Alfabeto ecopacifista (D-E-F)

D COME…DECENTRAMENTO

Da sempre, il problema principale da affrontare – per chi intenda cambiare gli equilibri politici a tutti i livelli, ma ancor più per chi voglia partire ‘dal basso’ – è quello del potere. La nostra società e le nostre istituzioni si definiscono infatti ‘democratiche’, rifacendosi al classico concetto di ‘potere del popolo’, però troppo spesso il potere è esercitato ‘per’ il popolo, solo teoricamente in suo nome, senza restituirlo davvero ‘al’ popolo. Mai come in questi ultimi decenni, poi, i timidi tentativi di democratizzare davvero le nostre istituzioni, portando l’esercizio della decisionalità a livelli più prossimi alla base popolare, sono stati sommersi dalla crescente tendenza centralistica e verticistica di una politica sempre più autoreferenziale, personalistica e professionistica. In effetti, ormai non si parla quasi più non solo di ‘democrazia diretta’ o di ‘socialismo autogestionario’, ma neanche di puro e semplice decentramento del potere, di devoluzione delle scelte a livelli più vicini alle comunità che in tal modo finiscono con l’esserne solo l’oggetto, il terminale, e non certo il soggetto attivo e responsabile.In una realtà politica che sta tornando maledettamente piramidale, dominata dai potentati economici e guidata da quelli tecnocratici, il ‘medioevo prossimo venturo’ (per prendere in prestito il titolo d’un noto libro di Roberto Vacca), gli enti locali appaiono sempre meno importanti e, a loro volta, stanno dando sempre meno importanza al decentramento amministrativo, pur contemplandolo nei propri statuti. In una società dove il vertice punta pericolosamente alla ‘one man leadership’ e dove le cariche intermedie stanno avvicinandosi al ruolo di fedeli vassalli del ‘principe’, si ha sempre più la sensazione che la contrapposizione fra governo centrale e autonomie territoriali assomigli più alla ribellione di feudatari in cerca di potere e risorse che alla rivendicazione di un’autonomia fondata sul principio della restituzione alle comunità della loro capacità di autodeterminarsi.Ritornando al livello comunale, con rare eccezioni, il decentramento amministrativo appare sempre più un concetto solo teorico. Si dice che le persone non partecipano, che non s’interessano alla ‘cosa pubblica’, che preferiscono protestare piuttosto che impegnarsi in prima persona. Ma la verità è che la pseudo- democrazia degli attuali ‘parlamentini’ municipali non ha molto a che fare con la democrazia partecipativa, col controllo popolare e col protagonismo civico. Si tratta troppo spesso di scatole piuttosto vuote, inserite ad incastro dentro la scatola comunale, e delle quali la cosiddetta ‘elezione diretta’ dei presidenti ha finito con l’omologare opportunamente gli equilibri politici, in modo da non disturbare troppo i manovratori. Eppure la parola ‘municipio’ deriva dal latino ‘munia capere’, cioè assumersi i doveri, gli impegni e le responsabilità della ‘civitas’. Il decentramento amministrativo nel Comune di Napoli – varato nel 2005 dopo l’esperienza delle ‘circoscrizioni’ – è regolato da un atto che, all’art. 1 così recita: “2. Le Municipalità sono soggetti titolari di ampie ed accentuate forme di decentramento di funzioni e di autonomia organizzativa e funzionale e realizzano un’effettiva e democratica partecipazione popolare alla gestione amministrativa della Città da parte della comunità locale. 3. Le Municipalità, quali organismi di governo del territorio, di esercizio delle competenze ad esse attribuite dallo Statuto, di consultazione e di partecipazione, costituiscono espressione dell’autonomia comunale nei limiti fissati dalla legge, dallo Statuto e dal presente Regolamento. 