DAI ”MALI COMUNI’ AI ‘BENI COMUNI’ ?

“Mal comune, mezzo gaudio”: chi è che non ha sentito dire e ripetere in varie circostanze questo noto proverbio?  Si tratta di una diffusa massima popolare, presente anche in altre tradizioni popolari, come quella inglese (“Trouble shared is a trouble halved”) , francese (“Douleur partagée est plus facile à supporter”) o in spagnolo (“Mal de muchos consuelo de todos”).

Noi Napoletani, poi, questo proverbio ce lo siamo sentiti ripetere da secoli – nella versione “Guajo ‘ncomune, mez’ allerezza” – subdolamente ispirata da chi aveva tutto l’interesse di far ricorso alla consolatoria “filosofia popolare” per minimizzare, se non occultare, le troppe schifezze che il suddetto popolo era costretto a sopportare.

Del resto, anticamente il filosofo latino Lucio Anneo Seneca aveva giù sentenziato: ”Pudorem rei tollit multitudo peccantium”, lasciando chiaramente intendere che la moltiplicazione di quelli che fanno peccato è sempre servita per decolpevolizzarli, cancellando la vergogna per il peccato.

Di “mali comuni”, insomma, si è sempre parlato e chi, come me, è nato e vive a Napoli ha ormai fatto l’abitudine a questo strano principio, in base al quale passare un guaio insieme diventerebbe più sopportabile, quasi un’utile occasione per praticare una “condivisione” solitamente più rara quando si tratta di momenti di gioia o di piacere.

Essere napoletani ci ha tragicamente assuefatto ad una serie infinita di “mali comuni”, che vanno da trasporti scadenti e irregolari allo storico problema della raccolta e smaltimento dei rifiuti; dal quotidiano confronto con uffici affollati ed inefficienti ad un traffico assurdo e fracassone; dall’abusivismo edilizio ai mille piccoli abusi quotidiani perpetrati di parcheggiatori, venditori e ‘capuzzielli’ che controllano il territorio. Però, poi, ci si ricordava provvidenzialmente di “mal comune, mezzo gaudio” e si tornava a sorridere dei nostri guai, magari davanti ad una fumante tazzina di caffè, come acutamente ricordava Pino Daniele in una nota canzone: “E nuje tirammo annanze, cu ‘e rulùre e’ panza / e invece e c’aiutà c’abboffano ‘e cafè”.

Ma all’improvviso noi Napoletani ci siamo trovati di fronte uno che non c’invitava a bere caffè o altro per dimenticare, consolandoci con la vecchia storia del “mal comune”. Un politico non-politico (un po’ come il tessuto non-tessuto…) che aveva finalmente il coraggio di mettere il dito nella piaga del “male in Comune”, additando il finto antagonismo dei partiti di maggioranza e di minoranza come una delle principali cause di degrado morale e civile della Città. Uno che esortava i cittadini a portare aria nuova e pulita nello squallido teatrino della politica locale, efficacemente dipinta dallo stesso Pino Daniele quando scriveva: “…stanno chine ‘e sbaglie, fanno sulo ‘mbruoglie / s’allisciano, se vattono, se pigliano o’ ccafè…”.

Per molti di noi “alternativi delusi”, ma anche per tanti giovani giustamente insofferenti, il magistrato de Magistris che sindacava i sindaci e lanciava appelli “politicamente scorretti” ha rappresentato un provvidenziale ciclone. Questo è diventato ancor più vero quando il candidato-sindaco ha chiaramente lasciato intravedere la prospettiva di una vera “rivoluzione dal basso” ed ha cominciato a parlarci di “beni comuni” anziché dei soliti “mali comuni” cui eravamo abituati. Intorno a lui, infatti, si è polarizzato un consenso ampio e vivace, che abbracciava parte della frammentata area ex-comunista ma anche ampi strati della cultura e dell’arte, attivisti ambientalisti antinuclearisti e pacifisti, radicali ed ex socialisti, perfino alcuni imprenditori di ampie vedute.

