo superate, nei fatti, dalla realtà di un quadro politico sempre meno ideologico. Una vera novità nel panorama di quest’ultimo trentennio è stato il movimento ecologista e verde, ma il suo incanalarsi nelle strettoie del partitismo e del leaderismo, ed il prevalere della tattica sulla strategia laddove esso è diventato elemento di governo, ne hanno eroso la capacità d’incidere davvero e di diventare una vera alternativa. Le organizzazioni di matrice antimilitarista e pacifista, da parte loro, in questi anni si sono ulteriormente frammentate di fronte all’incalzare di conflitti armati e di strategie geopolitiche sempre più aggressivamente militariste, cui non hanno avuto la forza di contrapporre non solo i tradizionali “signornò’, bensì una difesa alternativa, civile e nonviolenta.
Eppure questo trentennio ci ha offerto un quadro, desolante ma fin troppo chiaro, della fondatezza della proposta ecopacifista e della sua valenza non solo come netta opposizione al complesso militar-industriale ed ai suoi velenosi frutti in campo economico, politico e bellico, ma anche come possibile laboratorio di un gandhiano “programma costruttivo”.
I tragici avvenimenti di questi anni ci hanno dimostrato, infatti, che il disastro ambientale e la persistenza e diffusione delle guerre sono strettamente connesse tra loro. Le politiche di consumo e di produzione degli stati e quelle relative alla c.d. ‘sicurezza nazionale’ sono ormai talmente collegate da mettere a serio rischio la sopravvivenza stessa del Pianeta. Ciò premesso, diventa ancor più inspiegabile la banalizzazione e frammentazione del movimento ambientalista e la sua mancata alleanza con quello pacifista, contro la guerra e per il disarmo e la smilitarizzazione del territorio.
Non ha quindi senso, ad esempio, perseguire un’astratta eco-sostenibilità dell’economia, se essa continua ad essere assoggettata alla logica d’un capitalismo globalizzato e pervasivo, che ricorre sempre più spesso alla strategia bellica quando l’aggressione ‘pacifica’ e neocolonialista del mercato non basta più.
Allo stesso modo, mi sembra evidente che non basta manifestare contro guerre ed invasioni armate se non ci si sa opporre anche ad un modello di sviluppo predatorio, nemico della natura e dei suoi equilibri almeno quanto lo è della giustizia e della pace. Sarebbe una vera follia pensare che – come sottolinea uno studioso catalano – ci si possa opporre ad un’aggressione militare o a dittature pensando che ciò non abbia a che fare con la battaglia per modelli più sostenibili di energia oppure con un’agricoltura non più dominata dalle monoculture e dall’accentramento delle risorse alimentari del nostro pianeta.
Ecco perché, già sette anni fa, avevo proposto l’ecopacifismo come “…l’anello di congiunzione tra le lotte per l’ambiente e quelle per la pace, a partire dalla consapevolezza che […] entrambi si alimentano di una scelta etica, fondata sul rifiuto della violenza e del dominio come forze necessarie per il cambiamento e lo sviluppo”. La “triade” ambiente/sviluppo/attività militari – di cui aveva parlato Johan Galtung già negli anni ’80 – avrebbe richiesto una strategia unitaria ed una saldatura organizzativa, in modo da contrapporre al modello violento di economia e di società uno sviluppo equo, ecocompatibile e nonviolento.
Nel mio saggio, a tal proposito, ricordavo alcune interessanti impostazioni ed esperienze del movimento verde che lasciavano presagire una sensibilità in tal senso. Anche alcune serie proposte di “ecologia sociale”, diffuse in ambito europeo ed anche italiano , avrebbero lasciato sperare nel rilancio dell’opzione ecopacifista. Un’altra corrente di pensiero che avrebbe potuto alimentarne lo studio e la pratica è quella che fa riferimento al pensiero c.d. “ecoteologico” ed alla crescente sensibilità delle Chiese cristiane verso il trinomio “giustizia/pace/salvaguardia del creato”. Anche in questo caso, però, la profonda ed autorevole riflessione di tanti teologi e vescovi e lo stesso magistero degli ultimi tre pontefici non sembra aver coinvolto profondamente tali comunità. Esse stentano a far proprio il “principio responsabilità” di cui parlava Hans Jonas, insieme ad altri filosofi e teologi che hanno insistito sulla centralità di un’etica ambientale. Mi sembra, allora, che il pur affascinante progetto di conversione e di nuova evangelizzazione della nostra società, a partire dalla diffusione di “nuovi stili di vita” fondati sulla sobrietà e più equi e solidali , non sia riuscito ancora a permeare davvero il progetto per una “civitas” cristiana.

