25 aprile: LIBERAZIONE E LIBERTA’

Liberazione e Libertà

                     di Ermete Ferraro

Si è celebrata ieri la Festa della Liberazione, ricorrenza che dopo 63 anni continua ad alimentare rozze polemiche in un’Italia dove, in nome di quella “libertà” che sembra essere diventata la “casa” di neoconservatori ed ex fascisti, si persevera nel revisionismo storico, che proprio il senso di quella storica data vorrebbe cancellare dalla memoria degli Italiani.

Ma non è di questo che voglio occuparmi. Cercherò, invece, di far luce sul senso dello stesso vocabolo libertà, sempre più “parola-attaccapanni” usata cinicamente per appenderci abiti vecchi e nuovi e di qualsiasi colore (si va dal bianco al nero, passando per l’azzurro, il verde ed il rosso…).

Come sempre, mi lascio aiutare dall’analisi etimologica, perché l’esperienza mi ha insegnato che se ricercano attentamente le origini di un vocabolo, spesso si arriva a comprenderne il senso più profondo, nascosto, molto spesso ormai perduto.

Ebbene, in Italiano l’aggettivo LIBERO ed il corrispondente nome astratto LIBERTA’ sono ovviamente simili alla corrispondenti espressioni neolatine (es.: Fra.: LIBRE/LIBERTE – Spa: LIBRE/LIBERTAD – Rum: LIBER/LIBERTATE), tutte derivate dal Lat: LIBER- /LIBERTAS, a loro volta riconducibili ai vocaboli greci: ELEUTHEROS/ELEUTHERIA e, in ultima analisi, alla radice indoeuropea *LEUDHO.

Un discorso a parte va fatto per le espressioni inglesi (FREE/ FREEDOM) o tedesche (FREI/ FREIHEIT), che invece ci riportano a più antiche e comuni forme germaniche (es.: Got.: FREIS), a loro volta ispirate alla radice sanscrita: *PRIYAH /*PRIJATI.

La differenza semantica fra le parole di ceppo latino e quelle di ceppo germanico è che la sequenza *LEUDHO > ELEUTHEROS > LIBER ci riporta ad un’origine per così dire “gentilizia” (nel senso che la radice indeuropea esprime come significato-base quello di “popolo”, “gens”), mentre la sequenza *PRIYAH > FREIS > FREI/FREE  lascia intravedere un significato più “affettivo” (poiché il senso della radice indiana è “amato”, “caro”, cui s’ispira anche la parola germanica parallela FRIEDE, che significa “pace”).

Insomma, mentre nella tradizione latina e neolatina l’aggettivo /LIBERO/ è riconducibile semanticamente soprattutto al concetto giuridico e civile di “privo di vincoli”, “non schiavo” e quindi “indipendente” (in quanto “appartenente al popolo”, di “nobile nascita”), in quella germanico-anglosassone l’accento cade piuttosto su un legame affettivo e sentimentale (amato, che sta in pace…). Una sorta di compromesso logico fra le due famiglie linguistiche, d’altra parte, è riscontrabile nel fatto che in lingua latina /LIBERI/ indicava non a caso sia i cittadini dotati di diritti e non soggetti a schiavitù, ma significava anche “figli”, membri di un gruppo familiare non solo per diritto, ma anche per profondi legami affettivi. Credo che questo approfondimento etimologico non sia inutile, visto che ci riporta ad un dilemma etico-religioso fondamentale, intimamente connesso al significato stesso della parola “libero” e del concetto stesso di “libertà”.

La domanda è, infatti: quest’ultima è per noi soltanto un termine giuridico, che sancisce la nostra indipendenza da vincoli e legami esterni (cosa peraltro da sottovalutare affatto, visto che proprio per la liberazione, personale e collettiva, tante persone hanno combattuto nei secoli, hanno  consacrato la propria vita e spesso non hanno esitato ad affrontare la morte…), o questa parola riesce a richiamarci anche ad un senso più intimo, interiore ed affettivo del nostro rapporto con gli altri?  Sono convinto che a risposta ce l’abbia già data duemila anni fa Gesù Cristo, rispondendo al legalismo ipocrita dei farisei, che lo incalzavano con le loro provocazioni: <<“Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”  Gli risposero: “Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire ‘Diventerete liberi’?” Gesù rispose: “In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato […] se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero” …>> (Gv 6,31 ss).

