Una sporca guerra. Parlando…in generale

Non è facile ammetterlo, soprattutto per un antimilitarista, ma talvolta le autorità militari hanno fatto e fanno tuttora dichiarazioni molto più sensate e condivisibili di quelle dei politici.  Infatti, contrariamente a quanto affermato nella paradossale quanto sarcastica citazione da Georges Clemenceau, primo ministro francese negli anni ’20 dello scorso secolo (“La guerre! C’est une chose trop grave pour la confier à des militaires[i]), appare in modo sempre più evidente che a giocare pericolosamente, e da dilettanti, con la guerra sono invece proprio i nostri governanti.

Già nel 1961 un potente insegnamento sul pericoloso intreccio tra affari e politica in materia militare ci era venuto da quanto ebbe a dichiarare nel suo discorso di fine mandato il presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower, che ne era stato anche il più autorevole generale: «Nei consigli di governo, dobbiamo guardarci dall’acquisizione di un’influenza ingiustificata, cercata o meno, dal complesso militare-industriale. Il potenziale per il disastroso aumento del potere fuori luogo esiste e persisterà. Non dobbiamo mai lasciare che il peso di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i processi democratici. Non dovremmo dare nulla per scontato. Solo una cittadinanza attenta e ben informata può obbligare a unire adeguatamente l’enorme apparato di difesa industriale e militare con i nostri metodi e obiettivi pacifici, in modo che la sicurezza e la libertà possano prosperare insieme »[ii].

Ma è stata soprattutto la guerra in Ucraina a scatenare una serie di dichiarazioni da parte di vertici militari che contraddicono clamorosamente la vulgata mediatica ed i bellicosi discorsi di molti esponenti politici, grondanti retorica e zeppi di stereotipi. Il primo caso, forse quello più imbarazzante, sono state le spiazzanti dichiarazioni del potente vertice dell’U.S. Army, il gen. Mark Milley. Come rilevava Tommaso De Francesco in un suo editoriale su Il manifesto: «Nell’arco di poco più di tre mesi e per tre volte, il capo di stato maggiore dell’esercito statunitense […] ha ribadito che, a un anno dall’invasione russa, non c’è soluzione militare al conflitto in Ucraina […] Pragmatico e prudente sull’andamento del conflitto e credibilmente più consapevole della reale situazione sul campo di tanti «esperti» che affollano gli scranni tv partecipando, da lontano, alle battaglie, Mark Milley insiste: «Né l’Ucraina né la Russia sono in grado di vincere la guerra che, invece, può solo concludersi ad un tavolo negoziale», perché «se è praticamente impossibile» che la Russia conquisti l’Ucraina, cosa che «non succederà», resta «pure estremamente difficile che le forze di Kiev riescano a cacciare quelle di Mosca dalle loro terre» [iii].

Nel nostro Paese le voci critiche sulle decisioni politiche in materia non sono purtroppo caratteristiche dell’opposizione al governo di destra, ma serpeggiano in modo trasversale e contraddittorio nei due schieramenti. Risulta pertanto ancora più clamoroso che a sbilanciarsi sulle scelte italiane ed europee circa il conflitto armato russo-ucraino siano stati anche in Italia due autorevoli vertici militari, evidentemente consapevoli dei rischi del miope unilateralismo bellicoso dettato dalle scelte NATO ed europee.  A seminare lo scompiglio tra politici e commentatori, infatti, sono state le parole nientedimeno che dell’attuale Capo di Stato Maggiore della Difesa, l’amm. Giuseppe Cavo Dragone, come riferiva il quotidiano Libero in un articolo:  «Mentre gran parte della politica e dei commentatori, in Europa e negli Stati Uniti, sostengono che l’Ucraina “deve vincere” e che il mondo occidentale farà di tutto per sostenerla, i più esperti delle dinamiche boots on the ground di un conflitto affermano l’esatto contrario: ovvero la prudenza avvertendo sui rischi dell’escalation. Tra questi c’è il capo di stato maggiore della Difesa, l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone. “Una soluzione militare non esiste” per la guerra tra Russia e Ucraina, dice a Marco Menduini per la Stampa spiegando che “né gli uni, i russi, riusciranno mai a disarcionare la leadership ucraina; né gli ucraini potranno riuscire a riconquistare tutti i territori che sono stati invasi dalla Russia. Questo è un dato che rimane costante nel tempo”. Di certo, puntualizza l’ammiraglio, “non possiamo permetterci un altro conflitto congelato nel cuore dell’Europa“…» [iv].

