La prima domenica di Quaresima dell’anno C ci ripresenta un passo del Vangelo (Lc 4,1-13) che più o meno tutti conoscono, ma del quale – proprio per questo motivo – rischiano di sfuggire alcuni significati meno evidenti. Si tratta infatti delle “tentazioni” cui viene sottoposto Gesù nel deserto (il verbo greca “peirào” ci mette di fronte a varie accezioni possibili, tra cui: “mettere alla prova”, “tentare”. “saggiare”, “sperimentare”…) e che, sia nel testo di Luca sia in quello parallelo di Matteo (Mt 4,1-11), seguono un ordine ben preciso.
Delle tre, la prima “prova” cui Gesù – dopo quaranta giorni di isolamento e di digiuno nello squallore dell’“eremòs”-  è sottoposto dal Diàbolos (dal greco “diabàllo”, e quindi: il calunniatore, il maldicente; colui che crea separazione e discordia…) è raccontata dai due evangelisti con parole molto simili. Le sfumature, in effetti, sono minime: nel testo matteano il “testatore” (“ò peiràzon”) sfida il Maestro a dimostrare di essere figlio di Dio (cosa che egli non mette affatto in dubbio, come dimostra l’uso del periodo ipotetico della realtà) dicendo alle pietre che aveva davanti di diventare pani, mentre Luca esprime lo stesso concetto al singolare “Di’ a questa pietra di diventare pane”.  La potenza della parola del “uiòs toù theoù” – s’insinua – non avrà certo difficoltà a trasformare dei sassi in cibo…
Ebbene, quella di mutare magicamente o “lithoi” in“àrtoi” (nel titolo l’ho chiamata “lithoartìa” ) mi sembra una tentazione ricorrente e mai esaurita del Diàbolos. Abitualmente, a livello di catechesi o di omelia domenicale, questo fenomeno viene ascritto alla categoria più generale che contrappone il cibo materiale – e quindi la soddisfazione della nostra corporeità – al nutrimento spirituale, che sostiene la nostra “psyché”-anima, consentendole di liberarsi dal peso condizionante del “soma”. Effettivamente, la risposta di Gesù (il verbo greco “apocrìno” suggerisce una contrapposizione netta, in questo brusco scambio verbale col suo interlocutore…) sembrerebbe avallare questa interpretazione: “Sta scritto che non di solo pane vivrà l’uomo”, citazione tratta dal libro del Deuteronomio cui Matteo, da buon giudeo, aggiunge la seconda parte omessa da Luca:     “ …ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (nel testo ebraico: “di tutto ciò che esce dalla bocca di YHWH” (Deut 8,3). Eppure la citazione va contestualizzata. Il Signore ammonisce il popolo che si è scelto ad avere fiducia nel Padre che lo mette alla prova solo per “correggerlo” e “fargli capire” che il cibo è sì necessario (tanto è vero che lo ha sfamato con la manna), ma non basta all’uomo per vivere (“hày”), se egli non ascolta più il suo Dio che gli parla.
La vita, insomma, non è garantita dal nutrimento materiale, ma dall’ascolto fiducioso delle parole del Padre, cui – come ci ricorda lo stesso Matteo – lo stesso Gesù ci ha invitato a rivolgerci per chiedere, ogni giorno, il “pane necessario” (“tòn àrton emôn tòn epioùsion dòs ymîn sèmeron”).
Eppure mi sembra di scorgere qualcosa di più, che è suggerito dalla triplice prova cui Gesù è sottoposto nel deserto. Nella richiesta del Diàbolos, che lo sfida a trasformare le pietre in pane mi par di leggere anche una provocazione ironica, sia perché pretende di mettere alla prova il Signore stesso, sia perché è paradossalmente rivolta ad un betlemmìta, ossia un abitante d’un paese che si chiama proprio “bèit-lehèm”, cioè “casa del pane”…
La seconda e terza prova riguardano la tentazione di dominare gli uomini e di strumentalizzare perfino Dio. Ecco, allora, che la prima prova mi suggerisce una lettura che non si esaurisce nella scontata contrapposizione spirito-materia o corpo-anima, ma colga una terza dimensione dell’eterna volontà di dominio che l’uomo porta dentro di sé, ma preferisce oggettivare in una tentazione esterna, “diabolica”. L’ordine delle “prove” nei due vangeli è lo stesso e denota una sorta di “klimax”: (i) sottomettere la natura: (ii) sottomettere gli altri uomini; (iii) sottomettere perfino Dio alla propria volontà. Ritorniamo col pensiero al terribile verbo ebraico “rada’”, utilizzato in Gen 1,28 per sancire quel “dominio” di Adam su Adama’ (la terra), che l’umanità ha trasformato da affidamento e custodia in pretesa di controllo e di sottomissione.
