Che Napoli sia diventata il ‘palcoscenico’ per un convegno con la partecipazione di una decina di autorevoli docenti universitari, venuti da tutta l’Italia per confrontarsi sul tema della salvaguardia dei patrimoni linguistici regionali nelle diverse sfaccettature locali, è senza dubbio cosa buona e giusta. E in effetti è stato proprio un palcoscenico, quello dello storico Teatro Nuovo di Montecalvario, ad ospitare la due-giorni promossa dal Comitato scientifico per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano, operante dal 2020 in seno al Consiglio Regionale della Campania [i]. Su quella ribalta si sono affrontate questioni importanti, prima con qualificate relazioni accademiche e poi con un panel allargato ad un’esponente di quel Consiglio Regionale e ad un rappresentante degli enti locali. Era ora, d’altronde, che sulla tutela e valorizzazione delle espressioni linguistiche dei vari territori si accendessero i riflettori dell’opinione pubblica e dei media, facendo uscire questo dibattito dall’ambito esclusivamente universitario.
Il problema, semmai, è che i faretti del Teatro Nuovo – proseguo nella metafora – si sono accesi ancora una volta solo sugli studiosi, lasciando al buio (e non solo metaforicamente) il pubblico cui questi si rivolgevano. Un pubblico, in gran parte giovanile, che ha seguito in religioso silenzio gli interventi, non si sa quanto coinvolto dai sottili distinguo circa la bontà o meno di iniziative che, pur riguardanti coloro che ancora parlano le lingue locali e talvolta si arrischiano a scriverle, non li vedono affatto protagonisti del processo.
Eppure, oltre ad aprire un reale dialogo coi potenziali fruitori dei progetti di tutela e rivitalizzazione delle espressioni linguistiche locali, sarebbe stata l’occasione più opportuna per avviare un reale confronto con quelli che, volontaristicamente ed investendoci tempo e risorse personali, da più di 20 anni svolgono a Napoli corsi formativi, fanno ricerche, pubblicano contributi, promuovono iniziative culturali e si battono per ridare al Napolitano – come ad altre espressioni dialettali della Campania – la dignità di oggetto di studio e d’insegnamento.
Purtroppo tutto ciò non è accaduto e, ancora una volta, il mondo accademico ha dato l’impressione di voler ribadire il proprio ruolo, preoccupandosi di erigere autorevoli steccati nei riguardi di siffatte iniziative di base, considerate spontaneistiche ed ingenue se non deleterie, nonché di difendere la propria esclusiva relazione con le istituzioni politico-amministrative, stimolate ad investire risorse finanziarie nelle ricerche ‘scientifiche’.
Sotto i riflettori del Teatro Nuovo si sono alternati interventi autorevoli ed interessanti su cosa meriterebbe di essere ‘salvaguardato’ e sui soggetti e le modalità più idonee a tutelare il patrimonio linguistico delle regioni italiane. Da larga parte di essi – in particolare da alcuni docenti della Campania – è però apparsa in modo palese la diffidenza nei confronti dei ‘profani’ e del dilettantismo ingenuo negli interventi di formazione linguistica svolti in ambito extra-accademico, ed ancor di più verso una loro possibile, ma a quanto pare deprecabile, deriva socio-politica ‘identitaria’.
Il ruolo della linguistica, è stato ribadito più volte, sarebbe infatti quello di studiare oggettivamente i fenomeni, col necessario distacco dell’osservatore non partecipante, privilegiando un metodo descrittivo più che un approccio normativo. La lingua, si è detto, è qualcosa di vivo ed in evoluzione e i processi di cambiamento non sono arginabili. Il che è vero, se ci si riferisce ai mutamenti linguistici fisiologici nel tempo e nello spazio, ma suona quasi un pretesto laddove la naturale evoluzione di alcune lingue locali è stata condizionata dalle spinte di un centralismo autoritario e classista e da atteggiamenti conseguentemente repressivi o anche di autocensura. Decenni di studi storici e sociolinguistici rischiano così di essere sopravanzati da un’impostazione che manifesta tuttora dubbi sull’equazione tra la subalternità socio-economica e quella culturale, soprattutto nel caso del Mezzogiorno d’Italia, cercando di esorcizzare ogni forma di conflittualità tra lingua nazionale ed espressioni linguistiche identitarie territoriali, in nome di una sospetta ‘pax linguistica’, che contraddice l’affermazione dell’assenza di un vero conflitto.
Da qui il martellante ritornello sull’inesistenza di qualsivogliaconnotazione spregiativa nell’utilizzo del termine ‘dialetto’, peraltro in contraddizione con gli interventi di alcuni studiosi che di tale ‘dialettofobia’ hanno viceversa portato attestazioni anche recenti. Da qui anche la pretesa di stabilire ‘ex cathedra’ chi sarebbe qualificato ad insegnare cosa e, soprattutto, dove quando e perché. Alle risposte offerte da questa sorta di 5W dell’insegnamento dei dialetti nelle scuole, infatti, sono stati dedicati vari interventi del Convegno, esprimendo rispettabili ed autorevoli pareri, ma senza aver aperto preventivamente un confronto con quei soggetti che di tale controversa materia si occupano comunque già da molti anni.
Se sia opportuna o no una simbolica ‘ora di dialetto’ nelle realtà scolastiche, oppure se ci si debba occupare delle espressioni locali solo sul piano della condivisione delle tradizioni popolari (e quindi su un piano più folkloristico che di studio e apprendimento), sono questioni legittime. Meno legittimo mi sembra invece l’atteggiamento un po’ supponente di chi mostra di aver già deciso ciò che va bene o va scartato, indirizzando unilateralmente l’operato dei comitati cui le amministrazioni regionali si sono affidate.
Non a caso, già nella conferenza stampa di presentazione del Convegno – tenuta nella sede regionale – si era affermato che il suo compito era quello di “…definire gli ambiti linguistici, geografici e culturali del patrimonio linguistico napoletano, individuare modalità per la valorizzazione di un patrimonio linguistico e delineare le possibili iniziative per veicolare conoscenze adeguate sulla storia linguistica italiana e sulla variegata articolazione dell’area regionale campana” [ii]. Una terminologia che già nei verbi usati (definire, individuare, delineare) tradiva la volontà di frapporre precisi paletti, delimitando preventivamente il terreno di tale sperimentazione.
Sul sito della Federico II si legge che: “…il Convegno proporrà tra l’altro una riflessione su come nella scuola italiana del XXI secolo possa delinearsi – senza antagonismi con la lingua italiana – uno spazio per il dialetto, con una consapevole attenzione verso le manifestazioni culturali e artistiche legate ai patrimoni linguistici locali” [iii]. Ma, più che una riflessione sul ‘come’ salvaguardare i patrimoni linguistici delle nostre regioni, dal convegno sembra essere scaturita una vera e propria ricetta, anticipando le ‘linee guida’ che il Comitato sembrerebbe voler dare non solo al suo operato, ma anche alle realtà informali che agiscono sul campo. Ad esempio privilegiando palesemente l’attenzione verso le manifestazioni artistico-culturali più ‘popolari’ ma mostrando diffidenza nei confronti dello studio scolastico delle caratteristiche lessico-grammaticali e fonetico-ortografiche dei vari dialetti, attività considerata forse foriera di spiacevoli ‘antagonismi’ con la lingua italiana… Oppure insistendo nell’affermazione che le legislazioni regionali in materia tendono a privilegiare le espressioni linguistiche delle principali metropoli (si tratti di Venezia come di Napoli, di Roma come di Palermo), ipotizzando quindi sedicenti lingue regionali o addirittura elaborando linguaggi artificialmente standardizzati. Tendenze che, pur presenti in alcune normative in vigore, non nascono tanto dagli orientamenti di chi opera sul terreno, quanto dai condizionamenti politici degli organi legislativi.
