Verbi violenti troppo frequenti…

In principio era il preverbo…

In un precedente articolo [i], utilizzando la tabulazione dei dati desunti dal Nuovo Vocabolario di Base della lingua italiana [ii], ho provato a mettere in luce quanto perfino il ‘lessico fondamentale’ (condiviso dall’86% di coloro che la utilizzano) lasci troppo spesso trasparire una realtà socioculturale segnata da un linguaggio militare e bellico. Quella mia ricerca, infatti, evidenziava che tra i 2000 lemmi considerati ‘fondamentali’ (ridotti a 1790 escludendo pronomi, articoli, avverbi, preposizioni etc.) ben 259 vocaboli italiani ricadono nel campo semantico bellico-militare. Ciò significa che il 14,6% di quel totale – cioè una parola su sette – rispecchia atteggiamenti sostanzialmente autoritari e violenti. All’interno di questo preoccupante contesto, inoltre, troviamo parecchi verbi indicanti azioni dirette contro un indistinto universo ‘nemico’, o comunque animate da intenti ostili, se non esplicitamente distruttivi. Per approfondire quest’ultimo aspetto – tenuto conto che quasi 9 italiani su 10 utilizzano un lessico che non solo è estremamente ridotto ma è anche costituito per quasi il 15% da locuzioni aggressive – ho provato ad affrontare questa realtà da un punto di vista specificamente etimologico-semantico.

Ne risulta che parecchi verbi ‘fondamentali’ d’impronta bellicosa devono la loro aggressività anche all’utilizzo di alcuni prefissi preposizionali (o ‘preverbi’), che integrano o modificano il senso di base delle rispettive forme verbali. [iii] Si tratta generalmente di preposizioni latine, spesso congiunte a verbi semanticamente già violenti, cui imprimono una notazione di movimento (AD, DE, EX, IN, RE, SUB) oppure sottolineano che si tratta di azioni di gruppo (CUM), finalizzate a conseguire in tal modo un determinato obiettivo (OB). Ciò premesso, ho analizzato etimologicamente una ventina di verbi composti che mi sembravano tipici d’una comunicazione ostile, eppure utilizzati molto frequentemente dal 14% dell’86% del campione, ossia dal 12,04% degli italiani.

Partendo dal mio precedente database, ho verificato che col prefisso AD– ce ne sono 3 (AFFRONTARE, AMMAZZARE, ATTACCARE). Quelli preceduti da CUM– sono 4 (COMBATTERE, CONDANNARE, CONQUISTARE, COSTRINGERE). Altri 3 iniziano con DE- (DIFENDERE, DISTRUGGERE, DIVIDERE) ed altrettanti con EX– (ELIMINARE, ESCLUDERE, SPAVENTARE).  Il prefisso IN- ricorre in 2 casi (IMPEDIRE, IMPORRE) e OB- è presente in 4 verbi (OBBLIGARE, OCCUPARE, OPPORRE, UCCIDERE). Infine, con RE- ne iniziano 2 (RESISTERE, RISPONDERE) mentre con SUB- ne troviamo solo 1 (SOTTOPORRE).

Ebbene, pur considerando che alcuni elementi di questo campionario possono essere intesi con connotazioni diverse, resta innegabile che il principale ambito semantico di quasi tutti i verbi in questione rimanda ad un rapporto aggressivo e virulento coi loro rispettivi oggetti o referenti. La ricerca sull’etimologia di ciascun preverbio sembrerebbe riportarci ad un mondo primitivo, caratterizzato dai rapporti di forza tipici di chi lotta per la sopravvivenza. Una violenza atavica che però sembra non aver smesso d’improntare il linguaggio attuale e che, quasi sempre in modo inconscio, inevitabilmente finisce col condizionare la nostra comunicazione verbale e le nostre relazioni.

A questo punto passiamo all’osservazione al microscopio etimologico – e quindi più da vicino ed in profondità – di queste 22 forme verbali composte così tanto diffuse, ma di cui forse solo in pochi conoscono il significato originario e le trasformazioni di significato che hanno subito.

La minacciosa forza dei preverbi AD- e CUM-

La preposizione latina AD, utilizzata come prefisso modificante di un verbo o di un sostantivo, suggerisce il movimento verso qualcuno o qualcosa, un avvicinamento, ma talvolta l’inizio di un processo, un rafforzamento, nonché un atteggiamento sia favorevole sia contrario [iv] . Nei tre verbi con questo preverbo, l’indicazione di un moto ostile si unisce al significato già aggressivo dei verbi modificati, rafforzandolo.

  • Nel caso di AFFRONTARE, dalla base latina frontem derivano altri sostantivi e relative forme verbali (affronto, confronto, raffronto…), che indicano azioni di cui il prefisso AD- precisa la direzione e/o destinazione. L’etimo di questa parola sembrerebbe risalire alla radice sanscrita *BHRU, indicante l’arcata sopracciliare e presente anche in vocaboli germanici e slavi. Si esprime pertanto un’azione che ‘prende di faccia’ l’interlocutore, verso il quale il soggetto si dirige direttamente e minacciosamente [v].
  • Anche nel verbo AMMAZZARE il prefisso indica la direzione di un’azione intrapresa con intenzioni ostili, poiché il verbo latino mactare significava già uccidere (vedi sostantivi come ‘mattatoio’ o il verbo spagnolo matar). Anche se all’origine ci fosse invece il sostantivo ‘mazza’, la sostanza non cambierebbe, trattandosi comunque di un grosso bastone usato per colpire qualcosa o qualcuno.
  • In ATTACCAREil prefisso si aggiunge alla radice celto-germanica *TAC, il cui senso era aderire, fermare, agganciare, o anche toccare, partendo da una base latina (v. tangere, tatto…), che ritroviamo anche nel verbo inglese to take (prendere) [vi].

Sebbene il prefisso preposizionale latino CUM- sia di solito adoperato “per esprimere l’idea dell’unione, della compagnia, della condivisione[vii], nei quattro verbi seguenti funge piuttosto da rafforzativo di un’azione, sottolineando che è compiuta da più persone.

  • COMBATTERE, ad esempio, usa questo preverbo (modificato in COM-) per integrare il verbo latino battuere, presente anche in ambito non romanzo (ingl. beat, gael. bith). Probabilmente esso attingeva alla radice sanscrita *PAD (piede), per cui battere significherebbe in origine pestare, calpestare, percuotere col piede [viii] o, più latamente, colpire. Non dimentichiamo poi che da tale verbo derivano anche sostantivi tipicamente militari, come battaglia, batteria, battaglione etc.
  • CONDANNARE ha un significato ampio, non riferibile esclusivamente ad un contesto di scontro o di guerra. Il senso più diffuso, infatti, è quello giudiziario, che designa l’atto di dichiarare qualcuno colpevole, per poi infliggergli una pena (lat. damnum).  Come nel caso precedente, la preposizione sottolinea che si tratta di un’azione collettiva (giuria) o espressa da un giudice a nome della comunità. Peraltro, il senso ostile e violento del verbo appare evidente a prescindere dal motivo della condanna.
  • CONQUISTARE è un verbo meno trasparente dal punto di vista etimologico. Pochi infatti saprebbero risalire ai verbi latine cum-quirere > cum-quidere, a loro volta forme intensive del molto più innocente ed innocuo verbo quaerere (da cui ‘chiedere’) [ix]. Infatti non c’è dubbio che una conquista sia qualcosa di molto più violento di una  semplice ‘richiesta’, sebbene alla voce ‘conquistare’ la Treccani metta al primo posto proprio il significato di “ridurre in proprio dominio con le armi”. In seconda posizione troviamo “acquistare, fare proprio con fatica, con sacrifici, lottando contro difficoltà e ostacoli”, cui seguono le ulteriori accezioni “accattivarsi, guadagnare” e “far innamorare, sedurre[x]. La forza aggressiva del verbo, in questo caso, sembra dipendere dal prefisso, che suggerisce un atto collettivo e dunque più efficace. Si tratterebbe infatti di una ‘richiesta’ assai categorica, molto somigliante – nel linguaggio mafioso del Padrino di Ford Coppola – a “un’offerta che non si può rifiutare”.
  • COSTRINGERE compone lo stesso prefisso col verbo latino stringere, la cui radice *STRAG indicava “…comprimere, tirare a sé con forza […] premere o serrare con forza…” [xi]). Anche in questo verbo emerge l’intento aggressivo dell’azione e si comprende bene il suo significato di “forzare; obbligare qualcuno, con la forza o con altro mezzo, a fare cosa che sia contraria alla volontà o comunque non spontanea[xii].

DE-, EX- e IN- per escludere ed aggredire

Secondo la Treccani, il prefisso preposizionale DE- “… si trova in molte voci di derivazione latina, nelle quali indica ora allontanamento (per es. deviare, deportare), ora abbassamento o movimento dall’alto in basso (per es. degradare, deprimere, declinare), ora privazione (per es. dedurre, detrarre; cfr. anche demente), ora ha valore negativo (per es. decrescere), ora serve soltanto alla formazione di verbi tratti da sostantivi o aggettivi…” [xiii] .  Non c’è dubbio che atti quali allontanare, abbassare, privare e negare non siano riconducibili ad atteggiamenti e comportamenti pacifici e costruttivi. Se poi tre bruschi prefissi si uniscono a verbi già minacciosi, la violenza verbale è servita.

  • DIFENDERE, insieme coi verbi ‘offendere’ ed i sostantivi ‘difesa’ ed ‘offesa’ e relativi aggettivi derivati, è un “…composto di -fendo, nel senso di ‘colpire – urtare’, da una radice comune al ved. Hanti “colpisce[xiv]. Secondo altra fonte, il verbo fendo avrebbe una radice FAD, derivante dal sanscrito bâd-ayami, col significato di “spingere, stringere, pressare[xv]. In entrambi i casi si tratta di azioni violente, di minacce alla sicurezza personale e collettiva da cui sarebbe legittimo proteggersi, anche utilizzando la forza. Non a caso la Treccani indica prioritariamente le seguenti accezioni del verbo ‘difendere’: “1.a proteggere, preservare dal male, dai pericoli, dalle offese […] b. sostenere la causa di qualcuno […] 2. rifl. a) Proteggersi, ripararsi […] contrapporre la propria forza alla violenza del nemico o dell’avversario…” [xvi].  Indubbiamente il ‘diritto alla difesa’ è sancito dalle costituzioni e dalle leggi, in ambito giudiziario come in quello della ‘difesa nazionale’. Il vero problema, però, è che la tradizionale difesa armata e militare ha superato da tempo l’idea della pura e semplice ‘reazione’ ad un’azione aggressiva esterna e si configura sempre più come apparato di aggressione, sia pur col pretesto della ‘dissuasione’ o della ‘prevenzione’ della violenza altrui. La verità, come da tempo affermano i nonviolenti, è che “un’altra difesa è possibile”.
  • DISTRUGGERE, viceversa, è un verbo che è impossibile interpretare in senso positivo. Il dizionario Treccani enumera una serie di significati che lo classificano di fatto tra i più violenti: “distrùggere v. tr. [dal lat. destruĕre, comp. di de- e struĕre «innalzare, costruire»] …1. a. Abbattere, guastare, disfare, per lo più con azione o con mezzi violenti, scomponendo le parti d’un oggetto, dissolvendo, riducendo in rovina, in modo che la cosa sia resa definitivamente inutilizzabile o non ne rimangano talora neppure le tracce […] b. Annientare vite umane […] c. Ridurre al niente […] 2. Usi fig.: a. Rendere inutile […] b. Togliere completamente e definitivamente […] c. Annullare […] d. letter. Consumare a poco a poco, fisicamente o spiritualmente…” [xvii]. Non potrebbe essere diversamente, in quanto ‘distruggere’ utilizza il prefisso de– proprio per annullare il senso positivo del verbo struere (indicante azioni come: accumulare, stratificare, fabbricare, costruire, erigere etc.). Ecco perché è un po’ l’icona di un linguaggio ostruttivo e distruttivo, in quanto radicalmente opposto ad una comunicazione costruttiva, edificante e nonviolenta.
  • DIVIDERE è un verbo prevalentemente di segno negativo, ma dall’etimologia piuttosto incerta. Secondo alcuni il prefisso DISsi unirebbe ad un ipotetico *vido (in umbro vetu = dividerai e sanscrito vihyati = perfora [xviii]. Secondo altre fonti, invece: “il verbo dividere, …. sembra derivare dall’unione tra il prefisso dus-, che poi è diventato dis- e la radice vid- che alcuni ritrovano in vidēre. Quindi, quel ‘dis’ ci darebbe l’idea della separazione (piuttosto che quella di negazione) e ‘vid’ quella di una dimensione interna (in lituano vidus significa proprio centro)[xix]. In ogni caso, le possibili accezioni di tale verbo sono negative e non rimandano affatto ad un contesto relazionale caratterizzabile come costruttivo e privo di violenza.

Il prefisso EX- “…sotto l’aspetto semantico, conserva in una parte dei composti il sign. fondamentale della prep. ex, cioè «da, fuori, via» […] in altri casi indica negazione, privazione […] o mutamento di natura […]; in altri ancora esprime il concetto della pienezza, del compimento, conferendo quindi al verbo valore estensivo o intensivo…” [xx].

  • ELIMINARE ha un significato di base meno truce e violento di quanto appare. In effetti – etimologicamente parlando – significherebbe soltanto: cacciare da casa, lasciar fuori dalla soglia (extra limine) [xxi], dunque “escludere, scartare, far scomparire[xxii]. Si tratta comunque di un’azione di natura ostile, ma solo in tempi moderni il verbo è passato ad indicare una soluzione molto più radicale, cioè: “uccidere, togliere di mezzo, sopprimere, soprattutto un nemico, un avversario, una persona sgradita[xxiii].
  • ESCLUDERE è un un calco semantico di ‘eliminare’, essendo composto dal prefisso ex- (fuori) e claudere (chiudere). Siamo di fronte ad un ulteriore caso di azione espulsiva, che priva qualcuno del diritto di abitare in un luogo e/o di far parte di una comunità. Una sorta di rigetto, che espelle ed emargina una persona o un intero gruppo sociale dal suo contesto abituale, cui si interdice l’ingresso.
  • SPAVENTARE a prima vista non ha relazione col prefisso preverbo EX-, ma in latino era proprio questa preposizione che integrava il verbo pavère, in senso passivo col significato di tremare di paura, aver paura, ma anche, in senso attivo, di “provocare, incutere spavento[xxiv]. Un altro chiaro esempio di violenza, fisica o psicologica, che ricorre al terrore per forzare la volontà altrui e per conseguire i propri scopi.

IN-, RE-, OB- e SUB-: altri quattro preverbi ostili

Stando alla Treccani, “Il prefisso IN- (dal latino in-) può assumere in italiano due diversi valori. Può indicare mancanza, privazione, contrarietà, opposizione in parole derivate dal latino (inutile, insano) o formate modernamente […] Può essere usato per la formazione di verbi parasintetici derivati dal latino (incurvare, incorporare) …” [xxv]. Nei due casi seguenti sembra prevalere il secondo, che dà alla preposizione un valore locativo.

  • IMPEDIRE significa letteralmente “mettere ceppi, impacci ai piedi[xxvi] (dal sostantivo greco pous, podòs), e quindi – in senso metaforico – ‘ostacolare’, ‘opporsi’, ‘contrariare’. Ancora una volta riconosciamo un’azione senz’altro ostile, anche se talvolta questo verbo è usato per indicare l’opposizione ad una minaccia o ad un pericolo, come abbiamo già visto nel caso dell’ambivalente ‘difendere’.
  • IMPORRE, nella sua trasparenza semantica, non è invece equivocabile. Derivato dal latino in-ponere, designa un atto di per sé violento, frutto di arroganza e finalizzato al dominio. Ricorrere ad una ’imposizione’ vuol dire letteralmente: “Porre sopra, indi, fig. prescrivere, comandare[xxvii]. Significa perciò trattare le persone come si era abituati a fare con gli animali, costringendoli con gioghi, selle ed altri pesanti carichi a sotto-porsi ad un padrone senza scrupoli.

Il prefisso OB (“lat. ob- “a, verso, contro, in opposizione, di fronte a, a causa” e con valore rafforzativo[xxviii]) esprime sia un rapporto di causalità, sia un’avversione o un’opposizione, come verifichiamo nei seguenti quattro verbi.

  • OBBLIGARE coniuga ob-, già indicante una contrarietà, con il verbo ligare, che di per sé impone un legame, un vincolo, rendendo questo verbo un sostanziale sinonimo di ‘costringere’ e dello stesso ‘imporre’. È quindi difficile intepretarlo in senso positivo, come richiamo ad un legame etico, poiché l’etimologia ci presenta una costrizione materiale. Infatti, il verbo latino ligare deriva dal greco lygein (piegare, annodare), a sua volta riferito al sostantivo lygos (vimine) e al verbo sanscrito ling-âmi (piego) [xxix].
  • OCCUPARE compone il prefisso OB- (contro) col verbo latino capere (prendere), con assimilazione-raddoppio della ‘c’. Da qui il significato di “impossessarsi, impadronirsi[xxx], ma anche l’accezione bellicosa di “invadere o tenere con la forza delle armi” [xxxi].
  • OPPORRE – come i sostantivi e attributi da esso derivanti – è un altro verbo di sapore marziale. Ma in questo caso il preverbo, che di per sé esprime opposizione, si unisce al più neutro verbo ponere. Da qui il significato attivo e transitivo di “1. Porre contro, per impedire, per fare ostacolo, per contrastare” e riflessivo di “porsi contro, impedire (o cercar d’impedire) che una cosa abbia effetto o consegua i suoi fini[xxxii].
  • UCCIDERE (che latinamente era occidere, da ob prefissato al verbo caedere, cioè tagliare) è il più esplicitamente violento dei verbi esaminati, indicando l’azione definitiva e irrimediabile di togliere la vita. Atto peraltro considerato un crimine (omicidio) quando è compiuto da persone, ma purtroppo esaltato come gesto di valore patriottico quando invece è causato da corpi militari o da agenti cui è stata affidata la pubblica sicurezza, spesso con mandato molto ampio e discrezionale.

Le altre due preposizioni latine usate come prefissi verbali sono RE- (che di solito esprime il ripetersi di un’azione, nello stesso senso o in senso contrario) e SUB- (che in italiano fornisce un’indicazione locativa (‘sotto’), anche in senso metaforico.

  • RESISTERE, ad esempio, vuol dire: “Opporsi a un’azione, contrastandone l’attuazione e impedendone o limitandone gli effetti…” [xxxiii]. Inoltre la parola ‘resistenza’, anche nel linguaggio scientifico della fisica, indica la proprietà meccanica d’un corpo di non subire rottura sotto sforzo. Il prefisso re- in questo caso si è unito al verbo latino sistere (raddoppiamento di stare), col significato di fermare un atto, opponendovi una forza contraria. Eppure la sua collocazione tra i lemmi di sapore bellico e militare è frutto dell’errata – ma purtroppo diffusa – concezione del ‘resistere’ come reazione armata e violenta, mentre da oltre un secolo, ma senza che se sappia quasi nulla, una resistenza disarmata e nonviolenta è risultata più efficace e spesso vincente.
  • RISPONDERE. Apparentemente è un verbo innocuo o quanto meno di significato piuttosto neutro. L’etimologia, in effetti, ci mostra che il prefisso re- (indietro, ma anche di nuovo) va a modificare il verbo latino spondēre, (promettere, impegnarsi) nel senso di “parlare dopo essere stato interrogato, per soddisfare alla domanda fatta[xxxiv], ma anche – più polemicamente – di “replicare…ribattere, controbattere, reagire, contestare, confutare…” [xxxv] . Fatto sta che, si tratti di una partita a carte o di un battibecco fra coniugi, l’atto di ‘rispondere’ finisce spesso col perdere la sua valenza positiva di soddisfazione di una domanda/richiesta, per assumere un connotato più violento, sia pure sul piano verbale. Ci sono però anche casi – come ‘rispondere al fuoco’ o ‘rispondere ad un’aggressione’ – in cui la ‘risposta’ si palesa invece in tutta la sua minacciosa fisicità.
  • SOTTOPORRE, che chiude questa lista di ‘verbi violenti troppo frequenti’, appare univoco ed esplicito nel suo significato. Sub+ponere – il verbo composto latino da cui peraltro deriva anche ‘supporre’ – è infatti trasparente nell’indicare l’atto di porre qualcuno o qualcosa al di sotto, significando dunque: “assoggettare, soggiogare[xxxvi] e anche “a. ridurre sotto il proprio dominio…b. costringere qualcuno ad affrontare, o a subire, qualcosa di spiacevole o di non gradito o voluto[xxxvii].

Decalogo conclusivo sui preverbi violenti

Al termine di questa particolare indagine etimologica mi sembra utile trarne una sintesi in dieci punti, in modo da ricavarne qualche utile conclusione.

  1. Dei 7.500 vocaboli ‘di alta frequenza’ presenti nel citato Nuovo Vocabolario di Base della lingua italiana, quelli classificabili come ‘parole fondamentali’ sono 2.000 e ricoprono l’86% delle occorrenze.
  2. Sottraendo a questi 2.000 lemmi quelli meno significativi (pronomi, congiunzioni, avverbi etc.) il campo si restringe ai 1.768 vocaboli presi in esame come campione per la mia già precedente ricerca, finalizzata a verificare quanti rientrassero in tre ambiti semantici: a) bellico-militare, b) ecologico-ambientale, c) latamente pacifista.
  3. Nel primo settore della mia classificazione ho registrato 259 lemmi (pari al 14,6%) che ritengo espressione d’un linguaggio aggressivo e violento. Questo significa, in pratica, che una parola su sette rientrerebbe in tale allarmante contesto.
  4. All’interno del campione dei 1.768 vocaboli considerati ‘fondamentali’ dal NVdB ho contato 468 verbi, ossia il 26,5%.
  5. Il passo successivo è stato quello di enucleare tra le forme verbali censite quelle con una connotazione bellico-militare o comunque violenta che fossero composte con prefissi preposizionali che ne esaltassero la carica aggressiva. Quelli esaminati sono appunto i 22 verbi ‘ostili’ (quasi il 5% dei 468 ‘fondamentali’) che ho poi analizzato sul piano etimologico-semantico.
  6. I 6 preverbi considerati (AD-, DE-, EX-, IN-, RE-, SUB-), in effetti, hanno modificato in senso negativo le relative forme verbali di base, tra cui 9/22 già ostili di per sé.
  7. La carica semantica negativa dei prefissi, impressa ai verbi che modificano, ne sottolinea pertanto: a) con AD- la direzione; b) con DE- allontanamento, abbassamento o deprivazione; c) con EX- esclusione; d) con IN- privazione o contrarietà; e) con OB- contrarietà; f) con RE- opposizione; g) con SUB- sottomissione.  
  8. Dei verbi esaminati, circa la metà (10/22) manifestano una carica inequivocabilmente violenta ed esplicitamente guerrafondaia: AMMAZZARE, ATTACCARE, COMBATTERE, CONQUISTARE, COSTRINGERE, DISTRUGGERE, ELIMINARE, IMPORRE, OCCUPARE, UCCIDERE.
  9. I restanti 12 preverbi (AFFRONTARE, CONDANNARE, DIFENDERE, DIVIDERE, ESCLUDERE, SPAVENTARE, IMPEDIRE, OBBLIGARE, OPPORRE, RESISTERE, RISPONDERE, SOTTOPORRE) – sia pur in modo meno univoco – esprimono un atteggiamento ostile o manifestano volontà di dominio e di sottomissione:
  10. Concludendo, dalla mia indagine risulta che 1 verbo composto italiano su 20 totali censiti come ‘fondamentali’ esprime avversità, inimicizia, violenza oppure intenti di sottomissione. Per chi auspica un lessico pacifico, nonviolento e non-ostile è un dato preoccupante, da valutare molto seriamente.  