Nell’ebraico moderno, a quell’accezione violenta di dominio (“radad” vuol dire “schiacciare”) prevale quella di “estrarre”, tanto è vero che – curiosamente – “sfornare il pane” si dice “rada’ et ha-lehèm”. Il guaio è che il vecchio e il nuovo Adamo non si accontentano di usare i frutti della provvidenza divina, simboleggiati nel giardino paradisiaco piantato in Eden (Gen 2,8). La tentazione del Diàbolos era e resta sempre la stessa: perché mai limitarsi ad usare i beni della terra quando si può diventarne padroni, trasformandosi in dei? L’umanità ha costantemente ceduto a quest’insinuante ipotesi, arrogandosi in diritto di mettersi sotto i piedi la terra, visto che non le bastava calpestarla fisicamente. Trasformare le pietre in pani è – e rimane ancora – la peggiore tentazione, assecondando la quale Adam è progressivamente giunto a minacciare la sopravvivenza stessa di Adama’, la “sora madre terra” cui Francesco d’Assisi si rivolgeva, invece, con spirito grato e filiale.
Nel vangelo della scorsa domenica Luca ci aveva presentato le sue tre beatitudini come la strada che Cristo ci indica per sfuggire ai “guai” che ci procurano la folle corsa alla ricchezza, alla sovra-alimentazione ed alla ricerca della fama a tutti i costi. Nel brano di questa prima domenica di quaresima ci troviamo di fronte alle tre tentazioni che allontanano l’uomo da Dio padre: manipolare la natura, i propri simili e lo stesso Signore per affermare se stessi, anche se tocca “prostrarsi” ai piedi del Diàbolos, distogliendo lo sguardo da Chi ci ha creato.
Mai come in questo XXI secolo la tentazione di manipolare la natura è diventata una realtà tangibile, con la dichiarata intenzione di sfamare l’umanità affamata ma, come nel caso delle manipolazioni genetiche dei prodotti della terra, per dominarla sempre più e sempre meglio. Lo sfruttamento dell’ambiente, infatti, è solo il risvolto della medaglia dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ed entrambi nascono dalla pretesa di rivoltarsi contro Dio, snaturando ciò che ha creato e cercando di forzare le leggi naturali – e quindi divine – in nome dell’affermazione orgogliosa della superiorità schiacciante dell’uomo sulle altre creature.
Ma le pietre non possono e non devono diventare pane. La verità è che è proprio l’insaziabile egoismo e l’avidità smodata di una ristretta parte dell’umanità che impedisce alla maggioranza degli abitanti della Terra di sfamarsi col pane ‘quotidiano’. La verità è che la follia di una parte dell’umanità sta riuscendo nel prodigio opposto: quello di trasformare terre coltivabili in lande desolate ed aride, alimentando spaventosamente il fenomeno della desertificazione di territori sempre più vasti, anche a causa del c.d. “riscaldamento globale” del pianeta. (v. sito dell’UNCCD)
La cosa più grave è che troppo spesso tutto questo viene fatto non solo in nome di un assurdo “progresso”, ma perfino in nome di Dio, mettendo alla prova o pretendendo di mettere nella sua “bocca” quello che ci fa comodo e rifiutandoci di ascoltare (“shma’) le sue parole di vita eterna.
La “lithoartìa” è una malattia molto grave, di cui l’uomo non sembra volersi curare, ma che ha radici molto antiche, come è attestato dal mito di re Mida, in una fiaba araba ed in tante altre storie leggendarie e alchimistiche, che favoleggiano di prodigiose trasformazione delle pietre in oro più che in pane. L’unico rimedio è ricordarci del monito del Maestro ed imparare a seguirlo nel “deserto”, liberandoci in quella solitudine delle mille voci estranee che cercano di coprire la voce del Padre, che è poi quella della nostra coscienza.
 