2 . Ecopacifisti: come e perché ?

All’interrogativo “Quale ecopacifismo?” del mio precedente contributo avevo risposto proponendo: (a) alcune priorità programmatiche: disarmo e difesa alternativa, tutela della diversità ecologica e culturale, ecologia sociale applicata al quotidiano; (b) alcune strategie operative: rapporto col movimento antiglobalizzazione, con quello no-war e nonviolento e con le organizzazioni ecologiste e verdi; (c) un’ipotesi strategica: l’apertura, da parte anche dei movimenti più radicalmente laici, alla collaborazione con le comunità cristiane più sensibili ed inclini a coniugare la scelta per la pace con quella per la giustizia e la tutela dell’ambiente.
Sta di fatto, però, che la realtà politica attuale appare sempre più frammentaria, deprimente sul piano etico, dominata da un pensiero unico e ripiegata in una sorta di passiva rassegnazione. Peraltro, credo sia innegabile che negli ultimi tempi si siano moltiplicati movimenti spontanei, aggregazioni virtuali tramite i social networks, mobilitazioni giovanili a livello internazionale e perfino grossi movimenti di opposizione e di resistenza ai vari regimi ancora esistenti, soprattutto nell’area arabo-mediterranea. E’ mancato, però, un filo conduttore che desse a tali battaglie un respiro più ampio ed una strategia condivisa, coniugando l’opposizione sociale alla creazione dal basso di una vera alternativa economica, sociale, ambientale e difensiva.
Lo stesso movimento degli “indignados” dà il segnale chiaro e forte di uno scontento generale, però non lascia intravedere una visione strategica globale che segua la sacrosanta protesta contro i padroni dell’economia mondiale e l’inettitudine di una privilegiata casta politica.
“Il metabolismo della società determina gran parte della sua geopolitica, ed in particolare la violenza che essa trasmette sia all’esterno sia all’interno […] (questa) è una relazione sistemica essenziale che deve essere messa in luce e con cui bisogna confrontarsi, prima che sia troppo tardi. Ciò significa che i precetti della cultura della pace devono diventare parte dell’ambientalismo e quelli ambientali devono diventare parte del pacifismo e dell’antimilitarismo. La questione va ben oltre ciò che potrebbe essere un’alleanza tattica tra movimenti sociali per la giustizia globale.” .
“Prima che sia troppo tardi” non è un’espressione da “apocalittici” per dare la sveglia ai troppi “integrati”, per mutuare l’efficace antitesi proposta negli anni ’60 da Umberto Eco. E’ l’oggettiva constatazione del grave ritardo nella diffusione nell’attuale società dell’ecopacifismo non solo come ipotesi teorica, ma come strategia politica credibile ed efficace.
Un segnale d’allarme lo ha recentemente lanciato anche uno dei più qualificati studiosi italiani di ecologia, Giorgio Nebbia, quando in un editoriale sulla rivista di VAS ha sottolineato la fragilità del legame tra pace e ambiente nella comune percezione e coscienza:
“Se ci si volta indietro, nei sessantasei anni trascorsi dalla pace del 1945, quando finì l’ultima “grande guerra”, non c’è stato un solo giorno di vera pace nel mondo […]La violenza ha dominato e pervaso la storia umana. C’è motivo di ricordarlo anche in questa rubrica perché ogni conflitto, ogni scontro, ha avuto cause ed effetti ambientali. Dietro le scuse “ufficiali” di difesa di diritti politici o umani o dietro motivi religiosi o con la scusa di assicurare a qualcun altro la libertà da qualche cosa, c’è sempre stata la volontà di impossessarsi di beni territoriali o ambientali “altrui”: la conquista di terre fertili, o di spazio, o di risorse naturali o il controllo dell’acqua dei fiumi…”
Nebbia, ad esempio, ha opportunamente sottolineato il circolo vizioso che, nel proliferare di conflitti armati e relative ‘missioni di pace’, lega gli interessi economici dei militari e delle industrie belliche ai profitti connessi alla successiva “ricostruzione” di quanto quelle guerre, grazie agli stessi governi, hanno provveduto a distruggere. Questo cinico gioco al massacro del complesso militar-industriale ci costa, solo in termini economici, 3.000 miliardi di euro all’anno, sottratti ovviamente agli investimenti per lo sviluppo collettivo, per il risanamento ambientale e per il benessere sociale.
“[ Questo] sarebbe perciò il “valore monetario” della pace, soldi che potrebbero essere investiti nelle armi della pace: anche la pace, infatti, ha le sue armi che sono scuole, ospedali, abitazioni, acqua, servizi igienici, sicurezza nelle proprie terre e nei propri campi, cibo e miglioramento dell’ambiente, occupazione. Ma non ci sarà mai pace fra gli esseri umani e con l’ambiente naturale senza una equa distribuzione dei beni che la Terra offre e che sono grandi e sarebbero sufficienti per tutti. La pace è figlia della giustizia, lo diceva anche il profeta Isaia, tanti anni fa, e, parafrasandolo, si può ben dire che l’ambiente è figlio, a sua volta, della pace.”
L’interrogativo “ecopacifismo: come?”, allora, passa oggettivamente in secondo piano rispetto all’urgente necessità di chiederci, qui e ora: “ecopacifismo:perché?”. E’ una domanda che nasce dalla constatazione del tempo già perso, in attesa di una saldatura teorica tra le priorità dell’ecologismo e quelle del pacifismo. Un interrogativo, dunque, che richiede risposte immediate.