4. Le Municipalità, a norma dello Statuto, hanno un proprio ordinamento dei servizi e degli uffici approvato dalla Giunta comunale nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal Consiglio Comunale per l’ordinamento del Comune e nei limiti delle risorse umane assegnate”. (Comune di Napoli, Regolamento delle Municipalità, adottato con Del. Consiglio Comunale n. 68/2005). Le parole-chiave emergenti sono: ‘autonomia’, ‘partecipazione popolare’ e ‘governo del territorio’. Dopo 16 anni di questo decentramento ‘municipale’ a Napoli, però, tanti cittadini stanno ancora chiedendosi quanto siano autonomi i parlamentini locali, quale partecipazione abbiano effettivamente suscitato e di quale ‘governo del territorio’ si siano finora rese protagoniste… Certo, lo Statuto attribuisce alle Municipalità determinate ‘competenze’, però il loro esercizio effettivo resta comunque condizionato dalle risorse (economiche ed umane) loro riservate, che sembrano più che altro sufficienti alla loro esistenza ed a pochi interventi territoriali, nella cui gestione ovviamente entrano in ballo gli ‘uffici comunali’ e le loro priorità. Eppure le circoscrizioni/municipalità potevano diventare un reale esempio di esercizio decentrato e dell’amministrazione comunale, un’antenna capace di percepire i bisogni delle comunità locali e di rispondervi in modo più adeguato, diretto e partecipato. Avrebbero potuto essere delle occasioni di progettazione collettiva e dal basso, di controllo popolare e di trasparenza degli atti amministrativi, luoghi di socialità diffusa e di confronto e sintesi fra interessi differenti. Non organismi dove giocare alla politica, in attese di riuscire ad occupare un posto a livello comunale, magari scoprendo che anche lì si discute sempre meno e si decide ben poco. Un grande filosofo e teorico italiano della Nonviolenza attiva, Aldo Capitini, già negli anni ’60 del secolo scorso aveva teorizzato il concetto di ‘omnicrazia’, cioè il ‘potere di tutti’, il potere condiviso e dal basso da contrapporre alla finta democrazia di chi si dichiara interprete del ‘popolo’ senza neppure interpellarlo e renderlo partecipe. «L’opposto dell’assemblea è la tecnocrazia. L’obbiezione piú frequente che viene fatta ai sostenitori della democrazia diretta è che le condizioni attuali della civiltà e i compiti che stanno davanti ai dirigenti delle comunità umane sono tali che esse richiedono un potere non condiviso, disperso, ignorante, ma concentrato e competente. Se vogliamo, si dice, che l’insieme abbastanza complesso della società attuale funzioni, dobbiamo affidarci ai tecnici, cioè a persone che siano capaci di guidare tale funzionamento. È evidente che il potere dei competenti o tecnici va condizionato. […] Lo scopo è, dunque, di contenere le pretese dei tecnici, soprattutto impedendo che essi diventino burocrati e accrescano all’infinito il loro potere. […] Forse ha preso la mano il criterio dell’efficienza, e non sono state considerate abbastanza le conseguenze dell’abbandono del controllo sui tecnici e i burocrati. Le società attuali sentono sempre meno l’obbligo di tenere un conto adeguato dei due elementi, che trasformano la democrazia in omnicrazia: le assemblee e l’opinione pubblica». (Aldo Capitini, Attraverso due terzi del secolo. Omnicrazia: il potere di tutti (pp.84-86) > https://www.fondowalterbinni.it/…/Attraverso-due-terzi… .Ecco, perché le elezioni amministrative non siano uno stanco rituale che conferma uno scenario tecnocratico e politicante, bisogna rimettere tra le priorità politiche quella di un autentico decentramento e formare persone che entrino in quei ‘parlamentini’ con spirito critico, autonomia di giudizio e voglia di farli diventare un reale momento di partecipazione. In nome della nonviolenta ‘omnicrazia’ capitiniana e/o di quel ‘potere al popolo’ che dovrebbe essere il marchio di una sinistra degna di questo nome.