© 2010 Ermete Ferraro
      

‘MMACÁRE E…UÁJE !

 
In un paio di post precedenti (“Santi subito?” dell’1.11.2009 e “Vieni avanti Chrétien!” del 3.2.2008) mi è già capitato di soffermarmi sulle “beatitudini” come carta d’identità di chi abbia deciso di seguire Gesù Cristo lungo la difficile via di un annuncio di salvezza che rivoluziona totalmente le nostre certezze e la nostra stessa logica abituale.
La verità è che, anche duemila anni dopo, quella “buona notizia” non finisce di sconvolgerci, capovolgendo le nostre priorità e mettendo drammaticamente in crisi quei valori da cui stentiamo a distaccarci, pur quando siamo posti di fronte alla loro evidente inconciliabilità con quelli evangelici.
Il c.d. ‘discorso della pianura’ nel Vangelo secondo Luca – riproposto in questa IV domenica di tempo ordinario dell’anno C – risulta significativamente differente dal testo parallelo di Matteo, in quanto si rivolge ad una comunità di pagani convertiti e non di giudei osservanti. Ma, al di là delle diversità evidenti (quattro beatitudini anziché nove ed alcune significative sfumature lessicali, come quella che contrappone realisticamente i “poveri” a quei “poveri in spirito” che richiamavano gli “anawìm” veterotestamentari…), è impossibile non notare che l’intento marcatamente più ‘sociale’ di Luca è posto in risalto anche dalle quattro invettive in parallelo alle corrispondenti beatitudini.
Curiosamente, per un orecchio attento alle assonanze con le espressioni della lingua napoletana, ai “ ‘mmacàre” (“makàroi”) si contrappongono altrettanti “uàje” (“ouài”) esclamazione terribile che sembra interpellare anche oggi chi si dichiara “cristiano”, ma preferisce limitarsi tendenziosamente ad un’interpretazione spiritualizzata e vaga dei precetti del Maestro.
Ebbene, nel caso in cui non avessimo capito bene (o, molto più probabilmente, non ci facesse comodo comprendere a fondo un messaggio così sconvolgente…), ecco che capovolgimento brusco delle beatitudini in una sorta di annuncio di sventura viene a toglierci ogni illusione di poterlo interpretare a nostro uso e consumo.
Non si tratta, ritengo, solo di una contrapposizione cronologica fra presente e futuro, come se ci fosse una specie di automatismo per cui chi adesso (nùn) è ricco, sazio, allegro ed appagato sarà poi condannato alla povertà, alla fame, all’afflizione ed alla cattiva fama. Certo, l’avverbio greco “ sottolinea in modo martellante le situazioni di piacere presenti, opponendo loro i “guai” di una condizione esistenziale espressa al tempo futuro. Ma questo non mi sembra indicare una sorta di escatologica “legge del contrappasso”, volgarizzata dal noto proverbio popolare “ride ben chi ride ultimo!”. Direi piuttosto che il messaggio evangelico rinvia ad una netta contrapposizione fra due modelli di vita, improntati a valori radicalmente opposti, in quanto s’ispirano a priorità inconciliabili.
Da una parte c’è il perseguimento, a tutti costi, della ricchezza, della sazietà, dell’assenza di dolori e preoccupazioni e della notorietà, che conduce sicuramente ad una “consolazione” contingente, (paràklesis) però trascura del tutto i valori veri, che il testo di
Matteo mette più in evidenza: l’umiltà, la mitezza, la misericordia, la purezza interiore, la sete di giustizia e la volontà di adoperarsi per la pace. Dall’altra parte c’è un modello di vita che non ci chiede affatto di perseguire la sofferenza come valore in sé, ma di affidarci a Dio Padre, provando a fare a meno delle sicurezze materiali di cui ci avvolgiamo al punto tale da restarne praticamente prigionieri.
Leggere le parole del Vangelo di Luca, a distanza di venti secoli, continua a farci scorrere un brivido lungo la schiena. Ma che razza di civiltà cristiana siamo stati capaci di costruire in tutto questo tempo, se il mondo occidentale in particolare è il campione più significativo di un mondo dominato dagli eccessi assurdi della corsa alla ricchezza, alla sovralimentazione, all’edonismo sfrenato ed alla celebrità a qualsiasi prezzo? Che razza di vangelo predichiamo ai non credenti, se tanti si fanno perfino un vanto di una civiltà sintetizzabile nel culto del denaro e del piacere?
Se è vero, come è vero, che Luca indirizzava le sue invettive contro un mondo ancora troppo pagano, che cosa diavolo direbbe oggi, dopo 2010 anni di cristianesimo, di fronte alla nostra società consumista e materialista?
E allora: noi da che parte stiamo ?
(c) 2010 Ermete Ferraro