Sono passati due millenni, e di una una civiltà che si definisce "cristiana", eppure ci sono ancora troppi convinti che "la Legge" e la loro condizione di cittadini garantiscano ed assicurino la loro libertà, data per acquisita una volta per sempre. Il guaio è che, come per quei Farisei,  per molti essere liberi è un concetto puramente giudico e formale, che non comporta nessuno sforzo personale né una scelta morale spesso difficile. Io penso invece che, credenti o no, faremmo meglio a di smetterla di crederci liberi solo per diritto di nascita. E non perché secoli di civiltà giuridica non ci abbiano ormai convinti che nasciamo liberi cittadini e non sudditi; esseri umani autonomi, capaci di libero arbitrio e non “pupi” manovrati da fili in mano ad altri, ma piuttosto perchè è pericoloso considerare la libertà uno status acquisito una volta per sempre.  E’ la stessa storia dell’uomo a dimostrarci  che si tratta di una condizione molto fragile e delicata, che richiede a tutti noi di essere, ogni giorno, protagonisti della nostra liberazione, senza mai dimenticarci dei troppi fratelli che, tuttora, sono soggetti a vecchie e nuove schiavitù.

Evidentemente, oggi come allora, non ci basta dichiararci “figli di Abramo” oppure “cittadini di uno Stato democratico” per essere davvero liberi, se la nostra libertà non è alimentata dalla verità e dall’amore e se la nostra civiltà resta contraddistinta dalla mistificazione e dalla rivalità. Ecco perché recuperare il significato "affettivo" della parola connesso alla radice germanica può aiutarci anche a comprendere finalmente che non potrà mai esserci libertà senza pace né pace senza libertà.

 

 

di erferraro Inviato su Senza categoria Contrassegnato da tag

EARTH DAY 2008

CHE IL "GIORNO DELLA TERRA"

NON DURI…UN GIORNO.

                                                  di Ermete Ferraro

Il 22 EarthLove2 aprile, a partire dal 1970, si celebra il “Giorno della Terra”, promosso ed organizzato dall’ Earth Day Network (EDN), la quale ha costruito in questi 38 anni d’impegno ecologista una rete che raccoglie 17.000 organizzazioni in 174 stati.  La mission di E.D.N. consiste nel: “…far crescere e diversificare il movimento ambientalista a livello mondiale, e di mobilitarlo come un più efficace veicolo per la promozione di un pianeta sano e sostenibile. Perseguiamo la nostra finalità istitutiva mediante l’educazione, l’impegno politico, eventi e l’attivismo dei consumatori”.

Nel documento citato , si precisa che uno degli obiettivi perseguiti da questa organizzazione-ombrello è quello di allargare il concetto stesso, e quindi la definizione, di “ambiente”, per includervi tutte le questioni che toccano la nostra salute, le comunità ed il loro ambiente di vita, come ad es. “…l’inquinamento delle acque, il degrado degli edifici scolastici, i trasporti pubblici, l’accesso al lavoro, le crescenti percentuali di malattie come l’asma ed il cancro, l’assenza di finanziamenti per parchi e spazi ricreativi…” , come chiaramente indicato nel documento dal titolo “Urban environment Report” . Ebbene, anche in Italia sarà celebrata questa data del 22 aprile per sensibilizzare grandi e piccoli all’acquisizione di una coscienza ecologica che non si limiti ad una confusa e generica consapevolezza dei rischi che l’umanità sta affrontando a causa del suo pessimo rapporto con l’ambiente naturale, ma giunga a dare a ciascuna persona – e quindi ad ogni comunità – concrete indicazioni teoriche e strumenti pratici per una vera e propria “conversione ecologica”, a tutti i livelli.