Il caso della Campania: una legge mutilata
È successo ovviamente anche nel caso della Legge regionale della Campanian. 14/2019 (vedi testo), frutto d’un difficile compromesso tra la proposta avanzata dai Verdi (che io stesso ero stato incaricato di articolare) e quella presentata dalla Destra. La risposta a molte delle obiezioni e perplessità espresse nel corso del Convegno sta proprio in questa ambiguità di fondo, che ha di fatto tradito alcune istanze presenti nella prima proposta. Già nel titolo, ad esempio, si notano le differenze. Quella partorita 3 anni e mezzo fa dal Consiglio Regionale della Campania (il cui organismo attuatore è proprio il Comitato Scientifico organizzatore del Convegno) annuncia sbrigativamente “Salvaguardia e valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano”, laddove il progetto originario parlava più latamente di “Norme per lo studio, la tutela e la valorizzazione della Lingua Napoletana, dei Dialetti e delle Tradizioni Popolari della Campania”.
Le differenze proseguono all’articolo 1, laddove tra le finalità nel testo vigente leggiamo che: “2. La Regione Campania valorizza il suo patrimonio culturale, promuove e favorisce la conservazione e l’uso sociale dei beni culturali linguistici, etnomusicali e delle tradizioni popolari, con particolare riguardo alla salvaguardia e valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano”. Da questo articolo, pur citando la Dichiarazione Universale dell’UNESCO sulla diversità linguistica, è sparito invece l’iniziale riferimento alla Carta Europea delle Lingue Regionali, approvata nel 1992 dal Consiglio d’Europa, che è molto più chiara sulla finalità di facilitarne l’uso orale e scritto “agevolandone lo studio e l’insegnamento”. Conseguentemente, è stato cassato anche l’art. 3 del progetto di legge originario, dove si prevedeva esplicitamente che “la Regione Campania tutela e valorizza il patrimonio storico-culturale e letterario connesso alla lingua napoletana anche mediante il suo insegnamento – e la conoscenza degli altri idiomi della Campania – nelle scuole di ogni ordine e grado”. Nella legge in vigore, conseguentemente, è rimasto solo un generico riferimento ad “iniziative rivolte alla popolazione scolastica”.
Le premesse della proposta di legge, pertanto, erano molto più articolate di quanto emerge dal testo poi approvato, riferendosi al principio – democratico ed ecolinguistico – del rispetto della diversità linguistica in tutte le sue manifestazioni, senza affatto ipotizzare la preminenza di un idioma su un altro. Appare allora un po’ pretestuosa l’osservazione di chi – in un articolo sul quotidiano Il Mattino – ha scritto : “…si pensa che tutti i dialetti siano, individualmente e nel loro insieme, testimoni di storia e di una tradizione linguistica ricca proprio perché variegata? Oppure si pensa che la salvaguardia debba riguardare solo alcuni dialetti proclamati unici o migliori?” [iv]Domanda retorica che prelude alla successiva obiezione: “Si parla spesso di introdurre i dialetti nella scuola. In questo campo più che mai sono indispensabili obiettivi chiari: qualcuno crede che la scuola, con didattica normativa, dovrebbe impartire agli scolari la capacità di usare fluentemente il dialetto? Oppure si vuole insegnare solo la grafia di un dialetto a scolari che in futuro vorranno scrivere poesie, canzoni o altre opere? In entrambe le prospettive (tra loro diverse), bisognerebbe precisare quale dialetto scegliere tra i tanti di una regione…”. [v]
Il punto centrale della contestazione portata avanti da alcuni esponenti del mondo accademico (e sintetizzata in quell’articolo) riguarda le finalità stesse di un eventuale insegnamento dei dialetti nelle scuole, manifestando un atteggiamento sospettoso verso ipotetici obiettivi di contrapposizione di essi alla lingua comune e ufficiale.
“Molti, se si considera ciò che si legge in giro e in rete, credono che tutti i dialetti abbiano subito torti gravissimi e volontari a causa della diffusione dell’italiano, tanto che a volte l’idea di salvaguardia sembra abbinata a un senso di rivalsa […] Anche nella didattica, con insegnanti che abbiano padronanza della materia, si potrà in ogni luogo prevedere, in rapporto all’età dei discenti, un’attenzione verso il dialetto […] ma senza esaltazioni e senza l’idea che qualcuno abbia messo in atto oppressioni o deprivazioni a danno di altri”. [vi]
Ecco il punto: esorcizzare ogni potenziale intenzione di ‘rivalsa’ sembrerebbe più importante che promuovere lingue locali che hanno subito viceversa un’innegabile riduzione a parlate ‘volgari’, da confinare semmai in ambito familiare perché inadatte ad esprimere contenuti ‘alti’. La decisa negazione di ogni forma di “oppressioni o deprivazioni” cozza inoltre contro decenni di studi sociolinguistici che hanno messo in evidenza quanto la marginalità socio-economica della gente del Sud comportasse anche la deprivazione delle loro specifiche espressioni linguistiche. Non si tratta di perseguire ‘rivalse’ o di una sorta di revanscismo culturale o politico, ma della legittima affermazione della pari dignità di tutte le espressioni linguistiche, evitando che quelle più marginalizzate vengano ridotte a manifestazioni folkloristiche minoritarie su cui fare solo ricerche. La rivitalizzazione delle lingue locali è quindi manifestazione d’identità culturali particolari che non si contrappongono necessariamente a quella nazionale, ma restituiscono dignità e diritti a chi per troppo tempo ha subito la marginalizzazione di un processo unitario di stampo coloniale. Come ho già scritto in proposito: “Tutelare il diritto delle minoranze etnolinguistiche si è rivelato più agevole che salvaguardare e garantire un futuro a lingue considerate ‘minoritaie’ o ‘regionali’, che non rischiano l’estinzione bensì l’accantonamento, lo snaturamento e la corruzione sul piano lessicale, grammaticale ed ortografico” (E.Ferraro, Grammatica ecopacifista, Pisa, Centro Gandhi Edizioni, 2022, p. 92).