3. Che fare?

Una certa miopia dei movimenti ed la scarsa tendenza a mettere in pratica il classico slogan ambientalista “pensare globalmente, agire localmente”, ci costringono allora ad ipotizzare un’alleanza quanto meno operativa fra queste due dimensioni dell’agire politico. I terreni sui quali si possono sperimentare interventi comuni non sono certo pochi, a livello sia nazionale sia internazionale. Basti pensare all’assurdo tentativo del governo di riproporre agli Italiani l’opzione nucleare, sconfitta con un movimento referendario composito e dal basso più che grazie ai tatticismi dei partiti e di alcune associazioni ambientaliste, troppo istituzionalizzate per essere davvero incisive. Si pensi, inoltre, all’accresciuta e più diffusa sensibilità della gente in campo alimentare e contro l’uso degli OGM, un altro settore dove da decenni si esercita il ferreo controllo delle multinazionali, oppure alla vincente battaglia referendaria per l’acqua pubblica e gestita con criteri sociali, contro l’avidità delle grandi imprese internazionali che in parte già la controllano. In ambedue i casi, infatti, sono innegabili i risvolti non solo economici sociali e civili di quelle scelte, ma anche il loro collegamento col rifiuto d’un mondo assoggettato al potere delle multinazionali, della finanza e del complesso militar-industriale.
Mai come in questo periodo, del resto, sta crescendo nel cittadino medio la consapevolezza che la crisi finanziaria globale è strettamente connessa ad una strategia di controllo non solo dei mercati mondiali, ma anche delle risorse energetiche strategiche e degli equilibri geo-politici complessivi. A questo “capitalismo-avvoltoio” – com’è stata efficacemente definita negli stessi USA la complicità fra i grandi di Wall Street ed il complesso militar-industriale – bisognerebbe contrapporre una strategia altrettanto complessiva ed internazionalmente diffusa. Molti “indignati” che scendono in piazza contro chi vorrebbe accollare alla gente comune il debito pubblico fanno spesso riferimento ad alcune delle ‘teste’ di quella che Livergood definisce una vera e propria ‘idra’, fra cui la Banca Mondiale (W.B.) ed il Fondo Monetario Internazionale. (I.M.F.). Pochi di essi, però, si rendono conto dell’intreccio fra: (a) piani di delocalizzazione delle aziende voluti dalle multinazionali; (b) coperture governative e finanziarie a queste operazioni speculative, in primo luogo sullo scenario asiatico; (c) crescita delle esportazioni di armamenti a tali paesi come ulteriore leva di controllo anche sul piano militare; (d) acquisizione a prezzi stracciati, da parte del capitalismo-avvoltoio, di banche, fabbriche ed interi patrimoni, non appena gli stati-cliente cominciano ad ‘andare sotto’; (e) offerta di prestiti e finanziamenti – da parte di IMF e WB – alle economie più fragili, in cambio di drastiche misure di riduzione delle garanzie ai lavoratori ed ai pensionati; (f) ulteriori operazioni speculative sul piano finanziario e monetario ai danni di tali ‘economie fragili’, in questo modo ancor più assoggettabili.
Per un movimento ecopacifista – o che, quanto meno, abbia l’ecopacifismo tra i suoi principi ispiratori – non mancherebbero le occasioni per sottolineare queste perverse connessioni e per intraprendere battaglie che vadano ad incidere sulle tre dimensioni delle questioni citate. Difendere l’acqua come bene comune o sconfiggere il nucleare civile, come ho già accennato, sono state poste come scelte il cui peso andava ben oltre la difesa dell’ambiente, coinvolgendo molti altri aspetti.
Agli italiani/e più sensibili e consapevoli, infatti, non è certo sfuggito che i quesiti referendari ponevano con forza anche altre questioni: rivendicazione del diritto alla salute, autogestione delle risorse naturali, opposizione al nucleare di guerra, riaffermazione della democrazia dal basso e della partecipazione popolare, sfida alle multinazionali che da tempo stanno privatizzando e controllando i beni comuni, fuoriuscita da meccanismi di subalternità verso le scelte dei paesi economicamente, politicamente e militarmente egemoni.