Il rischio ambientale peggiore, infatti, è che si continui ad oscillare sterilmente tra quelle due opposte concezioni – che in tempi non sospetti Umberto Eco definiva “apocalittici” e “integrati” – in base alle quali il nostro rapporto con l’ambiente è ormai irrimediabilmente compromesso o, al contrario, non esiste una questione ecologica che non possa essere risolta adeguandosi alle nuove realtà socio-economiche ed ambientali e, soprattutto, che non si possa risolvere usando al meglio la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica.

Nel suo dossier-natura “Una perla preziosa”, pubblicato sulla rivista “Messaggero di Sant’Antonio” (aprile 2008), Mario Tozzi (noto geologo, ricercatore e giornalista TV) ci conduce per mano a scoprire come vivere secondo natura è molto più facile e…naturale di quanto possa sembrarci, avvolti come siamo dagli inutili ed ingombranti incarti di una civiltà sprecona, energivora e fondata sul dominio più che sull’uso delle risorse. “Sopravvivere al limite”, spiega Tozzi, è stato per millenni il vero problema per tanti esseri umani, costretti a resistere con tutto il proprio ingegno ad un ambiente spesso sfavorevole e, in certi casi, lo è ancora oggi per tante comunità che devono adattarsi ad una natura poco ospitale.

Al polo opposto, ci sono milioni di uomini che stanno letteralmente depredando la Terra, di cui pur sono figli, e che ormai sembrano non poter fare a meno di uno stile di vita assurdo ed irrazionale. Mario Tozzi fa riferimento, in particolare, al nostro modo di abitare e di vivere quotidianamente e commenta: “Ad osservarle bene, le nostre case di occidentali ricchi sono un monumento al paradosso energetico e non direi neppure che sono veramente tecnologicamente avanzate” . Dopo aver elencato una serie di provvedimenti da lui stessi assunti per rendere meno pesante l’impronta ambientale della sua stessa casa, a partire dall’eliminazione di ogni spreco energetico, egli ci indica nel paragrafo "Alla ricerca della sobrietà" il modo più idoneo per migliorare – e al tempo stesso rendere più efficiente – quel nostro microcosmo “sprecone oltre ogni misura”.

Anche la scuola – come la casa – è per tanti di noi l’ambiente di vita quotidiano: il nostro vero “oikos” , dal quale dobbiamo necessariamente partire per fare “oiko-logìa” più che per parlarne accademicamente quanto inutilmente. Non è certo un caso che uno dei punti qualificanti del programma proposto da E.D.N. sia proprio quello dedicato non solo all’educazione ambientale – che troppo spesso noi italiani consideriamo come una pura e semplice aggiunta al curriculum scolastico, una materia in più da far studiare – bensì un vero e proprio percorso di formazione alla consapevolezza ecologica e di sperimentazione di un modo alternativo di vivere e di consumare. Basta cliccare sulla pagina “Green Schools” del sito di E.D.N., infatti, per accedere ad un accattivante itinerario di conoscenze e di azioni, di saperi e di competenze, per rendere “più verdi” le nostre scuole. Si va dall’informazione per rendere più sana la refezione scolastica alle indicazioni per il vero e proprio “curriculum” degli studi; dalle nozioni di base di educazione civico-politica a quelle sulle attività ludiche e ricreative più adatte.

Partire da questo microcosmo domestico e scolastico mi sembra davvero una buona idea per celebrare anche questo “Earth Day”, ma credo anche che non sia il caso di perdere di vista le nostre priorità più ampie ed i valori su cui esse di poggiano. Ecco perché, se è opportuno che ognuno faccia la sua parte dove meglio e più riesce ad ottenere dei risultati tangibili, penso che non è possibile fare a meno d’interrogarsi sul nostro ruolo di esseri umani su questa Terra sempre più minacciata da chi dovrebbe sentirsene figlio. Se è vero che “Adàm” (“uomo” in ebraico) è solo il maschile di “Adamà” (cioè “terra” nella stessa lingua), dobbiamo seriamente chiederci perché siamo giunti al punto da rinnegare questo vincolo che ci lega ad essa, come figli ad una madre.

Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8,19-23), ci ricordava l’articolo di Dario Bossi su “Ecologia e Missione” su “Comboni-fem” dello scorso Marzo, citando San Paolo e stimolando chi è credente a non considerare l’ecologia una disciplina scientifica da studiare, ma piuttosto un “nuovo paradigma per interpretare il mondo”. Come ci ammonisce il teologo Leonardo Boff, il vero credente è chiamato a recuperare il valore sacro delle “relazioni” che ci legano alla Terra, rifacendosi alla fisica quantistica, secondo la quale tutto è strutturato in campi di energia interattivi, per cui ogni parte resta costantemente in comunicazione con il tutto.

E’ il solo modo perché i Cristiani si decidano davvero a comprendere, con la mente – ma anche col cuore e con la volontà – che il “giorno della Terra” viene tutti i giorni e che la sua “liberazione” procede di pari passo con quella dei tanti esseri umani di cui il Signore dice, nel libro dell’Esodo (3,7-8): “Ho udito il grido del mio popolo. Per questo sono sceso a liberarlo”, versetto che Boff così parafrasava nell’articolo citato: “Ho udito un silenzio preoccupante, innaturale. Per questo sono sceso, per restituire voce e vita a questa terra ferita”.

Buon “giorno della terra” a tutti !   

 

CONSUMMATUM EST…

                             di Ermete FERRARO

                                      E così siamo al "day after". Gli Italiani hanno fatto le loro scelte, o almeno hanno cercato di scegliere, tra chi si era candidato a guidare il paese per i prossimi cinque anni. Lo hanno fatto, è vero, dopo una campagna vacua e superficiale, condotta da forze politiche che cercavano soprattutto di rassicurare un elettorato stanco, deluso e demotivato. Lo hanno fatto, certamente, dopo aver constatato sempre più che sotto gli slogans ad effetto e i palchi imbandierati e rutilanti dei comizi c’era solo un grande vuoto ed una banale struttura di metallo e legno, unica cosa solida e concreta e, al tempo stesso, metafora involontaria dei veri interessi che si nascondono sotto la pesante sovrastruttura dei partiti. Sta di fatto che una netta maggioranza degli Italiani ha imboccato una strada precisa, almeno in termini di opzione elettorale fra le uniche due vie praticabili che gli si erano profilate davanti, sebbene questa stessa scelta risulti oggi molto meno chiara in termini politici più concreti.

Tra due leaders che si presentavano rassicuranti ed interclassisti, ad esempio, quella maggioranza ha scelto chi risultava più credibilmente conservatore, stabilizzatore e capace di tenere sotto controllo la propria eterogenea coalizione. Tra un progetto che poneva la "crescita" economica e la "modernizzazione" al primo posto, subordinando a queste due paroline magiche il pur necessario riequilibrio delle disparità sociali, ed il programma di chi ha da sempre puntato esplicitamente ad un liberismo sempre più accentuato e a tratti demagogico, ovviamente l’elettorato ha optato per il secondo. Non è certo un caso che altri tipi di priorità – da quella ambientale a quella relativa agli equilibri internazionali; dalle decisioni connesse alle scelte energetiche e produttive a quelle necessarie per dare reale potere dei cittadini; dalle politiche verso i migranti alle spese militari – siano state lasciate accuratamente fuori dalla porta dai due contendenti in lizza. Tutto ciò che potesse apparire una svolta, una scelta di parte, una decisione netta, quindi, non ha trovato posto nei programmi delle due coalizioni maggiori, che evidentemente lo consideravano qualcosa di residuale, da lasciare ai "minori", alle c.d. frange "estreme" e "radicali", che dopo queste elezioni sono state effettivamente spazzate via senza scrupoli da quel Parlamento dove si dovrebbe decidere il presente ed il futuro dell’Italia.