‘MMACÁRE E…UÁJE !

 
In un paio di post precedenti (“Santi subito?” dell’1.11.2009 e “Vieni avanti Chrétien!” del 3.2.2008) mi è già capitato di soffermarmi sulle “beatitudini” come carta d’identità di chi abbia deciso di seguire Gesù Cristo lungo la difficile via di un annuncio di salvezza che rivoluziona totalmente le nostre certezze e la nostra stessa logica abituale.
La verità è che, anche duemila anni dopo, quella “buona notizia” non finisce di sconvolgerci, capovolgendo le nostre priorità e mettendo drammaticamente in crisi quei valori da cui stentiamo a distaccarci, pur quando siamo posti di fronte alla loro evidente inconciliabilità con quelli evangelici.
Il c.d. ‘discorso della pianura’ nel Vangelo secondo Luca – riproposto in questa IV domenica di tempo ordinario dell’anno C – risulta significativamente differente dal testo parallelo di Matteo, in quanto si rivolge ad una comunità di pagani convertiti e non di giudei osservanti. Ma, al di là delle diversità evidenti (quattro beatitudini anziché nove ed alcune significative sfumature lessicali, come quella che contrappone realisticamente i “poveri” a quei “poveri in spirito” che richiamavano gli “anawìm” veterotestamentari…), è impossibile non notare che l’intento marcatamente più ‘sociale’ di Luca è posto in risalto anche dalle quattro invettive in parallelo alle corrispondenti beatitudini.
Curiosamente, per un orecchio attento alle assonanze con le espressioni della lingua napoletana, ai “ ‘mmacàre” (“makàroi”) si contrappongono altrettanti “uàje” (“ouài”) esclamazione terribile che sembra interpellare anche oggi chi si dichiara “cristiano”, ma preferisce limitarsi tendenziosamente ad un’interpretazione spiritualizzata e vaga dei precetti del Maestro.
Ebbene, nel caso in cui non avessimo capito bene (o, molto più probabilmente, non ci facesse comodo comprendere a fondo un messaggio così sconvolgente…), ecco che capovolgimento brusco delle beatitudini in una sorta di annuncio di sventura viene a toglierci ogni illusione di poterlo interpretare a nostro uso e consumo.
Non si tratta, ritengo, solo di una contrapposizione cronologica fra presente e futuro, come se ci fosse una specie di automatismo per cui chi adesso (nùn) è ricco, sazio, allegro ed appagato sarà poi condannato alla povertà, alla fame, all’afflizione ed alla cattiva fama. Certo, l’avverbio greco “ sottolinea in modo martellante le situazioni di piacere presenti, opponendo loro i “guai” di una condizione esistenziale espressa al tempo futuro. Ma questo non mi sembra indicare una sorta di escatologica “legge del contrappasso”, volgarizzata dal noto proverbio popolare “ride ben chi ride ultimo!”. Direi piuttosto che il messaggio evangelico rinvia ad una netta contrapposizione fra due modelli di vita, improntati a valori radicalmente opposti, in quanto s’ispirano a priorità inconciliabili.
Da una parte c’è il perseguimento, a tutti costi, della ricchezza, della sazietà, dell’assenza di dolori e preoccupazioni e della notorietà, che conduce sicuramente ad una “consolazione” contingente, (paràklesis) però trascura del tutto i valori veri, che il testo di
Matteo mette più in evidenza: l’umiltà, la mitezza, la misericordia, la purezza interiore, la sete di giustizia e la volontà di adoperarsi per la pace. Dall’altra parte c’è un modello di vita che non ci chiede affatto di perseguire la sofferenza come valore in sé, ma di affidarci a Dio Padre, provando a fare a meno delle sicurezze materiali di cui ci avvolgiamo al punto tale da restarne praticamente prigionieri.
Leggere le parole del Vangelo di Luca, a distanza di venti secoli, continua a farci scorrere un brivido lungo la schiena. Ma che razza di civiltà cristiana siamo stati capaci di costruire in tutto questo tempo, se il mondo occidentale in particolare è il campione più significativo di un mondo dominato dagli eccessi assurdi della corsa alla ricchezza, alla sovralimentazione, all’edonismo sfrenato ed alla celebrità a qualsiasi prezzo? Che razza di vangelo predichiamo ai non credenti, se tanti si fanno perfino un vanto di una civiltà sintetizzabile nel culto del denaro e del piacere?
Se è vero, come è vero, che Luca indirizzava le sue invettive contro un mondo ancora troppo pagano, che cosa diavolo direbbe oggi, dopo 2010 anni di cristianesimo, di fronte alla nostra società consumista e materialista?
E allora: noi da che parte stiamo ?
(c) 2010 Ermete Ferraro