La parola d’ordine della sua campagna elettorale – vittoriosamente culminata nella nomina a Sindaco di Napoli – è stata sì quella della trasparenza amministrativa e della partecipazione popolare, ma soprattutto quella dei “beni comuni”, contrapposti alla logica perversa della gestione consociativa delle risorse del territorio, ma anche a quella dominante delle privatizzazioni.

Il problema vero, a quanto pare, non è stato quello di “scassare” il muro delle resistenze e delle opposizioni da parte di una classe politico-amministrativa votata all’immobilismo o, peggio, alla scandalosa abitudine a lucrare utili e “gaudio” dai “mali comuni” di Napoli. Il problema più grosso – a distanza di oltre mezzo anno dall’elezione di de Magistris – sembra invece quello di tener fede agli impegni assunti coi Napoletani, cambiando effettivamente rotta e lasciandosi alle spalle le disastrose esperienze dell’era bassoliniana.

Pur volendo mostrarsi tolleranti per un avvio comprensibilmente difficile da parte di una amministrazione che aveva appuntato su di sé troppe aspettative e che doveva inventarsi un modus operandi del tutto nuovo, il guaio è che siamo ancora troppo lontani dalla realizzazione del programma alternativo di cui il neo-sindaco si era fatto promotore e paladino.

La mia associazione ambientalista, nel giro di questi pochi mesi, ha già avuto modo di impattare più volte, e con ovvio disappunto, contro questioni che, sia nel merito sia nel metodo, l’attuale amministrazione comunale pretenderebbe di risolvere in modo tutt’altro che trasparente e partecipato.  La stessa agenda del Sindaco de Magistris – e quindi le sue priorità di governo del territorio – sembrano essere state finora improntate a valutazioni del tutto personali più che ad un reale ed effettivo confronto con movimenti ed organizzazioni che pur lo hanno sostenuto lealmente.

Come in una triste collana, egli ha infilato infatti una serie di decisioni verticistiche quanto opinabili, che vanno dal mancato rilancio del ruolo delle municipalità cittadine alla ricerca di “grandi eventi”; dalla maldestra gestione della vicenda-rifiuti all’incredibile e spudorata rincorsa dell’America’s Cup, ipotizzando per essa locations che hanno letteralmente fatto inorridire i veri ambientalisti, come la mai bonificata Bagnoli o il vincolato lungomare Caracciolo.

Pressato, sia pure con discrezione e rispetto, il nostro Sindaco e la sua Giunta (una specie di “tavola rotonda” di cui evidentemente egli si sente re Artù…) non è parso granché disponibile al confronto con la sua stessa base e con la cittadinanza, a meno che non si trattasse di assemblee da lui programmate, di “audizioni” graziosamente accordate oppure di fumose ed affollate “consulte” tematiche. Lo stesso Consiglio Comunale è platealmente apparso come la versione maxi di quei tristi dieci “parlamentini” zonali, dove si discute a vuoto di cose già decise altrove.

Tornando ai “beni comuni”, non si può che plaudire alle coraggiose scelte operate dall’Amministrazione de Magistris in materia di tutela dell’acqua pubblica e di restituzione ai cittadini di alcune strade e piazze prima invase permanentemente dalle auto. Ciò premesso,  onestamente non si riesce però a comprendere a quale logica alternativa e “comunitaria” rispondano altre discutibilissime decisioni, come ad esempio quella di privatizzare di fatto uno dei luoghi verdi e tutelati dell’area occidentale, l’area zoo-edenlandia, appaltandolo ad una multinazionale del divertimento di massa, oppure quella di trasformare la Villa Comunale ed il lungomare più bello del mondo nella vetrina mediatica del baraccone pseudo-sportivo delle regate per la “Vuitton Cup”.

Se tutto questo viene proposto ed imposto violando anche vincoli ambientali e svendendo inestimabili “beni comuni” agli interessi speculativi, in cambio di un’improbabile visibilità mediatica, la cosa diventa ancora più preoccupante.