Il paradosso, semmai, è che la rivendicazione di un’autonomia linguistica vera e propria – sul modello delle battaglie per la rivitalizzazione del catalano, del provenzale o dello scozzese – non proviene affatto dalle regioni meridionali che più hanno sofferto il peso della subalternità socio-economica e culturale, bensì da quelle ricche e forti del Nord, come la Lombardia e il Veneto. A noi del Sud basterebbe che le lingue locali delle nostre genti non fossero più mortificate, consentendo di recuperare e valorizzare espressioni idiomatiche e culturali del tutto originali. Uno dei modi per marginalizzare i cosiddetti dialetti è stata la loro riduzione a strumenti utili solo per la comunicazione familiare, o anche in ambiti esterni ma limitati come il teatro popolare, la poesia vernacolare o le canzoni. L’insistenza – ancora una volta – sull’opportunità di confinarne lo studio esclusivamente nel recinto “delle tradizioni e (del)la storia (nomi di luogo, usi gastronomici, etimologie, letteratura, altri usi artistici” [vii] mi sembra quindi che confermi il diffuso pregiudizio sulla loro inadeguatezza in altri ambiti comunicativi (ad es. giornali ed altri media, ma anche produzioni in prosa o ricerche di altro genere).
L’autoreferenzialità di un mondo accademico che dialoga con se stesso, ignorando il confronto con chi, sul terreno concreto, da decenni si sta battendo per ridare dignità agli idiomi locali, non è un segnale positivo di apertura al dialogo. Nel caso della Campania, la banalizzazione della proposta di legge iniziale per renderla utile solo ad elargire finanziamenti a manifestazioni folkloristiche ed a ricerche accademiche, è stato un altro segnale negativo. Fatto sta che chi si spende ogni giorno per difendere e promuovere il Napolitano ed altre espressioni linguistiche campane continuerà a farlo sempre e comunque. Malgrado che da questo convegno sia emersa la preoccupazione, più che di salvaguardare queste lingue, di porre la loro promozione sotto l’autorevole ‘tutela’ degli esperti…
[iv] Nicola De Blasi, Dialetti, ecco le iniziative per il patrimonio linguistico napoletano: difendiamo i dialetti (anche) dalle fake news, IL MATTINO, 13/12/2022
In Italia la sensibilità verso gli studi di ecologia sembra meno sviluppata che in altri paesi, anche perché resta ancora non del tutto sanata la tradizionale frattura fra discipline scientifiche ed umanistiche. Questo “anacronistico equivoco intellettuale”, per citare Odifreddi, ha creato e continua a determinare un’artificiosa barriera all’interno della universitas studiorum, spezzando l’unità della cultura e finendo col contrapporre due diverse letture del mondo. Ecco perché il connubio concettuale racchiuso nell’espressione ecolinguistica appare poco significativo alla maggioranza di coloro che pur si occupano di ecologia o di linguistica. È come se lo si considerasse uno studio d’importazione, riservato a pochi eletti, un terreno di ricerca troppo specifico ed accademico e per di più con scarse ricadute pratiche. Ebbene, credo che vada sfatato anche questo più specifico ‘equivoco intellettuale’, accordando finalmente alla ecologia linguistica più attenzione e maggiori occasioni di studio e di ricerca. L’ecologia scientifica, infatti, ha sicuramente bisogno del contributo dell’analisi ecolinguistica e sociolinguistica per comprendere i meccanismi mentali e sociali che – oltre quelli strutturali – continuano a frenare il processo di cambiamento, pur nell’accresciuta consapevolezza del disastro ambientale e delle sue cause.
Troviamo una definizione di cosa s’intende col termine ecolinguistica nella pagina d’accoglienza del sito web della I.E.A (International Ecolinguistics Association), rete universitaria che collega ben 800 ricercatori a livello mondiale.
L’ecolinguistica esplora il ruolo del linguaggio nelle interazioni che sostengono la vita degli esseri umani, delle altre specie e dell’ambiente fisico. Il primo scopo è sviluppare teorie linguistiche che vedano gli esseri umani non solo come parte della società, ma come parte di ecosistemi più vasta, da cui dipende la vita. Il secondo scopo è mostrare come la linguistica possa essere usata per affrontare questioni-chiave ecologiche, dal cambiamento climatico ed alla perdita di biodiversità fino alla giustizia ambientale. (I.E.A. Home).
Nell’introduzione ad un corso promosso dalla I.E.A. – che sintetizza il contenuto dei nove capitoli del manuale di Arran Stibbe (2015) – sispiega che è compito dell’analisi ecolinguistica rivelarci le ‘storie’ che viviamo, analizzandole dal punto di vista ecologico con un fine che non è puramente teorico, in quanto vuol metterci in grado di resistere alle narrazioni che danneggiano il nostro mondo e d’inventarne di nuove, alternative. L’ecologia linguistica ci aiuta ad inquadrare tali ‘storie’ in una determinata filosofia ecologica, un insieme di valori riguardanti le relazioni tra l’uomo, le altre specie animali e l’ambiente fisico di cui fanno parte. Si tratta di analizzare in che modo una certa cultura c’induce a pensare tali relazioni e, conseguentemente, ad agire. Verbo, è bene precisarlo, che non si riferisce all’azione in senso stretto, ma anche all’interazione linguistica, secondo una visione pragmatica della lingua, che non si limita a ‘dire’ ma è anche capace di ‘fare’. Le narrazioni della nostra realtà, infatti, sono vere e proprie ‘riserve di valori’, intessute non solo di ‘fatti’ ma intimamente caratterizzate da ideologie di fondo, metafore, valutazioni e perfino da significative omissioni.
Il manuale citato, a tal proposito, fa l’esempio di alcune narrazioni del mondo che hanno segnato il nostro rapporto con l’ambiente, relative ad alcuni concetti basilari. È il caso di parole-chiave come ‘prosperità’ – che ha promosso l’arricchimento come acquisizione di bene e di denaro – ‘sicurezza’ – che ha contribuito a sviluppare relazioni di dominio e strutture violente al loro servizio, come pure altri termini che ci presentano un mondo ridotto a materia e meccanismi, caratterizzato dalla centralità dell’uomo e dal suo assoluto dominio sulle altre specie, indiscutibile e senza limiti. Utilizzare l’analisi linguistica per rivelare le stratificazioni ideologiche dietro le nostre storie può aiutarci a capire come e quanto esse influenzino la nostra visione della realtà, alimentando un modello di sviluppo insostenibile ed iniquo. Comprendere quanto simili narrazioni possano rivelarsi distruttive da un punto di vista ecologico, inoltre, ci rende più consapevoli e capaci di cambiare rotta in senso costruttivo, anche attraverso l’impiego d’una ben diversa modalità linguistica. Parafrasando uno dei primi studiosi di ecolinguistica, l’inglese M.A.K. Halliday (Halliday, 2003), c’è una ‘sindrome di caratteristiche grammaticali’ che contribuisce a costruire la realtà in modi che non fanno bene alla nostra salute né al nostro futuro come specie.
Nell’attuale cultura dominante, però, scarsa l’attenzione è stata riservata a questo ambito della ricerca, come se si trattasse di elucubrazioni mentaliste, mentre l’insostenibilità del nostro mondo richiederebbe interventi correttivi di stampo scientifico, tecnologico o, al massimo, economico. Il problema è che non siamo ancora del tutto consapevoli che il linguaggio non è solo rappresentazione di una realtà, ma contribuisce a costruirla e determinarne le caratteristiche. Ecco perché studiare quella ‘sindrome di caratteristiche grammaticali’ sarebbe molto importante per liberarci dai meccanismi culturali inconsci che influenzano le nostre scelte, anche in campo ambientale.