E COME …ELETTROSMOG

Evidentemente, dai ‘radar’ della nostra informazione (giornalistica, radio-televisiva e genericamente mediatica) è da parecchio tempo sparito ogni riferimento ai problemi e le criticità riguardanti il c.d. ‘elettrosmog’, termine improprio ma efficace per indicare l’inquinamento elettromagnetico. Eppure si tratta di una questione molto importante, di interesse collettivo e quanto mai attuale, soprattutto in una fase in cui ‘digitalizzazione’ è diventata la parola-chiave (o meglio, una sorta di comodo passepartout) da accostare a qualunque progetto, si tratti di scuola, di pubblica amministrazione, di intrattenimento televisivo oppure di modernizzazione dei sistemi produttivi. Tutto, insomma, sembra orbitare intorno al nuovo ‘sol dell’avvenire’ della digitalizzazione, presentata come ovvia ed immancabile soluzione ad ogni problema della società, sorvolando opportunamente sul fatto che, a sua volta, comporta seri problemi di ordine ambientale e sanitario. Ma, a quanto pare, non bisogna parlarne se non si vuol essere considerati degli inguaribili passatisti, dei fastidiosi contestatori del progresso tecnologico, per non parlare poi di altri epiteti riservati a chi si permette di obiettare a queste granitiche certezze, tipo ‘complottista’o peggio. Eppure – mentre i nostri tiggì e giornaloni ci ammannivano la quotidiana dose di informazioni non richieste sull’andamento dei contagi da covid – ben pochi hanno ritenuto opportuno informare gli italiani che, a vent’anni dalla legge quadro, qualcuno in Parlamento (il gruppo di ‘Italia Viva’, giusto per precisare…) ha provato ad alterare profondamente la cornice normativa relativa ai limiti di esposizione alle radiofrequenze, con emendamenti presentati per alzare i limiti previsti «Verso metà luglio 2021, in sede di conversione del decreto legge sulla cosiddetta governance da semplificare per il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) è stato proposto di alzare uno dei limiti da 6 a 61 volt per metro (parliamo delle radiofrequenze), sorprendente visto che 6 volt per metro era stato introdotto già prima della legge quadro (in un atto del 1998 che sollecitò di fatto la stessa normativa generale) e solo ribadito dopo. […] Si tratta dell’esposizione della popolazione ai campi connessi al funzionamento e all’esercizio dei sistemi fissi delle telecomunicazioni e radiotelevisivi operanti nell’intervallo di frequenza compreso tra 100 kHz e 300 GHz: gli impianti fissi di telefonia mobile, quelli per la generazione e trasmissione dei segnali radio e tv, inclusi i ponti radio, quelli di comunicazione satellitare….» (Valerio Calzolaio, “Torna attuale la legge italiana sull’inquinamento elettromagnetico”> https://ilbolive.unipd.it/…/torna-attuale-legge… ). La polarizzazione su tale questione – per di più utilizzando surrettiziamente un voto alla Camera come grimaldello per scardinare quel minimo di garanzie esistenti in materia – è indice della compiacenza di gran parte del nostro universo politico verso i grandi operatori privati, che dalla tanto sbandierata ‘rivoluzione digitale’ cercano di ricavare il massimo del profitto, alla faccia del principio di precauzione, della salute della gente e delle ‘fissazioni’ degli ambientalisti e dei medici per l’ambiente. Nell’articolo citato, il prof. Calzolari auspica che: «… riprenda un percorso trasparente e partecipato, consapevole che le nuove tecnologie sono risorse da usare, ciascuno e tutti, con cognizione di causa, anche attraverso ponderati scientifici studi di carattere previsionale che mettano a confronto benefici e criticità, ovvero le ricadute ambientali, epidemiologiche e sociali». Ma, purtroppo, è evidente che su questa materia non c’è uno straccio di trasparenza, per non parlare della consapevolezza e della partecipazione dei cittadini, trattati solo come ‘consumatori’ compulsivi di smartphone, tablet e computer. L’impronta ‘digitale’ degli italiani, infatti, sembra stare a cuore dei nostri amministratori pubblici molto più di quella ecologica, alla cui ormai palese insostenibilità rispondono con un opportunistico e ridicolo ‘green-washing’ d’occasione. Ma cosa c’entra questa vicenda con le amministrative e con Napoli? Ormai da decenni gli ambientalisti si battono per