Note

[i] Ermete Ferraro, “Un vocabolario di base ‘fondamentalmente’ violento?” (14.4.23), Ermetespeacebook, https://ermetespeacebook.blog/2023/04/14/un-vocabolario-di-base-fondamentalmente-violento/

[ii] Tullio de Mauro (2016), Nuovo vocabolario di base della lingua italiana. (Cfr. anche il Dizionario Online di Internazionale, https://dizionario.internazionale.it/

[iii]  Fra i vari studi accademici sul valore modificante dei prefissi verbali cfr: Davide Bertocci (2017), ‘Intensive’ verbal prefixes in Archaic Latin –(https://www.academia.edu/37442997/_Intensive_verbal_prefixes_in_Archaic_Latin ); Ursula Lenker (2008), Booster prefixes in Old English – an alternative view of the roots of ME forsoothhttps://www.anglistik.uni-muenchen.de/personen/professoren/lenker/publikationen/2008-booster-prefixes-in-oe.pdf ; Dewell, Robert B. (2015), The Semantics of German Verb Prefixes (Human Cognitive Processing 49), Amsterdam/Philadelphia, John Benjamins.

[iv] Cfr. la presentazione di Agnes Jekl (Univ. di Budapest -2019) dal titolo “Cambiamenti nella funzione del prefisso verbale ad- dal latino classico all’italiano”, https://www.uniud.it/it/ateneo-uniud/ateneo-uniud-organizzazione/altre-strutture/centro-internazionale-plurilinguismo/allegati/ppt-jekl-cambiamenti-nella-funzione-del-prefisso-verbale-ad.pptx

[v]  Cfr. https://www.etimo.it/?term=fronte

[vi]  Cfr. https://etimo.it/?term=attaccare&find=Cerca

[vii]  Cfr. https://dizionari.corriere.it/dizionario_latino/Latino/C/cum_1.shtml

[viii] Cfr. https://etimo.it/?term=battere&find=Cerca

[ix] Cfr. https://etimo.it/?term=conquistare&find=Cerca

[x] https://www.treccani.it/vocabolario/conquistare/

[xi]  https://etimo.it/?term=stringere&find=Cerca

[xii]   https://www.treccani.it/vocabolario/costringere/

[xiii]https://www.treccani.it/vocabolario/de/#:~:text=%E3%80%88d%C3%A9%E3%80%89%20%5Bdal%20lat.,alto%20in%20basso%20(per%20es.

[xiv]  Dante Olivieri (1961), Dizionario Etimologico Italiano, Milano, Ceschina (voce: “difendere”)

[xv]  https://www.etimo.it/?term=difendere&find=Cerca

[xvi]  https://www.treccani.it/vocabolario/difendere/

[xvii]  https://www.treccani.it/vocabolario/distruggere

[xviii] Cfr. Olivieri 1961 (voce: “dividere”)

[xix]https://www.etimoitaliano.it/2015/04/divisione.html#:~:text=Per%20quanto%20riguarda%20la%20questione,che%20alcuni%20ritrovano%20in%20videre.

[xx]  https://www.treccani.it/vocabolario/ex/

[xxi]   https://www.etimo.it/?term=eliminare

[xxii]  https://www.treccani.it/vocabolario/eliminare/

[xxiii]  ibidem

[xxiv]  https://www.treccani.it/vocabolario/spaventare/

[xxv] https://www.treccani.it/enciclopedia/in-prefisso_(La-grammatica-italiana)

[xxvi]  https://www.treccani.it/vocabolario/impedire/ 

[xxvii]  https://www.etimo.it/?term=imporre&find=Cerca

[xxviii]  https://dizionario.internazionale.it/parola/ob-

[xxix] https://www.etimo.it/?term=legare&find=Cerca

[xxx] https://www.etimo.it/?term=occupare&find=Cerca

[xxxi]  https://www.treccani.it/vocabolario/occupare/

[xxxii]  https://www.treccani.it/vocabolario/opporre/

[xxxiii]  https://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/resistere/

[xxxiv] https://www.etimo.it/?term=rispondere&find=Cerca

[xxxv]  https://it.wiktionary.org/wiki/rispondere

[xxxvi]  https://www.etimo.it/?term=sottoporre

[xxxvii]  https://www.treccani.it/vocabolario/sottoporre/


© 2023 Ermete Ferraro

Un vocabolario di base ‘fondamentalmente’ violento?

Vocabolario di base e frequenza nell’uso delle parole.

Nel 2016 Tullio De Mauro aggiornò la sua precedente ricerca sul ‘vocabolario di base della lingua italiana’ (NVdB), individuando le 7.500 parole che costituiscono il nostro ‘lessico quotidiano’, vale a dire il serbatoio linguistico cui la maggioranza degli italiani sembra attingere più frequentemente [i].

«È un elenco di circa 7500 parole selezionate per uso, frequenza e disponibilità e suddivise in tre categorie: 1 – lessico fondamentale (FO, circa 2000 parole ad altissima frequenza usate nell’86% dei discorsi e dei testi; nell’elenco sono formattate in grassetto); 2 – lessico di alto uso (AU, circa 3000 parole di uso frequente che coprono il 6% delle occorrenze; sono formattate come testo normale); 3 – lessico di alta disponibilità (AD, circa 2000 parole usate solo in alcuni contesti ma comprensibili da tutti i parlanti e percepite come aventi una disponibilità pari o perfino superiore alle parole di maggior uso; sono formattate in corsivo)» [ii].

Lo stesso De Mauro precisava che:

«Ciò che abbiamo finora chiamato uso è il prodotto della frequenza assoluta delle occorrenze di una parola in un campione di testi di una lingua, divisi in diverse categorie (testi scolastici, testi letterari, copioni cinematografici o teatrali eccetera), moltiplicata per la sua dispersione, cioè per il numero di categorie di testi in cui la parola occorre. La dispersione, cioè la presenza in più categorie diverse di testi, aiuta a correggere distorsioni che potrebbero aversi guardando solo alla frequenza.…» [iii] .

Da questa risorsa, fondamentale per la conoscenza del nostro patrimonio lessicale d’uso comune, si ricavano non solo interessanti indici statistici di frequenza nell’utilizzo delle parole dell’italiano corrente, ma anche alcune considerazioni sulle tendenze socio-linguistiche in atto. Un ecopacifista come me, ad esempio, andando a curiosare fra i 2.000 lemmi contrassegnati in neretto, in quanto considerati ‘fondamentali’, ha potuto utilizzare questo repertorio per ricercare quanta parte del nostro lessico quotidiano abbia a che fare con determinati contesti logici, quali “guerra e militarismo”, “pace” ed “ecologia”.

La presente ricerca ha richiesto la tabulazione dei 2.000 lemmi fondamentali in un’apposita tabella Excel, in modo da evidenziare – lettera per lettera – quali parole ricadessero in ciascuno di questi tre ambiti, calcolandone poi la rispettiva percentuale sul totale. Dall’insieme dei vocaboli in neretto sono stati esclusi quelli di scarso valore semantico (pronomi personali, aggettivi dimostrativi e possessivi, preposizioni, avverbi, congiunzioni) e pertanto il numero complessivo di quelli presi in esame è sceso a 1.768.

Sebbene le osservazioni seguenti siano frutto di una mia personale elaborazione del database pubblicato su Internazionale, ritengo comunque che possano dare un’idea abbastanza precisa di come il patrimonio linguistico maggiormente condiviso dagli italiani [iv] lasci trasparire determinate tendenze a rappresentare la realtà, alimentando particolari narrazioni. Nell’ambito degli studi di ecolinguistica [v], ad esempio, è molto diffuso l’impiego dei “corpus assisted discourse studies”, ossia dell’analisi linguistica fondata sull’utilizzo e l’elaborazione di repertori lessicali.

«Lo sforzo principale degli studi del discorso assistito da corpus è l’indagine e il confronto delle caratteristiche di particolari tipi di discorso, integrando nell’analisi le tecniche e gli strumenti sviluppati all’interno della linguistica dei corpora. Questi includono la compilazione di corpora specializzati e analisi di elenchi di frequenza di parole e cluster di parole, elenchi di parole chiave comparative e, soprattutto, concordanze […] Gli studi sul discorso assistito da corpus mirano a scoprire significati non ovvi, cioè significati che potrebbero non essere prontamente disponibili per la lettura a occhio nudo. Gran parte di ciò che ha significato nei testi non è aperto all’osservazione diretta […] Usiamo il linguaggio “semi-automaticamente”, nel senso che parlanti e scrittori compiono scelte semi-consce all’interno dei vari complessi sistemi sovrapposti di cui è composto il linguaggio» [vi].

In questo caso, un confronto statistico tra blocchi di parole fondamentali riguardanti determinati contesti può quindi risultare illuminante sul pensiero sottostante alle parole della lingua italiana più frequentemente utilizzate, stimolando considerazioni per nulla banali.

Dati emersi dalla mia ricerca sul NVdB dell’italiano

Ovviamente non tutte le osservazioni che si possono ricavare analizzando il mio database sono significative allo stesso modo. Alcune sono solo curiosità originate dall’evidenziazione di alcuni aspetti, come ad esempio la frequenza di determinate parole all’interno di uno specifico repertorio alfabetico. Ad esempio, non sembra che abbia un particolare significato il fatto che la maggior parte delle parole italiane da me selezionate nel citato ‘lessico fondamentale’ e riguardanti la guerra ed il militarismo inizino con le lettere S (40), R (32) e C (25). Altrettanto vale per l’osservazione che gran parte dei vocaboli ‘pacifici’ comincino per A o P (17), oppure per I ed R (10), o anche che il lessico ambientale si alimenti prevalentemente di parole inizianti con le lettere P (21), S (19) e C (12). Si tratta dunque di semplici constatazioni, anche se l’analisi etimologica delle parole ci porta talvolta ad osservare che fenomeni di natura fonetica, come l’onomatopea, possono aver condizionato il significato di alcuni vocaboli, soprattutto per quanto riguarda la loro radice primaria.

Le osservazioni oggettive che si possono trarre dalla mia ricerca mi sembrano indubbiamente più significative. Infatti, sebbene l’attribuzione di una parola ad un determinato campo semantico (guerra e militarismo – ecologia ed ambiente – pace e nonviolenza) sia frutto di una mia selezione, ciò che si ricava dall’analisi dei dati va al di là di impressioni personali, in quanto ne emerge un quadro abbastanza preciso delle caratteristiche del nostro lessico fondamentale.

Ma esaminiamo prima i risultati da un punto di vista meramente statistico, tenendo conto che l’entità totale di riferimento sono i 1.768 lemmi che ho ricavato dal 2.000 del NVdB (De Mauro 2016), eliminando quelli che – come precisato prima – mi sembravano semanticamente non particolarmente rilevanti .

  • Nel primo settore della mia classificazione – concernente le parole del vocabolario fondamentale italiano che ricadono nel campo semantico bellico-militare – si ritrovano 259 lemmi, pari al 14,6% del totale.
  • Nel secondo ambito di ricerca – comprendente le parole che fanno riferimento all’ambiente ed all’ecologia – ricadono 124 lemmi, pari al 7,01%.
  • Il terzo campo semantico preso in esame – vocaboli riferibili in modo diretto o indiretto alla pace, alla giustizia e ai diritti – registra infine la presenza di 152 lemmi, corrispondenti all’8,6%.

Già questi soli dati numerici rispecchiano una precisa realtà socioculturale, in cui il lessico di base più comune degli italiani è composto per un settimo da vocaboli appartenenti al linguaggio militare e guerresco, mentre per i ‘linguaggi di pace’ la maggior parte dei parlanti l’italiano dispongono e utilizzano meno di una parola su undici. Inoltre, per quanto riguarda ciò che si riferisce alla natura, agli elementi ambientali ed all’ecologia, il dato sembra ancor più allarmante. Infatti in questo contesto ricade solo il 7% del lessico italiano considerato ‘fondamentale’, vale a dire meno di una parola ogni quattordici.  Sono solo dati statistici, ma è difficile non considerarne il valore ed il significato all’interno di un’analisi del discorso che punti a svelare i condizionamenti esercitati su un vocabolario che, oltre ad essere spesso piuttosto povero e limitato, attribuisce al linguaggio di guerra uno spazio addirittura doppio rispetto a quello riservato a quello riguardante il nostro imprescindibile rapporto con l’ambiente.

Alcune considerazioni in chiave ecopacifista

A questo punto mi sembra opportuno ricordare quanto scriveva l’ecolinguista Arran Stibbe sull’analisi critica del discorso e su ciò che si propone di rivelare.

«a) L’attenzione si concentra su discorsi che hanno (anche potenzialmente) un impatto significativo non solo sul modo in cui le persone trattano le altre, ma anche su come trattano i sistemi ecologici più ampi da cui dipende la vita. B) I discorsi vengono analizzati mostrando come gruppi di caratteristiche linguistiche si uniscono per formare particolari visioni del mondo e ‘codici culturali’… c) I criteri in base ai quali le visioni del mondo sono giudicate derivano da una filosofia ecologica (o ecosofia) esplicita o implicita. Un’ecosofia è informata sia da una comprensione scientifica di come gli organismi (compresi gli esseri umani) dipendono dalle interazioni con altri organismi e da un ambiente fisico per sopravvivere e prosperare, sia da un quadro etico per decidere perché la sopravvivenza e la prosperità sono importanti…»[vii].

Ebbene, dall’elaborazione dei dati della mia indagine emerge un preoccupante quadro verbale – e perciò stesso cognitivo – di quanto il vocabolario usato dall’86% degli italiani aiuti poco lo sviluppo della consapevolezza ecologica e l’impegno per la pace. A quest’ultimo ambito semantico, come già detto, ritroviamo solamente 1/12 del vocabolario di base della lingua italiana. Ciò non significa che tale rapporto sul piano del lessico rispecchi esattamente il nostro livello di coscienza pacifista, che invece la guerra in Ucraina sta paradossalmente facendo maturare. Il vero problema, però, è se si dispone di adeguati strumenti per esprimerlo ossia, per citare un noto libro [viii], se si hanno a sufficienza “le parole per dirlo”.

Viceversa, come ho avuto modo di sottolineare in altri contributi [ix], sembra che si faccia strada sempre più un linguaggio improntato ai sedicenti ‘valori militari’, sia a causa della crescente invadenza delle forze armate nelle istituzioni scolastiche italiane, sia per l’influenza della comunicazione mediatica che diffonde, in modo talvolta subdolo, modalità espressive ispirate a quel mondo.

Nell’impossibilità di pubblicare in questa sede l’intero database generato dalla mia ricerca, vorrei comunque offrire almeno un’idea di ciò che ne è emerso. Ad esempio, tra le parole registrate dal NVdB come quelle usate più frequentemente dagli italiani ritroviamo molti verbi che evocano direttamente la violenza della guerra e la retorica dell’eroismo militare (affrontare, ammazzare, attaccare, avanzare, battere, caricare, circondare, colpire, combattere, conquistare, difendere, distruggere, eliminare, imporre, intervenire, minacciare, morire, obbligare, occupare, opporre, provocare, resistere, ritirare, scoppiare, sottoporre, sparare, spaventare, uccidere etc.). Si tratta di una constatazione che preoccupa, dal momento che, in maggioranza non fanno certo parte del lessico quotidiano nè sembrano facilmente attribuibili ad altri contesti, sia pur in forma traslata.

Un secondo esempio di tale perniciosa tendenza si ricava dall’analisi dei sostantivi italiani più frequentemente usati, tra i quali ritroviamo abbastanza sorprendentemente termini riferibili prevalentemente alle forze armate, quali: arma, attacco, battaglia, capitano, carabiniere, carica, controllo, coraggio, difesa, dovere, eroe, esercito, forza, fronte, fuoco, generale, guerra, impresa, intervento, lotta, militare, missione, nazione, nemico, norma, nucleare, obiettivo, onore, pericolo, piano, pistola, principio, reazione, rischio, rispetto, servizio, sfida, soldato, squadra, strategia, superiore, tensione, trasmissione, ufficiale, valore, zona etc.

Se teniamo conto del fatto che la nuova edizione del lessico di base curata da De Mauro risale al 2016 e che in questi sette anni l’influenza dei militari sul piano socioculturale è molto aumentata, non possiamo non allarmarci per la frequenza di questa particolare terminologia nel linguaggio corrente di 8,6 italiani su 10.

La controprova è data dalla ricorrenza molto più ridotta in esso di termini che esprimano valori di pace, giustizia, tutela dei diritti umani e rifiuto della violenza nelle sue varie forme. Questa tipologia di parole, infatti, ricorre nel vocabolario di base fondamentale in misura estremamente limitata, poiché solo un lemma su dodici sembra ricadere in questo pur ampio campo semantico.

Vi ritroviamo, comunque, parecchi verbi che esprimono atteggiamenti nonviolenti, equi e solidali, come: accettare, accogliere, accompagnare, adottare, affidare, aiutare, appoggiare, apprezzare, comprendere, comunicare, consentire, consigliare, convincere, dedicare, distribuire, fidarsi, garantire, informare, inserire, intendere, interessare, manifestare, migliorare, offrire, ospitare, partecipare, perdonare, permettere, prestare, proporre, realizzare, riconoscere, ringraziare, rispettare, salvare, scegliere, soddisfare, sperare, sviluppare, trasmettere, utilizzare, valutare, visitare etc.

Una lingua di pace, come ho cercato di argomentare nel mio manuale ecopacifista [x], dovrebbe trasmettere concetti ispirati alla nonviolenza ed alla riconciliazione, alla valorizzazione delle diversità ed alla sostenibilità ambientale ed anche alla giustizia sociale ed alla solidarietà. Un lessico ecopacifista, infatti, è quello che sappia comunicare – ed aiutare ad instaurare – una positiva relazione tra gli uomini e tra questi ed il contesto naturale di cui fanno parte. Uno sguardo al settore del vocabolario di base dell’italiano che va in questa direzione ci mostra però un repertorio lessicale ancora troppo limitato, se è vero che soltanto una parola su quattordici comunica interesse per i valori ecologici.

Si tratta prevalentemente di sostantivi che si limitano a cogliere elementi geo-biologici dell’ambiente naturale e antropizzato, ad es.: acqua, albero, animale, atmosfera, bosco, campo, canale, cielo, costa, fiume, fonte, freddo, frutto, giardino, isola, lago, lupo, mare, montagna, natura, neve, paese, parco, pesce, pietra, pioggia, punta, radice, rosa, sera, sereno, sole, spazio, stagione, stella, terra, uccello, uomo, uovo, vento etc.

Si sono individuati anche altri vocaboli con una maggiore pregnanza dal punto di vista ecologico, in quanto lasciano trasparire un atteggiamento positivo verso il ciclo vitale e la ricerca di un’integrazione delle persone col proprio contesto ambientale. Si tratta però solo di pochi verbi (crescere, generare, produrre, raccogliere, rispettare, trasformare, vivere) e di alcuni nomi e aggettivi riferibilipiù esplicitamente a temi ecologici (ambientale, catena, fenomeno, materia, naturale, organismo, pianeta, riproduzione, salute, temperatura, territorio, universo, verde, vita). 

Qualche conclusione da trarre…

Sempre più – e da più parti – comincia a manifestarsi l’esigenza di ripristinare ed accrescere un patrimonio lessicale che nel tempo è andato invece ad impoverirsi, riducendo la capacità delle persone di ‘leggere il mondo’, di comprenderlo e di agire in modo positivo e attivo per salvare ciò che possiede un autentico valore e per cambiare ciò che viceversa è frutto d’ingiustizia e di violenza. Un luninoso esponente di questa visione pragmatica del processo comunicativo e del ruolo dell’educazione in tal senso è stato don Milani, che ai suoi ragazzi della scuola di Barbiana aveva fatto capire che “la parola è la chiave fatata che apre ogni porta” perché “ci fa uguali”.

Ma se è vero che possedere solo 200 parole – come affermava il Priore – significa essere dominati da chi ne conosce 2.000, occorre forse ampliare la riflessione milaniana, andando oltre l’aspetto quantitativo (senza dubbio determinante) per affrontare anche quello qualitativo. Nel caso in esame, le 2.000 parole che il NVdB dell’Italiano ha riconosciuto come ‘fondamentali’ all’interno di quelle più frequentemente utilizzate dagli italiani, infatti, non soltanto costituiscono in ogni caso un misero patrimonio lessicale (anche se supportate dalle altre 3.000 parole del ‘lessico di alto uso), ma vanno analizzate più in profondità, per scoprire quale modello sociale e culturale rispecchiano e, inevitabilmente, contribuiscono a diffondere e perpetuare.

Paulo Freire, nel suo libro “L’educazione come pratica della libertà[xi] proponeva a chi perseguiva l’educazione delle masse popolari un approccio molto particolare incentrato sulla lingua, non solo come indispensabile alfabetizzazione e prima tappa nella liberazione degli ‘oppressi’, ma soprattutto come formazione umana delle persone e veicolo di coscientizzazione sociale. La prima delle cinque fasi del processo di educazione linguistica proposto da Freire era, non a caso, l’individuazione delle parole più usate nel linguaggio comune dei gruppi con cui si voleva operare. La seconda era caratterizzata dall’individuazione delle ‘parole generatrici’ più adeguate a sviluppare in quelle comunità un’autentica consapevolezza di sé, dei propri limiti e dei propri bisogni.

«Le parole generative, le parole fondamentali, di cui Freire va alla ricerca, lette nella mia chiave, altro non sono che il sistema simbolico che organizza i discorsi di quella cultura Quando Freire si propone di alfabetizzare gli abitanti delle favelas […] egli vuole ricostruire il vocabolario di quelle persone, il loro sistema culturale, per costruire un percorso di alfabetizzazione alla loro cultura, […] È necessario avere la coscienza della propria cultura di riferimento per poter pienamente autoprogettarsi, scegliere, decidere, per poter pienamente servirsi della propria cultura, rifletterla, criticarla, modificarla, farla evolvere e con essa far evolvere se stessi…»[xii].

Dall’indagine di cui ho dato conto emerge piuttosto un allarmante livellamento socioculturale verso il basso, che però non sembra affatto casuale né poco significativo. Dalla base lessicale comune e più condivisa dagli italiani, in effetti, sembra emergere un universo di riferimento in cui le parole generatrici di una visione militarista e violenta sono il doppio di quelle che invece ci descrivono nella nostra relazione con l’ambiente. Si tratta di un dato significativo da non sottovalutare ma anzi da tener ben presente quando ci si propone di educare alla pace in senso lato, soprattutto se si persegue un progetto ecopacifista che dia spazio alla coscientizzazione ed alla formazione e non solo all’azione [xiii].


Note

[i] Tullio de Mauro, Nuovo vocabolario di base della lingua italiana, 2016. (Cfr. anche il Dizionario Online di Internazionale, https://dizionario.internazionale.it/

[ii]  Licia, “Le 7500 parole del lessico di base dell’italiano” (29.12.2016), Terminologia etc., https://www.terminologiaetc.it/2016/12/29/vocabolario-base-italiano-demauro/

[iii] Tullio De Mauro, “Il Nuovo vocabolario di base della lingua italiana” (23.12.2016), Internazionale, https://www.internazionale.it/opinione/tullio-de-mauro/2016/12/23/il-nuovo-vocabolario-di-base-della-lingua-italiana

[iv] «Il NVdB si fonda sullo spoglio elettronico (controllato manualmente) di testi lunghi complessivamente 18.843.459 occorrenze raggruppati in sei categorie di estensione approssimativamente equivalente: stampa (quotidiani e settimanali), saggistica (saggi divulgativi, testi e manuali scolastici e universitari), testi letterari (narrativa, poesia), spettacolo (copioni cinematografici, teatro), comunicazione mediata dal computer (chat eccetera), registrazioni di parlato» (T. De Mauro, https://www.internazionale.it/opinione/tullio-de-mauro/2016/12/23/il-nuovo-vocabolario-di-base-della-lingua-italiana )

[v]  Cfr. Ermete Ferraro (2022), Grammatica ecopacifista. Ecolinguistica e linguaggi di pace (Quad. Satyagraha n. 42), Pisa, Centro Gandhi Edizioni

[vi]  “Corpus-assisted discourse studies”, Wikipedia, https://en.wikipedia.org/wiki/Corpus-assisted_discourse_studies (trad. mia)

[vii]  Arran Stibbe (2014), “An Ecolinguistic Approach to Critical Discourse Studies”, in Critical Discourse Studies, 11.1, London, Routledge https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/17405904.2013.845789

[viii]  Cfr. Marie Cardinal (2001), Le parole per dirlo, Milano. Bompiani

[ix]  Oltre al libro già citato (in particolare la IV parte, su “riferimenti e indicazioni per una grammatica ecopacifista”), cfr. anche alcuni miei articoli: Disarmiamo la nostra scuola (2019); Fenomenologia dello strumento militare (2020); Il militarismo eterno (2020); Una lapide al ‘militarismo noto’ (2021) e A rotta di…protocollo (2022), tutti pubblicati sul mio blog ( https://ermetespeacebook.blog/)

[x]  Cfr. Ferraro 2022, in particolare alle pp. 112-118

[xi] Il testo originale “Paulo Freire (1967), Educaçao como pratica da liberdade, Paz e Terra, Rio de Janeiro, è stato così tradotto in italiano nelle edizioni Mondadori (Milano, 1977)

[xii] Ada Manfreda (2017), La parola che emancipa, l’apprendimento che trasforma. Le parole generative di Paulo Freire,  http://siba ese.unisalento.it/index.php/sppe/article/download/18429/15729 , p. 54

[xiii]  Cfr. anche: M.I.R. Italia (a cura del) 2021, La colomba e il ramoscello – Un progetto ecopacifista, Torino, Ed. Gruppo Abele.