Un campo di studi linguistici da coltivare
Nel suo libro sull’approccio ecolinguistico alla ‘analisi critica del discorso’ riguardante uomo e ambiente, Arran Stibbe stabilisce alcuni punti fondamentali cui attenersi:
a) L’attenzione si concentra sui discorsi che hanno (o potenzialmente hanno) un impatto significativo non solo sul modo in cui le persone trattano le altre persone, ma anche su come trattano i sistemi ecologici più ampi da cui dipende la vita.
b) I discorsi vengono analizzati mostrando come gruppi di caratteristiche linguistiche si uniscono per formare particolari visioni del mondo o “codici culturali” […]
c) I criteri in base ai quali le visioni del mondo vengono giudicate derivano da una filosofia ecologica (o ecosofia) esplicita o implicita. Un’ecosofia è informata sia da una comprensione scientifica di come gli organismi (compresi gli esseri umani) dipendono dalle interazioni con altri organismi e da un ambiente fisico per sopravvivere e prosperare, sia da un quadro etico per decidere perché la sopravvivenza e la prosperità sono importanti […]
d) Lo studio mira a esporre ed a suscitare attenzione su discorsi che sembrano essere ecologicamente distruttivi […] o in alternativa a cercare di promuovere discorsi che potenzialmente possano aiutare a proteggere e preservare le condizioni che supportano la vita […]
e) Lo studio è finalizzato all’applicazione pratica attraverso la sensibilizzazione al ruolo del linguaggio nella distruzione o protezione ecologica, informando le politiche, caratterizzando lo sviluppo educativo o fornendo idee che possono essere utilizzate per ridisegnare testi esistenti o per produrre nuovi testi in futuro. (Stibbe, 2014).
Con l’espressione ’analisi critica del discorso’ (in inglese: CDA – Critical Discourse Analysis) si fa riferimento ad un approccio sociolinguistico che si è diffuso negli anni ’90, la cui matrice filosofica si ispirava a precedenti riflessioni di Michel Foucault sul potere delle parole. L’ACD si occupa di mettere in luce le relazioni che intercorrono tra il potere ed i testi finalizzati all’informazione e alla formazione delle persone e delle comunità. Si tratta di discorsi pubblici veicolati dai media, di cui la linguistica ci aiuta ad analizzare le caratteristiche testuali, come la gerarchia degli argomenti trattati, gli espedienti retorici utilizzati, il tipo di argomentazione e le caratteristiche espressive.
Il primo luogo comune da sfatare è che il linguaggio rispecchi la realtà, mentre in larga parte contribuisce a crearla, o quanto meno a determinarla. Ecco perché anche i ‘discorsi’ sulle questioni ambientali non vanno sottratti all’analisi critica, in modo da svelare valori e visioni della vita che influenzano pesantemente tali narrazioni e contribuiscono a formare la c.d. ‘opinione pubblica’. L’approccio ecolinguistico, dunque, è fondamentale per diventare consapevoli dell’interazione tra lingua, parlanti ed ambiente (fisico e sociale) che ne costituisce il contesto e, in generale, dei rapporti tra uomini, società e natura.
Ma se il termine ‘ecolinguistica’ è usato in senso lato, bisogna distinguere al suo interno impostazioni e finalità abbastanza diverse, in base al rapporto tra i due elementi che lo compongono. Quando le conoscenze linguistiche servono ad analizzare e demistificare le ‘storie’ relative alle problematiche ambientali, siamo più nell’ambito di una linguistica ecologista. Quando invece i principi ecologici sono applicati all’analisi dei fenomeni sociolinguistici, rientriamo maggiormente nell’ambito dell’ecologia del linguaggio.
Quest’ultima, infatti, si occupa della salvaguardia della diversità linguistica e dei rischi cui va incontro una società caratterizzata dall’omologazione linguistica, che consolida il potere delle culture dominanti, cancellando antichi patrimoni di sapere e specificità espressive.
L’ecolinguistica è quella branca della linguistica che tiene conto degli aspetti dell’interazione, tra lingue, tra parlanti, tra comunità linguistiche o tra lingue e mondo, e che, al fine di promuovere la diversità dei fenomeni e le loro relazioni, si adopera in favore del piccolo (Fill, 1993: 4)
Questo approccio risulta naturalmente più vicino alla sensibilità ecologista, in quanto applica alle lingue la stessa attenzione protettiva che le organizzazioni ambientaliste prestano alle minacce alla diversità biologica. La diversità linguistica, in tale contesto, è percepita non soltanto come valore fondamentale sul piano culturale e sociale, ma anche come fattore di equilibrio in un mondo dominato dal pensiero unico, dall’omologazione e dalla globalizzazione economica, caratteristiche che Vandana Shiva aveva efficacemente sintetizzato nell’espressione “monoculture della mente” (Shiva, 1995).
Nel saggio “Lingue soffocate” – pubblicato nel 2004 dall’Associazione VAS Verdi Ambiente e Società – già sedici anni fa mi ero occupato di questo problema, soffermandomi sulla crisi ecolinguistica di cui pochi – ambientalisti e linguisti – sembravano prestare attenzione. Proseguendo il discorso iniziato due anni prima sull’educazione alla tutela della diversità culturale come estensione della salvaguardia della biodiversità (Ferraro, 2002), la mia attenzione si era focalizzata sulla grave perdita di diversità linguistica provocata da un modello di sviluppo accentratore e omologatore.
Dopo un lungo periodo di militanza ambientalista ed ecopacifista, la consapevolezza dei rischi derivanti dalla crescente perdita di biodiversità m’induce a riproporre l’esigenza di una ‘ecologia della lingua’ che esca dalle aule universitarie e dalle stesse ricerche sul campo degli studiosi, per diventare acquisizione comune di un movimento ecologista finora poco sensibile a tali tematiche. Come nel caso dell’ecopacifismo, però, non basta sommare sbrigativamente battaglie ambientaliste sociali e culturali, ma bisogna saldare queste dimensioni, a partire dalla constatazione che […] il mantenimento della lingua fa parte dell’ecologia umana, e che la difesa della biodiversità non è una battaglia settoriale, ma l’affermazione di una filosofia di vita complessivamente alternativa. (Ferraro, 2004: 8).
L’ecolinguistica come veicolo di cambiamento
Gli studi ecolinguistici, però, non devono restare confinati in ambito accademico, come ricerche finalizzate solo alla comprensione delle dinamiche socio-ambientali esistenti e non all’impegno per cambiare l’interazione cogli ecosistemi, di cui stiamo minacciando i delicati equilibri e, con essi, la nostra stessa sopravvivenza come specie.
Sul piano della linguistica ecologista, Arran Stibbe si è soffermato sul peso che un certo modo di ‘inquadrare’ linguisticamente la realtà influisca fatalmente sulla lettura che ne diamo, perpetuando stereotipi e certezze aprioristiche che impediscono proprio quel cambiamento. L’uso del framing, appunto, ‘inquadra’ le questioni ambientali all’interno di una struttura mentale predefinita. In tal senso, sono utilizzati spesso ‘pacchetti di conoscenza generale’ per inquadrare un problema ecologico, come il riscaldamento globale, ora come questione ambientale da risolvere, ora come minaccia alla sicurezza da fronteggiare, ora come situazione spiacevole oggettiva cui dovremmo adattarci.