far rispettare i limiti già discutibili fissati per legge e le compatibilità con civili abitazioni, scuole e strutture sanitarie, ma soprattutto perché i Comuni si dotino finalmente di un vero strumento di pianificazione degli impianti (in particolare antenne per radiofrequenza) già installati e programmati, rendendo trasparenti i processi autorizzativi e soprattutto le risultanza dei monitoraggi dell’inquinamento elettromagnetico in area urbana. Forse non l’hanno fatto in modo abbastanza efficace e convinto, ma è innegabile che su questo problema non c’è un vero dibattito e gli stessi cittadini si mobilitano solamente quando si vedono spuntare come un fungo una mega-antenna sul terrazzo di casa.A metà luglio, varie organizzazioni di medici e di ambientalisti hanno inviato una lettera-appello a Mattarella e a Draghi, nella quale esprimevano il loro allarme per la proposta di I.V. citata, ma anche per altri analoghi tentativi di scardinare le garanzie di legge in materia. «Inoltre, i gruppi politici Pd, Fratelli d’Italia, Forza Italia propongono emendamenti al piano antenne con il proposito di abolire i vincoli paesaggistici e di impedire agli enti locali la tutela di luoghi sensibili (scuole, parchi gioco, luoghi di cura). La finalità è spianare la strada all’implementazione del 5G che incrementerà enormemente l’irradiazione della popolazione esponendola a numerosi rischi sanitari…». (Val. Murr. “Innalzamento dell’esposizione alle radiofrequenze: l’appello ora anche ai parlamentari” > https://www.lecceprima.it/…/associazioni-scrivono… ). A Napoli, purtroppo, la situazione non è per niente rosea. Poco più di un anno fa, ad esempio, si è registrata la vittoria dei comitati di cittadini di Cavalleggeri Aosta in lotta contro l’installazione di antenne 5G sui piloni della Mostra d’Oltremare. Ma si tratta di episodi estremamente frequenti, cui non tutti sanno o possono opporsi con risolutezza e col giusto apporto tecnico e legale. Ecco perché – proprio quando si parla di programmi elettorali per una Napoli più vivibile ed ecosostenibile, sarebbe indispensabile ritornare a discutere di inquinamento elettromagnetico, restituendo al Comune la sua funzione di pianificatore – urbanistico e socio-ambientale – di questo genere d’ impianti e di controllore degli abusi. C’è chi da anni pratica e predica l’antenna selvaggia come simbolo del progresso tecnologico, magari in nome della democratizzazione informatica e, laqualunquemente, dello slogan ‘più onde per tutti’… Le antenne per la telefonia mobile sono diventate ormai un elemento fisso del panorama di Napoli, sbucando perfino dai campanili delle chiese e da ville settecentesche. Già un anno e mezzo fa i comitati napolitani contro i ripetitori si erano mobilitati e numerose interrogazioni erano state presentate anche all’Amministrazione comunale, denunciando che si era già arrivati a contare oltre 900 antenne e microcelle, sul cui regolare monitoraggio era lecito dubitare. Il fatto che le onde elettromagnetiche non si vedono, mentre l’inquinamento da smog e polveri sottili è ovviamente più evidente ed innegabile, non è una buona ragione per lasciarsi friggere il cervello, solo per essere più ‘smart’ e ‘moderni’. Un programma ecologista per la nostra Città dovrà tenerne conto.

F COME… FUNICOLARI

Forse la nostra Città, racchiusa fra l’area litoranea e la fascia collinare, non poteva avere immagine migliore, come sistema di trasporti pubblici e collettivi, dei suoi caratteristici trenini a fune. Non era neanche iniziato il XX secolo, infatti, quando Napoli aggiunse ai suoi tanti primati anche quello della prima funicolare. Nel 1889 fu inaugurata quella di Chiaia: poco più di mezzo chilometro per collegare linearmente e velocemente piazza Amedeo con via Cimarosa, nel nuovo rione Vomero, appena edificato grazie ai finanziamenti della Banca Tiberina. Seguì nel 1891 la funicolare di Montesanto, che superava un dislivello di 160 metri, unendo la zona alta del nuovo quartiere ‘borghese’ con l’antico rione popolare della Pignasecca. Dopo 37 anni, nel 1928, fu la volta di quella che non a caso fu chiamata ‘Centrale’, dal momento che dal Vomero si poteva facilmente raggiungere il cuore storico di Napoli, cioè via Toledo, con un percorso lungo 1270 