© 2023 Ermete Ferraro

MIR 70: PACE, FORZA, GIOIA

IL CONVEGNO

Celebrare il settantesimo compleanno della propria organizzazione è un momento di festa, ma al tempo stesso di ricordi e di bilanci.  Il 3 dicembre noi del M.I.R. (Movimento Internazionale della Riconciliazione) abbiamo scelto Casalecchio di Reno (BO) per festeggiare questa ricorrenza, accolti dal Sindaco Massimo Bosso e da Maurizio Sgarzi, della ‘Casa per la Pace’. Abbiamo celebrato l’anniversario con un occhio al passato ma anche con lo sguardo rivolto al futuro che cerchiamo di costruire giorno dopo giorno.

Ritrovarci insieme, compagni di viaggio ed amici di una volta, è stata un’occasione unica per riprendere il filo di un discorso talvolta interrotto, sottraendoci al rischio che l’attivismo legato all’attualità abbia la meglio sulla riflessione e sulla visione d’insieme. L’articolazione stessa del convegno, del resto, rispecchiava la volontà di sistematizzare un impegno che dura da decenni alla luce di un progetto complessivo ed integrato.

Il primo tema (“Stile di vita, campagne ed esperienze di nonviolenza attiva”) era finalizzato proprio alla ricerca della nostra motivazione di fondo, che colloca il M.I.R. nell’ambito dei movimenti per la pace in cui l’etica si incarna nei gandhiani “esperimenti con la nonviolenza”. La seconda sessione (“spiritualità, ecumenismo, riconciliazione”) intendeva esplicitare ulteriormente tale dimensione, nell’ottica del dialogo interreligioso per la pace. Infine si è deciso di affrontare la dimensione culturale e formativa, con un confronto a più voci su “ecopacifismo, educazione alla nonviolenza e informazione di pace”.

Provo a sintetizzare questa intensa giornata di discussione utilizzando simbolicamente i tre elementi di un saluto augurale abituale tra i nonviolenti, “pace forza gioia”, manifestazione d’una visione costruttiva dell’alternativa ad un modello di società che viceversa nega questo trinomio, improntato com’è al perseguimento del predominio attraverso la violenza ed a costo di perdite e distruzioni.

PACE

Questa fondamentale parola è stata declinata in tutte le sue dimensioni, da quelle inerenti scelte personali (come l’obiezione di coscienza al servizio militare ed alle spese militari) a quelle su un piano più strutturale e politico (come le campagne per il disarmo, la smilitarizzazione e la costruzione di una difesa alternativa, quindi disarmata civile e nonviolenta). Alle testimonianze d’una lunga stagione di lotte pacifiste (portate in varia forma da Giancarla Codrignani, Antonino Drago, Claudio Pozzi, Beppe Marasso, Giuliana Martirani, Alfredo Mori, Pasquale Iannamorelli, Eleonora Sollazzo ed Etta Ragusa) si è intrecciata la narrazione delle attuali campagne antimilitariste e nonviolente, quasi sempre portate avanti in una logica di rete. Dei loro sviluppi hanno parlato esponenti di spicco dell’attuale movimento pacifista (da Sergio Bassoli della Rete Italiana Pace e Disarmo ad Angela Dogliotti del Centro Studi ‘Sereno Regis’, da Mao Valpiana del Movimento Nonviolento a Pierangelo Monti del Movimento Internazionale della Riconciliazione, Zaira Zafarana, dell’International Fellowship of Reconciliation e Laila Simoncelli della Comunità Papa Giovanni XXIII). Le campagne nazionali e internazionali riguardanti il disarmo nucleare, l’istituzione di un ‘Ministero della Pace’, il rilancio di una forma nuova di obiezione fiscale e la proposta parlamentare su “un’altra difesa possibile”, del resto, non sono altro che la formulazione di aspetti d’un indispensabile ‘programma costruttivo’. Un progetto che il M.I.R ha arricchito ponendo l’accento sulla dimensione ecopacifista e sull’impegno non solo per educare alla e per la pace, ma anche per contrastare la preoccupante invadenza della cultura militarista e bellicista nelle nostre istituzioni educative e formative.

Non sono mancati i richiami, anche critici, al recupero di una nonviolenza più integrale, capace di affrontare più direttamente tematiche storiche – come quella della salute, della sicurezza e dello stile di vita – recentemente un po’ oscurate o considerate opzioni più personali che politiche. Viceversa, la dimensione spirituale e quella relativa a modelli di sviluppo alternativi, frugali, in-nocenti e comunitari, restano centrali per gli aderenti ad un movimento come il M.I.R., che li hanno nel proprio DNA.

Per averne conferma basta rileggere l’articolo 2 del suo Statuto, dove si afferma che Il M.I.R. è «…un movimento a base spirituale composto da persone che sono impegnate nella nonviolenza attiva intesa come stile di vita, come mezzo di riconciliazione nella verità e di conversione personale, come mezzo di trasformazione sociale, politica, economica, nel rispetto della fede dei suoi membri”. La stessa nonviolenza è intesa “come mezzo per costruire la pace frutto della riconciliazione, nella consapevolezza che guerre e conflitti sono causati dall’ingiustizia e da discriminazioni razziali, etniche, ideologiche, religiose, economiche, di sesso, e che il depauperamento dell’ambiente è anche la conseguenza di un errato ed ingiusto sfruttamento delle risorse naturali”. I pilastri dell’alternativa nonviolenta, quindi, restano “la riconciliazione e la solidarietà nella vita personale e sociale, a liberare l’uomo da tutti quei condizionamenti culturali, politici, militari, economici che lo confondono e lo opprimono..

FORZA

Questa seconda parola-chiave, giustamente contrapposta a ‘violenza’, trasmette una visione positiva e costruttiva della vita, fondata sull’impegno, il coraggio, la perseveranza e la testimonianza personale. È infatti il secondo elemento dell’augurio che il M.I.R. con questo convegno fa a se stesso e ai suoi compagni di viaggio, dopo 70 anni di lotte per predicare e praticare la nonviolenza attiva, contrastando ingiustizie, discriminazioni, conflitti armati e minacce alla stessa sopravvivenza dell’uomo sul pianeta.

Se è vero che ‘forte’ è chi: “…può sopportare facilmente un grave sforzo, che può resistere alle fatiche materiali e morali, che sa vincere le difficoltà” (Treccani) e se aggettivi sinonimi di ‘forte’ sono “energico…vigoroso…tenace…resistente” (Hoepli – le Repubblica), è evidente che tale ‘forza’ implica non solo la capacità di resistere alle avversità, ma anche l’espressione d’una volontà e di un’energia in positivo. La radice sanscrita del nome (*dhaŗta) ha a che fare col valore della ‘fermezza’, e quindi della perseveranza e della costanza nel perseguire i propri valori ideali.

È ciò che è emerso dalla seconda tavola rotonda, nella quale rappresentanti di espressioni religiose di cui il M.I.R. è debitore (come il pastore Alessandro Esposito dei Valdesi, Evan Welkin dei Quaccheri e don Renato Sacco della cattolica Pax Christi) si sono confrontati sulla spiritualità di pace con un imam islamico, col contributo da remoto anche di un grande vescovo come mons. Luigi Bettazzi, di Enrico Peyretti e di Paolo Candelari, già presidente del movimento, cui si è aggiunto il messaggio augurale del card. Zuppi, arcivescovo di Bologna e Presidente della C.E.I.

La ‘fortezza’ – inserita tradizionalmente dai cattolici tra i doni dello Spirito Santo – è la virtù che non soltanto “assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene” (Catechismo Chiesa Cattolica, 1808) ma è l’energia che “…possa sollevare il nostro cuore e comunicare nuova forza ed entusiasmo alla nostra vita” (Papa Francesco, Udienza Generale del 14 maggio 2014). Ecco perché augurarci reciprocamente ‘forza’ vuol dire auspicare uno spirito sia di pazienza e resilienza, sia di perseveranza tenace nell’impegno personale e collettivo. La forza è inoltre ciò che anima la difesa alternativa, che rifiuta la violenza ed utilizza la mediazione e la ricerca di soluzioni creative che trascendano quelle distruttive che perpetuano il dualismo perverso vincitori/vinti. La forza, insomma, è la qualità di chi si propone di resistere e di procedere “in direzione ostinata e contraria”, anche quando tutto intorno spingerebbe ad arrendersi, a cedere all’omologazione, ad accettare fatalmente l’inevitabilità del male.

«Come notava Edmund Burke: “La sola cosa necessaria affinché il male trionfi è che gli uomini buoni non facciano nulla”. La fortezza è capacità di opporre una barriera alle forze distruttive; senza di essa diventa impossibile attuare la giustizia e la vita civile, ma anche le scelte ordinarie, che comportano non di rado sacrifici […] “di questa virtù c’è bisogno là dove si deve resistere a minacce, si devono superare le paure, si devono affrontare la noia, il tedio, il disgusto dell’esistenza quotidiana per riuscire a mettere in atto il bene» (G. Cucci, La fortezza, una virtù esigente, 2021 https://www.laciviltacattolica.it/articolo/la-fortezza-una-virtu-esigente/).

È quella stessa ‘forza’ che ci permette di rialzarci dopo sconfitte e delusioni, ma anche di abbandonare la rigidità delle nostre certezze esclusive, aprendoci ad un dialogo con altre visioni, religiose e laiche, in modo da affrontare insieme e con maggiore energia il cammino comune verso obiettivi condivisi. Progetti come quelli relativi alle battaglie ecopacifiste, l’educazione alla nonviolenza e la controinformazione per la pace, ad esempio, richiedono infatti sinergie ampie, come testimoniato dagli interventi alla terza tavola rotonda. Luciano Benini, Carla Biavati, Claudio Carrara, Giovanni Ciavarella ed Ermete Ferraro, tutti esponenti del M.I.R., stanno già operando in rete con altre organizzazioni, per allargare l’area degli interventi e per diffondere una cultura di pace che si ponga come un’alternativa forte e credibile. Anche Pressenza, la rete informativa nonviolenta rappresentata da Olivier Turquet, è un esempio di come esperienze e proposte possano raggiungere e contagiare sempre più persone, contrastando narrazioni violente e totalizzanti con la forza della nonviolenza attiva.

GIOIA

Il terzo elemento del trinomio augurale alla cui luce ho riletto questo nostro convegno si colloca in un campo semantico che va oltre ragionamenti e discorsi, toccando l’aspetto emozionale che non può mancare in un’azione nonviolenta che parli alla testa ma anche al cuore. L’etimologia di ‘gioia’ è piuttosto controversa, in quanto alcuni la fanno risalire al latino plurale gaudia, mentre altri scorgono somiglianze con joca , termini che evocano entrambi piacere, allegrezza ed esultanza.

Del resto non è certo un caso che uno dei più noti documenti conciliari – quello relativo al rapporto della Chiesa col mondo attuale – inizi con le parole “gaudium et spes”, sottolineando che la gioia non può essere godimento che chiude gli occhi su un presente poco piacevole, bensì apertura anche emotiva alla speranza di un domani migliore, da costruire giorno dopo giorno.

C’è anche chi ha rilevato che ‘gioia’ richiamerebbe la radice sanscrita *gai *gajati, che vuol dire cantare. Nell’Antico Testamento sono varie le parole che indicano questo sentimento, fra cui שִׂמְחָה (simha), riferendosi spesso ad un’esultanza espressa anche con la voce. Nel Nuovo Testamento emerge invece il sostantivo greco χαρά (harà), connesso al verbo χαίρω ed al relativo saluto-augurio.

Il convegno per i 70 anni del M.I.R., pertanto, non poteva che concludersi con una piacevole appendice musicale, un concerto di “musica e parole di pace” con Paolo Predieri ed il Gruppo Jamin-à (Gianni Penazzi, Roberto Bartoli, Marcela Baros e Linda Bernard) col quale i partecipanti si sono salutati, nella convinzione che “L’inganno è nel cuore di chi trama il male, ma per chi nutre propositi di pace c’è gioia” (Prov 12:20). La gioia che derivava dall’incontro, dalla condivisione e dal confronto ma anche dal piacere di riprendere, insieme e un po’ più consapevoli, il cammino sulla strada della ricerca, dell’educazione e dell’azione per la pace.


© 2022 Ermete Ferraro

Etimostorie #4: CONFLITTO

Le parole per dirlo

Parola tornata drammaticamente di attualità in occasione della brutale invasione armata dell’Ucraina da parte delle forze armate russe, ‘conflitto’ non è però sinonimo di ‘guerra’ [i], che rappresenta solo la sua manifestazione più violenta e distruttiva.  Basta consultare qualche dizionario etimologico per verificare che, analizzando l’origine latina di questo termine, siamo di fronte più che altro ad una situazione di ‘urto’, di ‘collisione’, fra due o più situazioni, idee o interessi.

«Discordia, contrasto tra individui o entità, che può essere gestito pacificamente, con accordi o appellandosi a regole condivise (come è tipico in una democrazia); oppure con il tentativo di una parte di imporsi con la violenza (sostantivo) […] dal latino conflictus ossia “urto, scontro”, derivazione di confligere, cioè “confliggere, cozzare”, “combattere”» [ii].

Il verbo di cui ‘conflitto’ è il participio passato, con valore sostantivale, è infatti con-fligere, il cui senso è: “urtare una cosa con un’altra…percuotere” [iii]. Altre possibili traduzioni del latino fligere sono anche: battere, bussare, colpire, etc. [iv], per cui l’idea di fondo resta quella di un urto, una collisione, o comunque un confronto, fra realtà diverse non coincidenti, se non opposte. Anche se consultiamo un dizionario etimologico inglese, infatti, troviamo:

«inizi del XV sec., “contendere”, combattere, dal latino conflictus, participio passato di confligere “colpire insieme, essere in conflitto” […] Significato “essere in opposizione, essere contrari o diversi…» [v].

Una rapida carrellata geo-linguistica ci conferma in gran parte quanto questa radice sia ampiamente comune (fra. conflicte, cast. conflicto, cat. conflicte, rum. conflict, por. conflito, ted. konflikt, ola. conflict…). Perfino nelle lingue slave questa base lessicale è presente (rus., ser. e bul. конфликт, pol. konflikt). Le cose cambiano poco se lo stesso concetto è espresso col differente vocabolo greco συγκρουσηsynkrousi (che appunto significa scontro, collisione, confronto, da krousi = colpo, percussione + pref. syn = con [vi]). Perfino nella lingua hindi troviamo टकरावtakrānā, la cui radice ci riconduce all’idea di urto, collisione [vii].

Il vocabolo cinese corrispondente (冲突 chōngtú) e quello giapponese 衝突shōtotsu) denotano la medesima idea. In ambito semitico, il termine ebraico utilizzato è סְתִירָהstiva’ indica una contraddizione o discrepanza [viii] ed anche il vocabolo arabo نزاع nizae fa riferimento ad una disputa, un giudizio, tra parti in disaccordo [ix].

Con-fliggere non vuol dire in-fliggere

Il vero problema, a questo punto, è se il conflitto – che come si è visto evoca comunque un confronto, uno scontro, un urto tra realtà, visioni ed interessi divergenti – debba avere necessariamente un vincitore ed un vinto, oppure possa concludersi differentemente, in maniera non distruttiva e senza prevaricazione o imposizione violenta di una delle parti in causa, e quindi mediando tra di esse e cercando vie d’uscita inesplorate.

Ovviamente la risposta di un “convinto della nonviolenza” è no, in quanto i conflitti – che pur non vanno mai negati, ignorati o peggio repressi – possono avere esiti molto diversi, creativi ed alternativi non solo alle guerre, ma anche alle comuni soluzioni in cui una parte deve comunque soccombere, secondo la teoria dei “giochi a somma zero” [x].  Ecco perché esplorare le tecniche per trasformare i conflitti – o meglio, secondo l’espressione di J. Galtung, trascenderli [xi] – resta un obiettivo fondamentale per chi intende contrastare l’ineluttabilità della violenza in genere e dei conflitti armati in primo luogo, educando i giovani alla pace e alla nonviolenza attiva [xii].

Mi sembra interessante, infine, citare quanto osservava in proposito il teologo mons. Nunzio Galantino, ribadendo che i conflitti possono, e devono, trovare soluzioni diverse da quelle cui purtroppo siamo abituati, rivalutando la loro carica positiva e generativa.

«Sempre e comunque il conflitto si colloca e ci colloca in un contesto relazionale. Relazione con l’altro da me e/o relazione con me stesso. […] Ha proprio ragione l’imperatore stoico Marco Aurelio: “È conflitto la vita, è viaggio di un pellegrino”; e, con lui K. Marx, quando scrive: “Non vi è progresso senza conflitto: questa è la legge che la civiltà ha seguito fino ai nostri giorni”. L’etimologia della parola conflitto dà ragione dell’approccio semantico positivo fin qui seguito […] Sia in Lucrezio [De Rerum Natura] sia nel De officiis di Cicerone questo verbo rimanda alla possibilità di fare incontrare, confrontare, riunire, avvicinare. Solo più tardi confligere acquisterà il significato di combattere, contendere, urtare ostilmente. L’etimologia ci consegna quindi originariamente la parola conflitto come incontro generativo tra realtà differenti».[xiii]


Note

[i]  Cfr. E. Ferraro, Etimostoria #2: GUERRA, https://ermetespeacebook.blog/2022/02/27/etimostorie-1-guerra/

[ii]  Cfr. voce ‘conflitto’ in Wiktionary, https://it.wiktionary.org/wiki/conflitto

[iii] Cfr. voce ‘conflitto’ in Etimo.it, https://www.etimo.it/?term=conflitto

[iv] Cfr. ‘fligere’ in Glosbe.com, https://it.glosbe.com/la/it/fligere

[v]  Cfr. ‘conflict’ in Etymonline.com, https://www.etymonline.com/word/conflict

[vi]  Cfr. https://el.wiktionary.org/wiki/%CE%BA%CF%81%CE%BF%CF%8D%CF%83%CE%B7  e https://el.wiktionary.org/wiki/%CE%BA%CF%81%CE%BF%CF%8D%CF%83%CE%B7

[vii]  Cfr. https://en.wiktionary.org/wiki/%E0%A4%9F%E0%A4%95%E0%A4%B0%E0%A4%BE%E0%A4%B5

[viii]  Cfr. https://context.reverso.net/traduzione/ebraico-italiano/%D7%A1%D6%B0%D7%AA%D6%B4%D7%99%D7%A8%D6%B8%D7%94

[ix]  Cfr. https://en.wiktionary.org/wiki/%D9%86%D8%B2%D8%A7%D8%B9

[x] Cfr. voce “teoria dei giochi” in Wikipedia.it – https://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_dei_giochi

[xi]  J. Galtung, Conflict Trasformation by Peaceful Means (The Transcend Method). https://gsdrc.org/document-library/conflict-transformation-by-peaceful-means-the-transcend-method/

[xii]  Per approfondire tale aspetto, cfr. E. Ferraro, “RiconciliaAzioni”, Ermetes’ Peacebook 12.05.2020 –  https://ermetespeacebook.blog/2020/05/12/riconcili-azioni/

[xiii]  Mons. N. Galantino, “Abitare le parole/ conflitto”, il Sole 24 Ore, 16.06.2019 – http://www.nunziogalantino.it/wp-content/uploads/2019/06/Conflitto_Abitare-le-parole.pdf

Giugliano, provincia di NATOLI…

Giugliano in Campania – dopo Napoli il comune più popoloso dell’omonima Città Metropolitana – è l’erede dell’osca e poi romana Liternum, che abbracciava un vasto territorio dell’allora fertile Campania Felix, affacciato sul litorale domizio e caratterizzato dallo storico Lago Patria. Ma già dal tempo della occupazione di quel territorio da parte dei veterani della II guerra punica e del loro stratega, Publio Cornelio Scipione detto l’Africano, quella località sembra essere stata condannata ad essere una colonia militare. Infatti, quando nel 2012 il Comando per il Sud Europa e l’Africa della NATO (JFC – Joint Forces Command) si è trasferito “armi e bagagli” da Bagnoli sulle sponde dello scipionico Lago Patria, la città di Giugliano in Campania sembra essere definitivamente diventata ciò che gli americani definiscono come una military town [i]. Con tutte le conseguenze sociosanitarie e socio-ambientali del caso, che vanno dall’inquinamento elettromagnetico all’incremento della circolazione veicolare, dalla iperproduzione di rifiuti da smaltire all’impossibilità di monitorare i parametri ambientali in una cittadella extraterritoriale e per di più coperta dal segreto militare.

È NATO nu criaturo ô Laco Patria” – ironizzavo allora in un articolo [ii] – sottolineando come quel mega-comando ‘alleato’ invadesse 330.000 m2 di terreno giuglianese già infiltrato dalla camorra, cementificandoli con 282.000 m3 di edifici su 6 piani, di cui 2 prudenzialmente interrati. Insomma, una sede ‘strategica’ in ogni senso, popolata da circa 3.000 addetti militari e civili, corredata da un minaccioso complesso di radar e protetta da bunker ed avveniristici sistemi di cyber-sicurezza. Il costo dell’occupazione militare da parte di quel “fastidioso NeoNato[iii] si aggirò allora sui 200 milioni di euro, integrati da 14 milioni di stanziamenti statali e regionali, destinati al Comune ospitante per finanziarvi opere infrastrutturali. Evidentemente grata per tali sostanziose ‘compensazioni’ economiche – ma purtroppo molto meno preoccupata dell’impatto della maxi-base sul suo già complicato equilibrio ambientale – Giugliano ha ribadito la sua natura di military town con ripetute dimostrazioni di servilismo verso i nuovi e potenti padroni. In questo decennio, infatti, si sono moltiplicate ‘spontanee’ visite d’intere scolaresche giuglianesi e qualianesi al quartiergenerale di Lago Patria [iv], come pure gli incontri nelle classi con generali ed ammiragli ed altre visite di “buon viciNATO” da parte di ufficiali del JFC al Municipio ed alla locale struttura ospedaliera [v].

Inoltre, le amministrazioni comunali da allora succedutesi ‘patriotticamente’ si sono date da fare a ribadire la loro devozione anche alle nostre forze armate, stipulando specifici accordi e favorendo apertamente l’infiltrazione dei militari negli istituti scolastici giuglianesi. L’ultimo esempio, in data11.11.2021, si è avuto quando Pirozzi, l’attuale Sindaco, ha sottoscritto col generale Tota, numero 1 del Comando Forze Operative Sud, un protocollo d’intesa con lo scopo di: «…educare i ragazzi, attraverso la formazione degli insegnanti negli Istituti scolastici, sul tema della gestione dei rifiuti, con particolare riferimento alla raccolta e al loro conferimento […] con l’obiettivo di sensibilizzare le giovani generazioni alla prevenzione dei reati ambientali» [vi].