”La natura è una risorsa” è stata fornito come esempio di inquadramento ‘distruttivo’ poiché le risorse sono preziose solo se vengono o saranno consumate; non hanno valore se lasciate a se stesse per sempre. Ciò contraddice l’ecosofia di questo libro, che attribuisce considerazione etica alla vita e al benessere di altre specie […] l’inquadramento ‘sviluppo’, che in origine era un tentativo altruistico di alleviare la povertà nei paesi poveri, è invece finito come ‘crescita sostenuta’, cioè un tentativo di massimizzare la crescita economica nei paesi ricchi a danno dei poveri. (Stibbe, 2015)
Il parametro usato da Stibbe per classificare e valutare queste narrazioni antropocentriche ed utilitaristiche è il danno che esse provocano agli ecosistemi, per cui la loro ‘distruttività’ risulta direttamente proporzionale alla loro minaccia alle specie ed all’ambiente in genere. Sarebbe invece positivo un inquadramento linguistico alternativo di tali problematiche, che incoraggiasse atteggiamenti e comportamenti di protezione ambientale, riportando l’attenzione sulla natura in sé, non come ‘risorsa’ da sfruttare.
L’utilizzo di un determinato codice linguistico, d’altra parte, ha fatto sempre parte dell’armamentario utilizzato dalle classi e nazioni dominanti per controllare quelle subalterne e mantenerle asservite. Valeva per le civiltà antiche – come quella greca e romana – ma è innegabile che l’utilizzo delle lingue resti tuttora uno strumento per sancire una gerarchia socio-politica che subordini alcuni soggetti sociali ad altri. Un grande scrittore distopico come George Orwell, infatti, nel suo celeberrimo ‘1984’ ha inquadrato perfettamente la decostruzione e ricostruzione del codice linguistico di una comunità come uno degli elementi cardine per realizzare e mantenere una dittatura globale e totale.
Il fatto è che l’inquietante modello unico di economia di società e di cultura profetizzato da Orwell ci si sta materializzando sempre più davanti. Non a caso quella “età del livellamento, della solitudine, del Grande Fratello e del Bispensiero” era caratterizzata dalla repressione della diversità linguistica e dalla diffusione forzata di una lingua standardizzata, ridotta all’essenziale, volutamente inespressiva. (Ferraro, 2004: 3)
Dominare il linguaggio di un soggetto collettivo significa dominarne il pensiero e le scelte, ma tale regola vale sempre e comunque anche per ciò che concerne le questioni ambientali. È dunque indispensabile occuparsi di più e meglio di come il livellamento linguistico e l’utilizzo di determinati ‘inquadramenti’ ci stiano condizionando, confermando quindi l’attuale modello di sviluppo come l’unico possibile ed auspicabile. La stessa contrapposizione tra ‘sviluppo’ e ‘protezione ambientale’ è prova di questa mistificazione logico-linguistica, che insiste ossessivamente sul concetto di ‘crescita’ come fattore di benessere cui non possiamo rinunciare. La stessa crisi ecologica, paradossalmente, è spesso affrontata come se la soluzione consistesse nel reperire maggiori e più potenti strumenti economici scientifici e tecnologici, consolidando il modello antropocentrico, scientista e tecnocratico che sta alla radice del problema.
Una seconda antitesi è tra ‘crescita’ e ‘povertà’, come se non fosse stato proprio il sistema economico capitalista ed il modello crescista di sviluppo ad allargare la frattura fra un piccolo mondo ricco e potente ed una larga parte di umanità sempre più povera, fragile e subalterna.Non è un caso che occuparsi di giustizia sociale e di uguaglianza di diritti spesso sia stato strumentalmente contrapposto alla preoccupazione dei movimenti ambientalisti per la preservazione della natura e la tutela degli ecosistemi. Ma, come ha giustamente sottolineato un ecologista sociale come Antonio D’Acunto:
Si pone ora sempre più urgente la necessità superiore non solo di rallentare la catastrofe, ma di invertire il futuro dell’umanità, con il suo modello culturale, economico, produttivo e sociale, verso il Pianeta della vita e della biodiversità, liberandolo dal cancro dello sfruttamento tra gli uomini e verso la natura. (D’Acunto 2019: 45)
In tale direzione eco-socio-linguistica va la riflessione di uno studioso argentino, Diego L. Forte, che considera l’ecolinguistica terreno per una ‘nuova lotta di classe’. Integrando strumenti squisitamente linguistici, come l’analisi critica del discorso, con quelli della sociolinguistica, egli ritiene possibile andare oltre i tradizionali parametri della lotta di classe, aprendosi a tutte le disparità sociali che nascono dall’egemonia di alcuni soggetti su altri, fra cui quelle etniche e quelle di genere.
La decostruzione e la proposta alternativa, quindi, devono nascere dal ripensamento del concetto di classe: non si può più pensare alle classi sociali come le intendeva Marx, gli oppressi non possono continuare ad agire da soli. Molti movimenti stanno prendendo coscienza della necessità di unire gli sforzi per combattere lo stesso oppressore. L’idea di un’integrazione delle lotte basata su una rielaborazione dovrebbe essere il nuovo passo per gli studi critici. […] nuovi discorsi e storie devono guidarci, ma, senza mettere in discussione i sistemi egemonici, questi cambiamenti non possono aver luogo. […] Il cambiamento delle storie è certamente la via d’uscita, ma le nuove storie non sostituiscono automaticamente quelle vecchie. I cambiamenti arbitrari derivano dalla lotta di classe e il passaggio da una narrazione all’altra implica necessariamente questa lotta, che noi sosteniamo debba essere ridefinita. Questa è la lotta cui deve partecipare l’ecolinguistica. (Forte 2020: 13-14)
Ecologia delle lingue: una questione spinosa
Nei citati saggi del 2002 e 2004 mi ero occupato di come l’ecologia delle lingue contrasti la perdita delle diversità linguistiche e culturali causate dalla globalizzazione, mostrandone il parallelismo con l’impegno ambientalista per difendere e promuovere la diversità biologica, minacciata da un modello di sviluppo predatorio ed iniquo.
Ecco perché, così come si parla di biodiversità a tre diversi livelli (genetica, di specie ed ecosistemica) sembra importante allargare il discorso alla salvaguardia…della diversità culturale degli esseri umani, visti come individui, come etnie e come comunità socio-politiche, adoperandosi per la salvaguardia delle varie specificità etnico-culturali, non solo come strumento contro la predominanza delle classi egemoni, ma come tutela dell’identità culturale d’intere popolazioni e come difesa dell’antropodiversità dall’azione omologante e riduttiva della globalizzazione. (Ferraro, 2002: 38-39).