Eppure bisognerebbe fare molto di più. Se soltanto facciamo una rapida rassegna dei principi fondativi delle più conosciute organizzazioni ambientaliste del nostro Paese, ad esempio, emerge chiaramente che solo poche coniugano nei loro statuti l’ecologia col perseguimento d’una società più giusta e più pacifica. Se tralasciamo il caso classico di Greenpeace , associazione internazionale ispirata da principi nonviolenti ed il cui ecopacifismo traspare dallo stesso nome , riferimenti espliciti li troviamo solo in alcune realtà associative. E’ il caso di Legambiente, nel cui statuto leggiamo, all’art. 2 comma 6: “È un’associazione pacifista e non violenta, si batte per la pace e la cooperazione fra tutti i popoli al di sopra delle frontiere e delle barriere di ogni tipo, per il disarmo totale nucleare e convenzionale” . Ciò è vero anche per l’associazione Verdi Ambiente e Società, nel cui documento statutario, all’art. 3, troviamo scritto che V.A.S. : “… (2) promuove e favorisce le iniziative che, nel rispetto dei valori e dei diritti umani civili e sociali e nella salvaguardia del patrimonio naturale e storico-culturale, consentano l’equo impiego delle risorse disponibili, per il superamento degli squilibri economici-sociali, delle sacche di sottosviluppo e delle contraddizioni esistenti tra uomo, natura ed ambiente; (3) promuove e favorisce la cultura ambientalista, eco-solidale ed eco-pacifista…”
Delle circa ottanta organizzazioni ambientaliste riconosciute dal governo italiano , solo un’esigua minoranza dichiara di perseguire finalità non circoscritte esclusivamente alla protezione dell’ambiente ma d’impegnare anche per un mondo più giusto e senza violenza. Se andiamo a scorrere l’elenco di queste associazioni, inoltre, si nota poi, a partire dalle stesse denominazioni, che gran parte di loro non si occupa nemmeno di ambiente a tutto tondo, bensì di questioni spesso specifiche se non settoriali (caccia, animalismo, urbanistica, ambiente alpino, tutela avicola, salvaguardia dei mari e delle coste, ciclismo etc.).
E’ evidente, pertanto, che di strada da percorrere ce n’è ancora molta e che, tenendo conto anche della crisi attuale del movimento pacifista in Italia, sempre più frammentato e privo di prospettive condivise di alternative alla guerra, si tratta oggettivamente di un percorso molto difficile. Esistono, però, alcune questioni sulle quali si potrebbe da subito cercare la convergenza operativa delle organizzazioni ecologiste e di quelle pacifiste. La prima è certamente quella relativa alle scorie nucleari ed al loro ritrattamento, finalizzato alla fabbricazione di armamenti atomici. La seconda è senz’altro la battaglia contro la presenza di natanti a propulsione nucleare in alcuni porti del nostro Paese. Un’altra potrebbe essere, inoltre, il rilancio del rischio ambientale connesso all’inquinamento elettromagnetico generato da mostruosi apparati (stazioni radar e per telecomunicazioni), massicciamente presenti in basi ed aeroporti militari collocati in aree densamente urbanizzate. Non dimentichiamo, poi, le campagne contro le c.d. “banche armate”, finanziatrici dell’industria bellica, cointeressate in molte imprese industriali multinazionali ed in speculazioni edilizie, anche se spesso ipocritamente atteggiate a benefattrici dell’umanità o perfino sponsor di progetti di recupero ambientale.
Se soltanto riuscissimo a coagulare intorno a queste quattro tematiche un nucleo di movimento ecopacifista, penso che sarebbe già un passo notevole verso la creazione di una realtà più qualificata, che non si limiti a fare “fronte comune” ma sappia pensare più globalmente.
Un tentativo in tal senso lo stiamo facendo da anni noi di VAS in Campania, aderendo ad una preesistente rete operativa (il Comitato Pace, Disarmo e Smilitarizzazione del Territorio) ed offrendo il nostro contributo fattivo sulla vertenza relativa al rischio nucleare nel porto di Napoli , ma anche sull’opposizione alla presenza di comandi strategici e basi militari – sia USA sia della NATO – nel cuore della città capoluogo (Bagnoli, Nisida, Capodichino) e nell’intera regione Campania (in primo luogo il nuovo Comando alleato presso il Lago Patria (Giugliano).
Rilanciare l’ecopacifismo come un vero e proprio “programma costruttivo” in alternativa ad un mondo sempre più militarizzato ed asservito alle multinazionali è però un obiettivo più grande ed ambizioso, cui tutti sono chiamati a dare un contributo. Prima che sia troppo tardi.