Ebbene, che i militari – da sempre responsabili della pesante impronta ecologica su territori sottratti ai controlli ambientali e, anche in tempo di ‘pace’, fonte d’inquinamento di aria, acqua e suolo – si presentino come esperti nel campo dell’educazione ambientale è di per sé grottesco e paradossale. Ma che sia stato un ente locale, a nome d’una comunità civile, ad affidare loro questo compito, autorizzandoli ad entrare nelle proprie scuole con la patente di formatori a ‘buone pratiche’ ambientali, appare ancor più grave e deplorevole. Il sindaco di Giugliano ha dichiarato che: «…la collaborazione con i militari dell’Esercito in materia di controllo e di tutela ambientale è stata finora molto proficua […] si procede in questa direzione coinvolgendo anche le famiglie attraverso i ragazzi, col sostegno importantissimo delle scuole, a sostegno anche delle tante attività che il Comune sta mettendo in campo per migliorare la qualità della vita in città» [vii]. Francamente non so quanti Giuglianesi se ne siano accorti, ma è lecito dubitarne…

Perfino Scipione l’Africano non avrebbe condiviso affermazioni così azzardate, con cui si cerca di razionalizzare un’operazione di dubbia legittimità (quali specifiche competenze didattiche ha un’amministrazione comunale, fatta salva quella istituzionale sugli immobili scolastici?) e che appare comunque molto discutibile, trattandosi d’un atto autonomo della Giunta e non del risultato di una discussione consiliare. Del resto proprio Scipione, lo stratega delle guerre puniche, secondo Tito Livio [viii] avrebbe affermato: “Nullum scelus rationem habet”, traducibile con: “nessun misfatto ha una scusante”.  Come docente ecopacifista e come responsabile nazionale e locale dell’associazione ambientalista VAS e del Movimento Internazionale della Riconciliazione, ho richiesto ufficialmente al Sindaco copia del suddetto protocollo d’intesa con l’Esercito Già in un precedente comunicato stampa avevo espresso la netta contrarietà di chi si oppone alla militarizzazione della scuola, contrapponendovi progetti di educazione alla pace, alla difesa civile ed alla trasformazione nonviolenta dei conflitti.

Ed infatti non ci sono scusanti per un’azione d’indottrinamento militare rivolto a bambini delle elementari e ragazzini delle medie, col pretesto d’insegnargli come si fa la raccolta differenziata oppure di fargli sapere quanto sono belle e moderne le tecnologie informatiche dei registi delle guerre a distanza. Come promotori della Campagna nazionale “Scuole Smilitarizzate[ix] ci siamo adoperati già dallo scorso anno per denunciare ed arginare la pervasiva azione propagandistica delle forze armate nelle scuole italiane. Ma mentre a causa delle restrizioni sanitarie è stato quasi impossibile svolgere iniziative antimilitariste, recentemente in Campania gli artificieri dell’Esercito sono andati nelle scuole “a sensibilizzare i più piccoli all’uso sicuro dei fuochi d’artificio[x] o a “raccontare ai piccoli alunni le particolarità dell’Esercito Italiano” [xi]. In Sicilia, addirittura, la direzione scolastica regionale ha stipulato “un protocollo d’intesa di durata triennale con l’Esercito italiano per consentire lo svolgimento delle attività di alternanza scuola-lavoro in alcuni dei reparti militari presenti nell’Isola[xii]…!

Come possiamo chiudere gli occhi, poi, sulla subdola strategia dell’emergenza, grazie alla quale i militari stanno infiltrando tutti i settori della società, dalla sanità alla protezione civile, dai trasporti alla pubblica sicurezza, abituandoci ad un’assurda ‘normalità’ fatta di mimetiche, stellette e mitra spianati? Come possiamo digerire trasmissioni come “La Caserma” e altre subdole evocazioni d’una società improntata alla disciplina militare? Come giustificare che, di fronte a disservizi nei trasporti o ai cumuli di rifiuti, ci sia sempre qualcuno che giunge a invocare l’intervento dell’esercito?  Bisogna dunque resistere a queste pericolose tentazioni autoritarie e militariste, contrapponendovi la controinformazione ed opportune campagne di educazione alla pace, al disarmo ed alla smilitarizzazione del territorio. Facciamolo per noi, ma soprattutto per i nostri ragazzi/e, se non vogliamo ritrovarci ai tempi cupi del “libro e moschetto”.


N O T E

[i] https://en.wikipedia.org/wiki/Military_town

[ii] https://ermetespeacebook.blog/2012/05/26/e-nato-nu-criaturo-o-laco-e-patria/

[iii] https://contropiano.org/news/politica-news/2011/07/09/napolilago-patria-un-fastidioso-neo-nato-02369

[iv]  V. ad es.: https://www.ilcarrettinonews.it/in-gita-alla-base-nato-che-arricchi-la-camorra/ , https://www.istitutodonvitale.edu.it/pagine/scuola-civili-e-militari-alla-base-nato-di-lago-patria , https://www.ilcarrettinonews.it/in-gita-alla-base-nato-che-arricchi-la-camorra/ 

[v] https://ermetespeacebook.blog/2012/07/17/prove-tecniche-di-buon-vici-nato/

[vi] https://www.reportdifesa.it/esercito-italiano-firmato-un-protocollo-dintesa-per-sensibilizzare-i-ragazzi-sul-tema-delleducazione-e-sulla-gestione-dei-rifiuti-con-laiuto-degli-insegnanti/

[vii] Ibidem

[viii] Tito Livio, Ab Urbe condita, XXVIII, 28

[ix]  https://www.facebook.com/scuole.smilitarizzate/

[x] http://www.esercito.difesa.it/comunicazione/Pagine/seminario-feste-sicure_211220.aspx?fbclid=IwAR0t-SrzU3P84mjRJB5VzskIqhNCOKbhjgNg_TjfJL0UJUt_hG-xIxvF9og

[xi] https://www.anteprima24.it/napoli/esercito-scuola-napoletano/?fbclid=IwAR3dm5-nZakBwRxvKJ0H5y4Ek-5NsZl_C8m4wf_WLWQWtKvnSjTMjE_O41A

[xii] https://antoniomazzeoblog.blogspot.com/2021/12/lalternanza-scuola-lavoro-in-sicilia-si.html?fbclid=IwAR2OoJ96dWsWiLT9MshAV91IHx6LgaVX6VCdZUJ6EWM1vldvH2rP3HNpTEc

http://www.esercito.difesa.it/comunicazione/Pagine/esercito-e-comune-di-giugliano_211112.aspx

De-formazioni paramilitari

Dopo l’esperienza televisiva della serie televisiva La Caserma [i] (sulla quale a suo tempo espressi il mio pensiero con una nota in lingua napolitana [ii]) nella nostra ‘repubblica che ripudia la guerra’ prosegue in varie forme, anche fuori dei canali istituzionali delle forze armate, una crescente propaganda militarista.  Grazie alla segnalazione di un amico, ad esempio, ho scoperto che la romana Nissolino Academy (che si autodefinisce “esclusiva accademia di formazione ad indirizzo militare per i giovani meritevoli che ambiscono ai futuri quadri direttivi delle Forze Armate e delle Forze di Polizia[iii] ) ha pubblicamente lanciato la sua proposta di bootcamp, un addestramento militare accelerato per giovani volenterosi e motivati [iv]. Nella pagina del sito dedicata a questa formazione paramilitare (ma loro la chiamano “propedeutica alla vita militare”…) si precisa che è riservata a 20 ultradiciassettenni di entrambi i sessi da selezionare, che ha una durata abbastanza limitata (dal 29 agosto al 9 settembre prossimi), e che costa 1.800 euro. Si aggiunge che:

«le attività e le challenge del Nissolino Academy Bootcamp saranno riprese dalle videocamere di Skuola.net, per dare vita a un docu-reality suddiviso in 7 puntate, che sarà trasmesso online a partire da Maggio 2022». [v]

Il copione dell’iniziativa, visto il taglio mediatico, sembra il solito concentrato militarista di retorica, atletismo, disciplina e ‘spirito di squadra’. Il programma del campo-scuola per aspiranti combattenti, infatti, è stato così dettagliato:

«Attività ludico-addestrative > addestramento formale (alzabandiera, ammainabandiera, adunata, marcia, ecc.) – prove ginnico sportive – gare di orienteering – esercitazioni di softair – camuffamento militare – movimento tattico diurno e notturno. Attività psicoattitudinali > test della personalità – test psicoattitudinali – test motivazionali» [vi].

Né più né meno di quanto è stato ammannito a chi ha seguito le puntate de La Caserma, ivi compreso l’inserimento di un monitoraggio psicologico di tale addestramento, da cui ovviamente dovrebbe dedursi la rapida ed immancabile evoluzione della personalità degli anonimi ed individualisti giovanotti/e partecipanti, prodigiosamente trasformati dal corso in veri e propri soldatini.

Il percorso ‘formativo’, per ammissione degli stessi organizzatori, è frutto sia di una rigorosa routine paramilitare sul piano comportamentale, sia della educazione ad alcuni consolidati valori etico-patriottici sul piano mentale.

 «Il ripetersi della sveglia, dell’alzabandiera, dei pasti e delle attività svolte in gruppo, dormire nelle camerate e condividere le gioie e i sacrifici, crea fra i cadetti un senso di appartenenza promuovendo maturazione e crescita personale […] Chi sceglie di indossare la divisa solitamente è spinto dalla passione e dalla condivisione di valori fondamentali come coraggio, disciplina, rispetto, obbedienza, patriottismo, spirito di sacrificio, altruismo e senso del dovere. Scegliere la vita militare vuol dire anche essere pronti a stare lontani dalla famiglia e dagli affetti più cari, favorendo istinto di indipendenza e capacità di adattamento a situazioni nuove». [vii]

Voglio pure sorvolare sull’evidente contraddizione tra un addestramento basato su obbedienza e disciplina gerarchica e promozione di personalità mature e ‘indipendenti’. Però non posso fare a meno di sottolineare l’artificiosità dell’esito finale di questo corso accelerato di convivenza ‘cameratesca’ e di formazione allo spirito di ‘corpo’. L’adattamento alle norme d’una struttura organizzativa improntata a criteri opposti a quelli cui i /le giovani sono abituati, infatti, deriva solo dalla full immertion in un mondo parallelo a quello ‘civile’, scandito da regole ferree e indiscutibili, cui si può solo ubbidire in maniera “pronta, rispettosa e leale”. [viii]

Certo, chi sceglie questo genere di percorso avrà già acquisito un’impostazione di un certo tipo, visto che si tratta di un’esperienza volontaria. Però molto incide il clima spersonalizzante e gerarchico su cui si fonda l’istituzione militare e l’insistenza autoreferenziale sul fatto che sarebbe una ‘preparazione’ a 360 gradi (didattica, psico-attitudinale, atletica e perfino nutrizionale [ix]), lasciando intendere che solo in uniforme e stando in riga tutto ciò sia davvero possibile.

Un altro leit-motiv propagandandistico di questi addestramenti pre/para-militari è l’insistenza sul concetto di ‘sfida’ (spesso declinato nella forma inglese challenge). Non a caso, infatti, nella pagina web introduttiva della Nissolino Academy Bootcamp si sottolinea:

«…l’opportunità di confrontarsi per 12 giorni con i ritmi della vita militare, sfidando costantemente se stessi e i loro compagni di squadra. Il Nissolino Academy Bootcamp è riservato ai giovani più meritevoli che mostreranno spirito di iniziativa, impegno, forza, costanza e collaborazione». [x]  

Che il ‘confronto’ non si riduca per forza ad una ‘sfida’, oppure che lo spirito d’iniziativa e di collaborazione non siano affatto una prerogativa di chi veste la divisa, non sfiora nemmeno la mente degli addestratori militari. Un altro elemento attrattivo consiste poi nel presentare questi massacranti dodici giorni d’immersione nella realtà degli sturmtruppen come se si trattasse d’una vacanza impegnativa ma, tutto sommato, quasi ludica.  Leggiamo infatti:

«Questa è la tua occasione per dimostrare quanto vali. Credi in te stesso, non perdere di vista l’obiettivo e tira fuori tutta la determinazione che hai…senza dimenticare di divertirti!». [xi]  

Non a caso nello stesso testo si utilizzano termini come camouflage (“occultamenti, travestimenti e altri accorgimenti ingannevoli”); orienteeringricerca di un certo numero di obiettivi elencati in una mappa, attraverso la scelta del percorso più breve») oppure softairattività ludico-ricreativa basata sulla simulazione di azioni militari, senza tuttavia essere violenta. I ragazzi indosseranno dispositivi di protezione individuale e utilizzeranno riproduzioni di vere armi da fuoco che sparano piccoli pallini di plastica biodegradabili, totalmente innocui…»).  Un grande ed appassionante gioco a squadre, insomma. Una specie di campo-scuola a metà fra campeggio estivo e formazione scoutistica, dove si sparano allegramente proiettili di plastica in attesa di sparare, col tempo, quelli un po’ meno degradabili ed un po’ più letali… Altro che partecipazione ai campi estivi per educare alla pace ed alla trasformazione nonviolenta dei conflitti! Lì s’impara il “movimento tattico”, si forma alla “leadership” e si prepara ad attività “multitasking”, accrescendo nei fortunati giovani partecipanti il “livello di ambizione”.

Che dire? Quello che mi preoccupa non è tanto il ‘camouflage’ da meritorio ente formativo di un ente privato che addestra a pagamento i nostri giovani a diventare bravi ed ubbidienti soldatini. Il vero problema è la pervasiva militarizzazione della società, della cultura e perfino del linguaggio quotidiano, cui in troppi si stanno assuefacendo, senza battere ciglio. Imparare ad ubbidire agli ordini e ad eliminare fisicamente gli avversari non può essere frutto di una ‘formazione’, ma piuttosto il risultato di una crescente deformazione ideologica ed etica, cui vanno contrapposti ben altri valori ed obiettivi. Concludo quindi con le parole di don Milani:

«E allora (esperienza della storia alla mano) urgeva più che educaste i nostri soldati all’obiezione che all’obbedienza. L’obiezione in questi 100 anni di storia l’han conosciuta troppo poco. L’obbedienza, per disgrazia loro e del mondo, l’han conosciuta anche troppo…». [xii]

© 2021 Ermete Ferraro


N o t e :

[i]  Vedi: https://www.raiplay.it/programmi/lacaserma

[ii] Ermete Ferraro, “ ‘A caserma nunn’è na scola ”, Napoli , quotidiano gratuito, 30.01.2121 > https://www.quotidianonapoli.it/2021/01/30/a-caserna-nunn-e-na-scola/?fbclid=IwAR1bDftCDTq0vnmY4Ebcq0HkpxAM6nFusARax6V7d3iLmgKyGY81wQTi50U

[iii] Vedi: https://www.nissolinoacademy.it/

[iv] Vedi: https://www.nissolinoacademy.it/nissolino-academy-bootcamp/?fbclid=IwAR2ZzLFtInF7kDoUM7UdL7y7dcPIXk0MSm7AfYQDAD0OrXe5tWpE16xi68Y

[v]   Ibidem

[vi]  Ibidem

[vii]  https://www.nissolinoacademy.it/vita-militare/

[viii] Cfr. art. 5, comma 1, del Regolamento  di Disciplina militare > https://www.peacelink.it/pace/a/76.html

[ix] Cfr. https://www.nissolinoacademy.it/vita-academy/

[x]  Vedi: https://www.nissolinoacademy.it/nissolino-academy-bootcamp-esperienza-vita-militare/

[xi]   Ibidem

[xii]  https://www.famigliacristiana.it/articolo/l-obbedienza-non-e-piu-una-virtu-il-testo-di-don-lorenzo-milani.aspx

Ecolinguistica: un campo inesplorato da coltivare

Un ambito interdisciplinare da esplorare

In Italia la sensibilità verso gli studi di ecologia sembra meno sviluppata che in altri paesi, anche perché resta ancora non del tutto sanata la tradizionale frattura fra discipline scientifiche ed umanistiche. Questo “anacronistico equivoco intellettuale”, per citare Odifreddi, ha creato e continua a determinare un’artificiosa barriera all’interno della universitas studiorum, spezzando l’unità della cultura e finendo col contrapporre due diverse letture del mondo. Ecco perché il connubio concettuale racchiuso nell’espressione ecolinguistica appare poco significativo alla maggioranza di coloro che pur si occupano di ecologia o di linguistica. È come se lo si considerasse uno studio d’importazione, riservato a pochi eletti, un terreno di ricerca troppo specifico ed accademico e per di più con scarse ricadute pratiche. Ebbene, credo che vada sfatato anche questo più specifico ‘equivoco intellettuale’, accordando finalmente alla ecologia linguistica più attenzione e maggiori occasioni di studio e di ricerca. L’ecologia scientifica, infatti, ha sicuramente bisogno del contributo dell’analisi ecolinguistica e sociolinguistica per comprendere i meccanismi mentali e sociali che – oltre quelli strutturali – continuano a frenare il processo di cambiamento, pur nell’accresciuta consapevolezza del disastro ambientale e delle sue cause.

Troviamo una definizione di cosa s’intende col termine ecolinguistica nella pagina d’accoglienza del sito web della I.E.A (International Ecolinguistics Association), rete universitaria che collega ben 800 ricercatori a livello mondiale.

L’ecolinguistica esplora il ruolo del linguaggio nelle interazioni che sostengono la vita degli esseri umani, delle altre specie e dell’ambiente fisico. Il primo scopo è sviluppare teorie linguistiche che vedano gli esseri umani non solo come parte della società, ma come parte di ecosistemi più vasta, da cui dipende la vita. Il secondo scopo è mostrare come la linguistica possa essere usata per affrontare questioni-chiave ecologiche, dal cambiamento climatico ed alla perdita di biodiversità fino alla giustizia ambientale. (I.E.A. Home).

Nell’introduzione ad un corso promosso dalla I.E.A. – che sintetizza il contenuto dei nove capitoli del manuale di Arran Stibbe (2015)sispiega che è compito dell’analisi ecolinguistica rivelarci le ‘storie’ che viviamo, analizzandole dal punto di vista ecologico con un fine che non è puramente teorico, in quanto vuol metterci in grado di resistere alle narrazioni che danneggiano il nostro mondo e d’inventarne di nuove, alternative.  L’ecologia linguistica ci aiuta ad inquadrare tali ‘storie’ in una determinata filosofia ecologica, un insieme di valori riguardanti le relazioni tra l’uomo, le altre specie animali e l’ambiente fisico di cui fanno parte. Si tratta di analizzare in che modo una certa cultura c’induce a pensare tali relazioni e, conseguentemente, ad agire. Verbo, è bene precisarlo, che non si riferisce all’azione in senso stretto, ma anche all’interazione linguistica, secondo una visione pragmatica della lingua, che non si limita a ‘dire’ ma è anche capace di ‘fare’. Le narrazioni della nostra realtà, infatti, sono vere e proprie ‘riserve di valori’, intessute non solo di ‘fatti’ ma intimamente caratterizzate da ideologie di fondo, metafore, valutazioni e perfino da significative omissioni.

Il manuale citato, a tal proposito, fa l’esempio di alcune narrazioni del mondo che hanno segnato il nostro rapporto con l’ambiente, relative ad alcuni concetti basilari. È il caso di parole-chiave come ‘prosperità’ – che ha promosso l’arricchimento come acquisizione di bene e di denaro – ‘sicurezza’ – che ha contribuito a sviluppare relazioni di dominio e strutture violente al loro servizio, come pure altri termini che ci presentano un mondo ridotto a materia e meccanismi, caratterizzato dalla centralità dell’uomo e dal suo assoluto dominio sulle altre specie, indiscutibile e senza limiti. Utilizzare l’analisi linguistica per rivelare le stratificazioni ideologiche dietro le nostre storie può aiutarci a capire come e quanto esse influenzino la nostra visione della realtà, alimentando un modello di sviluppo insostenibile ed iniquo. Comprendere quanto simili narrazioni possano rivelarsi distruttive da un punto di vista ecologico, inoltre, ci rende più consapevoli e capaci di cambiare rotta in senso costruttivo, anche attraverso l’impiego d’una ben diversa modalità linguistica.  Parafrasando uno dei primi studiosi di ecolinguistica, l’inglese M.A.K. Halliday (Halliday, 2003), c’è una ‘sindrome di caratteristiche grammaticali’ che contribuisce a costruire la realtà in modi che non fanno bene alla nostra salute né al nostro futuro come specie.

Nell’attuale cultura dominante, però, scarsa l’attenzione è stata riservata a questo ambito della ricerca, come se si trattasse di elucubrazioni mentaliste, mentre l’insostenibilità del nostro mondo richiederebbe interventi correttivi di stampo scientifico, tecnologico o, al massimo, economico. Il problema è che non siamo ancora del tutto consapevoli che il linguaggio non è solo rappresentazione di una realtà, ma contribuisce a costruirla e determinarne le caratteristiche.  Ecco perché studiare quella ‘sindrome di caratteristiche grammaticali’ sarebbe molto importante per liberarci dai meccanismi culturali inconsci che influenzano le nostre scelte, anche in campo ambientale.

Un campo di studi linguistici da coltivare

Nel suo libro sull’approccio ecolinguistico alla ‘analisi critica del discorso’ riguardante uomo e ambiente, Arran Stibbe stabilisce alcuni punti fondamentali cui attenersi:

a) L’attenzione si concentra sui discorsi che hanno (o potenzialmente hanno) un impatto significativo non solo sul modo in cui le persone trattano le altre persone, ma anche su come trattano i sistemi ecologici più ampi da cui dipende la vita.

b) I discorsi vengono analizzati mostrando come gruppi di caratteristiche linguistiche si uniscono per formare particolari visioni del mondo o “codici culturali” […]

c)  I criteri in base ai quali le visioni del mondo vengono giudicate derivano da una filosofia ecologica (o ecosofia) esplicita o implicita. Un’ecosofia è informata sia da una comprensione scientifica di come gli organismi (compresi gli esseri umani) dipendono dalle interazioni con altri organismi e da un ambiente fisico per sopravvivere e prosperare, sia da un quadro etico per decidere perché la sopravvivenza e la prosperità sono importanti […]

d) Lo studio mira a esporre ed a suscitare attenzione su discorsi che sembrano essere ecologicamente distruttivi […] o in alternativa a cercare di promuovere discorsi che potenzialmente possano aiutare a proteggere e preservare le condizioni che supportano la vita […]

e) Lo studio è finalizzato all’applicazione pratica attraverso la sensibilizzazione al ruolo del linguaggio nella distruzione o protezione ecologica, informando le politiche, caratterizzando lo sviluppo educativo o fornendo idee che possono essere utilizzate per ridisegnare testi esistenti o per produrre nuovi testi in futuro. (Stibbe, 2014).

Con l’espressione ’analisi critica del discorso’ (in inglese: CDA – Critical Discourse Analysis) si fa riferimento ad un approccio sociolinguistico che si è diffuso negli anni ’90, la cui matrice filosofica si ispirava a precedenti riflessioni di Michel Foucault sul potere delle parole. L’ACD si occupa di mettere in luce le relazioni che intercorrono tra il potere ed i testi finalizzati all’informazione e alla formazione delle persone e delle comunità. Si tratta di discorsi pubblici veicolati dai media, di cui la linguistica ci aiuta ad analizzare le caratteristiche testuali, come la gerarchia degli argomenti trattati, gli espedienti retorici utilizzati, il tipo di argomentazione e le caratteristiche espressive.

Il primo luogo comune da sfatare è che il linguaggio rispecchi la realtà, mentre in larga parte contribuisce a crearla, o quanto meno a determinarla. Ecco perché anche i ‘discorsi’ sulle questioni ambientali non vanno sottratti all’analisi critica, in modo da svelare valori e visioni della vita che influenzano pesantemente tali narrazioni e contribuiscono a formare la c.d. ‘opinione pubblica’.  L’approccio ecolinguistico, dunque, è fondamentale per diventare consapevoli dell’interazione tra lingua, parlanti ed ambiente (fisico e sociale) che ne costituisce il contesto e, in generale, dei rapporti tra uomini, società e natura.  

Ma se il termine ‘ecolinguistica’ è usato in senso lato, bisogna distinguere al suo interno impostazioni e finalità abbastanza diverse, in base al rapporto tra i due elementi che lo compongono. Quando le conoscenze linguistiche servono ad analizzare e demistificare le ‘storie’ relative alle problematiche ambientali, siamo più nell’ambito di una linguistica ecologista. Quando invece i principi ecologici sono applicati all’analisi dei fenomeni sociolinguistici, rientriamo maggiormente nell’ambito dell’ecologia del linguaggio.

Quest’ultima, infatti, si occupa della salvaguardia della diversità linguistica e dei rischi cui va incontro una società caratterizzata dall’omologazione linguistica, che consolida il potere delle culture dominanti, cancellando antichi patrimoni di sapere e specificità espressive.