Nel momento in cui scrivo, a Napoli si sta svolgendo un’affollata kermesse politica, di taglio nazionale, fortemente voluta da de Magistris in un momento in cui la sua credibilità sta scemando a livello locale. Il “Forum dei Comuni per i Beni Comuni” è l’ultima trovata del Nostro, che ha dichiarato: “…la nostra amministrazione comunale l’ha fortemente voluto, considerandola una occasione preziosa per discutere dei beni comuni e della democrazia partecipativa, per analizzare anche quelle esperienze di politica dal basso che alcune amministrazioni comunali stanno realizzando”.

Secondo de Magistris, infatti, si tratta di un’occasione: “…per confrontarci su come si possa costruire una democrazia partecipativa dal basso che abbia come filosofia di fondo la difesa e la promozione dei beni comuni, come l’acqua, il sapere, la conoscenza, il mare, il territorio. Dal concetto dei beni comuni, infatti, può nascere un movimento di liberazione e, quindi, di politica dal basso“.  La dichiarazione prosegue richiamando la “costruzione di alternative politiche, sociali, culturali ed economiche a modelli che ormai sono falliti, quelli del liberismo e della concentrazione di poteri, i quali hanno prodotto così tante e profonde diseguaglianze sociali inaccettabili” e conclude affermando trionfalmente: “Alla fine saremo tutti più consapevoli e magari anche pronti per elaborare insieme un percorso, una strategia per costruire uniti un’alternativa dal basso, un’alternativa capace di sintetizzare esperienze virtuose, laboratori, movimenti, lotte per i diritti e per il cambiamento”.

“Bene! Bravo!”, ci sentiamo di gridare di fronte a queste nobili parole, anche se istintivamente ci torna alla mente il noto sketch di Petrolini che interpreta Nerone osannato dalle folle…

Tutto questo va molto bene, infatti, ma il vero problema è far collimare siffatte dichiarazioni (nelle quali l’espressione “dal basso” ricorre in modo martellante) col fatto di un’Amministrazione che, intorno alla tavola rotonda della giunta, sta assumendo decisioni innegabilmente verticistiche, come l’esportazione via mare in Olanda di tonnellate d’indifferenziata spazzatura partenopea doc oppure l’incredibile sperpero di denaro pubblico per “fare i baffi” alla scogliera di Caracciolo e per pavimentare (sic!) un giardino pubblico di eccezionale valore storico-ambientale.

A proposito di mare, poi, che fine ha fatto la sbandierata volontà di de Magistris di smilitarizzare e denuclearizzare quello di Napoli? Come mai la prima visita ufficiale del neo-sindaco è stata proprio a quel Comando della U.S. Navy di Capodichino che poco tempo prima aveva dichiarato di voler eliminare, insieme ad un Aeroporto civile e militare che la variante al Piano Regolatore avevano già di fatto cancellato?

“Risposta non c’è…” recitava la traduzione italiane del celeberrimo “Blowing in the Wind” di Bob Dylan. Però i versi del testo originale erano: “How many times can a man turn his head/ pretending he just doesn’t see?// The answer, my friend, is blowing in the wind…”. Ecco perché, anche nel caso di queste domande, se è vero che la “risposta sta soffiando nel vento”, è anche vero che un uomo degno di questo nome non può “girare la testa, fingendo che non ha visto niente”.

Il primo bene comune da difendere è la libertà di ragionare con la propria testa e nessun “Napoleon” potrà convincerci che la fattoria per gli animali sia meglio della fattoria degli animali.

Orwell docet…

© Ermete Ferraro 2012

IL MIO RICORDO DI GIGI BUCCI

Sono stato invitato dal SUNAS – che ringrazio – ad aggiungere a quello di tanti altri il mio personale ricordo del caro amico Gigi Bucci, che un anno fa è stato bruscamente ed assurdamente sottratto ai familiari, agli amici ed alle tante persone con le quali si rapportava ogni giorno, nella sua varia ed instancabile attività professionale e sindacale.