Eppure i nodi veri sono proprio quelli che non si è voluto far giungere al pettine. Basta ricordare gli slogans ed i rituali di questa campagna elettorale, le "tribune" e le interviste televisive dei protagonisti di quest’ultima tornata di votazioni, per rendersi conto che i principali problemi, le fondamentali scelte, le reali alternative, sono rimaste del tutto estranee al dibattito politico. Si è fatto un gran parlare di tasse da ribassare, di salari e pensioni da aumentare, di detrazioni e bonus  fiscali da introdurre, di lavoratori stranieri da accogliere o respingere al mittente, di priorità di spesa pubblica e di riforme istituzionali. Eppure mi sembra che chi ha affrontato le questioni vere siano stati piuttosto alcuni servizi televisivi eccezionalmente chiari ed eloquenti, come ad esempio quelli della rubrica di Rai3 "Report" . Essi, infatti, hanno messo impietosamente il dito nella piaga dell’intreccio perverso tra classe politica, potentati finanziari e preteso "antistato" mafioso, soprattutto in materia di gestione dei fondi per lo sviluppo, di gestione del business dei rifiuti e di rilancio della stagione degli appalti miliardari.  E non sono nemmeno mancati in questi mesi ottimi servizi giornalistici, che ci hanno sbattuto davanti agli occhi il prezzo assurdo di devastanti conflitti armati nei quali siamo stati irresponsabilmente trascinati, oppure incisivi réportages sulla tragedia ambientale in cui anche l’Italia – insieme agli altri partners europei ed occidentali – sta recitando la sua parte, contravvenendo ai protocolli internazionali e lasciandosi coinvolgere in un’escalation di consumismo selvaggio e di disastroso spreco di risorse naturali ed umane.

Pensate: perfino una coraggiosa rivista missionaria ("Comboni-fem") di marzo aveva lanciato accorati appelli a non cadere nel tranello di chi vuol farci credere che il c.d. "biocarburante" ricavato dal mais possa risolvere la crisi petrolifera attuale, rivelando che: "Sembra la soluzione ideale per salvare capra e cavoli: continuare a sprecare energia, visto che adesso sappiamo ottenerla dalla terra in modo rinnovabile. Ma c’è qualcuno, come sempre, che paga per tutto…". E anche sul numero del 27.3.08 di "TIME" – il più noto magazine statunitense – già dalla didascalia della significativa copertina – non esitava a fustigare "il mito dell’energia pulita", sottolineando che "…i  politici ed il mondo dei grandi affari stanno spingendo verso i biocarburanti come l’etanolo estratto dal mais, come alternative al petrolio. Ciò che tutti questi stanno realmente facendo è alzare il prezzo degli alimenti e peggiorare il riscaldamento globale, e voi pagate per questo…". Si tratta solo di un piccolo esempio della sostanziale mancanza di sintonia tra chi cerca, in qualche modo, di metterci sull’avviso rispetto allo stretto legame coi problemi locali delle grandi priorità globali  (vedi anche il bell’articolo di Mario Tozzi "Una perla preziosa", sul numero di aprile del mensile "Messaggero di Sant’Antonio") e chi invece continua ad agitarci davanti agli occhi il feticcio di una "crescita" illimitata e illimitabile, o a rinverdire il mito di un P.I.L., della cui falsità e pericolosità sanno ormai qualcosa perfino i ragazzini della scuola media dove insegno. Eppure ormai molti non fanno più una piega di fronte a quest’alluvione di assurdità, come, ad esempio, quelle sparate irresponsabilmente da varie forze politiche – anche su fronti contrapposti – sull’esigenza di un immediato ritorno all’energia nucleare oppure le "ecoballe" sulla necessità assoluta di mandare in fumo rifiuti che, viceversa, potrebbero diventare una risorsa eccezionale per un’economia alternativa.