RIFERIMENTI:

1 V.A.S. è l’acronimo di “Verdi Ambiente e Società”, associazione – onlus riconosciuta dal Min. dell’Ambiente fin dal 1994 come ‘organizzazione nazionale di protezione ambientale’ (www.vasonlus.it ). La “Festa della Biodiversità” è stata organizzata a Napoli – dal 200 al 2004 – a cura del Coordinamento Regionale Campania di VAS.
2 Ermete Ferraro, Quale ecopacifismo? in “Biodiversità a Napoli” – suppl. a Verde Ambiente, anno xx, n. 2 (mar.-apr. 2004, pp. 21-27). Per altri contributi di E.F. cfr. la bio-bibliografia sul suo sito web: http://www.ermeteferraro.it .
3 Vedi: N. Bergantiños, P. Ibarra Guel, Eco-pacifismo y Antimilitarismo. Nuevos movimientos sociales… ; Ecopacifismo: unha proposta; E. Campomanes, Los Verdes del Estaso Español: ¿Reformismo politico o ecopacifismo radical? ; Cielo Abierto, ¿Que es el Eco-pacifismo?
4 D. Llistar i Bosch, Environmentalism and Peace, in http://www.visionofhumanity.org (nov. 2010)
5 E. Ferraro, Quale ecopacifismo? , cit, p. 24
6 Johan Galtung, Ambiente sviluppo e attività militari, Torino, E.G.A., 1984
7 Vedi, ad es., fra gli altri, gli interessanti contributi di Virginio Bettini, Paolo degli Espinosa, Giuliana Martirani, Giorgio Nebbia ed Antonio D’Acunto. Per quest’ultimo – col quale condivido da molti anni le battaglie eco pacifiste in Campania – visita anche il sito http://www.terraacquaariafuoco.it , che raccoglie i suoi principali contributi.
8 In questa prospettiva cfr. alcuni contributi di E. Ferraro: Laude della biodiversità , Napoli, VAS, 2005; Adam-adamàh: un’agape cosmica, Bologna, Filosofia Ambientale (gen. 2008); Il Salmo del Creato, Bologna, Filosofia Ambientale (mar. 2009) vedi: http://www.filosofia-ambientale.it
9 Cfr. E. Ferraro, Sobrietà, essenzialità e giustizia per una vera conversione ecologica, pubbl. a set. 2008 su http://www.scrivi.com; vedi anche i vari articoli postati sul mio blog “Pacebook” e riferibili al tema dell’ ecoteologia.
10 D. Llistar i Bosch, op. cit. (trad. mia).
11 G. Nebbia, Pace e ambiente, editoriale (set. 2011) su http://www.vasonlus.it
12 Ibidem
13 Vedi: Norman D. Livergood, Vulture Capitalism, in: http://www.hermespress.com (1999 ?)
14 “Our core values”, in: http://www.greenpeace.org/international/en/about/our-core-values/
15 Statuto di Legambiente: http://www.legambiente.it/sites/default/files/docs/statuto.pdf
16 Statuto di Verdi Ambiente e Società Onlus: http://www.vasonlus.it/chi-siamo/statuto
17 Vedi: http://www.isprambiente.gov.it/site/it-IT/ISPRA/Organizzazioni_ambientali/L’ambiente_in_Italia/Associazioni_ambientaliste/
18 Ermete Ferraro, A propulsione anti-nucleare (15 anni di lotte ecopacifiste di VAS per la sicurezza del cittadini e per la denuclearizzazione del porto di Napoli.