L’ecolinguistica è quella branca della linguistica che tiene conto degli aspetti dell’interazione, tra lingue, tra parlanti, tra comunità linguistiche o tra lingue e mondo, e che, al fine di promuovere la diversità dei fenomeni e le loro relazioni, si adopera in favore del piccolo (Fill, 1993: 4)

Questo approccio risulta naturalmente più vicino alla sensibilità ecologista, in quanto applica alle lingue la stessa attenzione protettiva che le organizzazioni ambientaliste prestano alle minacce alla diversità biologica. La diversità linguistica, in tale contesto, è percepita non soltanto come valore fondamentale sul piano culturale e sociale, ma anche come fattore di equilibrio in un mondo dominato dal pensiero unico, dall’omologazione e dalla globalizzazione economica, caratteristiche che Vandana Shiva aveva efficacemente sintetizzato nell’espressione  “monoculture della mente” (Shiva, 1995).

Nel saggio “Lingue soffocate” – pubblicato nel 2004 dall’Associazione VAS Verdi Ambiente e Società –   già sedici anni fa mi ero occupato di questo problema, soffermandomi sulla crisi ecolinguistica di cui pochi – ambientalisti e linguisti – sembravano prestare attenzione. Proseguendo il discorso iniziato due anni prima sull’educazione alla tutela della diversità culturale come estensione della salvaguardia della biodiversità (Ferraro, 2002), la mia attenzione si era focalizzata sulla grave perdita di diversità linguistica provocata da un modello di sviluppo accentratore e omologatore.

Dopo un lungo periodo di militanza ambientalista ed ecopacifista, la consapevolezza dei rischi derivanti dalla crescente perdita di biodiversità m’induce a riproporre l’esigenza di una ‘ecologia della lingua’ che esca dalle aule universitarie e dalle stesse ricerche sul campo degli studiosi, per diventare acquisizione comune di un movimento ecologista finora poco sensibile a tali tematiche. Come nel caso dell’ecopacifismo, però, non basta sommare sbrigativamente battaglie ambientaliste sociali e culturali, ma bisogna saldare queste dimensioni, a partire dalla constatazione che […] il mantenimento della lingua fa parte dell’ecologia umana, e che la difesa della biodiversità non è una battaglia settoriale, ma l’affermazione di una filosofia di vita complessivamente alternativa. (Ferraro, 2004: 8).

L’ecolinguistica come veicolo di cambiamento

Gli studi ecolinguistici, però, non devono restare confinati in ambito accademico, come ricerche finalizzate solo alla comprensione delle dinamiche socio-ambientali esistenti e non all’impegno per cambiare l’interazione cogli ecosistemi, di cui stiamo minacciando i delicati equilibri e, con essi, la nostra stessa sopravvivenza come specie.

Sul piano della linguistica ecologista, Arran Stibbe si è soffermato sul peso che un certo modo di ‘inquadrare’ linguisticamente la realtà influisca fatalmente sulla lettura che ne diamo, perpetuando stereotipi e certezze aprioristiche che impediscono proprio quel cambiamento. L’uso del framing, appunto, ‘inquadra’ le questioni ambientali all’interno di una struttura mentale predefinita. In tal senso, sono utilizzati spesso ‘pacchetti di conoscenza generale’ per inquadrare un problema ecologico, come il riscaldamento globale, ora come questione ambientale da risolvere, ora come minaccia alla sicurezza da fronteggiare, ora come situazione spiacevole oggettiva cui dovremmo adattarci.

”La natura è una risorsa” è stata fornito come esempio di inquadramento ‘distruttivo’ poiché le risorse sono preziose solo se vengono o saranno consumate; non hanno valore se lasciate a se stesse per sempre. Ciò contraddice l’ecosofia di questo libro, che attribuisce considerazione etica alla vita e al benessere di altre specie […] l’inquadramento ‘sviluppo’, che in origine era un tentativo altruistico di alleviare la povertà nei paesi poveri, è invece finito come ‘crescita sostenuta’, cioè un tentativo di massimizzare la crescita economica nei paesi ricchi a danno dei poveri. (Stibbe, 2015)

Il parametro usato da Stibbe per classificare e valutare queste narrazioni antropocentriche ed utilitaristiche è il danno che esse provocano agli ecosistemi, per cui la loro ‘distruttività’ risulta direttamente proporzionale alla loro minaccia alle specie ed all’ambiente in genere. Sarebbe invece positivo un inquadramento linguistico alternativo di tali problematiche, che incoraggiasse atteggiamenti e comportamenti di  protezione ambientale, riportando l’attenzione sulla natura in sé, non come ‘risorsa’ da sfruttare.

L’utilizzo di un determinato codice linguistico, d’altra parte, ha fatto sempre parte dell’armamentario utilizzato dalle classi e nazioni dominanti per controllare quelle subalterne e mantenerle asservite. Valeva per le civiltà antiche – come quella greca e romana – ma è innegabile che l’utilizzo delle lingue resti tuttora uno strumento per sancire una gerarchia socio-politica che subordini alcuni soggetti sociali ad altri. Un grande scrittore distopico come George Orwell, infatti, nel suo celeberrimo ‘1984’ ha inquadrato perfettamente la decostruzione e ricostruzione del codice linguistico di una comunità come uno degli elementi cardine per realizzare e mantenere una dittatura globale e totale.

Il fatto è che l’inquietante modello unico di economia di società e di cultura profetizzato da Orwell ci si sta materializzando sempre più davanti. Non a caso quella “età del livellamento, della solitudine, del Grande Fratello e del Bispensiero” era caratterizzata dalla repressione della diversità linguistica e dalla diffusione forzata di una lingua standardizzata, ridotta all’essenziale, volutamente inespressiva. (Ferraro, 2004: 3)

Dominare il linguaggio di un soggetto collettivo significa dominarne il pensiero e le scelte, ma tale regola vale sempre e comunque anche per ciò che concerne le questioni ambientali. È dunque indispensabile occuparsi di più e meglio di come il livellamento linguistico e l’utilizzo di determinati ‘inquadramenti’ ci stiano condizionando, confermando quindi l’attuale modello di sviluppo come l’unico possibile ed auspicabile. La stessa contrapposizione tra ‘sviluppo’ e ‘protezione ambientale’ è prova di questa mistificazione logico-linguistica, che insiste ossessivamente sul concetto di ‘crescita’ come fattore di benessere cui non possiamo rinunciare. La stessa crisi ecologica, paradossalmente, è spesso affrontata come se la soluzione consistesse nel reperire maggiori e più potenti strumenti economici scientifici e tecnologici, consolidando il modello antropocentrico, scientista e tecnocratico che sta alla radice del problema.

Una seconda antitesi è tra ‘crescita’ e ‘povertà’, come se non fosse stato proprio il sistema economico capitalista ed il modello crescista di sviluppo ad allargare la frattura fra un piccolo mondo ricco e potente ed una larga parte di umanità sempre più povera, fragile e subalterna. Non è un caso che occuparsi di giustizia sociale e di uguaglianza di diritti spesso sia stato strumentalmente contrapposto alla preoccupazione dei movimenti ambientalisti per la preservazione della natura e la tutela degli ecosistemi. Ma, come ha giustamente sottolineato un ecologista sociale come Antonio D’Acunto:

Si pone ora sempre più urgente la necessità superiore non solo di rallentare la catastrofe, ma di invertire il futuro dell’umanità, con il suo modello culturale, economico, produttivo e sociale, verso il Pianeta della vita e della biodiversità, liberandolo dal cancro dello sfruttamento tra gli uomini e verso la natura. (D’Acunto 2019: 45)

In tale direzione eco-socio-linguistica va la riflessione di uno studioso argentino, Diego L. Forte, che considera l’ecolinguistica terreno per una ‘nuova lotta di classe’. Integrando strumenti squisitamente linguistici, come l’analisi critica del discorso, con quelli della sociolinguistica, egli ritiene possibile andare oltre i tradizionali parametri della lotta di classe, aprendosi a tutte le disparità sociali che nascono dall’egemonia di alcuni soggetti su altri, fra cui quelle etniche e quelle di genere.

La decostruzione e la proposta alternativa, quindi, devono nascere dal ripensamento del concetto di classe: non si può più pensare alle classi sociali come le intendeva Marx, gli oppressi non possono continuare ad agire da soli. Molti movimenti stanno prendendo coscienza della necessità di unire gli sforzi per combattere lo stesso oppressore. L’idea di un’integrazione delle lotte basata su una rielaborazione dovrebbe essere il nuovo passo per gli studi critici. […] nuovi discorsi e storie devono guidarci, ma, senza mettere in discussione i sistemi egemonici, questi cambiamenti non possono aver luogo. […] Il cambiamento delle storie è certamente la via d’uscita, ma le nuove storie non sostituiscono automaticamente quelle vecchie. I cambiamenti arbitrari derivano dalla lotta di classe e il passaggio da una narrazione all’altra implica necessariamente questa lotta, che noi sosteniamo debba essere ridefinita. Questa è la lotta cui deve partecipare l’ecolinguistica.  (Forte 2020: 13-14)

Ecologia delle lingue: una questione spinosa

Nei citati saggi del 2002 e 2004 mi ero occupato di come l’ecologia delle lingue  contrasti la perdita delle diversità linguistiche e culturali causate dalla globalizzazione, mostrandone il parallelismo con l’impegno ambientalista per difendere e promuovere la diversità biologica, minacciata da un modello di sviluppo predatorio ed iniquo.

Ecco perché, così come si parla di biodiversità a tre diversi livelli (genetica, di specie ed ecosistemica) sembra importante allargare il discorso alla salvaguardia…della diversità culturale degli esseri umani, visti come individui, come etnie e come comunità socio-politiche, adoperandosi per la salvaguardia delle varie specificità etnico-culturali, non solo come strumento contro la predominanza delle classi egemoni, ma come tutela dell’identità culturale d’intere popolazioni e come difesa dell’antropodiversità dall’azione omologante e riduttiva della globalizzazione. (Ferraro, 2002: 38-39).

Il mio impegno ecolinguistico – che scaturiva dalla necessità di realizzare quanto sancito dall’UNESCO sul diritto alla diversità linguistica, che va non solo tutelata ma ‘incoraggiata’ (UNESCO, 2000, art. 5) – si è poi consolidato, in seguito ad approfondimenti teorici ed alla militanza in un’associazione ambientalista che ha fatto propria questa impostazione. Infatti, a livello regionale furono promosse in Campania cinque edizioni della Festa VAS della Biodiversità’, con sessioni dedicate proprio alla tutela della diversità culturale, intesa come risorsa e non come problema. 

Il mio saggio “Voci soffocate” – presentato in occasione dell’edizione 2004 di quell’evento – riecheggiava nel titolo un testo fondamentale per comprendere il peso che l’ecologia delle lingue dovrebbe avere in una transizione ecologica che sappia integrare i saperi scientifici con quelli umanistici, per realizzare una società più giusta e rispettosa degli equilibri vitali.  ‘Vanishing Voices. The Extintion of World’s Languages’, saggio scritto da un antropologo e da una linguista (Nettle – Romaine, 2002), ha ispirato la mia riflessione sulle lingue che spariscono o sono comunque minacciate dall’omologazione e stanno perdendo la loro caratteristica di specchio e di veicolo di specifiche identità socioculturali.

Di fronte all’accelerazione del processo di scomparsa delle espressioni linguistiche locali – e dei saperi che esse trasmettono – linguisti, antropologi ed ecolinguisti stanno adoperandosi per preservare in ogni modo questo patrimonio, documentandolo per mezzo dei più moderni e tecnologici strumenti disponibili, studiandone le specificità glottologiche, stampandone vocabolari e testi che ne documentino le caratteristiche culturali originali. (Ferraro, 2004: 5)

Tutelare il diritto delle minoranze etnolinguistiche, nel tempo, si è rivelato più agevole che salvaguardare e garantire un futuro a lingue considerate comunque ‘minoritarie’ o ‘regionali’, che non rischiano l’estinzione bensì l’accantonamento, lo snaturamento e la corruzione sul piano lessicale, grammaticale ed ortografico. Basti pensare che in una realtà nazionale come quella italiana le disposizioni legislative a tutela di minoranze etniche hanno preceduto di mezzo secolo quelle emanate a protezione di espressioni linguistiche considerate secondarie e localistiche rispetto alla lingua nazionale. 

 Il divario fra le cosiddette minoranze ‘riconosciute’ e quelle ‘non riconosciute’ era diventato sempre più ampio, poiché le prime avevano potuto godere …di provvedimenti che andavano ad incidere positivamente sui diritti linguistici dei parlanti, le altre invece, o non avevano ricevuto nessun tipo di sostegno da parte delle istituzioni, oppure avevano potuto disporre solamente di interventi regionali di carattere culturale che, oltre a non evitare i fenomeni di assimilazione linguistica, privilegiavano spesso gli aspetti più strettamente folkloristici delle identità minoritarie. (Cisilino, 2004: 176)

Fa riflettere il fatto che il riconoscimento ufficiale dell’Italiano come lingua nazionale – non sancito nella Costituzione repubblicana – sia stato paradossalmente introdotto proprio dall’art. 1 della legge n. 482 del 1999, che dettava “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”. Da allora, grazie alla pur tardiva sottoscrizione da parte dell’Italia della Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003, ma soprattutto all’attivismo di studiosi e appassionati, sono stati fatti passi avanti, anche se in modo scoordinato e spesso con accenti che, più che ai principi d’un federalismo ecologista e verde, apparivano ispirati ad un autonomismo identitario.

Nella regione Campania, ad esempio, il Consiglio Regionale aveva registrato negli ultimi decenni la presentazione di varie proposte di legge sulla tutela della lingua napolitana. Mentre alcune di esse insistevano solo sull’aspetto identitario, con toni nazionalistici e lo sguardo nostalgicamente rivolto alla conservazione d’un illustre passato da rivalutare, altre si aprivano ad un pluralismo che non escludeva la protezione di altre espressioni linguistiche locali, per non riprodurre regionalmente il modello accentratore dell’idioma standardizzato. Per questo motivo, come accade nella dinamica dei contesti politico-istituzionali, la proposta di legge presentata in Campania dai Verdi (alla cui stesura avevo dato il mio contributo personale), ha dovuto fare i conti con un’analoga proposta della destra. Il testo approvato lo scorso anno dal Consiglio Regionale (L.R. Campania n. 19/2019) è stato pertanto frutto di un compromesso tra due visioni differenti del problema, finendo col restringere la tutela al solo patrimonio linguistico del Napolitano ed accentuando il peso del mondo accademico in questo processo, anziché aprire ad una pluralità di soggetti pur esperti in materia.

In una interessante tesi di laurea magistrale in Filologia e Letteratura Italiana, discussa nell’a.a. 2012-13 all’Università Ca’ Foscari di Venezia, si è affrontato approfonditamente il concetto di “sostenibilità linguistica”, con particolare attenzione al pluralismo linguistico ed in riferimento a differenti scuole di pensiero in ambito ecolinguistico internazionale. Dal raffronto tra vari modelli presi in esame – quello ecosociale del catalano Alberto Bastardas Boada (Bastardas Boada, 2013), quello francofilo del tunisino Claude Hagège (Hagège, 1999)  e quello anglosassone dei citati Daniel Nettle e Susanne Romaine (Nettle e Romaine, 2001) – il candidato metteva criticamente in luce alcuni aspetti contraddittori, in modo particolare nel primo caso, riferendoli poi anche al dibattito nel contesto glottologico italiano.

Quando Bastardas Boada elenca i cinque punti che dovrebbero servire da guida per la sostenibilità…sembra quasi che egli abbia in mente un mondo composto da migliaia di gruppi umani autonomi, tendenzialmente omogenei ed impermeabili verso l’esterno, che possano arbitrariamente decidere di usare la loro lingua per tutti gli ambiti […] A ciò va aggiunto l’auspicio del linguista catalano di veder riconosciuto a tutti gli idiomi minoritari lo status di lingue ufficiali. Tale proposta, se da un lato dovrebbe prevedere un minimo di standardizzazione degli idiomi in questione, dall’altro, e proprio per questo, avrebbe un effetto negativo, ad esempio, sui dialetti di quegli stessi idiomi, poiché, come afferma Hagège, standardizzare una lingua significa automaticamente screditare le sue varietà. (Perin, 2013: 113-114)

Questa osservazione, peraltro legittima, è stata ripresa in riferimento ai tentativi di diffondere in Italia un modello plurilinguistico che, si obbietta, contraddirebbe se stesso quando pretende d’istituzionalizzare solo determinati idiomi, servendosi di strumenti artificiali, come quelli legislativi. Ma è davvero così?

Ecolinguistica, ecopacifismo ed irenolinguistica

La contraddizione tra la visione multiforme e policentrica di chi sostiene il diritto ad una libera espressione linguistica e il perseguimento della ‘normalizzazione’ istituzionale di tale diritto, col rischio di proteggere e valorizzare solo alcuni idiomi a discapito di altri, è un problema che l’ecologia delle lingue deve affrontare. D’altra parte, non è accettabile che si contrappongano strumentalmente diverse ipotesi ecolinguistiche, quando esistono soluzioni intermedie cui ricorrere per garantire una effettiva ‘sostenibilità linguistica’.

Ad esempio, in uno studio citato dalla stessa tesi (Dell’Aquila e Iannàccaro, 2004), si spiega come tale ‘pianificazione linguistica’ istituzionale possa essere declinata in più modi e con diverse sfumature. Esse vanno dal Language revival (che tenta di riportare in uso lingue poco parlate), alla Language revitalization (che incrementa le funzioni di una lingua minacciata, migliorandone lo status), passando per il Reversing language shift (che dà un sostegno a livello comunitario a lingue poco praticate dalle nuove generazioni) ed arrivando al Language renewal (per garantire che almeno alcuni componenti di una comunità continuino ad apprenderle ed utilizzarle).

Tali modalità di pianificazione resterebbero comunque operazioni artificiose d’ingegneria sociolinguistica se non fossero sostenute ed accompagnate da un effettivo impegno sociopolitico e culturale per rivitalizzare il rapporto di una comunità col suo territorio e per preservarne l’integrità ambientale. Il vero conflitto, infatti, non è tanto quello tra lingue egemoni e idiomi locali relegati ad espressioni inferiori, condannate al deperimento o alla scomparsa. È lo stesso modello di sviluppo attuale che non consente il mantenimento del pluralismo culturale e linguistico, confliggendo anche con una prospettiva di economia decentrata, di sviluppo comunitario e policentrico, di equità di diritti e di protagonismo sociale. Ecco perché l’ecolinguistica non dovrebbe svilupparsi come terreno di studio a sé stante, ma andrebbe integrata in una complessiva alternativa ecologista, globale nei principi e locale nelle azioni.

In quale direzione oggi va il nostro mondo? Verso i valori della Età dell’oro – umanità, socialità, comunione dei beni naturali, pace e nonviolenza, amore per la Madre Terra […] o verso il distacco sempre più profondo da tali valori? […] Dominano l’idea e la pratica che il Pianeta è dell’uomo che vive oggi e non delle future generazioni, e – nella stessa filosofia di forza e di potere tra le specie – di quell’uomo che è più forte e potente, capace di sfruttare fino in fondo ogni risorsa. (D’Acunto, 2019: 94)

La necessaria diffusione dei principi e delle varie tecniche operative di studi di per sé interdisciplinari come quelli ecolinguistici, pertanto, andrebbe inserita in un progetto più ampio, di cui faccia parte anche l’ecopacifismo, altro aspetto piuttosto trascurato dal movimento ambientalista o banalizzato a mera alleanza tattica con quello pacifista.

In uno scritto del 2014 avevo ipotizzato una saldatura meno strumentale, partendo dalla considerazione che la logica di accumulazione e dominazione, tipica del modello di sviluppo capitalista, genera sia lo sfruttamento dei beni naturali e la devastazione ambientale, sia il sistema di militarizzazione e guerra del complesso militare-industriale.  

I. L’ecopacifismo non è la pura e semplice sommatoria di obiettivi programmatici e di azioni pratiche relative alla lotta per la difesa degli equilibri ecologici ed alla opposizione al militarismo ed alla guerra. Con questo termine andrebbe invece caratterizzata un’impostazione etico-politica ed un programma costruttivo globale, nei quali la nonviolenza si manifesti sia nella salvaguardia dell’ambiente naturale e di tutte le forme di vita, sia nella ricerca di alternative costruttive ai conflitti.  II. L’ecopacifismo non è una dottrina politica ma neanche una semplice strategia d’azione. Sullo sfondo della proposta ecopacifista, infatti, si delinea un ben preciso modello di convivenza e di sviluppo economico-sociale. La sua caratterizzazione ecosocialista, autogestionaria ed antimilitarista è riconducibile alla tradizione etico-religiosa dell’Ahimsa gandhiana, alla nonviolenza laica di pensatori come Capitini ed anche alle proposte di pacifisti di matrice anticapitalista e terzomondista.  (Ferraro, 2014: 4)

I fenomeni di marginalizzazione sociale e di controllo centralistico della società, tipici di un modello economico che ha compromesso gli equilibri ecologici per sete di conquista e di dominio, sono alla base anche della progressiva eliminazione delle diversità culturali e linguistiche. Ma il pervasivo imperialismo militarista e guerrafondaio, che si affianca a quello economico tutelandone gli interessi globali, è ugualmente un frutto di quel sistema.

Secondo un’ottica nonviolenta, i conflitti non devono essere esorcizzati né occultati, ma rivelati, analizzati e possibilmente trasformati, o meglio ‘trascesi’, mutuando l’espressione usata da Johan Galtung (Galtung 2000) per caratterizzare e diffondere il suo metodo.  Per affrontare la triade alla base di tutti i conflitti (atteggiamenti e comportamenti ostili ed interessi contrapposti), infatti, egli ipotizzava che si debba far riferimento al triangolo costruttivo empatia-nonviolenza-creatività.

Ma se l’educazione alla pace e l’azione per la pace sono finalizzate al superamento costruttivo di conflitti altrimenti distruttivi, anche in ambito sociolinguistico ed ecolinguistico si potrebbe andare nella medesima direzione. Una comunicazione nonviolenta ha bisogno di strumenti ecolinguistici – come l’analisi critica del discorso – che rendano consapevoli dei pregiudizi e degli inquadramenti ideologici che alimentano i conflitti. Deve ipotizzare anche una modalità comunicativa alternativa, che usi il potere delle parole non per distruggere, ma per costruire relazioni positive fra individui e comunità.

Anche su questo terreno, già dai primi anni ’80 avevo provato a portare un contributo, ipotizzando una ‘educazione linguistica nonviolenta’ (Ferraro, 1984) che, se da un lato svelasse e denunciasse l’uso negativo della comunicazione linguistica, per fini di contrapposizione e di dominio, dall’altro proponesse una modalità di comunicazione positiva, costruttiva e creativa. Le metafore da me utilizzate erano le finestre contrapposte alle persiane, i ponti contrapposti ai muri e le colombe contrapposte alle civette.

Le mie Otto tesi per l’Educazione linguistica nonviolenta (ELN) cercavano di far luce su funzioni e disfunzioni del linguaggio umano, utilizzabile sia in positivo sia in negativo. Il percorso proposto si basava sulle tre principali funzioni del linguaggio: cognitiva, sociale ed espressiva. […] L’ELN propone di riaprire questa finestra sul mondo, eliminando al massimo deformazioni, equivoci ed ostacoli alla comunicazione interpersonale e riaprendo il flusso di una comunicazione che, già etimologicamente, vuol dire mettere in comune idee ed emozioni […] L’ELN propone di educare i ragazzi ad usare la lingua come strumento di pace e come mezzo di scambio empatico. Il primo passo è renderli consapevoli della negatività d’una comunicazione che sottolinei le diversità, presentandole come ostacoli e non come occasione di reciproco arricchimento […] L’ELN propone di restituire alle parole la loro natura di specchio del pensiero, di espressione chiara e onesta dei sentimenti. La ‘colomba’ del linguaggio sincero e rispettoso deve sostituire la ‘civetta’ d’una comunicazione falsa, ipocrita ed opportunista. (Ferraro 2018: 191-192)

Grande successo e diffusione hanno incontrato a livello internazionale, dalla metà degli anni ’90, gli autorevoli contributi di Marshall B. Rosemberg relativi alla Nonviolent Communication – NVC ® (Rosemberg, 2015). La Comunicazione Nonviolenta, in sintesi, è una metodologia che: (a) scoraggia generalizzazioni, giudizi e tentativi d’incasellare la realtà dentro categorie rigide e prefissate, promuovendo un’analisi oggettiva delle proprie sensazioni; (b) incoraggia la libera manifestazione dei sentimenti, superando timori, blocchi e sensi di colpa attraverso l’espressione autentica di quanto proviamo; (c) propone di mettere da parte critiche, rimproveri ed aspettative verso gli altri, riscoprendo ed esprimendo i veri bisogni; (d) auspica una comunicazione empatica con gli altri, evitando le pretese ed imparando ad esprimere richieste chiare e positive.