Chi si candidava a governarci, però, ha preferito continuare a blaterare di tasse, salari e "bonus", bombardandoci di slogans banali ed insignificanti (ideati evidentemente da chi è più abituato a vendere automobili o bibite), in modo da coprire l’assoluto vuoto di proposte concrete per chi, ad esempio, va ogni giorno a fare la spesa alimentare. Un consumatore sempre più tartassato e che, come ci hanno spiegato gli autori del servizio trasmesso il 13 aprile dalla citata rubrica di Rai3 "Report" , sembra ormai diventato, suo malgrado, il compiacente complice di un assurdo affare speculativo, che non solo colpisce le sue stesse tasche e ne minaccia la salute, ma sta anche devastando l’ambiente e distruggendo la biodiversità.

E adesso? E adesso – dopo aver cercato d’inghiottire il boccone amaro di una sinistra mandata in esilio per punizione e di una destra che ha trionfato anche grazie al populismo becero e protestatario del secessionismo leghista – non ci resta che prepararci ad una dura stagione di lotte, sperando che il purgatorio cui si è condannata la sinistra italiana, appena ha smesso di essere nutrita dai movimenti di base per ingessarsi nel ruolo di governo, non trasformi in inferno la situazione interna dell’Italia ed il suo ruolo negli equilibri internazionali. Non ci resta che sperare che la gente comune cominci ad aprire gli occhi sulla rapina delle risorse di base che gli si sta prospettando – a cominciare dall’acqua – e sui piani di chi vorrebbe renderci sempre più colonia dei potenti della Terra e, al tempo stesso, guardia armata di chi sta peggio di noi. E questo in nome di una globalizzazione data per indispensabile e inevitabile, che sta maledettamente semplificando tutto quello che può, dal pensiero unico e dalla sua espressione sempre meno pluri-linguistica alle monocolture agricole ed alle tecnologie che fanno quasi a meno dell’uomo.

Hanno voluto farci credere che parlare di decrescita, di disarmo, di opposizione al nucleare, di economia alternativa e comunitaria, di mondialismo equo e solidale e di energie alternative fosse una questione riservata a pochi estremisti "radicali" e si sono quindi affannati a chiudere queste opzioni fuori dal recinto del gioco parlamentare e di governo. A quanto pare ci sono riusciti, ma questo rende tutto più chiaro e ci costringe a guardare il faccia chi davvero ha governato e governerà l’Italia e l’Europa per i prossimi anni. E non sono certo gli omini che si agitano nel teatrino dei pupi dei partiti, ma piuttosto i nuovi signori feudali che controllano le risorse energetiche e quelle finanziarie, che dominano i mercati internazionali e quelli locali, che decidono quanto valga la pena di spendere per una guerra, in termini di vite umane e di denaro sprecato, solo in base al parametro del confronto costi-benefici.

E’ contro queste (apparentemente non-criminali) "cosche" multinazionali che dobbiamo esercitare la nostra resistenza, personale e collettiva, sempre più decisamente e  consapevolmente, riprendendoci il potere di chi non si accontenta della possibilità di decidere cosa e chi votare, ma anche e soprattutto cosa mangiare, cosa comprare, come muoversi sul territorio e che cosa sia degno di essere finanziato con le nostre tasse. Certo, è una strada molto più difficile stretta e problematica, se solo la confrontiamo con quella di chi pensa che una croce su un simbolo sia il massimo di partecipazione civica e politica che gli si possa richiedere. Eppure non ne vedo altre più credibili, se davvero vogliamo diventare più protagonisti del nostro futuro e meno sudditi di uno scellerato complesso militare-industriale che si serve di un perverso sistema di potere.