Il mio impegno ecolinguistico – che scaturiva dalla necessità di realizzare quanto sancito dall’UNESCO sul diritto alla diversità linguistica, che va non solo tutelata ma ‘incoraggiata’ (UNESCO, 2000, art. 5) – si è poi consolidato, in seguito ad approfondimenti teorici ed alla militanza in un’associazione ambientalista che ha fatto propria questa impostazione. Infatti, a livello regionale furono promosse in Campania cinque edizioni della ‘Festa VAS della Biodiversità’, con sessioni dedicate proprio alla tutela della diversità culturale, intesa come risorsa e non come problema.
Il mio saggio “Voci soffocate” – presentato in occasione dell’edizione 2004 di quell’evento – riecheggiava nel titolo un testo fondamentale per comprendere il peso che l’ecologia delle lingue dovrebbe avere in una transizione ecologica che sappia integrare i saperi scientifici con quelli umanistici, per realizzare una società più giusta e rispettosa degli equilibri vitali. ‘Vanishing Voices. The Extintion of World’s Languages’, saggio scritto da un antropologo e da una linguista (Nettle – Romaine, 2002), ha ispirato la mia riflessione sulle lingue che spariscono o sono comunque minacciate dall’omologazione e stanno perdendo la loro caratteristica di specchio e di veicolo di specifiche identità socioculturali.
Di fronte all’accelerazione del processo di scomparsa delle espressioni linguistiche locali – e dei saperi che esse trasmettono – linguisti, antropologi ed ecolinguisti stanno adoperandosi per preservare in ogni modo questo patrimonio, documentandolo per mezzo dei più moderni e tecnologici strumenti disponibili, studiandone le specificità glottologiche, stampandone vocabolari e testi che ne documentino le caratteristiche culturali originali. (Ferraro, 2004: 5)
Tutelare il diritto delle minoranze etnolinguistiche, nel tempo, si è rivelato più agevole che salvaguardare e garantire un futuro a lingue considerate comunque ‘minoritarie’ o ‘regionali’, che non rischiano l’estinzione bensì l’accantonamento, lo snaturamento e la corruzione sul piano lessicale, grammaticale ed ortografico. Basti pensare che in una realtà nazionale come quella italiana le disposizioni legislative a tutela di minoranze etniche hanno preceduto di mezzo secolo quelle emanate a protezione di espressioni linguistiche considerate secondarie e localistiche rispetto alla lingua nazionale.
Il divario fra le cosiddette minoranze ‘riconosciute’ e quelle ‘non riconosciute’ era diventato sempre più ampio, poiché le prime avevano potuto godere …di provvedimenti che andavano ad incidere positivamente sui diritti linguistici dei parlanti, le altre invece, o non avevano ricevuto nessun tipo di sostegno da parte delle istituzioni, oppure avevano potuto disporre solamente di interventi regionali di carattere culturale che, oltre a non evitare i fenomeni di assimilazione linguistica, privilegiavano spesso gli aspetti più strettamente folkloristici delle identità minoritarie. (Cisilino, 2004: 176)
Fa riflettere il fatto che il riconoscimento ufficiale dell’Italiano come lingua nazionale – non sancito nella Costituzione repubblicana – sia stato paradossalmente introdotto proprio dall’art. 1 della legge n. 482 del 1999, che dettava “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”. Da allora, grazie alla pur tardiva sottoscrizione da parte dell’Italia della Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003, ma soprattutto all’attivismo di studiosi e appassionati, sono stati fatti passi avanti, anche se in modo scoordinato e spesso con accenti che, più che ai principi d’un federalismo ecologista e verde, apparivano ispirati ad un autonomismo identitario.
Nella regione Campania, ad esempio, il Consiglio Regionale aveva registrato negli ultimi decenni la presentazione di varie proposte di legge sulla tutela della lingua napolitana. Mentre alcune di esse insistevano solo sull’aspetto identitario, con toni nazionalistici e lo sguardo nostalgicamente rivolto alla conservazione d’un illustre passato da rivalutare, altre si aprivano ad un pluralismo che non escludeva la protezione di altre espressioni linguistiche locali, per non riprodurre regionalmente il modello accentratore dell’idioma standardizzato. Per questo motivo, come accade nella dinamica dei contesti politico-istituzionali, la proposta di legge presentata in Campania dai Verdi (alla cui stesura avevo dato il mio contributo personale), ha dovuto fare i conti con un’analoga proposta della destra. Il testo approvato lo scorso anno dal Consiglio Regionale (L.R. Campania n. 19/2019) è stato pertanto frutto di un compromesso tra due visioni differenti del problema, finendo col restringere la tutela al solo patrimonio linguistico del Napolitano ed accentuando il peso del mondo accademico in questo processo, anziché aprire ad una pluralità di soggetti pur esperti in materia.
In una interessante tesi di laurea magistrale in Filologia e Letteratura Italiana, discussa nell’a.a. 2012-13 all’Università Ca’ Foscari di Venezia, si è affrontato approfonditamente il concetto di “sostenibilità linguistica”, con particolare attenzione al pluralismo linguistico ed in riferimento a differenti scuole di pensiero in ambito ecolinguistico internazionale. Dal raffronto tra vari modelli presi in esame – quello ecosociale del catalano Alberto Bastardas Boada (Bastardas Boada, 2013), quello francofilo del tunisino Claude Hagège (Hagège, 1999) e quello anglosassone dei citati Daniel Nettle e Susanne Romaine (Nettle e Romaine, 2001) – il candidato metteva criticamente in luce alcuni aspetti contraddittori, in modo particolare nel primo caso, riferendoli poi anche al dibattito nel contesto glottologico italiano.
Quando Bastardas Boada elenca i cinque punti che dovrebbero servire da guida per la sostenibilità…sembra quasi che egli abbia in mente un mondo composto da migliaia di gruppi umani autonomi, tendenzialmente omogenei ed impermeabili verso l’esterno, che possano arbitrariamente decidere di usare la loro lingua per tutti gli ambiti […] A ciò va aggiunto l’auspicio del linguista catalano di veder riconosciuto a tutti gli idiomi minoritari lo status di lingue ufficiali. Tale proposta, se da un lato dovrebbe prevedere un minimo di standardizzazione degli idiomi in questione, dall’altro, e proprio per questo, avrebbe un effetto negativo, ad esempio, sui dialetti di quegli stessi idiomi, poiché, come afferma Hagège, standardizzare una lingua significa automaticamente screditare le sue varietà. (Perin, 2013: 113-114)
Questa osservazione, peraltro legittima, è stata ripresa in riferimento ai tentativi di diffondere in Italia un modello plurilinguistico che, si obbietta, contraddirebbe se stesso quando pretende d’istituzionalizzare solo determinati idiomi, servendosi di strumenti artificiali, come quelli legislativi. Ma è davvero così?
Ecolinguistica, ecopacifismo ed irenolinguistica
La contraddizione tra la visione multiforme e policentrica di chi sostiene il diritto ad una libera espressione linguistica e il perseguimento della ‘normalizzazione’ istituzionale di tale diritto, col rischio di proteggere e valorizzare solo alcuni idiomi a discapito di altri, è un problema che l’ecologia delle lingue deve affrontare. D’altra parte, non è accettabile che si contrappongano strumentalmente diverse ipotesi ecolinguistiche, quando esistono soluzioni intermedie cui ricorrere per garantire una effettiva ‘sostenibilità linguistica’.