Un mese dopo è toccato ad un altro vertice militare gettare pietre nello stagno della politica estera italiana. Il generale Marco Bertolini, già comandante del Comando Operativo Interforze, ha infatti dichiarato senza tanti giri di parole: «Ci stiamo facendo male da soli: così sabotiamo la pace, addio sovranità, intromettendoci in una guerra che non è nostra. Stiamo prendendo sempre più le parti di uno dei due belligeranti, riducendo lo spazio per una trattativa di pace” […] stiamo procedendo su una strada che renderà difficile, se non impossibile, riprendere le fila di una trattativa o recitare ruoli nella partita di pace […] continuiamo a gettare benzina sul fuoco fornendo armi ed energie a un altro Stato impegnato in guerra che rischia di diventare una never ending war» [v].

Ovviamente le motivazioni che hanno spinto sì autorevoli ufficiali stellati e con la greca a pronunciarsi criticamente sull’irresponsabile corsa di troppi nostri rappresentanti politici verso una guerra senza fine (ed anche con falsi fini…) sono ben differenti da quelle del mondo del pacifismo nonviolento. È infatti il fondato timore che la sovranità del nostro Paese sia ormai nelle mani di altri decisori e che – per citare ancora Bertolini – si sottraggano “preziose risorse alla nostra difesa” ad ispirare in primo luogo la caustica polemica di generali ed ammiragli sul ruolo dell’Italia nello scenario internazionale, in nome della “disciplina di alleanza”, ma con pesanti ricadute economiche e sociali negative.  Eppure è difficile non condividere il riferimento di Bertolini «alla grande ipocrisia di questo conflitto del quale ci siamo accorti solo all’ultimo momento, mentre il fuoco ha covato sotto la cenere per almeno otto anni, dal 2014, nella nostra indifferenza» [vi]. Un’ipocrisia che pervade trasversalmente destra e sinistra e che non tiene conto della crescente ostilità chiaramente espressa dalla maggioranza degli Italiani verso questa guerra insensata, devastante e sempre più rischiosa per tutti.

Ciò che resta tragicamente assente dal dibattito pubblico, però, è che da 120 anni un’alternativa difensiva – disarmata, civile, sociale e nonviolenta – esiste ed è vincente nel 52% dei casi. Che “la resistenza civile funziona” – come dice il titolo di una fondamentale ricerca sulla percentuale di successo delle campagne nonviolente confrontate con quelle belliche, nel periodo 1900-2006 [vii] – è quindi un fatto ormai acclarato, ma ancora poco conosciuto. La seconda falsità da contrastare, quindi, è che non esistano alternative alla passività ed alla resa, anche se per il complesso militare-industriale è preferibile che non si sappia in giro…

Note


[i]   Cfr. https://it.wikiquote.org/wiki/Georges_Clemenceau  (La frase citata era stata forse già pronunciata da Talleyrand)

[ii]   Dwight Eisenhower, Discorso di addio, 17.01.1961 (cfr. https://it.alphahistory.com/guerra-fredda/dwight-eisenhowers-discorso-d%27addio-1961/  – https://www.brookings.edu/research/eisenhowers-farewell-addresses-a-speechwriter-remembers/  – https://www.studocu.com/it/document/universita-degli-studi-di-napoli-lorientale/geografia-delle-relazioni-internazionali/eisenhower-traduzione-del-discorso/11740741

[iii] T. Di Francesco, “Generale, dietro la collina…” (19.2.2023), il manifesto, https://ilmanifesto.it/generale-dietro-la-collina

[iv] “Ammiraglio Cavo Dragone, la profezia finale: chi non vincerà la guerra” (25.02.2023), Libero, https://www.liberoquotidiano.it/news/esteri/34995407/ammiraglio-cavo-dragone-profezia-finale-non-vincera-guerra.html