Come cristiano, d’altra parte, mi resta sempre la fede che le forze del male "non praevalebunt"; la speranza che la gente si decida una buona volta non solo a ragionare con la propria testa, ma anche col cuore; ed anche la "carità" di chi sa che non sono le chiacchiere che convertiranno la gente (nel senso etimologico di farle cambiare strada), ma piuttosto l’esempio concreto, coerente e coraggioso di chi sa fare scelte di giustizia e di pace e la solidarietà fraterna di una comunità di veri persuasi. In quello che dico non c’è nulla di "integralista" e nemmeno una rinuncia "movimentistica" alla strada ordinaria della democrazia rappresentativa, che per dieci anni ho invece praticato di persona e che non penso assolutamente vada lasciata in pasto ai professionisti e mestieranti della politica. C’è solo la volontà di affermare che non si fa politica solo in quel modo e che quindi ogni cittadino deve sentirsi responsabile di tutto ciò che gli succede intorno E’ proprio quello che oltre 40 anni fa insegnava un grande maestro come don Milani, quando ribadiva che bisogna: "…avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù ma la più subdola delle tentazioni;[…] che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutti".  Ecco, lasciamoci guidare da questo principio e cominciamo, già da oggi, a stare molto attenti a quello che facciamo ogni giorno e a come lo facciamo, convinti come siamo che non c’è delega né obbedienza istituzionale che tenga di fronte al nostro dovere di persone chiamate a rispondere delle nostre scelte.

“UNHAPPY, UNLOVED AND OUT OF CONTROL”

 

“Infelici, non amati e fuori controllo…”

                      di Ermete Ferraro

 

E’ questo il titolo “sparato” sulla copertina dell’ultimo numero dell’edizione europea del settimanale “TIME”, sormontato da un volto da adolescente arrabbiato, giusto al centro della bandiera britannica. Il sottotitolo dell’articolo (“Mean Streets” di Catherine Mayer) esplicita il riferimento alla “epidemia di violenza, criminalità e ubriachezza” che sta colpendo la gioventù inglese, costringendo un po’ tutti ad interrogarsi sulle vere cause della devianza minorile.

Se stessi al governo sarei davvero preoccupata, non delle bombe terroristiche ma proprio di questo” – ha dichiarato in proposito Camila Batmangelidih, fondatrice dell’organizzazione “Kids Company”, creata nel 1996 per sostenere i “ragazzi soli”, cioè quelli che vengono su senza poter contare su un genitore o un tutore che se ne assuma la responsabilità. Da recenti inchieste (promosse da IPPR, UNICEF, WHO) è emersa infatti una situazione disastrosa, che vede il Regno Unito al primo posto della classifica del disagio giovanile, con un 27% di quindicenni inglesi che si sono già ubriacati 20 o più volte; un 35% della stessa età che ha fatto uso di droghe c.d. “leggere” ed un 40% di ragazze (contro un 35% di ragazzi) che hanno già avuto rapporti sessuali, per il 15% senza nessuna precauzione. Negli ultimi tre anni, infine, un’analoga percentuale di minorenni (37%) sono stati protagonisti di atti di violenza.

Ma che cosa sta succedendo? E poi, come vanno le cose da noi?

Certo, chi vive come me in una città-problema come Napoli – e lavora in mezzo ai ragazzi di un quartiere popolare del suo centro antico – lo sa bene che le cose vanno male e, nella percezione della gente, sempre peggio. Certo, i teenagers inglesi saranno più frequentemente “fatti”, violenti e maggiormente portati al teppismo di gruppo tipico delle bande giovanili, ma purtroppo i ragazzi costretti a convivere col degrado umano e sociale dei nostri vicoli non stanno certo meglio né reagiscono in maniera molto diversa.

“Infelici, non amati e ormai fuori controllo” – recita il titolo dell’articolo del TIME – facendo al tempo stesso una denuncia allarmata ma anche una preoccupata diagnosi  di una situazione contrassegnata dall’abbandono dei giovani a se stessi, alle loro frustrazioni ed alla loro cieca rabbia contro tutto e tutti.