Un approccio ancor più vicino a quello ecolinguistico, infine, è stato formulato dallo psicoterapeuta biosistemico Jerome Liss (Liss, 2016)

La Comunicazione Ecologica (C.E.) […] è l’applicazione dei principi ecologici alle relazioni umane: coltivare le risorse di ogni persona, rispettare la diversità pur mantenendo una coesione globale, agendo per un obiettivo comune […] ristabilire un equilibrio ecologico tra i bisogni individuali e la crescita della totalità. Va quindi facilitata nei gruppi una comunicazione democratica, cercando soluzioni alternative ai conflitti e superando le valutazioni negative con una “critica costruttiva“. (Ferraro,2018: 194)

L’irenolinguistica – un mio neologismo per designare la formazione ad una comunicazione nonviolenta ed ecologica – potrebbe integrare studi specificamente ecolinguistici con l’intento educativo di cui dovrebbero farsi carico non solo le famiglie e gli insegnanti, ma anche quelli che gestiscono potenti mezzi di comunicazione di massa. A partire dalla decostruzione e demistificazione di strutture mentali ed espedienti retorici che falsano strumentalmente la realtà – nello specifico quella relativa al rapporto uomo-ambiente – un’educazione linguistica che rispetti i principi ecologici e sia veicolo di pace dovrebbe dunque articolare una proposta alternativa interdisciplinare.

A tal fine, operando una sintesi tra i tre metodi di educazione linguistica prima accennati, ritengo che un linguaggio ispirato ai principi della nonviolenza debba aiutarci: (a) a riconoscere reali bisogni e sentimenti autentici; (b) ad esprimerli sinceramente, formulando richieste chiare; (c) a dialogare con gli altri in modo positivo, empatico e costruttivo; (d) a proporre soluzioni quanto più possibile concrete e condivise.

Infine, tornando al dibattito sul futuro dell’ecolinguistica, è evidente che approcci differenti e con obiettivi diversi debbano però trovare una sintesi complessiva, che evidenzi il fine comune d’un reale cambiamento del rapporto fra patrimoni naturale e saperi umani.

 Da un lato, l’ecolinguistica…aspira a cogliere le complessità della-cosa-che-chiamiamo-linguaggio e, dall’altro, cerca di andare oltre la comunità scientifica sensibilizzando sull’interdipendenza tra pratiche discorsive e devastazione ecologica. […] Finora, i linguisti più attenti all’ecologia hanno concepito le dimensioni discorsive e linguistiche della crisi ecologica in termini di una dicotomia natura-cultura. Una lezione appresa da questo stato dell’arte è che in effetti abbiamo bisogno di una riconcettualizzazione delle questioni ambientali in generale e della dicotomia natura-cultura in particolare […] L’ecolinguistica può quindi collegare la ” hard science ” e lo studio del comportamento coordinativo nelle specie che chiamiamo Homo sapiens sapiens all’analisi delle conseguenze etiche e socioculturali della ”soft science” e ai dibattiti della ”scienza critica” sulle pratiche sociali anti-ambientali e distruttive. […] Finora, il problema principale dell’ecolinguistica non è stato il disaccordo interno o le lotte per il potere, ma piuttosto la mancanza di una vera interazione tra le sue varie parti. A che serve far sbocciare mille fiori, se non riusciamo mai ad apprezzare l’intero campo? Qual è il valore di esplorare la nostra piccola isola, se trascuriamo il resto dell’arcipelago?  (Steffensen e Fill, 2013: 25)

Questa ultima considerazione m’induce a sperare che si realizzi l’auspicata interazione tra i vari approcci all’ecolinguistica e che anche in Italia si allarghi la cerchia delle persone interessate ad approfondirla, non solo a livello accademico, ma anche all’interno di movimenti ambientalisti più attenti ad un’ecologia umana e sociale. Mi auguro che il presente contributo possa risultare utile in tal senso e che, tra i vari ‘fiori’ di questo campo tutto da esplorare e coltivare, si sappiano apprezzare anche quelli di un approccio nonviolento, oltre che ecologico, alla comunicazione linguistica.


Riferimenti

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© 2020 Ermete Ferraro

“Come barbarea, così…marinea”

Barbara: martire e protettrice

Anche questo 4 dicembre ricorreva la memoria liturgica di santa Barbara,martire d’origine probabilmente orientale di cui poco si sa sul piano dell’agiografia ufficiale, a parte una leggenda che ne racconta le terribili vicende, con risvolti piuttosto splatter. Essendosi convertita al cristianesimo e, si dice, battezzata da sola, il padre per punizione, dopo averla rinchiusa in una torre, di fronte alla sua disubbidienza avrebbe tentato di ucciderla, ma Barbara sarebbe riuscita a sfuggirgli miracolosamente. Una volta catturata, Dioscoro l’avrebbe poi trascinata davanti ad un magistrato, ma nessun tipo di tormento (ustioni, taglio delle mammelle, martellate sulla testa…) sarebbe riuscito a prevalere sulla sua fede, costringendola ad abiurare. Esasperato, il genitore l’avrebbe infine portata in montagna, dove l’avrebbe personalmente decapitata, finendo però a sua volta incenerito da un fulmine. Nei secoli successivi, su santa Barbara in Occidente sono fiorite molte tradizioni popolari ed anche locuzioni proverbiali, spesso in dialetto, riferite alla sua funzione di protettrice dai fulmini e dal maltempo o di garante di buoni raccolti di grano e dei matrimoni. Dall’Oriente provengono invece tradizioni gastronomiche, ed Grecia ed in Turchia santa Barbara è festeggiata con tipici dolci, nei quali ricorre il grano delle celebrazioni di origine contadina.

«… La prigionia nella torre da parte di suo padre associò la sua figura alle torri, a tutto ciò che concerneva la loro costruzione e manutenzione e quindi il loro uso militare; […] Parimenti, per via della morte di Dioscoro, essa venne considerata protettrice contro i fulmini e il fuoco […] da qui deriva il suo patronato su numerose professioni militari (artiglieri, artificieri, genio militare, marinai) e sui depositi di armi e munizioni (al punto che le polveriere vengono chiamate anche “santebarbare”). Per quanto riguarda la marina militare (di cui fu confermata patrona da Pio XII con il breve pontificio del 4 dicembre 1951), la santa fu scelta in particolare perché simboleggiante la serenità del sacrificio di fronte a un pericolo inevitabile. È inoltre patrona di tutto ciò che riguarda il lavoro in miniera e dei vigili del fuoco». [i]

Insomma, Barbara è invocata da molte persone, impegnate in varie professioni, ma con una strana predilezione per le attività militari e paramilitari (artiglieri, artificieri, marinai, vigili del fuoco…), sebbene abbiano ben poco a che vedere col suo martirio.

È però questo il motivo per il quale – come ha riferito il quotidiano cattolico ‘Avvenire’ – l’ordinario militare per l’Italia, mons. Santo Marcianò, ha onorato S. Barbara, Patrona della Marina, con una celebrazione cui hanno preso parte il Capo di S.M. della Marina Militare, amm. Giuseppe Cavo Dragone, il Sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo, ilVicario episcopale della Marina Militare, don Pasquale Aiello ed altri cappellani militari.

 «…un appuntamento che per il vescovo castrense rappresenta “un dono particolare, un dono per tutti, soprattutto per voi, cari militari della Marina, che ringraziate oggi santa Barbara, vostra patrona, e che, in certo senso, ricevete il suo grazie per quanto avete fatto e state facendo, al servizio della nostra gente, soprattutto in questo tempo di pandemia…”. […] Voi militari, voi militari della Marina – lo dico con convinzione e ammirazione – siete stati e siete decisivi anche nella gestione di questa emergenza inattesa; avete rappresentato e rappresentate, sul piano sanitario e sociale, un punto di forza del nostro Paese, un elemento di sicurezza per la nostra gente, afflitta, spaventata e impoverita.». [ii]

Ma come fanno i marinai…a pregare?

Anche al termine di quella celebrazione eucaristica è stata recitata la ‘preghiera del marinaio’. Già, perché agli appartenenti alle forze armate non soltanto sono stati riservati ministri del culto ad hoc, presieduti gerarchicamente da un Vicario Generale Militare, supportato da uffici pastorali e logistici [iii] , ma sono state anche dedicate specifiche liturgie e preghiere. Fra queste c’è quella relativa ai militari di Marina, il cui testo viene letto sia a bordo delle navi in navigazione al termine delle messe e all’ammainabandiera, sia nelle caserme e nelle funzioni religiose per i defunti. Pochi sanno che la ‘Preghiera del marinaio’ (conosciuta anche come ‘preghiera vespertina’) fu composta nel 1901 dallo scrittore Antonio Fogazzaro (sì, proprio l’autore di Piccolo mondo antico e degli altri due romanzi della sua trilogia: Piccolo mondo moderno e Il Santo) e fu adottata ufficialmente dalla Marina Militare italiana nel 1902. Questo ne è il testo, tuttora in uso dopo 98 anni.

«A Te, o grande eterno Iddio, Signore del cielo e dell’abisso, cui obbediscono i venti e le onde, noi, uomini di mare e di guerra, Ufficiali e Marinai d’Italia, da questa sacra nave armata della Patria leviamo i cuori. Salva ed esalta, nella Tua fede, o gran Dio, la nostra Nazione. Dà giusta gloria e potenza alla nostra bandiera, comanda che la tempesta ed i flutti servano a lei; poni sul nemico il terrore di lei; fa’ che per sempre la cingano in difesa petti di ferro, più forti del ferro che cinge questa nave, a lei per sempre dona vittoria. Benedici, o Signore, le nostre case lontane, le care genti. Benedici nella cadente notte il riposo del popolo, benedici noi che, per esso, vegliamo in armi sul mare. Benedici!» [iv]

Sulla coerenza tra messaggio evangelico – incentrato sulla fraternità, la misericordia, la pace e l’amore perfino verso i nemici – ed ordinamento militare, autoritario gerarchico e finalizzato ad ottimizzare il mestiere di chi usa le armi in nome della patria, per distruggere cose e sterminare persone, mi sono espresso altre volte, per cui evito di ribadire le considerazioni critiche su chi, a mio avviso, mischia impropriamente croci e stellette. [v] Esaminando con attenzione il testo della citata ‘Preghiera del Marinaio’, però, non posso fare a meno di sottolineare alcune espressioni che, anche al netto della retorica patriottica ottocentesca, appaiono assai discutibili sul piano religioso, come “sacra nave armata” o “salva ed esalta, o gran Dio, la nostra nazione”. Per non parlare dell’insistenza vagamente idolatrica sulla bandiera italiana, con la richiesta al Signore di “porre sul nemico il terrore di lei” e di “donarle per sempre vittoria”, o anche della bellicosa metafora dei “petti di ferro, più forti del ferro che cinge questa nave”.  Traspare infatti la solita visione veterotestamentaria del “Signore degli Eserciti”, con la differenza che, mentre l’antica espressione ebraica יִֽהְיוּ גְּדֹלִים (YHWH tzabaoth) e greca Kyrios Sabaoth, si riferivano a schiere angeliche celesti più che ad armate terrene e che, comunque, nell’A.T. YHWH era considerato Dio e difensore solo del suo popolo eletto, e pertanto ostile ad i suoi nemici,  una preghiera cristiana rischia di essere blasfema se chiede a Dio di ‘esaltare’ e ‘dare vittoria’ ad una delle parti in conflitto, ‘terrorizzando’ e contribuendo a sconfiggere chiunque le si opponga. Infine, la richiesta di “comandare che la tempesta e i flutti servano a lei” (magari disperdendo e facendo perire annegati i suoi nemici…) sembrerebbe più appropriata ad un’invocazione a Poseidone o altra divinità pagana, ma è fuori luogo in un’orazione rivolta al Padre nostro comune, di cui il profeta scriveva: “…Egli parlerà di pace alle nazioni, il suo dominio si estenderà da un mare all’altro, e dal fiume sino alle estremità della terra”.  (Zac 9:10).

Devozioni per Marins, Navy sailors e Marines…

Ma i riti paramilitari non riguardano solo le forze armate italiane né simili cerimonie pseudo-religiose hanno a che fare solo col mondo cattolico. Purtroppo la pretesa tutela divina sulle proprie armate è molto più antica e diffusa, a partire dalle credenze politeiste e dalla tradizione semitica veterotestamentaria Entrambi hanno contagiato il Cristianesimo sia sul piano lessicale, a partire dal tertullianeo “Bonus Miles Christi” (non a caso diventato il titolo della rivista trimestrale dell’Ordinariato militare italiano), sia sul piano concettuale (dal costantiniano “In hoc signo vinces” al “Deus lo vult!” coniato da Pietro l’Eremita per sacralizzare le crociate, giungendo fino al blasfemo motto nazista “Gott mit Uns”).

Basta una ricerca su Internet per trovare diverse perle di questa subcultura religiosa, in base alla quale i guerrieri non si affidano più alla protezione di antiche divinità (come l’egizio Horus, il celtico Belatucadros, l’ellenico Ares, il romano Marte, il cinese Chi You o l’azteco Huitzilopochtli), ma alla tutela di quell’unici Dio – onnipotente ma paterno e misericordioso – che  al contrario dovrebbe farci sentire, per citare Papa Francesco, “fratelli tutti”. [vi]

I marinai francesi sembrano prediligere la protezione della Beata Vergine, come vediamo nel testo più soft della “Prière du Marin”, composta da Mons. Luc Ravel, membro della Diocèse  aux Armées Françaises, corrispondente d’Oltralpe del nostro Ordinariato:

 “… Vergine Maria, Regina delle Onde, alla quale i marinai, anche i miscredenti, sono sempre stati devoti, vedi ai Tuoi piedi i Tuoi figli che vorrebbero salire a Te. Ottieni loro un’anima pura come brezza marina. Un cuore forte come le onde che li portano, una volontà tesa come vela nel vento […] Ma soprattutto, o Madonna, non lasciarli soli al timone, fagli rilevare le insidie dove si areneranno prima di ancorare, vicino a Te, al porto dell’Eternità. Così sia». [vii]

Di tono meno conciliante sembrano le preghiere che la Chiesa Anglicana ha dedicato ai marinai della Royal Navy britannica, in una delle quali leggiamo:

«Oh potentissimo e glorioso Signore Dio, Signore degli eserciti, che governi e comandi ogni cosa […] ci rivolgiamo alla Tua divina maestà in questa nostra necessità, affinché tu prenda la causa nella Tua mano e giudichi tra noi e i nostri nemici. Ravviva la tua forza, o Signore, e vieni ad aiutarci […] affinché Tu voglia essere per noi una difesa contro la faccia del nemico. Mostra che sei il nostro Salvatore e potente Liberatore…». [viii]

Fra le preghiere suggerite dal Vicariato militare cattolico degli Stati Uniti, troviamo la seguente, rivolta a S. Michele Arcangelo, tradizionale compatrono delle forze armate:

«San Michele, l’Arcangelo, difendici in battaglia. Sii la nostra protezione contro la malizia e le insidie ​​del diavolo. Imploriamo umilmente Dio di comandargli, e tu, oh principe dell’esercito celeste, col potere divino ricaccia nell’inferno Satana e gli altri spiriti maligni, che vagano per il mondo, perseguendo la rovina delle anime. Amen». [ix]

Infine un significativo passo della tradizionale ‘professione di fede’ dei Marines, i fucilieri di Marina statunitensi:

«Davanti a Dio, io giuro questo credo. Io e il mio fucile siamo i difensori del mio paese. Siamo i dominatori del nemico. Siamo i salvatori della mia vita. E così sia, finché la vittoria sia dell’America, e non ci siano più nemici, ma pace». [x]

Forse c’è chi a tali parole risponderebbe “amen”, ma alla luce del Vangelo del Principe della Pace (Is 9:5) mi sembra che suonerebbe come un sacrilegio. Lascio pertanto la conclusione di questa mia riflessione alle parole che don Lorenzo Milani scrisse nel 1965, replicando ai cappellani militari che avevano criticato gli obiettori di coscienza.

 «Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. […] Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? […] O volete farci credere che avete volta volta detto la verità in faccia ai vostri «superiori» sfidando la prigione o la morte? se siete ancora vivi e graduati è segno che non avete mai obiettato a nulla […] Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate: Auspichiamo che abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di Giustizia, Libertà, Verità…». [xi]


Note

[i] Vedi la voce “Santa Barbara” in Wikipedia > https://it.wikipedia.org/wiki/Santa_Barbara

[ii] Antonio Capano, “Il ‘grazie’ di Marcianò alla Marina Militare”, Avvenire, 05.12.2020 , con integrazione dal testo dell’omelia di Mons. Marcianò, pubblicata sul sito dell’Ordinariato Militare per l’Italia > http://www.ordinariatomilitare.it/wp-content/uploads/sites/2/2020/12/SantaBarbara2020.pdf

[iii] Vedi la voce ‘Curia’ sul menù del sito web cit. > www.ordinariatomilitare.it

[iv] Il testo della ‘Preghiera del Marinaio’ – oltre che sul sito del Ministero della difesa (https://www.marina.difesa.it/noi-siamo-la-marina/storia/la-nostra-storia/tradizioni/Pagine/PreghieradelMarinaio.aspx  è stato pubblicato, insieme con quelli delle devozioni per varie specialità di altri corpi delle forze armate italiane, nell’opuscolo: https://associazionenazionalefantiarresto.it/inc/uploads/2019/06/Preghiere-FFAA.pdf

[v]  Cfr. gli ultimi articoli sul tema, pubblicati sul mio blog: Ermete Ferraro, Pregare per l’unità…dei cappellani militari (30.01.2020);  Riforma mimetica per religiosi con le stellette (15.03.2020)  e L’inverno di san Martino (13.11.2020).

[vi] Il testo italiano della cit. lettera enciclica “sulla fraternità e l’amicizia sociale”, pubblicata il 3 ottobre 2020, è disponibile in: http://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20201003_enciclica-fratelli-tutti.html

[vii] Mgr. Luc Ravel, Prière du Marin, pour les militaires >  http://site-catholique.fr/index.php?post/Priere-du-Marin (trad. mia)

[viii] “The Prayer to be said before a Fight at Sea against any Enemy”,in: The Church of England, A Christian Presence in Every Community, Prayers to be used at Sea > https://www.churchofengland.org/prayer-and-worship/worship-texts-and-resources (trad. mia).

[ix]  “Prayer to Saint Michael the Archangel” in: Archdiocese for the Military Services, USA, Prayers for the Military > https://www.milarch.org/prayers-for-the-military/

[x] Gen. William Rupertus (1941), The Creed of the United States Marine> https://it.wikipedia.org/wiki/Credo_del_fuciliere#:~:text=Io%20e%20il%20mio%20fucile,pi%C3%B9%20nemici%2C%20ma%20pace.%C2%BB

[xi] Don Lorenzo Milani, Lettera ai cappellani militari – Lettera ai giudici (a cura di Sergio Tanzarella), Trapani, Il pozzo di Giacobbe, 2017. Il testo è leggibile anche in:> https://www.liberliber.it/mediateca/libri/m/milani/l_obbedienza_non_e_piu_una_virtu/html/milani_d.htm

RICONCILI-AZIONI

    Le parole per dirlo…

Far parte di un Movimento che porta nella sua ragione sociale la parola riconciliazione non è come aderire ad una qualsiasi organizzazione genericamente pacifista. Ma diciamo la verità: questo termine resta non molto familiare alla cultura cattolica, pur riferendosi ad un concetto genuinamente evangelico. Infatti, l’I.F.O.R. (International Fellowship of Reconciliation) fu ispirata già nel 1914 – e fondata ufficialmente nel 1918, dopo la carneficina della prima guerra mondiale – da appartenenti alla cultura protestante, in particolare all’ambiente del pacifismo di matrice quacchera, a sua volta derivante dalla corrente calvinista-puritana. [i]  

‘Riconciliazione’, linguisticamente parlando, è comunque un significante che racchiude varie sfumature di significato. Trattandosi di un termine appartenente alla dottrina ebraico-cristiana, bisogna perciò risalire ai vocaboli originari ed alla loro evoluzione semantica. Il concetto di ‘riconciliazione’ ricorre nella Bibbia otto volte: cinque nell’Antico Testamento (la Tanach degli Ebrei) e tre nel Nuovo. Nel primo caso lo troviamo nel Levitico, nel II libro delle Cronache e tre volte nei libri profetici (due in Ezechiele ed una in Daniele) [ii], espresso in lingua ebraica tre volte da כָּפַר (kafar) e due da חָטָא (chatà). Il primo vocabolo è una radice primitiva, che indicava letteralmente l’azione di ‘ricoprire’ (ad es. una strada col bitume) e in senso traslato quella di ‘perdonare’, ‘condonare’, ‘annullare’, ‘cancellare’ etc. Il secondo si riferiva ad azioni simili, come quella di ‘purificare’, ‘sopportare una perdita’, ‘espiare’, pur designando anche concetti come ‘sbagliare’ o ‘commettere peccato’. [iii]  

Nella versione originale del Nuovo Testamento, in lingua greca questo concetto ricorre tre volte ed è utilizzato solo nelle Epistole: due voltenella II Lettera ai Corinzi ed una nella Lettera ai Romani. Il vocabolo utilizzato da Saul/Paolo di Tarso è καταλλαγ (katallaghé) ed il relativo verbo καταλλάσσω (katallàsso), il cui significato letterale aveva a che fare con lo scambio commerciale, il cambio di monete, mentre in senso traslato indicava azioni come: ‘riconciliare qcn.’, ‘tornare nel favore di qcn.’, ‘essere riconciliato con qcn.’. Esso a sua volta derivava dal verbo allàsso’ – preceduto dal prefisso preposizionale katà – che significava ‘trasformare’, ‘scambiare’, ‘rendere altro’ (àllos, -e, -on).

Ma è nella traduzione in lingua latina dell’intera Bibbia – la Vulgata di san Girolamo cui sono ispirate le versioni successive – che compare la parola reconciliatio, alla base dei vocaboli attualmente usati, con poche varianti, negli idiomi neolatini (réconciliation, riconciliazione, reconciliaciòn, reconciliação, reconciliere…) ed anche in lingua inglese (reconciliation), laddove in tedesco è stato utilizzato Versöhnung, la cui radice Sühne rinvia al concetto di ‘espiazione’. [iv]In arabo il vocabolo-nome adoperato è توفيق (tawfiq, da una radice semitica che significa accettazione, conciliazione), mentre in hindi abbiamo सुलह (sulah, derivante dalla radice persiano-araba che indicava la pace, l’accordo).

Se dal verbo latino reconciliare – che traduceva nella lingua dell’impero romano il kafàr ebraico ed il greco katallàsso – scorporiamo i due morfemi modificanti (cioè i prefissi preposizionali re = di nuovo e cum = insieme) ed il suffisso verbale -are, resta come cuore della parola il lessema -cili. Non tutti i dizionari etimologici concordano sul suo significato, attribuendolo ora ad antiche radici verbali (cillo /cilleo/cello), a loro volta derivanti dal greco kéllo (= muovere, spingere), oppure da kaléo (= chiamare). Nel primo caso ‘riconciliare’ significherebbe ‘spingere di nuovo insieme’; nel secondo ‘ri-chiamare insieme’, con una sfumatura semantica che introduce comunque il ruolo d’un mediatore/conciliatore. Da questa divagazione etimologica mi sembra che emergano tre considerazioni:

(a) il concetto ebraico-veterotestamentario di ‘riconciliazione’ (kafàr/chatà) ha sicuramente a che fare col per-dono / con-dono delle azioni negative che hanno ferito una o tutte le parti in causa di un conflitto, grazie alla decisione di cancellare/ricoprire/azzerare quelle situazioni dolorose, senza escludere la espiazione del male provocato;

(b) nell’analogo concetto greco-neotestamentario compare un concetto nuovo: quello di trasformazione/scambio reciproco, nel senso di superamento di una situazione conflittuale cercando un punto d’intesa ‘altro’, del tutto nuovo;

(c) la versione latina non traduce alla lettera né il vocabolo ellenico né il suo antecedente semitico ed introduce altri elementi. Emerge il ruolo di chi svolge la mediazione fra le parti in conflitto (limitandosi a ‘chiamarle’ o ‘spingendole’ ad un dialogo), ma bisogna tener conto anche del fatto che il prefisso latino re-, infatti, ha un significato un po’ ambiguo, in quanto “esprime per lo più il ripetersi di un’azione nello stesso senso o in senso contrario” [v]. Nel primo caso il risultato della mediazione porterebbe al ripristino d’una situazione pre-conflittuale (e quindi ad un ritorno al passato), mentre nel secondo condurrebbe ad una soluzione contraria se non opposta, comunque diversa e quindi nuova.