DA ECOPACIFISTI, CONTRO IL TERRORISMO DI STATO D’ISRAELE

di Guido Pollice ed Ermete Ferraro.

Image44I tragici avvenimenti cui abbiamo assistito, e le troppe reazioni ipocrite che abbiamo registrato di fronte all’atto di pirateria e di terrorismo posto in atto da Israele, richiedono una fermezza ed una chiarezza che non si nasconda dietro a nessun ‘se’ e nessun ‘ma’. Ci hanno abituato alle mezze parole, alle frasi ambigue ed untuosamente diplomatiche e, anche in questo caso, non si è mancato di evocare gli spettri dell’antisemitismo e del terrorismo filo-arabo, per offrire impossibili giustificazioni ad un sanguinoso e premeditato atto di guerra, perpetrato dalle forze armate israeliane contro una spedizione umanitaria internazionale ed assolutamente disarmata.
Da ecologisti e da pacifisti sappiamo bene che nessuna realtà è mai del tutto bianca o nera e che le rigide contrapposizioni di principio vanno evitate, nella misura in cui non aiutano a risolvere i conflitti e rischiano di demonizzare le diversità. Non possiamo però tacere di fronte ad uno sfrontato atto di terrorismo di stato, che ha fatto strage non solo di esseri umani inermi, ma anche di qualsiasi rispetto del diritto internazionale, che mette al bando gli interventi di guerra contro civili e non ha mai giustificato l’aggressione e l’oppressione di un intera popolazione, costretta a sopravvivere a stento in un carcere a cielo aperto. Da ecopacifisti, quindi, protestiamo ancora una volta contro l’assurdo sequestro da parte degli Israeliani della comunità palestinese, cui gli attivisti per la pace e i diritti umani della “Freedom Flotilla” stava portando aiuti umanitari e la solidarietà di chi non può accettare che un popolo viva da schiavo sul proprio territorio. Gaza e le altre cittadine di quell’area devono vivere liberamente ed esercitare i loro diritti, che si riassumono nel binomio terra e libertà, resi impossibili dallo stato d’assedio e d’embargo, che perpetuano lo stato di guerra.
Un principio irrinunciabile per chi, come noi, difende da sempre la pace e l’ambiente, intendendole non come problematiche giustapposte ma come due facce della stessa lotta alla violenza ed allo sfruttamento, è quello sancito dall’art.3 della “Carta della Terra”: “ Costruire società democratiche che siano giuste, partecipative, sostenibili e pacifiche”. Ciò significa, come precisa quel fondamentale documento: “ (a) Assicurare che le comunità a ogni livello garantiscano i diritti umani e le libertà fondamentali e forniscano a tutti l’opportunità di realizzare appieno il proprio potenziale. (b) Promuovere la giustizia sociale ed economica, per permettere a tutti di raggiungere uno standard di vita sicuro e dignitoso, che sia ecologicamente responsabile.”. Ecco perché VAS, insieme con altre organizzazioni ecologiste e pacifiste, si è battuta e si batterà sempre perché la comunità internazionale esca dalle ambiguità e non si limiti a condannare a parole uno Stato che, di fatto, continua a godere di una vergognosa impunità. Esso, invece, va sanzionato con provvedimenti chiari ed efficaci, che mettano al bando il terrorismo bellicista del governo d’Israele e ne colpiscano i ramificati e potenti interessi economici, che sono poi gli stessi che gli garantiscono tale copertura.
“Promuovere una cultura della tolleranza, della nonviolenza e della pace” – per citare ancora la ‘Carta della Terra’ – significa sostenere la solidarietà e la cooperazione internazionale, ma anche adoperarsi per adottare strategie di azione che, rigettando la violenza, impieghino tecniche d’azione fondate sulla non collaborazione, sul boicottaggio e sull’opposizione ad ogni forma di militarismo, di consolidamento del complesso militare-industriale e di proliferazione nucleare. Ecco perché VAS condanna l’omicida e suicida politica dello Stato d’Israele e si associa a quanti chiedono con forza un’inchiesta internazionale sui tragici avvenimenti di questi giorni e l’adozione di dure sanzioni economiche contro chi ne è stato protagonista e, da troppo tempo, sta condannando il popolo palestinese alla disperazione, violandone i diritti umani elementari. Ma dei governi, a partire dal nostro, non ci fidiamo e perciò, da nonviolenti, aderiamo alla campagna di boicottaggio ‘dal basso’ degli interessi economici d’Israele. Da eco pacifisti, non possiamo accettare una logica di sopraffazione dei diritti e di terrorismo di stato e dunque ci schieriamo con chi non si rassegna alla violenza ed all’oppressione e non intende tacere, rendendosi così complice di chi ne è responsabile.