Basterebbe capovolgere quel titolo per darsi una risposta: i nostri ragazzi (siano nati a Liverpool o ad Arzano…) hanno bisogno di qualcuno che gli restituisca la speranza, che sappia amarli ma anche ristabilire quei “limiti” che sono tragicamente stati spazzati via dal colpevole lassismo di chi aveva troppi sensi di colpa per esercitare il ruolo di padre/madre e di maestro/maestra.  Già, perché non può essere “felice” un ragazzo che si trovi ad esercitare una libertà irresponsabile o diritti cui non corrispondano doveri, ma piuttosto chi sa di essere amato ed accettato, ma proprio per questo è stato inserito in un contesto di regole e garanzie sociali.

Mi venivano in mente le parole di don Luigi Merola – il prete-coraggio di Forcella – che è venuto venerdì scorso a parlare coi ragazzi della mia scuola della sua esperienza di uomo e di sacerdote che non si vuole arrendere all’odiosa e stupida violenza della camorra.  Guardavo quel centinaio di facce mentre seguivano, sinceramente colpiti e provocati dall’affascinante discorso di chi ha saputo guardare negli occhi il degrado economico, sociale e morale della sua parrocchia, denunciandolo, ribellandosi e cercando di avviare delle alternative concrete all’interno della comunità di cui era stato chiamato ad essere il “pastore”.

Certo, fra i ragazzini plaudenti c’erano anche figli di pregiudicati, bambini cresciuti nell’assenza totale di valori e di riferimenti certi, “soggetti difficili”, come si usa dire, di cui mi capita spesso di occuparmi come operatore socio-educativo, che vanno dall’estremo dell’apatia rassegnata e passiva a quello di una rabbia violenta e di comportamenti oppositivi e devianti.

Eppure mi è sembrato che quegli applausi e quei sorrisi alle battute di don Luigi fossero in qualche modo sinceri e, in qualche modo, liberatori.

I ragazzi hanno bisogno di figure autorevoli, di persone coerenti, di gente affidabile e, soprattutto, di genitori e insegnanti che si sforzino di fare il loro difficile mestiere.

Certo, l’alone del “personaggio” venuto a trovarli ha giocato il suo ruolo fascinatorio, ma io so bene – perché lo sperimento ogni giorno, in mezzo a delusioni e momenti di sconforto – che quei ragazzi hanno ancora dentro qualcosa di buono e di grande, che va tirato fuori e rianimato, prima che sia troppo tardi.

Cesare Moreno, il maestro di strada che ho citato nel mio intervento in occasione dell’Epifania, augurava a noi professori di avere una voce “forte, suadente e sicura”, per farci ascoltare “nel chiasso di una civiltà che rumoreggia”. 

Sì, caro Cesare, è proprio vero: “montagne di arroganza, cattive maniere, presunzione e aggressività” seppelliscono la gioia di vivere e di crescere di troppi giovani. Ed è proprio per questo che dobbiamo avere la pazienza di aspettare che “i fiori sboccino quando ancora le gemme sono sepolte sotto il letame” .

Di fronte a ragazzi “infelici, non amati e senza controllo” non servono le strategie di una mentalità esclusivamente “sicuritaria”, preoccupata solo di arginare gli effetti devastanti del disagio, ma non di affrontarne e rimuoverne le cause.

Per fare gli educatori bisogna avere fiducia – scriveva don Lorenzo Milani – perché “non si può fare l’educatore e non fidarsi. Prima di tutto perché è un obbligo morale, un impegno davanti a Dio […] e poi perché un educatore ha sempre delle soddisfazioni piccole o grandi e sa vedere i segni di speranza e di onestà dove gli altri non vedono…” (1965).

E allora via: domani è lunedì e comincia un’altra settimana di questa avventura educativa, con i suoi alti e bassi, con le sue sorprese belle e brutte. D’altra parte, per citare ancora don Milani, per chi fa questo mestiere “…prenderlo in tasca è il suo destino e il suo dovere, ma non sempre, qualche volta lo prendono in tasca gli altri e il ragazzo malvisto  da tutti si rivela un gran galantuomo, un adulto generoso e leale…”

E così sia !