Ma che cosa intendiamo esattamente, oggi, con questa parola? Secondo il dizionario di Repubblica, è definibile come: “Azione, risultato e modo del riconciliare o del riconciliarsi […] SIN. Rappacificazione” [vi]. Molto simile anche la definizione del Dizionario Garzanti: “1. il riconciliare, il riconciliarsi, l’essere riconciliato; rappacificazione [+ con]” [vii]e quella del Corriere: “1.Ripresa di rapporti buoni o corretti dopo un litigio o una fase di distacco SIN rappacificazione; fine delle ostilità militari, politiche, ideologiche ecc. fra componenti diverse di una nazione: politica di r.” [viii]. Non dissimili le spiegazioni fornite da Treccani (“1. rimettere d’accordo, far tornare in pace o in buona armonia…”), Hoepli (“1. conciliare di nuovo, mettere d’accordo, rappacificare…”) e Garzanti linguistica (“1. rimettere d’accordo, far tornare in buona armonia; rappacificare [+ con]”. [ix]  per quanto riguarda altre lingue, non fornisce maggiori approfondimenti la consultazione del francese Larousse (“Action de réconcilier des adversaires, des gens fâchés entre eux; fait de se réconcilier…[x]  né degli inglesi Merrian-Webster (“to restore to friendship or harmony…” [xi] e Cambridge (“a situation in which two people or groups of people become friendly again after they have argued…”. [xii]

In tutti i casi, infatti, la ‘riconciliazione’ è definita come un’azione (come è evidente dal suo stesso suffisso), il cui fine sarebbe: (a) ri-prendere rapporti corretti, (b) rap-pacificare soggetti in conflitto, (c) far tornare l’armonia perduta, (d) ri-pristinare rapporti amichevoli dopo una lite. Torna insistentemente – come nel lemma originario – quel prefisso re- che sottintende una ripetizione, un ritorno ad una situazione di partenza o comunque il rinnovamento d’uno stato precedente.

Ma è davvero questo il significato di ‘riconciliazione’ e del suo abituale sinonimo ‘rappacificazione’? Si tratta di promuovere atteggiamenti e comportamenti che facciano tornare soggetti in conflitto a precedenti rapporti di amicizia ed accordo (il latino pax, oltre a ricordarci la parola italiana ‘patto’rinvia all’antica radice sanscrita *paç /pak/pag, che significava: legare, unire, saldare, accordare), oppure la ‘riconciliazione’ dovrebbe essere qualcosa di diverso e di più profondo?

‘Riconciliare’ e ‘riconciliarsi’, in definitiva, vuol dire fare dei passi indietro, verso un teorico passato migliore da ripristinare, oppure significa darsi una prospettiva del tutto nuova, originale e che punta al futuro?

 Riconciliar… e organizzar

Una buona spiegazione del termine ‘riconciliazione’ e dei significati che trasmette è stata proposta da Enrico Peyretti, filosofo-teologo e noto ricercatore per la pace italiano:  

«Una riconciliazione è vera se avviene su base di verità (riconoscimento dei fatti) e di giustizia (riconoscimento dei diritti) […] Una semplice pace (pax = patto) non è detto che sia riconciliazione; può essere solo una transazione che spartisce vantaggi e svantaggi, per la riduzione del danno […] oppure può essere l’imposizione della volontà del vincitore sul vinto, quindi un atto violento che sancisce la disparità delle forze […] L’idea stessa di riconciliazione contiene una speranza, il ricupero di una conciliazione che c’è stata e si è incrinata, o perduta […] Riconciliarsi è incontrarsi di nuovo.  Una vera riconciliazione è un orizzonte grande, è la ri-umanizzazione reciproca, negata dal rapporto di ostilità […] Una vera riconciliazione implica il perdono…cioè il consapevole superamento dell’ostilità, dell’odio, dei sentimenti distruttivi, delle immagini negative, cioè una trasformazione nonviolenta del conflitto». [xiii] 

Le parole-chiave emergenti sono: verità, giustizia, speranza, recupero, incontro, perdono e trasformazione. Alcune di esse guardano al passato (re-cupero di ciò che si è perduto, ri-stabilimento della verità, per-dono dei debiti…); altre puntano al momento presente (in-contro); altre mirano invece ad una prospettiva futura (speranza nel senso etimologico di ‘tendere verso’,  tras-formazione con modalità innovative del conflitto). 

Da questa prima considerazione capiamo che il processo di riconciliazione è un albero che affonda le proprie radici nel passato conflittuale, sviluppa il proprio fusto nel presente dell’incontro e del dialogo, ma protende i suoi rami verso il futuro di soluzioni alternative e del tutto nuove. Non sempre, quindi, riconciliare vuol dire ripristinare le relazioni precedenti, dando per scontato che fino all’emergere di uno scontro diretto sussistesse un rapporto ottimale. Dovremmo piuttosto analizzare gli elementi del conflitto (soggetti, interessi e valori in contrapposizione, ma anche contesti, cause e dinamiche relative), alla ricerca di soluzioni che non siano distruttive e violente, ma costruttive ed in-nocenti.

La riconciliazione comporta tre aspetti inscindibili, che integrano le dimensioni temporali in un processo dinamico e creativo: (1) analisi critica e autocritica delle esperienze passate negative; (2) sforzo di comprensione empatica, per cercare insieme e nel presente, un punto d’incontro e di mediazione; (3) esplorazione di atteggiamenti e comportamenti alternativi, per superare anche in futuro i possibili conflitti, senza nasconderli sotto il tappeto o esorcizzarli moralisticamente.

«Il problema dunque non è il sorgere del conflitto ma l’affrontarlo come un problema condiviso. […] Le fonti del conflitto sono le seguenti: gli interessi (ciò che noi vogliamo e ciò che loro vogliono),  i valori (come la realtà dovrebbe essere per noi e per loro e come noi crediamo e loro credono sia), le emozioni (cosa noi sentiamo e loro sentono), le identità (chi siamo noi e chi sono loro specie in quanto appartenenti a dati gruppi sociali)». [xiv]

Si comprende che un processo così articolato – come qualsiasi aspetto di un percorso di nonviolenza attiva – richiede tempo, preparazione adeguata e, talvolta, l’intervento di mediatori esterni.  Mi riferisco a ruoli non necessariamente professionali (sebbene nella nostra realtà sociale esistano già figure riconosciute di mediatori, ad es. quelli linguistici, culturali o familiari), ma svolti comunque da soggetti qualificati ad una funzione così delicata, che richiede competenze specifiche e tecniche adeguate.

Formazione, addestramento e organizzazione sono dunque indispensabili, ma è auspicabile che la conoscenza dei principi della nonviolenza e delle tecniche di risoluzione alternativa dei conflitti diventino un patrimonio sempre più comune e diffuso, introducendo riflessioni ed esperienze in tal senso già nel curricolo scolastico di base. È ciò che sta facendo da anni il gruppo di lavoro che, partendo dalle teorie sul superamento dei conflitti elaborate dal ricercatore per la pace norvegese Johan Galtung, porta nelle scuole di quel paese alcune applicazioni specifiche del metodo Trascend , applicabili in particolare ai micro-conflitti [xv], diffondendole un po’ dovunque.

Resta il problema che la riconciliazione non è intesa da tutti allo stesso modo perché, se è vero che oggi siamo più consapevoli degli svariati approcci ad essa, solo alcuni di essi sono stati effettivamente praticati, come spiega lo stesso Galtung.

«Quando la parte in conflitto A fa violenza alla parte in conflitto B, entrambe risultano traumatizzate: la seconda dal male subìto, la prima dalla colpa di averlo causato. Le emozioni sono profonde. Lo scopo della riconciliazione è la guarigione delle ferite e la chiusura del conflitto, cosicché le parti siano meno traumatizzate e possano vivere insieme […] Scorrendo la lista degli approcci alla riconciliazione, ci accorgiamo immediatamente della tentazione di vedere il conflitto in termini di una singola causa, i cattivi attori, e la riconciliazione in termini di un solo approccio: quello giuridico-punitivo […] Un’altra forma è la risoluzione congiunta del conflitto, discutendo insieme la calamità che ha colpito tutti e progettando precorsi per prevenirne una ripetizione in futuro. Se questo approccio sarà attivato sia a livello delle élites, sia a livello popolare, sarà molto potente. Ma il meglio è ovviamente che il vincitore e lo sconfitto si mettano insieme per produrre una reale trasformazione del conflitto di base…». [xvi]

Utilizzando un linguaggio medico, potremmo dire che, sebbene il fine prevalente della riconciliazione sia la terapia, qui e ora, dei traumi causati da un conflitto, è comunque indispensabile partire da una sua anamnesi, risalendo retrospettivamente ai moventi materiali e psicologici che l’hanno causato. C’è bisogno però di cercare anche  le indicazioni da trarre per il futuro dall’esperienza conflittuale passata e delle modalità di cura nel presente, per la prevenzione di altre contrapposizioni violente e distruttive.

La scuola potrebbe diventare il luogo dove iniziare subito ad affrontare i conflitti in modo alternativo, almeno a livello interpersonale e comunitario. Nel nostro contesto socio-culturale dobbiamo però registrare che: (a) le competenze specifiche sono ancora poco diffuse; (b) la scarsa diffusione di solidi presupposti teorici spesso dipende dalla mancanza di occasioni di formazione degli operatori; (c) alcune esperienze già realizzate nelle nostre scuole sono state comunque poco condivise e pubblicizzate.

Succede anche per altri approcci alternativi ai conflitti, come ad esempio il metodo di ‘comunicazione nonviolenta’ (C.N.V.) ideato dallo psicologo statunitense Marshall B. Rosemberg, di cui un solo centro specializzato si è fatto specificamente portatore e sperimentatore nel nostro Paese. [xvii]  Il processo di riconciliazione, viceversa, ha molto a che fare con un approccio psicologico alle situazioni conflittuali che liberi la comunicazione dalle incrostazioni di condizionamenti linguistici e mentali (stereotipi culturali, frasi fatte, espressioni che feriscono…), per facilitare lo scambio d’idee, la comprensione reciproca e lo sviluppo di competenze linguistiche improntate ad una vera ‘grammatica della pace’. [xviii]

Bisogna dunque uscire dall’equivoco che la riconciliazione sia soltanto un imperativo etico o un auspicabile atteggiamento di benevolenza e perdono. Per questo ed altri aspetti della nonviolenza, per dirla con don Tonino Bello, dobbiamo allora “organizzare la speranza”.

Riconciliazioni… per ‘fare’ pace

Nella nostra abituale logica binaria, se la proposizione A è vera, quella non-A è sicuramente falsa, poiché ‘tertium non datur’.  Perfino quando si parla di ‘pace’ e ‘riconciliazione’ si contrappongono in modo rigido le tesi di chi li ritiene o solo principi morali cui ispirarsi (e quindi fini), oppure solo metodi di azione (e quindi mezzi). Questo approccio andrebbe però superato,  per giungere a una sintesi che superi le antinomie e ricerchi impostazioni non esclusive a priori. La stessa ‘pace’è sia il fine da raggiungere sia il mezzo per conseguirlo, mantenendo la coerenza tra i due. Per citare Aldo Capitini:

«Nella grossa questione del rapporto tra il mezzo e il fine, la nonviolenza porta il suo contributo in quanto indica che il fine dell’amore non può realizzarsi che attraverso l’amore, il fine dell’onestà con mezzi onesti, il fine della pace non attraverso la vecchia legge di effetto tanto instabile: “Se vuoi la pace, prepara la guerra”, ma attraverso un’altra legge: “Durante la pace, prepara la pace”». [xix]

Questo richiamo a ‘preparare’ la pace ci ammonisce a non fermarci alla visione idealistica di chi la ritiene solo un ‘dono’ del cielo, ma a darci da fare per realizzare, cioè rendere reale pratico ed attuale, quell’ideale di vita. Lo stesso Vangelo (Mt 5:9) ci esorta a diventare εἰρηνοποιοί (eirenopoiòi), letteralmente facitori di pace, costruttori di pace, non semplici ‘amanti della pace’.  Ma per costruire la pace nel suo complesso, e specificamente la riconciliazione, abbiamo bisogno di metodi e tecniche opportune, che vanno apprese, interiorizzate, ma soprattutto applicate nella pratica quotidiana con un opportuno addestramento. Come affermava Peyretti, allora, bisogna abbandonare la logica binaria della contrapposizione, che blocca la comunicazione, per introdurre una relazione ‘ternaria’, in cui il ruolo del mediatore faciliti la comprensione e la cooperazione, altrimenti bloccate dall’ostilità reciproca. La riconciliazione, come altri aspetti della trasformazione nonviolenta del conflitto, apre infatti uno “spazio di ri-creazione”, dove le ferite alla relazione possano essere curate e la comunicazione possa essere ripristinata.Johan Galtung ha spiegato che:

«Un conflitto è una ragione di per sé sufficiente per essere preso seriamente in considerazione. Le persone stanno già soffrendo. Inoltre un conflitto è un invito alle parti in causa, alla società e al mondo intero ad andare avanti, affrontando di petto la sfida costituita dalle questioni sul tappeto, con un atteggiamento di empatia (verso tutte le parti), nonviolenza (anche per impedire lo sviluppo di meta-conflitti) e creatività (per trovare vie d’uscita).  Il compito è trasformare il conflitto, verso l’alto, positivamente, trovando obiettivi stimolanti per ogni parte coinvolta, modi fantasiosi per combinarli, il tutto senza violenza. È l’incapacità di trasformare i conflitti che porta alla violenza. Ogni atto di violenza può essere considerato come un monumento a tale incapacità degli esseri umani…».[xx]

La riconciliazione – secondo lo schema proposto da Galtung – riguarda la dimensione temporale successiva allo svilupparsi della violenza in un conflitto, e viene dopo la sua risoluzione e la ricostruzione di un rapporto. Riconciliarsi, insomma, è la tappa finale di un lungo percorso di pacificazione, che inizia con la prevenzione della violenza, si basa sulla mediazione nonviolenta tra le parti in conflitto per trasformarlo nonviolentemente e si conclude creando relazioni nuove mediante interventi di riabilitazione. Ma la riconciliazione può essere anche intesa, più in generale, proprio come quell’impostazione empatica, nonviolenta e creativa che attiva e realizza il processo di pace.

Una formazione precoce in tal senso è legata ad esperienze di educazione alla pace e alla nonviolenza da realizzare in famiglia ed a scuola. Formare bambini e ragazzi a riconoscere i conflitti e ad affrontarli in modo alternativo, cercando soluzioni che li ‘trascendano’, sarebbe il modo migliore per prevenire conflittualità violente e distruttive e per sperimentare metodi alternativi e creativi. Il manuale prodotto sulla base di quelle proposte da Galtung – ora tradotto anche in italiano – è un ottimo esempio di come insegnare ai più piccoli che ‘facciamo pace’ non è solo un buon proposito, ma un percorso da apprendere e sperimentare in prima persona, qui e ora.

«Quando si parla di SABONA si intende sia il progetto di trasformazione dei conflitti legato alla scuola e chi lo porta avanti, sia la metodologia, ossia i 7 strumenti mutuati dal metodo TRASCEND…[che] fornisce una vastissima serie di strumenti analitici e pratici per la trasformazione del conflitto, ossia per il cambiamento, offrendo soluzioni valide e creative a problemi che sembrano insormontabili. […] Trasformare i conflitti richiede la trasformazione della situazione che include e trascende i bisogni e gli obiettivi di tutte le parti […] per identificare gli obiettivi legittimi, i bisogni umani fondamentali e per arrivare a creare ponti tra obiettivi incompatibili, a vantaggio di una vera sicurezza, del rispetto, della dignità, dell’identità». [xxi]

Superare la conflittualità, quindi, significa far emergere obiettivi/finalità che sembrano incompatibili ma anche riconciliare interessi ed atteggiamenti apparentemente inconciliabili, immaginando insieme soluzioni ‘altre’, come suggeriva già l’etimologia del verbo greco katallàsso. Per andare oltre il conflitto, però, è necessario fare alcuni passi avanti. (i) La prima scoperta è che, per bambini e adulti, dietro mezzi e modalità inaccettabili spesso si nascondono obiettivi del tutto legittimi. (ii) Il secondo elemento da mettere in luce è che ad essere incompatibili sono gli obiettivi, non certamente le persone. (iii) Il terzo aspetto è che, se verità e prospettive differenti possono (e spesso devono) coesistere, ciò non significa che tutti i desideri o tutti i metodi siano ugualmente legittimi ed accettabili.

Dati però obiettivi legittimi ed eticamente positivi – tutti quelli che attengono alla dignità di ogni persona, salvaguardandone la vita, la salute, la libertà, l’identità – resta il fatto che spesso i conflitti si scatenano sulla loro conciliabilità con obiettivi legittimi e buoni di altri soggetti. Talvolta, invece, la realizzazione di desideri di per sé accettabili è stata perseguita con mezzi negativi, che ledono valori, interessi e sensibilità altrui. Ecco allora che il gruppo di lavoro ispirato alle teorie di Galtung sulla trasformazione del conflitto ha cercato di sperimentare alcune di queste metodologie nel contesto scolastico, formando insegnanti e alunni a non lasciarsi bloccare dalla distruttività di molte relazioni conflittuali.  

7 passi per ‘trascendere’ il conflitto

Il metodo ‘Sabona’ – espressione mutuata dalla lingua zulu – ha individuato sette metodi operativi per affrontare in modo alternativo e costruttivo i conflitti, applicandoli sperimentalmente alle molteplici relazioni che si sviluppano all’interno del contesto scolastico. Il metodo prevede che alla crisi segua una pausa di elaborazione, utilizzando sette ‘formule’ per riflettere sulla realtà attuale del conflitto e su quella futura, l’ideale.

(1) analisi della incompatibilità dei fini e/o dei mezzi;

(2) netta distinzione tra fini e mezzi;

(3) utilizzazione del triangolo ABC, ai cui ‘angoli’ ci sono: atteggiamenti à comportamenti à contraddizioni;

(4) impiego del c.d. tappeto del riordino, proiettando i conflitti sia sul piano temporale (passato-futuro) sia su quello qualitativo (negativo-positivo);

(5) ricorso allo schema a cinque soluzioni, che supera (trascende) il livello del conflitto passato, marcato dall’antinomia vittoria vs sconfitta, individuando due soluzioni sullo stesso piano passato-presente (‘ritirata’ e ‘compromesso’), ma soprattutto una del tutto nuova e alternativa, proiettata in alto, sul piano del futuro;

(6) utilizzo della scala delle soluzioni (il vero e proprio metodo Trascend) che ipotizza tre livelli operativi: (1) quello di base, dove si fa la ‘mappatura’ del conflitto, individuando le parti in causa ed i loro obiettivi; (2) quello intermedio, nel quale sono ‘legittimati’ sia i fini sia i mezzi; (3) il livello più alto, sul quale si ‘trasferisce’  il conflitto nel futuro, costruendo ‘ponti’ tra gli obiettivi legittimi delle parti in conflitto;

(7) adozione della croce della conciliazione, uno schema che sintetizza gli altri, individuando il settore centrale all’intersezione tra asse verticale (passato negativo à futuro positivo) ed orizzontale (colpa à vergogna) – dove si realizza l’atto della riconciliazione, sciogliendo il doloroso nodo d’una contrapposizione distruttiva per tutte le parti.

«-È raro che una delle parti abbia tutta la colpa […] – L’autore e la vittima vedono la situazione in maniera diversa. – Le incomprensioni succedono. – I dialoghi che mettono ordine sviluppano competenze di vita. – La competenza nella conciliazione crea fiducia. – La conciliazione sta nel chiudere le ferite, curarle e andare avanti… – Il conflitto è relazionale e così deve essere…il metodo di cura.» [xxii]

Non è un caso che questi sette importanti ‘passi’ del percorso per uscire dalla trappola del conflitto con esito negativo culminino nella ricostruzione del rapporto e nella riconciliazione tra parti già antagoniste. Non c’è nessuno che vince o che perde. Il peso della colpa di chi ha ferito trova una cura esattamente come la vergogna di chi è stato ferito. Il negativo del conflitto passato – come negli altri metodi elencati – non è occultato né esorcizzato, ma analizzato per far emergere gli obiettivi reali di ciascuna parte, aprendo le porte ad una loro possibile conciliazione.

Infine, nella ricerca nel presente di una soluzione ‘altra’, nuova, da proiettare nella dimensione futura, non bisogna trascurare timori, dubbi e perplessità delle parti sulle soluzioni diverse. In tal modo sono affrontati, insieme, con spirito empatico e con  sano realismo, i possibili effetti delle scelte congiunte che ci si prepara a fare.

Ovviamente però non basta enunciare dei principi. Dobbiamo applicarli alla vita reale, sperimentare giorno dopo giorno approcci diversi ai conflitti, grandi e piccoli, che tutti noi ci troviamo ad affrontare. Spesso si tratta di prevenirli, riflettendo di più sulla coerenza tra fini da raggiungere e mezzi utilizzati per farlo, ma più spesso ancora bisogna imparare a comunicare evitando la violenza di giudizi, pretese ed espedienti retorici che occultano le vere intenzioni.  È quella educazione linguistica nonviolenta che può aiutarci a non usare le parole per nascondere, dividere e reprimere invece che per chiarire, unire ed esprimersi. È la comunicazione non violenta ed empatica che ci spinge ad osservare i fatti, comprendere i bisogni inespressi e cogliere le richieste, evitando valutazioni, incomprensioni e pretese. La riconciliazione resta il traguardo finale, che ci libera dal peso di relazioni compromesse, curando le ferite lasciate dai conflitti che non siamo riusciti ad evitare né a gestire creativamente. Una terapia che può e deve diventare anche prevenzione, affinché da rimorsi, rimpianti, rinfacci e rimproveri non si sviluppino altri conflitti in futuro.