(C) WWW.VASONLUS.IT – 7 GIU. 2010

EDUCAZIONE LINGUISTICA NONVIOLENTA

A distanza di 25 anni da quando ho scritto "GRAMMATICA DI PACE: OTTO TESI PER UNA EDUCAZIONE LINGUISTICA NONVIOLENTA" (Torino, Satyagraha, 1984), mi sono accorto che ben poco si è mosso su questo terreno in questo lungo periodo. Quasi un quarto di secolo dopo quella mia modesta proposta, infatti, parecchia acqua è comunque passata sotto i ponti della conoscenza delle questioni relative all’educazione alla pace e della diffusione – nella scuola e fuori – di progetti formativi che andassero in quella direzione. Non altrettanto è successo, invece, nel caso di proposte che – come la mia o quella di Gino Stefani per l’educazione musicale – cercavano di uscire dalla genericità di un’educazione alla pace troppo centrata sui macro-conflitti, puntando ad offrire a docenti ed animatori degli strumenti concreti per abituare i ragazzi ad un dialogo autentico e costruttivo, che nascesse soprattutto da una comunicazione onesta, empatica e nonviolenta.
Per riprendere il filo di quella mia ipotesi di "GRAMMATICA DI PACE", con due decenni in più di esperienza didattica sulle spalle, mi è sembrato che fosse il caso di tornare a parlare di questi aspetti, relativamente ad una "educazione linguistica" che, a sua volta, da troppo tempo si è ridotta al puro e semplice insegnamento dell’ Italiano e, per di più, in chiave sempre più normativa e tradizionale.
Eppure credo che non sfugga a nessuno che insegnare la comunicazione linguistica va molto oltre l’addestramento dei più piccoli all’uso corretto e variato della propria lingua. Il fatto stesso che essa sia anche il veicolo per studiare tutte le altre discipline, e quindi per comprendere e far proprio il mondo della conoscenza più in generale, pone infatti l’educazione linguistica (E.L.) su un piano oggettivamente diverso, lasciando a chi l’insegna una responsabilità che va molto oltre i risultati strettamente didattici.
Ecco perché ho pensato che valesse la pena di rispolverare il mio vecchio contributo e di cominciare nuovamente a parlarne nella scuola, insieme con altre due qualificate proposte come quella di M. R.Rosemberg sulla "COMUNICAZIONE NONVIOLENTA" (1998) e quella di J. Liss sulla "COMUNICAZIONE ECOLOGICA" (1992).
Ho iniziato il mio giro da una scuola media del Vomero (il quartiere collinare di Napoli) dove proprio oggi ho incontrato due terze classi, alle quali ho parlato di queste tre ipotesi di lavoro per educarci ad una lingua che sappia costruire ponti di dialogo e non muri di separazione. Per questa occasione ho predisposto una sintetica presentazione in "power point" che, introdotta da un "brainstorm" e conclusa da un confronto diretto coi ragazzi/e, mi ha permesso di riprendere un discorso che, mai come adesso, mi sembra importante ed urgente. Per visionare le ‘slides’ della presentazione, basta visitare il mio sito: http://www.ermeteferraro.it e cliccare sul link relativo alla notizia riportata nella homepage.
© 2010 Ermete Ferraro

COMUNICARE PACE

imagesCACYNJI1EDUCAZIONE LINGUISTICA PER LA PACE
Un percorso formativo alla comunicazione nonviolenta

> Destinatari:
la proposta è rivolta agli alunni/e delle classi II e III della scuola media e s’inserisce in un più generale percorso didattico di educazione alla pace ed alla convivenza civile e nonviolenta.