Il mio intervento, più che come una relazione da collega – dal momento che da 25 anni ormai sono un insegnante di scuola media – nasce dalla lunga amicizia che mi ha legato a lui fin dai primi anni ’70. Anni difficili quelli, ma pieni di speranza, che ci hanno visto partecipi di tanti momenti felici, in compagnia di comuni amici, con la colonna sonora delle canzoni dei Beatles e degli slogan pacifisti. Gli anni in cui si è consolidato il mio rapporto di sincero affetto per una persona semplice, spontanea e solare, ma anche di stima e di comunanza d’idee ed esperienze.

E’ impossibile per me ricordare Gigi Bucci senza riportare alla mente, come in un album fotografico, le immagini delle manifestazioni in difesa dell’obiezione di coscienza, di accanite discussioni e riunioni della L.O.C., ma anche di tante passeggiate, gite in comitiva e momenti di conviviale allegria, contrassegnati dalle sue inconfondibili e clamorose risate. Gigi, per me, è stato un po’ il fratello minore che non avevo: un ragazzo pieno di slanci, caratterialmente diverso eppure estremamente vicino nella sua travolgente carica di giovanile entusiasmo.

Ecco, Gigi era, ed è rimasto sempre, un giovane, capace di spendersi senza limiti per una certa causa, insofferente delle mediazioni e delle convenzioni, schietto e privo di tatticismi, profondamente ottimista, al punto da contagiare chi gli stava intorno, ma nondimeno attento alle situazioni e dotato di sano realismo.

Molti suoi colleghi/e lo hanno ricordato per la sua grande disponibilità umana e per la carica d’ironia ed autoironia con cui riusciva a sdrammatizzare anche le situazioni conflittuali, con l’antica saggezza di chi non vuol prendersi troppo sul serio.

Tanti lo hanno ricordato poi, e lo faccio anch’io, per le sue umorali e reboanti sfuriate e per la malcelata insofferenza verso ritardi, difficoltà ed ostacoli che gli si frapponevano, rallentando la sua naturale impulsività di persona estroversa e diretta.

Il fatto è che Gigi era troppo vitale e coinvolto in prima persona in quello che faceva per poterli tollerare, ma ciò non significava che il suo impegno professionale fosse improntato ad uno spontaneismo ingenuo e privo di strategia. Egli, al contrario, ha saputo dimostrare  – come assistente sociale e come rappresentante sindacale – che entusiasmo passione possono e devono coniugarsi alla preparazione culturale, alla professionalità ed alla serietà, senza le quali si rischia di fare solo confuso attivismo.

E’ stata ricordata, a tal proposito, la sua visione strategica ed il suo scrupolo nella difesa di una professione viziata da troppi stereotipi e che in Italia non ha mai avuto vita facile né adeguati riconoscimenti. Ebbene, la necessità di collocare l’agire quotidiano di un operatore sociale su un piano più complessivo e in una prospettiva di trasformazione della società è stato un altro punto che ci ha accomunato a lungo. Ci ha accomunato perciò lo studio delle politiche sociali e dell’evoluzione del sistema italiano di welfare  – dall’assistenza paternalistica allo stato sociale, fino a giungere all’attuale progressivo trasferimento dei servizi sociali ad una gestione mista o delegata ad un sempre più ambiguo privato sociale. Un’analisi – svolta sui documenti ma soprattutto sul campo – dalla quale scaturiva la necessità di non inserirsi in modo passivo ed acritico in un ambito ed in un ruolo stabiliti dall’alto e sempre più burocratizzati. Bisognava, bisogna piuttosto, riprendere in mano tale importante professionalità, per progettare e portare avanti interventi mirati e strategici su un tessuto sociale che, nel frattempo, ha continuato pericolosamente a deteriorarsi e lacerarsi.