Note

[i] Vedi: AA. VV., Teoria e pratica della Riconciliazione, Torre dei Nolfi (AQ), Ed. Qualevita, 2008

[ii] Vedi: ‘Reconciliation’ in Blue Letter Bible > https://www.blueletterbible.org/search/search.cfm?Criteria=Reconciliation&t=KJV#s=s_primary_0_1

[iii] Vedi in Blue Letter Bible https://www.blueletterbible.org/lang/lexicon/lexicon.cfm?Strongs=H3722&t=KJV     e https://www.blueletterbible.org/lang/lexicon/lexicon.cfm?Strongs=H2398&t=KJV

[iv] Vedi: “Versöhnung” in D.W.D.S. > https://www.dwds.de/wb/Vers%C3%B6hnung

[v]  Voce “re-“ in Treccani, Vocabolario online> http://www.treccani.it/vocabolario/re/

[vi] https://dizionari.repubblica.it/Italiano/R/riconciliazione.html

[vii] https://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=riconciliazione

[viii] https://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/R/riconciliazione.shtml

[ix] https://dict.numerosamente.it/definizione/riconciliare

[x]  https://www.larousse.fr/dictionnaires/francais/r%C3%A9conciliation/67102

[xi] https://www.merriam-webster.com/dictionary/reconciling

[xii] https://dictionary.cambridge.org/dictionary/english/reconciliation

[xiii] Enrico Peyretti, “Appunti sulla nozione di riconciliazione”, in: Teoria e pratica della Riconciliazione, cit., pp. 35-36 (sottolineature mie)

[xiv] Operatori Pace Campania Onlus (a cura di), Guida pratica alla trasformazione dei conflitti, Napoli, 2011

[xv] Una buona sintesi del Metodo ‘Trascend’ ideato da Johan Galtung è: “Transcend-Galtung: mediazione/soluzione di conflitti-1958-2018” (2018) > http://serenoregis.org/2018/11/30/transcend-galtung-mediazione-soluzione-di-conflitti-1958-2018-johan-galtung/  Lo stesso Centro Studi Sereno Regis ha pubblicato la traduzione italiana del manuale (J. Galtung, La trasformazione del conflitto con mezzi pacifici, Torino, 2006), che è possibile anche scaricare dal suo sito al seguente indirizzo > http://serenoregis.wpengine.netdna-cdn.com/wp-content/uploads/2015/12/Johan-Galtung-La-trasformazione-dei-conflitti-con-mezzi-pacifici-web.pdf

[xvi] Galtung, op. cit., pp. 172-173 (sottolineature mie)

[xvii] Il Metodo della C.N.V.® è stato diffuso in Italia attraverso la traduzione delle opere di Marshall B. Rosemberg (in particolare: Comunicare con empatia, Reggio Emilia, Ed. Esserci, 2011 e Le parole sono finestre (oppure muri): introduzione alla comunicazione nonviolenta, Reggio E., Ed. Esserci, 2017) e attraverso altre pubblicazioni , corsi e seminari promosse dallo stesso Centro Esserci Edizioni  > https://www.centroesserci.it/

[xviii] Vedi: Ermete (Hermes)Ferraro, Grammatica di pace. Otto tesi per la educazione linguistica nonviolenta, Torino, Satyagraha, 1984 – ed anche: Ermete Ferraro – Anna de Pasquale, “Una grammatica della pace, per comunicare autenticamente e senza violenza”, in: Raffaello Saffioti (a cura di), Piccoli Comuni fanno grandi cose!  Pisa, Centro Gandhi Edizioni, pp.187-198. Il saggio è scaricabile da: https://ermetespeacebook.blog/2018/02/17/una-grammatica-della-pace-per-comunicare-senza-violenza/

[xix] Aldo Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Milano, Feltrinelli, 1967 (Ristampa: edizioni dell’asino, 2009). Su Capitini cfr. anche: Andrea Coppi, “Aldo Capitini, profeta della nonviolenza”, in: Archivio Disarmo > http://www.archiviodisarmo.it/index.php/it/2013-05-08-17-44-50/sistema-informativo-a-schede-sis/sistema-a-schede/finish/62/120 

[xx] Johan Galtung, op. cit., p. 18

[xxi] AA.VV., Sabona – Alla ricerca di buone soluzioni; imparare a risolvere i conflitti (Quad. Satyagraha n. 33), Pisa, Centro Gandhi ed., 2018, pp. 7…10 (sottolineature mie).

[xxii] Ibidem, p. 78

‘SUDYAGRAHA’: per la riscossa nonviolenta del Sud

Fare rumore…conviene?

“Che fai rumore qui / E non lo so se mi fa bene / Se il tuo rumore mi conviene / Ma fai rumore, sì / Che non lo posso sopportare / Questo silenzio innaturale…”.  Le parole del ritornello della canzone cantata da Diodato, vincitrice a Sanremo, mi sono improvvisamente venute in mente al termine del Convegno che si è svolto a Portici sabato 15 febbraio, organizzato dal Coordinamento Sud di Pax Christi. Il tema dell’incontro era suggestivo quanto originale: “Italia del Nord-Italia del Sud. Storia Giustizia Nonviolenza”. Lo definisco ‘originale’ perché anche all’interno dei movimenti pacifisti e nonviolenti operanti nel nostro Paese purtroppo non è facile trovare riferimenti al conflitto esistente fra quelle due Italie cui si fa cenno nel titolo, su cui si è preferito lasciar cadere un imbarazzato silenzio. Ed è proprio quel “silenzio innaturale” che, come altri pacifisti meridionali, anch’io ormai “non lo posso sopportare”. Ecco perché mi sembra necessario “far rumore” benché, come nella canzone, molti sembrano scettici sul fatto che questo rumore “ci fa bene” e, soprattutto, che “ci conviene”. Anche nel corso dell’incontro, infatti, qualcuno ha espresso dubbi sull’apertura da parte di Pax Christi di questo nuovo fronte di conflitto, sospettando che possa risultare ‘divisivo’. Obiezione comprensibile, ma che nasce dalla mancata consapevolezza che non è possibile operare divisione laddove l’unità – contrariamente a quanto ci si è fatto credere per un secolo e mezzo – non c’è mai stata davvero.

Facciamo benissimo ad occuparci della repressione contro Curdi e Palestinesi, come di quella nei confronti dei nativi amerindi oppure dei Rohingya. È cosa buona e giusta attivarsi per tutte le minoranze oppresse e per tutte le vittime del vecchio e nuovo colonialismo, nella consapevolezza che la Nonviolenza gandhiana – fine e mezzo al tempo stesso – è nata proprio come strategia alternativa nella lotta degli Indiani per la loro indipendenza ed autonomia.  Risulta però strano che un secolo e mezzo di conquista coloniale e sfruttamento del Sud della nostra penisola abbia invece lasciato molti teorici ed attivisti dei movimenti di liberazione quanto meno silenti, se non del tutto indifferenti. Ovviamente ci sono state e ci sono nobili eccezioni, come quella di Aldo Capitini, Danilo Dolci o Giuliana Martirani. Fra l’altro, il merito del convegno di Portici è di Antonio Lombardi, che a questa problematica ha dedicato un libro e da anni si sta battendo per quella “educazione alla identità e liberazione nonviolenta del Sud” che è alla base di un processo di ‘decolonizzazione’, mentale prima ancora che economica, dei meridionali. Eppure sembra evidente che dovremmo andare oltre, passando dall’attenzione alle sporadiche voci profetiche d’un riscatto nonviolento del Sud ad una riflessione più ampia, diffusa e condivisa, dalla quale l’arcipelago dei pacifisti, antimilitaristi e nonviolenti possa trarre un progetto complessivo da portare avanti, nel nome della riconciliazione ma, prioritariamente, della verità e della giustizia che ne sono la precondizione.

«Un popolo che subisce la colonizzazione mentale e viene educato all’oblio di sé è un popolo perduto. Educare all’identità, allora, significa partecipare a una straordinaria forma di difesa nonviolenta, è afferrare una poderosa tenaglia per spezzare la catena della sottomissione […] per andare verso una comunità consapevole della propria storia e del proprio valore, pronta a lottare per la dignità e l’equità, rifiutando di collaborare con la pesante emarginazione che la opprime a partire dalla conquista del 1860.» [i]

Catene da cui liberarsi o preziosi monili ?

Ma per “spezzare le catene della sottomissione” (e soprattutto per recidere quelle che, come si osservava nel libro citato, gli stessi oppressi paradossalmente spesso considerano monili preziosi…) c’è bisogno di una preventiva maturazione della coscienza da parte di comunità che continuano a vivere la propria subalternità come colpa o condanna del fato. I due interventi che, in quel convegno, hanno preceduto quello di Antonio Lombardi erano quindi altrettanto importanti. Il primo, di Vincenzo Gulì, studioso di storia del Mezzogiorno, si occupava di tracciare la “storia di una nascita”, ossia gli eventi passati che hanno portato alla sedicente Unità d’Italia, proprio “per capire il presente”. Rileggere criticamente la storia raccontata dai vincitori, attingendo a fonti e documenti finora occultati o prudentemente ignorati, è il solo modo per cogliere logiche e meccanismi dell’annessione colonialista del Regno delle due Sicilie. Si trattava infatti di uno dei più antichi, ampi e ricchi d’Europa che, contrariamente a quanto si è pervicacemente voluto far credere, non era per nulla arretrato e sottosviluppato, per cui l’unificazione – sul cui mito retorico sono state formate diverse generazioni di Italiani – di ‘patriottico’ ha avuto molto poco, non essendo stata altro che la forzata annessione di circa un terzo del territorio della Penisola al Regno di Sardegna, di cui cambiò di fatto solo l’estensione ed il nome.

Suppongo che molti continueranno a dissentire su tale rilettura storica, accusandola di ‘revisionismo’ e di ‘secessionismo’ ma evitando di andare a verificare quanto fossero fondate le ‘certezze’ che ci hanno inculcate in un secolo e mezzo di scuola unitaria e d’informazione a senso unico. Ormai i testi che trattano questi argomenti sono molti e qualificati, oltre che ampiamente basati su documentazioni difficilmente contestabili, per cui mi limito a rinviare alla lettura dei libri di Carlo Alianello [ii], Giordano Bruno Guerri [iii],  Pino Aprile [iv],  o Giovanni Fasanella e Antonella Grippo [v]. La stessa espressione ‘questione meridionale’ – al di là delle intenzioni dei grandi meridionalisti, da Nitti a Villari, da Fortunato a Salvemini, fino a Pannunzio, Compagna e Galasso –suggerisce implicitamente una connotazione negativa, come se si trattasse di un ‘problema’, una specie di pesante croce, di cui il Centro-Nord avanzati e progressisti sarebbero stati costretti a caricarsi. Ma la verità è ben altra e, pur  non volendo turbare le intime certezze patriottiche altrui con letture storiche dissonanti dalle versioni ufficiali, è oggettivamente impossibile – o almeno dovrebbe esserlo… – chiudere gli occhi su come quella stessa secolare ed irrisolta ‘questione meridionale’ abbia dato luogo molto più recentemente ad un ulteriore capovolgimento neolinguistico della realtà, trasformandosi in ‘questione settentrionale’ ed accelerando il truffaldino processo di ‘secessione dei ricchi’, consentito dalla c.d. ‘autonomia differenziata’, a sua volta frutto della già ventennale riforma ‘federalista’ del titolo V della nostra Costituzione repubblicana. Ecco perché è stato fondamentale che i convegnisti di Pax Christi ascoltassero anche il secondo intervento, affidato ad un acuto studioso dei processi economici come Marco Esposito. Il noto giornalista del quotidiano ‘Il Mattino’ è infatti l’autore di “Zero al Sud” un saggio fondamentale per capirci qualcosa dell’ultima fase della spoliazione del Mezzogiorno d’Italia, in cui – come nella favola esopiana del lupo e l’agnello – la preda continua ad essere imputata di aver danneggiato il suo predatore.  Con la scusa del ‘federalismo fiscale’, infatti, non contenti degli 840 miliardi di euro già sottratti al Sud negli ultimi 17 anni [vi] e della truffa dei finanziamenti annunciati ma mai assegnati veramente [vii] le regioni del Centro-Nord si preparano all’ultimo scippo di risorse mascherato da ‘giustizia fiscale’.

La teoria dei giochi a somma…zero al Sud

In teoria dei giochi, un gioco a somma zero descrive una situazione in cui il guadagno o la perdita di un partecipante è perfettamente bilanciato da una perdita o un guadagno di un altro partecipante in una somma uguale e opposta[viii].  Se questo è vero, ad ogni perdita economica imposta al Sud corrisponde un uguale guadagno aree geografiche che già stanno molto meglio, in barba uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione, relativo alla “solidarietà politica, economica e sociale”, espressamente sancito all’art. 2.  Come scriveva già nell’introduzione al suo libro Marco Esposito:

«Il federalismo – voluto dal Nord e accettato dal Sud – sembrava una buona soluzione […] Quando però il federalismo fiscale è stato tradotto in cifre, ci si è trovati davanti a qualcosa di non previsto. Lo Stato italiano dopo complessi conteggi ha certificato che il fabbisogno dei territori privi di servizi fosse proprio zero. Esattamente zero. E quindi il nulla coincidesse con il giusto […] La medicina per curare le inefficienze del Sud, il federalismo fiscale, si è mutata in un veleno a lento rilascio, che ne accorcia l’esistenza […] E così, non avendo i soldi per dare al Sud quello che era giusto, si è intrapresa la strada opposta: si è certificato che al Sud i servizi pubblici non servono, al Sud non ce n’è bisogno, al Sud il fabbisogno è zero o è molto poco. Un furto di diritti che, per riuscire, doveva avvenire al riparo da occhi indiscreti…» [ix]

Non è certo un caso che l’iter parlamentare della cosiddetta ‘autonomia differenziata’ sia stato a lungo blindato da chi aveva interesse a farlo, con la colpevole acquiescenza di chi avrebbe dovuto tutelare gli interessi del Sud e la complice copertura di media troppo distratti.

«Una delle astuzie della legge 42/2009 fu stabilire che le nuove regole non si applicassero alle cinque regioni a statuto speciale […] La 42 riconobbe, com’è ovvio dovendo attuare la Costituzione, la necessità di definire i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, ma saggiamente introdusse gli ‘obiettivi di servizio’ cui dovevano tendere le amministrazioni regionali e locali […] Obiettivi di servizio e Lep, però, non furono mai approvati […] La 42 conteneva una norma finale che nascondeva in sé il conflitto tra territori: “Dalla presente legge e da ciascuno dei decreti legislativi di cui all’art. 2 e all’art. 23 non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Ogni volta che si assegnerà un euro a un Comune bisognerà togliere un euro a un altro Comune. E viceversa: ogni zero al Sud avrebbe portato maggiori risorse al Nord». [x]

Ecco come è stato attuato il citato principio del ‘gioco a somma zero’. Peccato però che le regioni meridionali, ancora una volta, ne usciranno con le ossa ancora più rotte, confermando nell’opinione comune il destino ‘cinico e baro’ del Mezzogiorno, alimentato peraltro dal “generico senso di colpa” di cui parla Esposito, col quale noi del Sud ormai da secoli continuiamo ad autoflagellarci. Eppure basterebbe trovare quanto meno il coraggio mostrato dall’agnello esopiano che, di fronte alle accuse del lupo, ha comunque cercato di controbattere coi fatti ad argomentazioni assurde e truffaldine. Ecco perché è sembrato particolarmente opportuno che a concludere il Convegno di Portici sia stato l’intervento di Antonio Lombardi – pedagogista e mediatore nei conflitti – su: “Educare alla pace: dalla colonizzazione mentale alle relazioni nonviolente”. Per dare una compiuta risposta all’interrogativo “Che fare?”, suscitato tra i partecipanti dai primi due relatori.

 Rifiorire, nonostante il vento…

Il libro di Lombardi, “Fiorire nel vento”, porta come sottotitolo “educazione all’identità e liberazione nonviolenta del Sud”. Ed è proprio questo l’approccio per un rilancio in chiave nonviolenta del meridionalismo, perché senza affermazione della verità storica il conflitto è represso, non risolto. E perché, utilizzando un linguaggio costituzionale, il vero ostacolo da rimuovere per la liberazione di un popolo è la sua subalternità culturale, prima ancora che socio-economica. Come si accennava anche in precedenza, infatti, il primo passo per riconquistare la propria identità e dignità è cancellare le pesanti stratificazioni di una vera e propria colonizzazione mentale della gente del Sud, di cui per troppo tempo i media, la scuola e la famiglia sono stati gli strumenti. Per usare le parole che descrivono la tesi sostenuta da Lombardi nel suo saggio:

«”Fiorire nel vento” propone l’educazione all’identità come pratica liberatrice nonviolenta in grado di affrontare il trauma identitario, prospettando interrogativi e obiettivi su cui costruire piani educativi strutturati e utili nell’informalità delle relazioni quotidiane: per andare verso una comunità consapevole della propria storia e del proprio valore, pronta a lottare per la dignità e l’equità, rifiutando di collaborare con la pesante emarginazione che la opprime a partire dalla conquista del 1860. Questo libro è un invito alla consapevolezza e un sussidio, affinché sbocci in tutto il suo splendore il nostro sofferente popolo meridiano, in mezzo alla tempesta che lo sta spazzando via». [xi]

La “occupazione delle coscienze” – come giustamente la chiama Lombardi – è quasi peggio di quella manu militari di un territorio. Ed è ancora più insidiosa, dal momento che impiega canali formativi come la famiglia la scuola e i mezzi di comunicazioni. Ma, proprio per questo motivo, non è impossibile adoperarli per attivare un processo diametralmente opposto, quello cioè che Mario Borrelli, a Napoli, definiva ‘coscientizzazione’, negli stessi anni Settanta in cui, in Brasile, Paulo Freire la proponeva come strumento di liberazione. Il punto di partenza, quindi, è l’attivazione di iniziative di controinformazione e di natura educativa che ci aiutino non solo a demistificare le false verità sul Mezzogiorno che ci sono state propinate finora, ma soprattutto a recuperare la dignità perduta di un popolo con millenni di storia, una cultura eccezionale e risorse territoriali ed ambientali uniche.  Decolonizzare le menti non vuol dire pretendere di essere superiori agli altri, ma diventare consapevoli che, per citare il grande Viviani, non è più possibile accettare che “avimm’a sta’ a guagliune e simmo maste”.[xii].

Il secondo passo è quello che conduce dalla consapevolezza al superamento della subalternità, attraverso una lotta nonviolenta di liberazione, proprio come quella guidata da Gandhi contro il colonialismo inglese. Non è facile seguire questa strada proprio perché alternativa alla logica dominante, ma bisogna assolutamente percorrerla, sapendo anche che molti la considereranno magari poco ‘pacifica’, sol perché mette il dito su una piaga aperta che si vorrebbe occultare. Ma, come scriveva anche Danilo Dolci, l’acquiescenza all’ingiustizia non è pace, .

«Non possiamo confondere l’impegno per realizzare la pace con la preoccupazione di mantenerci equidistanti da tutti. Ogni comportamento – individuale, di gruppo, di massa – che tende sostanzialmente a mantener la situazione come è […] non è impegno di pace. […] Non è questa la pace che ci è necessaria…». [xiii]

Da resistenza nonviolenta ad autogoverno

Il secondo passo della lotta per la liberazione del Sud, spiegava Lombardi, è utilizzare la consapevolezza raggiunta – anche valorizzando la propria memoria storica – per affrontare il conflitto nonviolentemente. Ciò significa, in primo luogo, smettere di collaborare con chi vorrebbe mantenerci nella subalternità culturale e socioeconomica, giustificando la propria sete di nuove risorse con l’incapacità dei subalterni a governarsi da soli, come hanno fatto tutte le potenze coloniali e come continua a fare l’imperialismo neocolonialista attuale. L’ahimsa – come spiegava Gandhi – non è soltanto la scelta in negativo di agire senza violenza nei confronti di qualcuno, ma una scelta positiva, attiva e proattiva per affermare la verità ed impedire il male.

«…come un’espressione positiva di amore, della volontà di fare il bene anche di chi commette il male. Ciò non significa tuttavia aiutare chi commette il male a continuare le sue azioni immorali o tollerare queste ultime passivamente. Al contrario, l’amore, espressione positiva dell’ahimsa, richiede che si resista a colui che commette il male dissociandosi da lui, anche se questo può offenderlo o arrecargli dei danni fisici […] La non-collaborazione non è qualcosa di passivo, è qualcosa di estremamente attivo, di più attivo della resistenza fisica e della violenza». [xiv]

Non-collaborazione, come le altre forme di disobbedienza civile, significa quindi affermare nonviolentemente la verità, rendendo palese l’ingiustizia ed opponendovi una ferma resistenza. I modi in cui si può attuare questa lotta nonviolenta sono molteplici e Gandhi ce ne ha insegnati personalmente tanti, dallo sciopero al digiuno, dal rifiuto di prestare obbedienza al boicottaggio, dall’opposizione collettiva alla costruzione di organi di governo paralleli ed alternativi. Nel suo precedente libro “Satyagraha[xv], lo stesso Antonio Lombardi aveva già indicato compiutamente quali sono i mezzi cui può fare ricorso chi non accetta di sottomettersi e di avallare l’ingiustizia, ma allo stesso tempo rifugge da ogni azione violenta. La difesa popolare nonviolenta – cui bisogna addestrarsi preventivamente – non è però solo opposizione all’esistente, bensì attuazione di un ‘programma costruttivo’ già elaborato e realmente alternativo, nei fini e nei mezzi, a ciò cui ci si oppone. L’alternativa all’imposizione forzata ad un popolo d’un ruolo subalterno, cancellandone anche l’identità culturale e linguistica, è una sola: l’autogestione. Il Mahatma Gandhi la chiamava col termine indiano swaraj, che racchiudeva in sé non solo il desiderio d’indipendenza, ma un processo economico e politico autogestionario, fondato su un modello di sviluppo diverso da quello imposto, ecosostenibile e profondamente decentrato. Quello che il nostro Aldo Capitini definì ‘omnicrazia’, cioé il potere di tutti. [xvi]

Qualcuno forse giudicherà eccessivo confrontare la lotta di liberazione dell’India dal giogo inglese con quella della gente del Sud nei confronti d’un Nord egemone e dominante. Ma la verità è che un movimento per la pace non può più permettersi di sottovalutare il peso che un secolo e mezzo di subalternità ha avuto su un assetto sociale ed economico iniquamente unitario, e che un’ancor più iniqua violazione dei più elementari principi costituzionali rischia ora di portare al punto di rottura. Per mutuare una felice espressione di Giuliana Martirani [xvii], se il Nord si mostra sempre più Surd, è dunque necessario che il Sud non si rassegni a restare Nud ed affermi finalmente i propri diritti, recuperando la sua dignità ed il suo effettivo peso.


Note

[i]  Antonio Lombardi, Fiorire nel vento. Educazione alla identità e liberazione nonviolenta del Sud, Magenes, 2019 ( https://www.libreriauniversitaria.it/fiorire-vento-educazione-identita-liberazione/libro/9788866491934  )   

[ii] Carlo Alianello, La conquista del Sud, Il Risorgimento nell’Italia meridionale, Rusconi,1972 (https://www.amazon.it/conquista-del-Sud-Carlo-Alianello/dp/8884742374  )

[iii] Giordano Bruno Guerri, Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio, Mondadori, 2017 ( https://www.ibs.it/sangue-del-sud-antistoria-del-libro-giordano-bruno-guerri/e/9788804680475  )

[iv] Pino Aprile, Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali, Piemme, 2013 (https://www.amazon.it/Terroni-quello-italiani-diventassero-%C2%ABmeridionali%C2%BB/dp/8868366061  ); Idem, Giù al Sud, Piemme, 2011 ( https://www.amazon.it/Sud-Perch%C3%A9-terroni-salveranno-lItalia/dp/8856619938  )

[v]  Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, 1861, La storia del Risorgimento che non c’è nei libri di storia, Sperling & Kupfer, 2010 (  http://mimmobonvegna1955.altervista.org/la-storia-del-risorgimento-che-non-ce-sui-libri-di-storia/  ).

[vi] Fonti: https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/analisi/1203992/tolti-al-sue-e-dati-al-nord-840-miliardi-di-euro-in-17-anni.html ; https://www.quotidianodelsud.it/laltravocedellitalia/due-italie/2019/11/06/operazione-verita-in-tv-anche-report-scopre-lo-scippo-al-sud ; https://www.quotidianodelsud.it/laltravocedellitalia/due-italie/2020/02/08/il-sud-perde-170-milioni-milioni-al-giorno-le-promesse-non-bastano-piu ; https://www.vesuviolive.it/ultime-notizie/economia/323187-eurispes-2020-nord-sud-840-miliardi/

[vii] Fonti: https://www.ilsole24ore.com/art/patti-il-sud-speso-meno-2percento-AB5tUFdB ; https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/06/23/fondi-per-il-sud-chi-li-spende-davvero/5275196/

[viii]  Vedi: https://it.wikipedia.org/wiki/Gioco_a_somma_zero

[ix] Marco Esposito, Zero al Sud, Rubbettino, 2018, pp. 5-6

[x]  Ivi, pp. 24-25

[xi]  A. Lombardi, op. cit. > https://www.ibs.it/fiorire-nel-vento-educazione-alla-libro-antonio-lombardi/e/9788866491934 . Vedi anche: Ermete Ferraro, Identità e llibberazzione d’ ’o Sud, articolo in napolitano sul quotidiano “napoli”, 24.06.2019

[xii] Raffaele Viviani, Campanilismo (1931) tratta da “Poesie” , ed. Guida, Napoli, 1977, pagg. 198 e 199 > https://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-vernacolari/poesia-13559

[xiii] Danilo Dolci, Esperienze e riflessioni, Laterza. 1974, p. 229

[xiv] Mohandas K. Gandi, Teoria e pratica della non violenza, Einaudi, 1973, pp. 169-170 (brano tratto da Young India – 1920)

[xv] Antonio Lombardi, Satyagraha – Manuale di addestramento alla difesa popolare nonviolenta, Dissensi, 2014

[xvi]  Aldo Capitini, Il potere di tutti, La Nuova Italia, 1969

[xvii] Giuliana Martirani, Viandante Maestoso, Ed. Paoline, 2006 (p. 182)