[v] Vincenzo Bisbiglia, “Il generale Bertolini:”Ci stiamo facendo male da soli: così sabotiamo la pace, addio sovranità” (20.03.2023), il Fatto Quotidianohttps://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2023/03/20/il-generale-bertolini-ci-stiamo-facendo-male-da-soli-cosi-sabotiamo-la-pace-addio-sovranita/7102359/

[vi]  Ibidem

[vii] Vedi: Erica Chenoweth & Maria J. Stehan, Why Civil Resistance Works, Columbia Univ. Press, 2011

Etimostorie #9: Resilienza

Fino a poco più di cent’anni fa il sostantivo ‘resilienza’ era poco conosciuto ed utilizzato, per cui era difficile riscontrarne traccia in un discorso o in uno scritto. L’uso frequente, talora impreciso, che se ne fa in questo periodo, viceversa, sta progressivamente affermando il concetto che questa parola – al di là del riferimento ad una ben precisa proprietà fisica di alcuni materiali – attenga ad una qualità, una caratteristica virtuosa, connessa al comportamento umano, come peraltro era già successo con l’analogo, ma ben diverso, concetto di ‘resistenza’.

«La parola appare per la prima volta in italiano nel XVIII sec. col significato generico, non necessariamente legato ad un settore specifico, di capacità dei corpi di rimbalzare, di tornare indietro. L’accezione è legata alla sua origine latina: il verbo latino resilire, composto da re- + salire, ‘saltare’ si usava nel significato di ‘ritornare di colpo’, ‘rimbalzare indietro’, per estensione anche ‘ritirarsi’, ‘contrarsi’ […] Il latino resiliens comincia a circolare nella letteratura scientifica, redatta in latino fino al Seicento, per indicare “sia il rimbalzare di un oggetto, sia alcune caratteristiche interne legate all’elasticità dei corpi, come quella di assorbire l’energia di un urto contraendosi, o di riassumere la forma originaria una volta sottoposto a una deformazione” (L’elasticità di resilienza, accademiadellacrusca.it, 12/12/2014)”…». [i]

Etimologicamente parlando, l’idea centrale è quella di un oggetto (e per estensione anche di un soggetto) che abbia in sé l’elasticità necessaria per non lasciarsi de-formare dagli urti provenienti dall’esterno, riuscendo a reagire ad essi, recuperando così la forma iniziale.  Il verbo in transitivo latino salire(la cui forma nominale del supino-participio era saltum) viene tradotto variamente, con: saltare, slanciarsi, balzare, scorrere, pulsare etc.  Dalla sua più frequente forma iterativa saltare sono poi derivati (con la consueta variazione vocalica /a/ > /u/ e grazie ai relativi prefissi) un grappolo di verbi ben noti, come ‘esultare’, ‘esaltare’, ‘insultare’, ‘sussultare’ e ‘risultare’. Con lo stesso meccanismo derivativo, peraltro, dalla forma base si è formato il verbo italiano ‘assalire’, ma anche quello spagnolo salir (nel senso di sbucare fuori, uscire).

D’altronde il verbo greco originario allomai (hallomai) aveva lo stesso significato (saltare, sgorgare, scaturire), per cui il senso fondamentale di entrambi è quello di qualcosa/qualcuno che salta fuori, venendo a modificare una situazione statica iniziale. Non è un caso, infatti, che i sacerdoti romani conosciuti come Salii, e prima di loroquelli greci denominati Coribanti, si caratterizzassero proprio per le loro danze orgiastiche e saltellanti, da cui sono forse derivate le nostre ‘tarantelle’, anch’esse dotate infatti di una forte valenza esorcistica e rituale. Lo stesso termine ‘presule’ (oggi applicato ai prelati cattolici) è quindi uno strano ricordo di pratiche pagane, riferendosi al sacerdote più importante, che guidava quelle frenetiche danze.