Ad esempio, in uno studio citato dalla stessa tesi (Dell’Aquila e Iannàccaro, 2004), si spiega come tale ‘pianificazione linguistica’ istituzionale possa essere declinata in più modi e con diverse sfumature. Esse vanno dal Language revival (che tenta di riportare in uso lingue poco parlate), alla Language revitalization (che incrementa le funzioni di una lingua minacciata, migliorandone lo status), passando per il Reversing language shift (che dà un sostegno a livello comunitario a lingue poco praticate dalle nuove generazioni) ed arrivando al Language renewal (per garantire che almeno alcuni componenti di una comunità continuino ad apprenderle ed utilizzarle).
Tali modalità di pianificazione resterebbero comunque operazioni artificiose d’ingegneria sociolinguistica se non fossero sostenute ed accompagnate da un effettivo impegno sociopolitico e culturale per rivitalizzare il rapporto di una comunità col suo territorio e per preservarne l’integrità ambientale. Il vero conflitto, infatti, non è tanto quello tra lingue egemoni e idiomi locali relegati ad espressioni inferiori, condannate al deperimento o alla scomparsa. È lo stesso modello di sviluppo attuale che non consente il mantenimento del pluralismo culturale e linguistico, confliggendo anche con una prospettiva di economia decentrata, di sviluppo comunitario e policentrico, di equità di diritti e di protagonismo sociale. Ecco perché l’ecolinguistica non dovrebbe svilupparsi come terreno di studio a sé stante, ma andrebbe integrata in una complessiva alternativa ecologista, globale nei principi e locale nelle azioni.
In quale direzione oggi va il nostro mondo? Verso i valori della Età dell’oro – umanità, socialità, comunione dei beni naturali, pace e nonviolenza, amore per la Madre Terra […] o verso il distacco sempre più profondo da tali valori? […] Dominano l’idea e la pratica che il Pianeta è dell’uomo che vive oggi e non delle future generazioni, e – nella stessa filosofia di forza e di potere tra le specie – di quell’uomo che è più forte e potente, capace di sfruttare fino in fondo ogni risorsa. (D’Acunto, 2019: 94)
La necessaria diffusione dei principi e delle varie tecniche operative di studi di per sé interdisciplinari come quelli ecolinguistici, pertanto, andrebbe inserita in un progetto più ampio, di cui faccia parte anche l’ecopacifismo, altro aspetto piuttosto trascurato dal movimento ambientalista o banalizzato a mera alleanza tattica con quello pacifista.
In uno scritto del 2014 avevo ipotizzato una saldatura meno strumentale, partendo dalla considerazione che la logica di accumulazione e dominazione, tipica del modello di sviluppo capitalista, genera sia lo sfruttamento dei beni naturali e la devastazione ambientale, sia il sistema di militarizzazione e guerra del complesso militare-industriale.
I. L’ecopacifismo non è la pura e semplice sommatoria di obiettivi programmatici e di azioni pratiche relative alla lotta per la difesa degli equilibri ecologici ed alla opposizione al militarismo ed alla guerra. Con questo termine andrebbe invece caratterizzata un’impostazione etico-politica ed un programma costruttivo globale, nei quali la nonviolenza si manifesti sia nella salvaguardia dell’ambiente naturale e di tutte le forme di vita, sia nella ricerca di alternative costruttive ai conflitti. II. L’ecopacifismo non è una dottrina politica ma neanche una semplice strategia d’azione. Sullo sfondo della proposta ecopacifista, infatti, si delinea un ben preciso modello di convivenza e di sviluppo economico-sociale. La sua caratterizzazione ecosocialista, autogestionaria ed antimilitarista è riconducibile alla tradizione etico-religiosa dell’Ahimsa gandhiana, alla nonviolenza laica di pensatori come Capitini ed anche alle proposte di pacifisti di matrice anticapitalista e terzomondista. (Ferraro, 2014: 4)
I fenomeni di marginalizzazione sociale e di controllo centralistico della società, tipici di un modello economico che ha compromesso gli equilibri ecologici per sete di conquista e di dominio, sono alla base anche della progressiva eliminazione delle diversità culturali e linguistiche. Ma il pervasivo imperialismo militarista e guerrafondaio, che si affianca a quello economico tutelandone gli interessi globali, è ugualmente un frutto di quel sistema.
Secondo un’ottica nonviolenta, i conflitti non devono essere esorcizzati né occultati, ma rivelati, analizzati e possibilmente trasformati, o meglio ‘trascesi’, mutuando l’espressione usata da Johan Galtung (Galtung 2000) per caratterizzare e diffondere il suo metodo. Per affrontare la triade alla base di tutti i conflitti (atteggiamenti e comportamenti ostili ed interessi contrapposti), infatti, egli ipotizzava che si debba far riferimento al triangolo costruttivo empatia-nonviolenza-creatività.
Ma se l’educazione alla pace e l’azione per la pace sono finalizzate al superamento costruttivo di conflitti altrimenti distruttivi, anche in ambito sociolinguistico ed ecolinguistico si potrebbe andare nella medesima direzione. Una comunicazione nonviolenta ha bisogno di strumenti ecolinguistici – come l’analisi critica del discorso – che rendano consapevoli dei pregiudizi e degli inquadramenti ideologici che alimentano i conflitti. Deve ipotizzare anche una modalità comunicativa alternativa, che usi il potere delle parole non per distruggere, ma per costruire relazioni positive fra individui e comunità.
Anche su questo terreno, già dai primi anni ’80 avevo provato a portare un contributo, ipotizzando una ‘educazione linguistica nonviolenta’ (Ferraro, 1984) che, se da un lato svelasse e denunciasse l’uso negativo della comunicazione linguistica, per fini di contrapposizione e di dominio, dall’altro proponesse una modalità di comunicazione positiva, costruttiva e creativa. Le metafore da me utilizzate erano le finestre contrapposte alle persiane, i ponti contrapposti ai muri e le colombe contrapposte alle civette.
Le mie Otto tesi per l’Educazione linguistica nonviolenta (ELN) cercavano di far luce su funzioni e disfunzioni del linguaggio umano, utilizzabile sia in positivo sia in negativo. Il percorso proposto si basava sulle tre principali funzioni del linguaggio: cognitiva, sociale ed espressiva. […] L’ELN propone di riaprire questa finestra sul mondo, eliminando al massimo deformazioni, equivoci ed ostacoli alla comunicazione interpersonale e riaprendo il flusso di una comunicazione che, già etimologicamente, vuol dire mettere in comune idee ed emozioni […] L’ELN propone di educare i ragazzi ad usare la lingua come strumento di pace e come mezzo di scambio empatico. Il primo passo è renderli consapevoli della negatività d’una comunicazione che sottolinei le diversità, presentandole come ostacoli e non come occasione di reciproco arricchimento […] L’ELN propone di restituire alle parole la loro natura di specchio del pensiero, di espressione chiara e onesta dei sentimenti. La ‘colomba’ del linguaggio sincero e rispettoso deve sostituire la ‘civetta’ d’una comunicazione falsa, ipocrita ed opportunista. (Ferraro 2018: 191-192)
Grande successo e diffusione hanno incontrato a livello internazionale, dalla metà degli anni ’90, gli autorevoli contributi di Marshall B. Rosemberg relativi alla Nonviolent Communication – NVC ® (Rosemberg, 2015). La Comunicazione Nonviolenta, in sintesi, è una metodologia che: (a) scoraggia generalizzazioni, giudizi e tentativi d’incasellare la realtà dentro categorie rigide e prefissate, promuovendo un’analisi oggettiva delle proprie sensazioni; (b) incoraggia la libera manifestazione dei sentimenti, superando timori, blocchi e sensi di colpa attraverso l’espressione autentica di quanto proviamo; (c) propone di mettere da parte critiche, rimproveri ed aspettative verso gli altri, riscoprendo ed esprimendo i veri bisogni; (d) auspica una comunicazione empatica con gli altri, evitando le pretese ed imparando ad esprimere richieste chiare e positive.