Parole come ‘volontariato’ e ‘solidarietà’  – troppo spesso pronunciate  superficialmente e senza reale spessore umano sociale e politico – non hanno mai attirato più di tanto Gigi Bucci, che rifuggiva dalle astrattezze ed ha costantemente cercato il modo migliore per rendere significativo ed effettivo il proprio intervento, prima in campo educativo-sociale e poi come operatore socio-sanitario e, dopo ancora, come attivista e leader d’un Sindacato e d’un Ordine che vogliono ridare dignità, autonomia e peso specifico agli assistenti sociali italiani.

Abbiamo più volte ricordato con altri amici comuni, ridendoci su, la sua prima esperienza in quella storica Casa dello Scugnizzo dove io, giovane vomerese laureato in lettere, avevo cominciato a svolgere dal 1975 il non facile ruolo di operatore volontario, prima come obiettore di coscienza in servizio civile e poi come animatore socio-culturale di gruppo.

“Qualunque cosa, ma non l’operatore con i ragazzi! “ aveva sentenziato Gigi a gran voce, trovandosi invece, dopo poco, a svolgere proprio l’esorcizzato ruolo di educatore di decine di terribili quanto adorabili scugnizzielli di Materdei.  Lo ricordo ancora in mezzo a loro, come loro vivace rumoroso e sanguigno, però forte della sua precedente esperienza d’istruttore di boy scout e carico della sua creatività e vivacità naturale.

Lo ricordo anche come impegnato collega di ricerche-azioni sociali nel quartiere e di concrete battaglie per un lavoro sociale ‘dal basso’, al servizio della comunità locale ma soprattutto delle sue componenti più fragili e problematiche. Quei ragazzi, quelle donne e quegli anziani che – per citare il comune e compianto maestro Mario Borrelli – il Centro Comunitario si proponeva di sostenere ed affiancare nel loro cammino di coscientizzazione e partecipazione, riassunto efficacemente dal suo corrosivo motto: “Noi serviamo quelli che non servono a quelli che dovrebbero servirli”…..

Ricordo poi che, avendo egli vinto un concorso dopo che entrambi eravamo diventati assistenti sociali a tutti gli effetti, le nostre strade si separarono ed il terreno d’impegno umano e sociale di Gigi – prima ancora che di lavoro professionale – diventò quello dell’assistenza a soggetti tossicodipendenti, presso l’ex struttura ospedaliera del San Camillo alla Sanità, denominata SERT. Me lo rivedo ancora davanti, sorridente e bonario anche in mezzo a quel deprimente universo d’emarginazione, mentre sperimentava il suo originale approccio umano e professionale in un ruolo poco gratificante e raramente fonte di soddisfazioni, anche perché legato nei fatti più alla terapia e riabilitazione che ad una vera prevenzione.

Ecco perché l’impegno di Gigi, negli anni, si è manifestato spesso all’esterno della struttura, con molti incontri nelle scuole, forse per riequilibrare quel suo scrupoloso, ma difficile e spesso penoso, lavoro di recupero di tanti giovani. Ecco perché la sua esperienza egli ha sempre voluto condividerla cogli altri, da formatore e da docente del corso di laurea in servizio sociale dell’ateneo fridericiano di Napoli.

I suoi colleghi hanno citato le sue doti di umanità e di sensibilità, la sua innata tendenza all’accoglienza ed alla solidarietà. Anch’io vorrei sottolineare le sue doti umane e professionali, messe per tanti anni al servizio dell’Ordine degli Assistenti Sociali – di cui è stato il primo presidente regionale – e soprattutto del SUNAS, che è stato fino all’ultimo la sua casa-madre, dove ha svolto un’infaticabile funzione non solo come combattivo sindacalista e attento dirigente dell’organizzazione, ma anche come giornalista, vivace comunicatore ed attivo consulente.

Credo, comunque, che il ricordo della competenza professionale di Gigi non possa essere disgiunto dalla sua grande carica umana, ricca di spontaneità e di passione. E’ per questo che le istantanee che lo ritraggono e perfino le immagini filmate di alcuni suoi interventi ufficiali o formativi sono spesso caratterizzate dalla sua contagiosa risata di bravo ragazzo, estroverso e caparbio, ma sempre attento agli altri ed alle loro esigenze.