Questo spiega come mai ad ogni azione violenta ed improvvisa diretta contro qualcuno (si tratti di un assalto fisico oppure di un insulto verbale) corrisponda solitamente dapprima una istintiva reazione emotivo-motoria (il sussulto) e poi un più volontario sforzo per reagire al colpo ricevuto, o con un ulteriore assalto violento oppure recuperando la situazione iniziale, con quella resilienza che ne dovrebbe neutralizzare effetti. La differenza tra ‘resistenza’ e ‘resilienza’ – come si spiega efficacemente in un articolo – è che: «La resistenza è silenziosa, ferma, ostinata sulla propria posizione, dura come sasso, là dove la resilienza è flessibile, adattabile, fantasiosa. La resistenza è dei forti, cose o uomini che siano. La resilienza è solo umana» [ii].

Re-sistere comporta infatti una reazione attiva, oppositiva e pertanto quasi sempre violenta, verso chi ha compiuto un assalto aggressivo, allo scopo di mantenere ad ogni costo la situazione iniziale.  La reazione resiliente, invece, esclude un atteggiamento di rigidità (sintetizzata dal bellicoso motto latino “frangar, non flectar”, tradotto con “Mi spezzo ma non mi piego”) e pertanto può prevedere un temporaneo cedimento [iii] che non è una resa, ma una reazione nonviolenta e creativa, spesso ancor più efficace.  Sant’Agostino, non a caso, capovolgeva la frase citata esortando i cristiani con le parole “Flectamur facile, ne frangamur”, invitandoli ad esercitare quella flessibilità in cui ritroviamo il ruolo positivo e non passivo della resilienza.

Però stiamo attenti, dal momento che quest’indubbia qualità – a forza di utilizzare questo termine un po’ troppo e non sempre a proposito – non sia trasformata in ciò che non è, mediante un processo di logoramento, logico prima che linguistico, cui peraltro sono già state sottoposte altre parole ‘alternative’.

«Perché questa curiosità etimologico-linguistica? Perché la parola “resilience” è ormai onnipresente in ogni discorso dei manager e degli economisti, e spesso anche negli articoli, negli studi e nelle analisi di economia e finanza, e nel linguaggio della Commissione europea e dei ministri delle Finanze dell’Eurozona […] Ma attenzione: abbiamo già visto che cosa è successo al termine “sostenibilità”, usato in origine nel suo senso di sostenibilità ecologica (non produrre danni irreversibili all’ambiente, tutelarlo nella durata), e passato poi anche a designare un concetto finanziario…» [iv]

Già, perché l’indubbia positività di una reazione diversa da quella aggressiva e violenta subita, fondata quindi sulla flessibilità e la capacità di recupero, rischia purtroppo di essere artatamente confusa con una ‘non-resistenza’, con l’atteggiamento passivo del classico pugile suonato, capace solo di ‘incassare’ bene i colpi. Anche il concetto psicologico di ‘adattamento’ all’ambiente fisico e sociale – di per sé positivo – è stato alla lunga svilito in una tendenza a non reagire, ad accettare passivamente la realtà, accontentandosi dell’esistente.

Il gandhiano satyagraha [v] c’insegna invece che la resilienza è anch’essa una forma di opposizione al male, di allenamento ad una resistenza alternativa alle avversità, che sbilancia e mette in crisi l’assalitore violento e ci consente di recuperare le forze. Ecco perché ad insulti ed assalti dovremmo addestrarci a reagire in modo opposto, spiazzante e nonviolento. Solo così potremo davvero esultare per un risultato positivo.


[i] Maria Vittoria D’Onghia, “Resilienza, una parola alla moda” (16.10.2020), https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/Resilienza.html#:~:text=L’accezione%20%C3%A8%20legata%20alla,ritirarsi’%2C%20’contrarsi‘.

[ii] Silvia Magnani, “Resistenza e resilienza”, https://www.silviamagnani.it/articoli/resistenza-e-resilienza/#:~:text=La%20resistenza%20%C3%A8%20silenziosa%2C%20ferma,La%20resilienza%20%C3%A8%20solo%20umana.

[iii] Cfr. la mia Etimostoria #6: Ermete Ferraro, “Cedere e suoi derivati”, https://ermetespeacebook.blog/2022/06/21/etimostorie-6-cedere-e-suoi-derivati/

[iv] Lorenzo Consoli, “Attenti alla parola ‘resilienza’ “ (14.06.2020), https://www.eunews.it/2020/06/14/attenti-alla-parola-resilienza/

[v] Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Satyagraha