metri. L’ultima funicolare, quella tra via Manzoni e Mergellina, fu costruita nel 1931 superando una pendenza del 46%, per assecondare lo sviluppo abitativo dell’area collinare di Posillipo. Quella storica ed originale rete ferroviaria urbana, nata per connettere l’ex collina verde ‘dei broccoli’, trasformata in lussuoso quartiere residenziale, con la brulicante realtà cittadina di “giù Napoli”, fu simbolo d’un modello di sviluppo urbanistico predatorio e classista, ma anche di un’efficienza ingegneristica di cui si sono perse le tracce. Se infatti paragoniamo la storia delle quattro funicolari collinari con la travagliata storia della nuova linea metropolitana (che si aggiunse nel 1925 a quella storica, primo esempio italiano di ‘metrò’ cittadino), è difficile non coglierne la differenza. Dopo i primi tentativi già dalla metà degli anni ’70, il primo tratto (Vanvitelli-Colli Aminei) della linea 1 della nostra nuova metropolitana vide la luce solo nel 1993, seguito due anni dopo dal quello che raggiungeva Piscinola. Solo nel nuovo secolo (2001) si raggiunse il centro storico, con le fermate S. Rosa, Materdei e Dante, ma ci volle un altro ventennio (2011-13) per aggiungere al percorso metropolitano le stazioni di Toledo, Università e Garibaldi. La conformazione geologica di Napoli, l’edificazione selvaggia ed i vincoli storici ed archeologici hanno ovviamente complicato e rallentato molto la corsa del nostro trenino giallo, che – dopo 20 anni di lavori – ha finalmente inaugurato la fermata ‘Duomo’. La pur lodevole tendenza a fare delle sue fermate una specie di museo aperto, d’altro canto, ha risucchiato moltissime risorse, esaltando sì l’aspetto estetico della nostra metropolitana, ma mettendo in secondo piano la sua efficienza come mezzo rapido e regolare di trasporto collettivo urbano. Superata la logica ‘ascensionale’ delle vecchie funicolari (icone di uno sviluppo verso l’alto, naturalmente arrestatosi con l’affollamento dell’area collinare), la linea metropolitana di Napoli ha puntato quindi sulla logica ‘immersiva’ dello scavo continuo in una città porosa, fragile e storicamente stratificata, riportando l’attenzione verso periferie urbane marginalizzate (Scampia, Piscinola) ed i poli ferroviario, portuale e prossimamente aeroportuale. Tutto questo, però, non impediva affatto di perseguire anche l’obiettivo di una maggiore efficienza trasportistica, tanto più necessaria quanto più convulsa, lenta ed inquinante è stata e resta a Napoli la mobilità di superficie, pubblica e privata. Per combattere la tendenza soffocante e paralizzante a quella ‘autocrazia’ di cui parlavo nel primo articolo del mio alfabetiere programmatico per Napoli, questa ‘cura di ferro’ sarebbe stata particolarmente utile, a patto di costituire una reale e valida alternativa alla congestione del traffico automobilistico, che è stato solo deviato verso altri percorsi, senza contrastarlo davvero. Ecco perché le ricorrenti chiusure delle funicolari – talvolta non programmate – e le estenuanti attese alle fermate di quella che avrebbe dovuto diventare una linea di collegamento veloce intra-cittadina – non hanno certo aiutato i cittadini ad intraprendere l’auspicabile rivoluzione ‘verde’ di una mobilità collettiva ed ecosostenibile. Ebbene, un’amministrazione comunale che non voglia rinunciare a questo obiettivo dovrà, simbolicamente parlando, utilizzare tutte le ‘funi’ che possano sollevare dalla sua lunga crisi il trasporto pubblico, riducendo drasticamente l’inquinante e rumoroso traffico di superficie e proseguendo nella pedonalizzazione di vaste aree cittadine. E questo non per trasformarle in meri attrattori turistici e/o commerciali, ma per valorizzarne davvero le risorse, per rendere più vivibili i quartieri e restituirli alla comunità residente.

Alfabeto ecopacifista (A-B-C)

A COME…AUTO-CRAZIA