COMUNICARE PACE

imagesCACYNJI1EDUCAZIONE LINGUISTICA PER LA PACE
Un percorso formativo alla comunicazione nonviolenta

> Destinatari:
la proposta è rivolta agli alunni/e delle classi II e III della scuola media e s’inserisce in un più generale percorso didattico di educazione alla pace ed alla convivenza civile e nonviolenta.

>> Finalità dell’iniziativa:
gli incontri con gli alunni/e sono finalizzati ad una loro sensibilizzazione all’importanza di una relazione interpersonale che, a partire dalle modalità comunicative, sia capace di creare scambio, condivisione e cooperazione anziché alimentare incomprensione, ostilità e sopraffazione reciproche. L’obiettivo più specifico è quello di offrire un saggio di un più ampio percorso di educazione alla comunicazione nonviolenta, indicando ad alunni e docenti alcuni possibili approcci metodologici da sviluppare opportunamente.

>>> Modalità della proposta:
ogni incontro (per non più di di 25-30 alunni/e alla volta e per una durata di 100 minuti complessivi)seguirà questa modalità operativa: (a) Breve presentazione della tematica e del relatore; (b) “brainstorm” iniziale, per evidenziare alcune “parole-chiave” da cui partire; (c) sintetica illustrazione di tre metodologie per l’educazione alla comunicazione nonviolenta (ECN): (i) l’educazione linguistica nonviolenta di E. Ferraro; (ii) la “comunicazione nonviolenta” di M. R. Rosemberg e (iii) la “comunicazione ecologica” di J. K. Liss; (d) discussione aperta con gli alunni/e, a partire dalle parole-chiave evidenziate ed alla luce della presentazione; (e) valutazione conclusiva dell’esperienza fatta e gioco di chiusura. A distanza di alcuni giorni dall’incontro, agli alunni/e partecipanti sarà proposto un breve questionario di verifica dell’effettiva comprensione di quanto è stato loro proposto (feed back). Sarebbe auspicabile un successivo incontro con i docenti interessati della/e classe/e coinvolta/e nell’esperienza, cui sarà comunque proposta una breve bibliografia di approfondimento.