E allora ti vogliamo salutare allora nel modo più semplice, affettuoso e familiare, che era poi il tuo modo consueto di stare in mezzo agli altri. La maniera attraverso la quale hai intrecciato con tanti di noi una relazione solida e fiduciaria, in cui l’uomo ed il professionista si sono costantemente identificati. Naturalmente ci manchi tanto ma, come tutte le persone di spessore, ci hai lasciato molto più che dei semplici ricordi. Ecco perché, nonostante tutto, ti sentiamo ancora in mezzo a noi, per stimolarci a fare di più e meglio, con la tenacia e l’entusiasmo che ti hanno sempre contraddistinto. Ciao, Gigi!

(*) Testo dell’intervento all’iniziativa, organizzata dal SUNAS e dall’Ordine degli Assistenti Sociali, in ricordo di Luigi Bucci (Napoli – Auditorium Giunta Regionale Campania – 13.01.2012)

TELE-COMANDO – REMOTE CONTROL

Se qualcuno mi domandasse qual è, a mio parere, l’oggetto-simbolo delle nuove generazioni, non avrei dubbi nel rispondere: il telecomando. Sì, parlo proprio di quell’oggetto scuro, oblungo, costellato di tasti con numerini e letterine bianche, abbastanza piccolo da impugnarsi con la mano della quale, peraltro, sembra esser diventato una specie di prolungamento elettronico. Se la mia vi sembra una definizione troppo elementare, basta che consultiate l’inesauribile oracolo dei nostri tempi, chiamato Wikipedia, per vedervi snocciolare illustrazioni e spiegazioni molto più precise. Un utile esercizio – linguistico ma anche socio-culturale – che vi consiglio è quello di leggere articoli corrispondenti in lingue diverse dall’italiano, per apprezzarne le sottili sfumature. Nel caso del nostro telecomando, lo troviamo definito in italiano come: “dispositivo elettronico che consente d’inviare… segnali ad un dispositivo situato a distanza”. La versione inglese descrive il remote control come: “componente di un’apparecchiatura elettronica…usato per manovrare senza fili un televisore, da una breve distanza visiva”.  La formulazione francese è più ampia e parla di un: “…dispositivo, generalmente di taglia ridotta, che serve a manipolarne un altro a distanza…..e interagire con giochi, apparecchi audiovisivi…la porta di un garage…di vetture…etc.”. Quella  spagnola del mando a distancia ribadisce che si tratta di: “un dispositivo elettronico usato per realizzare un’operazione a distanza su una macchina…”. La definizione tedesca, più puntigliosa, distingue, infine, tra il Fernbedienung – “dispositivo elettronico portatile che può essere usato per operare su brevi e medie distanze (all’incirca da 6 a 20 metri)” ed il Funkfernsteuerung (ossia: radiocomando), usato per il “controllo” a distanze maggiori.

Ma non è di questo specifico apparecchio che volevo parlarvi. Le sue definizioni, comunque, ci aiutano a centrare il nucleo della sua funzionalità. Verbi come “inviare segnali”, “operare su-”, “controllare”, “manipolare”, “comandare” mi sembrano, infatti, particolarmente significativi del valore simbolico di quella scatoletta nera che usiamo tutti i giorni per inviare ordini a distanza, con un semplice click. La nostra epoca è stata spesso definita “digitale” e nella visione comune – visto che non tutti sanno che in inglese digit vuol dire “cifra” – questo termine è stato non a caso identificato con l’utilizzo delle dita per schiacciare gli svariati pulsanti e tasti dei quali, a quanto pare, non sappiamo più fare a meno… Ammettiamolo: viviamo in un’era definibile “digitale” soprattutto perché le agili dita, ed in particolare i velocissimi polpastrelli dei nostri figli e nipoti sono continuamente in esercizio, per tele-comandare i molteplici apparecchi domestici, ma anche, indirettamente, la nostra vita.  Le nuove generazioni sono ormai talmente abituate a martellare su quei tasti che sembrano convinte di avere in pugno la bacchetta magica dei nostri tempi, con la quale possono decidere cosa fare e come farlo, in base a proprie scelte, valutazioni e desideri.