Abbiamo recentemente appreso che “Napoli è ‘sommersa’ dalle auto, il triplo di Roma e più di Milano” (Il Mattino – 19.08.2021). A renderlo noto è lo stesso Comune di Napoli, la città dove si registrano nientemeno che 4.634 autovetture per km quadrato, vale a dire una ogni due abitanti (anziani e bambini compresi). Con l’aggravante che il 54% di esse risulta anche particolarmente vecchio ed inquinante. Dalla stessa fonte, inoltre, siamo informati che questo assurdo e straripante parco macchine non si distribuisce omogeneamente sul territorio urbano, ma in alcuni quartieri fortemente urbanizzati si arriva all’incredibile quantità di 11 mila veicoli per km quadrato…! Secondo il Piano Urbano di Mobilità Sostenibile (o PUMS), il Comune di Napoli dovrebbe contrastare in modo drastico questa situazione, dimezzando entro il 2025 il numero degli autoveicoli circolanti, o comunque non superando una vettura ogni 3 abitanti, riducendo in tal modo di un quarto le emissioni inquinanti di Co2 e facendo calare del 30% gli spostamenti delle auto private, a vantaggio del trasporto pubblico. Inutile dire, poi, che così si affronterebbero finalmente anche i problemi correlati, dalla mobilità insostenibile, frutto di un traffico impazzito e caotico, alla questione dei parcheggi in aree urbane; dalla riduzione delle vittime degli incidenti stradali all’evidente miglioramento della qualità della vita.Indubbiamente la parola ‘autocrazia’ ha un significato diverso da quello che ho suggerito nel titolo, in quanto evoca l’assolutismo degli imperatori e di altri monarchi assoluti. E’ pur vero che il potere incontrastato e quasi illimitato delle automobili nella nostra società è ben lontano dall’essere stato realmente contrastato, con la conseguenza che l’intero sviluppo urbano è stato sottoposto da oltre mezzo secolo alla dittatura del trasporto privato, termine peraltro poco appropriato visto che, a livello nazionale, si registrava il rapporto di 1,3 persone per auto, il che significa che la stragrande maggioranza degli autoveicoli circolano con il solo conducente a bordo.È impossibile parlare di una Napoli più vivibile e meno inquinata se non si affronta veramente il nodo del degrado urbano e dell’incredibile spreco di risorse – energetiche ed umane – perpetuando un modello di sviluppo antiecologico e causa d’innumerevoli problemi collaterali. L’impegno di un ambientalista per Napoli, quindi, non può prescindere dal passaggio dalle belle dichiarazioni di principio agli atti concreti. Non esiste però mobilità ‘sostenibile’ senza assumere scelte drastiche. Incrementare il trasporto pubblico (ce lo spiegava già una ricerca di ‘European House Ambrosetti’ con F.S italiane) consentirebbe alla nostra città un risparmio di 405 milioni di euro all’anno. Ma soprattutto ci farebbe uscire dalla tirannide di un’auto-crazia che finora non si è voluto davvero combattere, sconfiggendo questa particolare forma di ‘autismo’ per restituire ai Napolitani la loro vera socialità, in parte cancellata da una vita da sardine in scatola.

B…COME BIODIVER-CITTÀ

B Continuando il mio abbecedario ecopacifista, a questa lettera avrei potuto scegliere tante altre possibili parole-chiave, ad esempio ‘benessere’, in senso sociale e collettivo, non solo individuale, oppure ‘bellicosità’, vista la tendenza militarista che pervade la nostra società, ma anche la cultura e la scuola. Ho scelto invece di affrontare brevemente il concetto di ‘BIODIVERCITTÀ’, di cui mi sono occupato da 30 anni. Una delle idee-cardine dell’ecologismo sociale di cui si è fatta portatrice l’associazione V.A.S. (Verdi Ambiente e Società- www.vascampania.net ) in Campania ed a Napoli, infatti, è stata proprio la salvaguardia di uno dei principali valori della protezione ambientale, appunto la ‘biodiversità’, dall’aggressione di un modello di sviluppo che ne minaccia i delicati equilibri. Ovviamente V.A.S. non è stata l’unica organizzazione ambientalista a porre al centro della propria azione la difesa della diversità biologica, ma lo ha fatto sicuramente con una particolare attenzione alla biodiversità urbana e non solo a quella propriamente ‘naturalistica’.Essa, infatti, è stata – grazie allo stimolo di un grande ecologista come Antonio D’Acunto – promotrice a Napoli di ben 5 edizioni della “Festa VAS della Biodiversità’ e della Rete associativa che ha proposto, sostenuto e difeso quella ‘Civiltà del Sole e della Biodiversità’ di cui è stato il frutto travagliato la legge regionale n. 1/2013, nata come proposta di legge popolare ed approvata all’unanimità dal Consiglio Regionale della Campania.L’obiettivo – come scrivevo in un articolo proprio in quell’anno – era e resta quello di