>>>> Animatore dell’iniziativa:
Ermete Ferraro (Napoli 1952) ha conseguito la Laurea in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Napoli "Federico II" e, in seguito, il Diploma Triennale di Assistente Sociale. Si è abilitato all’insegnamento delle discipline letterarie e del latino per gli istituti superiori e, in seguito a Concorso abilitante per l’insegnamento di materie letterarie nelle scuole medie , è diventato docente di ruolo di Lettere, dapprima alla S.M.S. "Card. Maglione" di Casoria-NA e successivamente alla S.M.S. "A. Sogliano" di Napoli, dove insegna tuttora, svolgendovi anche la funzione strumentale per "disagio e dispersione".
Tra i primi obiettori di coscienza napoletani, da oltre 35 anni è impegnato nei seguenti campi: nonviolenza, disarmo, difesa alternativa, educazione alla pace e ricerca sulla pace, eco pacifismo ed ecologia sociale.
Animatore socioculturale ed operatore sociale di gruppo e di comunità (1974-84) presso il Centro Comunitario della “Casa dello Scugnizzo” di Napoli, negli ultimi dieci anni si sta occupando dell’omonima Fondazione-onlus come coordinatore ed amministratore sociale.
Operatore pastorale presso la Parrocchia Santa Maria della Libera, segue le attività della Caritas e, in modo più specifico, è responsabile di uno sportello di ascolto e di counseling socio-educativo per minori.
E’ autore di alcuni libri e saggi (fra cui uno sulla Educazione Linguistica Nonviolenta) e si occupa di varie questioni, dalla nonviolenza e l’educaz. alla pace all’educaz. ambientale ed alle problematiche del servizio sociale e dello sviluppo comunitario. Per maggiori informazioni visitare il suo sito personale: http://www.ermeteferraro.it il suo blog: http://ermeteferraro.splinder.com ed il suo educational website : http://ermeteferraro.weebly.com
–> Contatti: prof. Ermete FERRARO > via F. Cilea 112 – 80127 Napoli – tel/fax: 081 5799539 – mobile: 349 3414190 – email: ermeteferraro@alice.it

 

UN MONDO DI…PAZZI ?

mad tea partyNel corso della nostra avventura scolastica, come ad Alice nel Paese delle Meraviglie, ci capita ogni tanto di fare scoperte sorprendenti e talvolta un po’ sconvolgenti. Avevamo appena iniziato a discutere insieme di emozioni e sentimenti e di come esprimerli nel modo giusto e già si è aperto davanti a noi un nuovo capitolo.
Leggendo il fantastico romanzo di Carroll, infatti, abbiamo fatto esperienza dell’incontro con l’assurdo, con la stravaganza e perfino con la follia. Il settimo capitolo – che ho tradotto in napoletano e vi proposto per una gustosa lettura – parla appunto del famoso "Tè dei pazzi". Tuti i personaggi che Alice incontra nel suo "meraviglioso" viaggio, del resto, sono più o meno matti, come del resto le ricorda in modo beffardo lo "Stregatto". Ognuno a suo modo e con le sue particolarità, ma tutti – dal Cappellaio alla Lepre Marzolina, dalla Regina di Cuori alla Duchessa – del tutto privi di quella prevedibilità e razionalità che vorremmo trovare negli altri.
Poi abbiamo letto, sfogliando l’antologia, il brano di Achille Campanile intitolato proprio "Pazzo" e lì ci siamo dovuti per forza fermare un po’ a riflettere, andando oltre i giochi di parole e l’umorismo del "nonsenso".  Insomma: chi sono i "pazzi" e, soprattutto, noi stessi siamo tanto sicuri di essere del tutto savi e privi di un qualche aspetto di follia? E poi: quali emozioni e reazioni ci provoca il concetto stesso di "pazzia"? Ne abbiamo parlato abbastanza a lungo, a partire da un "brainstorm" e cercando poi di riordinare le idee e di tracciare una mappa concettuale che ci chiarisse un po’ le idee.
Beh, questo mi pare un altro spunto molto buono per fare della scuola non solo un momento d’istruzione e di educazione, ma un’occasione per riflettere e per guardarci intorno, scoprendo i problemi della società e cominciando a chiederci qual è il nostro ruolo dentro di essa. Vi pare poco…? Scrivetemi le vostre impressioni e fatemi sapere che cosa ne pensate. Un abbraccio dal vostro prof. 
(tratto dal post del 7.2.2010 pubblicato sul blog del sito scolastico: SCHOOLBOOK: http://ermeteferraro.weebly.com )