Ecco che il telecomando non è solo quel che appare – cioè un dispositivo elettronico che usa i raggi infrarossi o altre tecnologie di trasmissione dati ad apparecchi e congegni più o meno distanti – ma piuttosto un segno, un oggetto simbolico, una riedizione moderna dell’ermetico caduceo, della prodigiosa wand di maghi, fate e streghe, lo scettro magico del potere sugli altri. In questo senso, la pervasiva presenza di telecomandi ed apparecchi similari (dai telefoni cellulari agli i-phone) rappresenta una nota caratteristica del nostro tempo, un marchio che caratterizza il modo di vedere le cose dei nostri ragazzi e di porsi di fronte alla realtà. Una realtà che, per loro, è sempre manipolabile, modificabile, influenzabile grazie ad un congegno, tenuto saldamente in mano. Un mondo sul quale – in base alla diffusa mentalità indotta dal meccanismo dei riflessi condizionati – sarebbe sempre possibile intervenire, condizionando situazioni ed eventi a nostro favore, per realizzare aspirazioni, impulsi o decisioni. Questo psicotico delirio di onnipotenza, che caratterizza troppi giovani e giovanissimi, finisce col renderli apparentemente sicuri di sé, ma in realtà molto insicuri e fragili, intolleranti di ogni proibizione e di qualsiasi fallimento o frustrazione che la vita non manca mai d’infliggere.

“Comandare a bacchetta” si usava dire una volta. Beh, oggi si crede di poter telecomandare il mondo con un semplice click , illudendosi che quel dito ultraveloce possa davvero manipolare la realtà. Basta auto-convincersi che sia sufficiente collegarsi con chiunque, dovunque si trovi, per provare la  straordinaria sensazione dell’onnipresenza e l’ebbrezza del potere di chi riesce a ‘manovrare’ a distanza cose e persone…  Purtroppo – o, forse, per fortuna…. – le cose non vanno esattamente così e questo non può che procurare traumi psicologici ed ammaccature fisiche a chi  fosse convinto di disporre d’una bacchetta magica universale e di non avere alcun tipo di limiti. Alle nuove generazioni abbiamo, colpevolmente, lasciato credere che il telecomando della loro esistenza fosse in loro pugno, mentre avremmo dovuto fargli acquisire il senso del limite e, al tempo stesso, aiutarli ad avere abbastanza fiducia in se stessi per affrontare, consapevolmente, avversità e sfide della vita quotidiana.  Non abbiamo certo fatto il loro bene, a mio avviso, e soprattutto li abbiamo esposti ad una serie di prevedibili scacchi, col rischio di mandare in frantumi le loro false sicurezze e di creare sbandati e frustrati, che si credono “perdenti” solo perché non riescono a far girare il mondo esattamente come vorrebbero.

Credo però che siamo ancora in tempo per cercare di ovviare ai nostri sbagli. Sia da genitori sia da educatori, quindi, cerchiamo di limitare le conseguenze deleterie di questo irragionevole modo di pensare ed agire, aiutando i nostri ragazzi a guardare in faccia la realtà e ad affrontarla con la loro testa, non con le loro dita. Anche l’intelligenza è una forma di prontezza, che non richiede polpastrelli ultrarapidi bensì esercitate capacità di ascoltare, parlare, leggere e scrivere. Ci vogliono anche capacità logiche ed espressive, abilità tecniche e competenze complesse, ma soprattutto strumenti di analisi e di risoluzione dei problemi, anche con molte incognite, come quelli che ci presenta ogni giorno la nostra esistenza, qui e ora. I telecomandi ,ovviamente, continuiamo pure ad usarli, ma solo come raffinati ed utili strumenti tecnologici e non come prolungamenti magici delle nostre mani e del nostro pensiero che, se ben coltivato, è più potente di migliaia di computer ed altri aggeggi elettronici.

 © 2012 Ermete Ferraro