accrescere “la consapevolezza dei cittadini nei confronti di un modello alternativo di sviluppo e di città, in cui le risorse naturali ed il territorio stesso siano al centro di una pianificazione energetica e produttiva attenta ai bisogni umani ma anche agli equilibri ecologici”. (https://ermetespeacebook.blog/…/biodiver-citta-un…/ ).La conoscenza e valorizzazione della biodiversità come valore non negoziabile, infatti, va di pari passo con la necessaria diffusione di un modello energetico in cui il sole e le altre fonti energetiche rinnovabili diventino il motore d’uno sviluppo democratico, equo ed autocentrato, opposto a quello centralizzato dei potentati economici e dei monopoli commerciali. Ecco perché è importante avere una prospettiva non solo emergenziale (puntando solo a diminuire l’inquinamento e a tutelare il patrimonio naturalistico di un territorio), ma di più ampio respiro. Attenuare gli effetti nocivi per il clima e la vivibilità umana dei fattori che li minacciano non è sufficiente e rischia di contrabbandare come ‘sostenibilità’ una visione che si limita ad adattare la nostra esistenza al degrado ambientale, lasciandone inalterate le cause e gran parte degli effetti. Anche la biodiversità urbana, in tal senso, va riconosciuta e protetta, non dando per scontato che la città sia di per sé la negazione dei valori ambientali. Ciò è tanto più vero se si tratta di conurbazioni dove, da molti anni, il patrimonio arboreo in particolare purtroppo si è ridotto notevolmente ed ogni accenno di ‘naturalità’ viene quasi considerata una minaccia da estirpare…Eppure Napoli è ancora uno scrigno di valori ambientali, da quelli relativi alla biodiversità marina del suo Golfo (di cui è storica ed autorevole testimone la Stazione Zoologica ‘Anton Dhorn’) a quelli delle aree verdi collinari, che giustamente D’Acunto propose di raccordare in un’unica ‘green belt’ cittadina. Ci sono poi perle come l’Orto Botanico ed i parchi urbani, dalla Villa Comunale a quello dei Camaldoli, ed una serie di giardini e parchi di quartiere. Ma non dimentichiamo che Napoli, pur con una densità abitativa esorbitante, custodisce perfino nel suo centro antico centinaia di preziosi giardini storici, spesso invisibili, dimenticati o colpevolmente trascurati, come il vecchio Cimitero degli Inglesi o quelli all’interno dei nobili palazzi settecenteschi. Ebbene, un’organizzazione internazionale ha da molto tempo proposto di valutare anche questo trascurato patrimonio con uno strumento adeguato, chiamato ‘indice di biodiversità urbana’. Come scrivevo nel documento citato: “Si tratta di tener conto di una ventina d’indicatori socio-ambientali, per monitorare lo stato di biodiversità urbana di una città e per impostare un progetto che possa invertire la tendenza alla sua scomparsa, promuovendo azioni di recupero e valorizzazione delle preziose risorse ambientali di cui, quasi sempre, i cittadini non sono neppure consapevoli. Ci sono ovviamente alcuni parametri strettamente scientifici da considerare, come il rapporto tra le residue aree naturali ed il totale della superficie urbana, oppure il censimento delle specie di uccelli ancora presenti, o anche della presenza di specie arboree aliene di tipo invasivo. Sono però presenti però anche altri importanti parametri di valutazione di tipo socio-culturale, fra cui la presenza in città di servizi ricreativi ed educativi, il finanziamento di progetti formativi specifici e, non ultima, la capacità dell’amministrazione di promuovere un’effettiva partecipazione e cooperazione da parte dei propri cittadini”.Un programma politico per Napoli, quindi, dovrebbe necessariamente tener conto anche di questo tipo di parametri ambientali, per uscire dalla logica antropocentrica che considera lo sviluppo urbano solo in termini economicisti e tecnologici, ma considerando anche che il benessere dei cittadini non può prescindere dalla salvaguardia di un patrimonio naturalistico essenziale per la loro salute fisica e mentale. Naturalizzare le città anziché urbanizzare e cementificare ogni spazio urbano residuo resta quindi l’unica strada per restituire a Napoli la sua meravigliosa realtà ambientale, uscendo così dal tunnel di un falso sviluppo, fondamentalmente iniquo e sicuramente antiecologico.