>> Finalità dell’iniziativa:
gli incontri con gli alunni/e sono finalizzati ad una loro sensibilizzazione all’importanza di una relazione interpersonale che, a partire dalle modalità comunicative, sia capace di creare scambio, condivisione e cooperazione anziché alimentare incomprensione, ostilità e sopraffazione reciproche. L’obiettivo più specifico è quello di offrire un saggio di un più ampio percorso di educazione alla comunicazione nonviolenta, indicando ad alunni e docenti alcuni possibili approcci metodologici da sviluppare opportunamente.

>>> Modalità della proposta:
ogni incontro (per non più di di 25-30 alunni/e alla volta e per una durata di 100 minuti complessivi)seguirà questa modalità operativa: (a) Breve presentazione della tematica e del relatore; (b) “brainstorm” iniziale, per evidenziare alcune “parole-chiave” da cui partire; (c) sintetica illustrazione di tre metodologie per l’educazione alla comunicazione nonviolenta (ECN): (i) l’educazione linguistica nonviolenta di E. Ferraro; (ii) la “comunicazione nonviolenta” di M. R. Rosemberg e (iii) la “comunicazione ecologica” di J. K. Liss; (d) discussione aperta con gli alunni/e, a partire dalle parole-chiave evidenziate ed alla luce della presentazione; (e) valutazione conclusiva dell’esperienza fatta e gioco di chiusura. A distanza di alcuni giorni dall’incontro, agli alunni/e partecipanti sarà proposto un breve questionario di verifica dell’effettiva comprensione di quanto è stato loro proposto (feed back). Sarebbe auspicabile un successivo incontro con i docenti interessati della/e classe/e coinvolta/e nell’esperienza, cui sarà comunque proposta una breve bibliografia di approfondimento.

>>>> Animatore dell’iniziativa:
Ermete Ferraro (Napoli 1952) ha conseguito la Laurea in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Napoli "Federico II" e, in seguito, il Diploma Triennale di Assistente Sociale. Si è abilitato all’insegnamento delle discipline letterarie e del latino per gli istituti superiori e, in seguito a Concorso abilitante per l’insegnamento di materie letterarie nelle scuole medie , è diventato docente di ruolo di Lettere, dapprima alla S.M.S. "Card. Maglione" di Casoria-NA e successivamente alla S.M.S. "A. Sogliano" di Napoli, dove insegna tuttora, svolgendovi anche la funzione strumentale per "disagio e dispersione".
Tra i primi obiettori di coscienza napoletani, da oltre 35 anni è impegnato nei seguenti campi: nonviolenza, disarmo, difesa alternativa, educazione alla pace e ricerca sulla pace, eco pacifismo ed ecologia sociale.
Animatore socioculturale ed operatore sociale di gruppo e di comunità (1974-84) presso il Centro Comunitario della “Casa dello Scugnizzo” di Napoli, negli ultimi dieci anni si sta occupando dell’omonima Fondazione-onlus come coordinatore ed amministratore sociale.
Operatore pastorale presso la Parrocchia Santa Maria della Libera, segue le attività della Caritas e, in modo più specifico, è responsabile di uno sportello di ascolto e di counseling socio-educativo per minori.
E’ autore di alcuni libri e saggi (fra cui uno sulla Educazione Linguistica Nonviolenta) e si occupa di varie questioni, dalla nonviolenza e l’educaz. alla pace all’educaz. ambientale ed alle problematiche del servizio sociale e dello sviluppo comunitario. Per maggiori informazioni visitare il suo sito personale: http://www.ermeteferraro.it il suo blog: http://ermeteferraro.splinder.com ed il suo educational website : http://ermeteferraro.weebly.com
–> Contatti: prof. Ermete FERRARO > via F. Cilea 112 – 80127 Napoli – tel/fax: 081 5799539 – mobile: 349 3414190 – email: ermeteferraro@alice.it