C COME…CASE VS CASERME

Continuando il discorso, dopo aver accennato a due questioni particolarmente rilevanti per restituire a Napoli un migliore livello di vivibilità, dopo la A di ‘auto-crazia’ e la B di ‘biodiver-città’, il mio ‘beabbà’ programmatico porta alla C, lettera particolarmente prolifica di parole-chiave su cui soffermarsi. In questo caso, ho deciso di trattare uno dei concetti basilari per una convivenza civile, cioè la CASA. Come la suprema Corte ha sentenziato già nel 1988, infatti: “Il diritto all’abitazione rientra infatti, fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione” (Corte cost., sent. n. 217 del 1988), e quindi il problema basilare per ogni cittadino/a è poter accedere ad un’abitazione dignitosa per sé e la propria famiglia. Peccato che questo sia uno dei diritti meno garantiti nel nostro Paese, con alcune carenze davvero macroscopiche soprattutto in alcune aree territoriali. Napoli e la sua conurbazione metropolitana non fanno certo eccezione, anzi le ataviche carenze abitative della nostra città sono state ulteriormente aggravate da elementi aggiuntivi, come ad esempio l’emergenza Covid e l’immissione di cittadini non italiani, regolari e non, in un mercato immobiliare ampiamente speculativo.Pochi si rendono conto che non avere un tetto sicuro sopra la testa non è solo un grave problema esistenziale, ma anche la causa di altri diritti negati, in quanto riservati ai residenti regolari. «A Napoli il bisogno abitativo diventa in alcuni casi vera e propria emergenza. Il nostro contesto è caratterizzato da un’offerta di alloggi ridotta, un diffuso mercato immobiliare informale e bassi standard qualitativi. Le persone subiscono l’esclusione dalla residenza sia a causa di comportamenti e prassi illegittime, perché in contrasto con le leggi costituzionali, sia per l’esistenza di norme profondamente discriminanti. Con la campagna #DirittiInGiacenza portiamo alla luce un problema volutamente sommerso e sottovalutato. Ancora troppe persone in Italia, in particolare di origine straniera, non hanno accesso ai diritti primari. Chiediamo di garantire l’iscrizione anagrafica senza discriminazioni», spiega Daniela Capalbo, referente per ActionAid a Napoli (https://www.ilmattino.it/…/napoli_emergenza_sommersa… ). L’emergenza abitativa, comunque, non riguarda solo le frange più marginali della popolazione, fra cui disoccupati e stranieri, ma resta un problema anche per chi un lavoro ce l’ha e non ha impedimenti legali. Mentre, infatti, si registrano dai giornali di settore oltre 1800 abitazioni private offerte in fitto e moltissimi altri appartamenti restano da molti anni sfitti e desolatamente vuoti (nel 2016 erano l’11% del totale), la sete di case a Napoli è ancora molto rilevante, costringendo tanti ad ‘arrangiarsi’ in qualche modo ed alimentando fitti in nero e diffuse pratiche di abusivismo edilizio. Un’amministrazione cittadina che voglia essere coerente con le proprie priorità (che non sono certo quella di autorizzate o tollerare il proliferare di B&B e case-vacanze…) dovrebbe decidersi ad investire le risorse disponibili in tale direzione, semplificando procedure per la realizzazione ed assegnazione di case popolari, scovando prioritariamente chi evade il pagamento di una delle poche imposte comunali, cioè l’IMU, ed utilizzando meglio il proprio patrimonio immobiliare, la cui dismissione resta affidata ad alcune aste periodiche. Eppure, nella nostra città, capita che le CASERME sembrino interessare quasi più che le CASE. Da una ricerca su internet, infatti, emerge che Napoli ospita non meno di 73 caserme ed edifici militari, alcune delle quali vuote e inutilizzate. Per esse, addirittura, il Ministero della Difesa ha previsto un investimento rilevante per realizzare il pretenzioso ed occhieggiante progetto ‘Caserme Verdi’, presentato in pompa magna dalle massime autorità militari e civili nel 2019 proprio a Napoli. «Nel proprio intervento, il Generale Farina ha evidenziato l’importanza di ammodernamento del parco infrastrutturale attraverso la realizzazione di basi militari di nuova generazione, che risultino efficienti, funzionali, ispirate a criteri costruttivi innovativi con basso impatto ambientale (in linea con l’attenzione nazionale e internazionale verso l’attuazione di green policy) e ridotti costi di manutenzione, necessari sia per la sicurezza e il benessere dei soldati sia per aumentare l’integrazione sociale attraverso l’apertura di strutture ricreative anche alla popolazione civile residente nelle zone contermini». (http://www.esercito.difesa.it/…/Presentato-a-Napoli-il… ). Ebbene, allora qualcuno pensò bene di ‘premiare’ Napoli con un finanziamento ad hoc per trasformare la vecchia Caserma ‘Bixio’ di Pizzofalcone in un ampliamento della storica accademia ‘Nunziatella’, con l’idea di stabilire nella nostra ‘città di pace’ nientemeno una scuola militare (cioè di guerra) di livello europeo. Da allora è nato e si è sviluppato il progetto “Napoli Città di Pace”, per contrastare questa decisione assurda e per proporre altri passaggi ad usi civili e collettivi di immobili destinati ai militari. (Vedi: https://anticapitalista.org/…/no-alla-scuola-di-guerra…/ ).“Case, non caserme” era un vecchio slogan antimilitarista, ma non sembra proprio che sia da accantonare come desueto, se non si registra una vera svolta per ridare senso alla parola ‘pace’, che non è un concetto astratto e moralistico, ma l’opposto di una visione bellicista e militarista, in nome del rispetto dei diritti sociali e per realizzare una difesa alternativa, civile popolare e nonviolenta.