Un approccio ancor più vicino a quello ecolinguistico, infine, è stato formulato dallo psicoterapeuta biosistemico Jerome Liss (Liss, 2016)
La Comunicazione Ecologica (C.E.) […] è l’applicazione dei principi ecologici alle relazioni umane: coltivare le risorse di ogni persona, rispettare la diversità pur mantenendo una coesione globale, agendo per un obiettivo comune […] ristabilire un equilibrio ecologico tra i bisogni individuali e la crescita della totalità. Va quindi facilitata nei gruppi una comunicazione democratica, cercando soluzioni alternative ai conflitti e superando le valutazioni negative con una “critica costruttiva“. (Ferraro,2018: 194)
L’irenolinguistica – un mio neologismo per designare la formazione ad una comunicazione nonviolenta ed ecologica – potrebbe integrare studi specificamente ecolinguistici con l’intento educativo di cui dovrebbero farsi carico non solo le famiglie e gli insegnanti, ma anche quelli che gestiscono potenti mezzi di comunicazione di massa. A partire dalla decostruzione e demistificazione di strutture mentali ed espedienti retorici che falsano strumentalmente la realtà – nello specifico quella relativa al rapporto uomo-ambiente – un’educazione linguistica che rispetti i principi ecologici e sia veicolo di pace dovrebbe dunque articolare una proposta alternativa interdisciplinare.
A tal fine, operando una sintesi tra i tre metodi di educazione linguistica prima accennati, ritengo che un linguaggio ispirato ai principi della nonviolenza debba aiutarci: (a) a riconoscere reali bisogni e sentimenti autentici; (b) ad esprimerli sinceramente, formulando richieste chiare; (c) a dialogare con gli altri in modo positivo, empatico e costruttivo; (d) a proporre soluzioni quanto più possibile concrete e condivise.
Infine, tornando al dibattito sul futuro dell’ecolinguistica, è evidente che approcci differenti e con obiettivi diversi debbano però trovare una sintesi complessiva, che evidenzi il fine comune d’un reale cambiamento del rapporto fra patrimoni naturale e saperi umani.
Da un lato, l’ecolinguistica…aspira a cogliere le complessità della-cosa-che-chiamiamo-linguaggio e, dall’altro, cerca di andare oltre la comunità scientifica sensibilizzando sull’interdipendenza tra pratiche discorsive e devastazione ecologica. […] Finora, i linguisti più attenti all’ecologia hanno concepito le dimensioni discorsive e linguistiche della crisi ecologica in termini di una dicotomia natura-cultura. Una lezione appresa da questo stato dell’arte è che in effetti abbiamo bisogno di una riconcettualizzazione delle questioni ambientali in generale e della dicotomia natura-cultura in particolare […] L’ecolinguistica può quindi collegare la ” hard science ” e lo studio del comportamento coordinativo nelle specie che chiamiamo Homo sapiens sapiens all’analisi delle conseguenze etiche e socioculturali della ”soft science” e ai dibattiti della ”scienza critica” sulle pratiche sociali anti-ambientali e distruttive. […] Finora, il problema principale dell’ecolinguistica non è stato il disaccordo interno o le lotte per il potere, ma piuttosto la mancanza di una vera interazione tra le sue varie parti. A che serve far sbocciare mille fiori, se non riusciamo mai ad apprezzare l’intero campo? Qual è il valore di esplorare la nostra piccola isola, se trascuriamo il resto dell’arcipelago? (Steffensen e Fill, 2013: 25)
Questa ultima considerazione m’induce a sperare che si realizzi l’auspicata interazione tra i vari approcci all’ecolinguistica e che anche in Italia si allarghi la cerchia delle persone interessate ad approfondirla, non solo a livello accademico, ma anche all’interno di movimenti ambientalisti più attenti ad un’ecologia umana e sociale. Mi auguro che il presente contributo possa risultare utile in tal senso e che, tra i vari ‘fiori’ di questo campo tutto da esplorare e coltivare, si sappiano apprezzare anche quelli di un approccio nonviolento, oltre che ecologico, alla comunicazione linguistica.
Riferimenti
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“Bevi la coca cola che ti fa bene Bevi la coca cola che ti fa digerire Con tutte quelle, tutte quelle bollicine
Coca cola sì coca cola, a me mi fa morire Coca cola sì coca cola, a me mi fa impazzire Con tutte quelle tutte quelle bollicine”
VASCO ROSSI (“Bollicine”, 1983)
1. Sorprendente. Ma, a ben pensarci, neppure tanto.
È da tempo ormai che abbiamo smesso di meravigliarci di fronte a messaggi pubblicitari che ci presentano potenti multinazionali come organizzazioni alternative, quasi rivoluzionarie, impegnate a diffondere nei confronti di noi semplici mortali il verbo del cambiamento. Siamo ancora una volta di fronte al solito gioco delle parti, in questo caso invertite, in base al quale proprio coloro i quali finora hanno pesantemente condizionato i nostri consumi ed il nostro attuale stile di vita paradossalmente adesso si ergono a paladini d’un profondo cambio di paradigma. Mi riferisco alla campagna mediatica post-Covid che la potentissima Coca-Cola Company ha lanciato in quasi tutti i paesi del mondo, affidando il suo messaggio alla voce ed al volto di un noto artista – il rapper anglo-ugandese George Mpanga – alias George the Poet – il cui testo per il video, accompagnato da immagini efficaci e suadenti, si rivolge direttamente a ciascuno di noi, ricordandoci i veri valori ed impegnandoci a pensare e ad agire, ora, #ComeMaiPrima. In effetti, mi sembra che la versione italiana dello stesso slogan abbia aggiunto ulteriore ambiguità a quella di fondo, espungendo l’aggettivo fondamentale del messaggio originale, il cui hashtag è infatti: #OpenLikeNeverBefore. La versione nostrana insiste sul concetto di novità, ma sottolineando il ruolo promotore dell’azienda (“Ci sarò /Ci saremo, Come Mai Prima”), mentre il claim della campagna originaria veicolava due concetti, apparentemente opposti. Il primo, racchiuso nell’aggettivo “open”, allude all’auspicata riapertura delle attività sociali ed economiche dopo la chiusura generale imposta dalla pandemia, evocando una loro ripresa che riavvii in qualche modo la situazione precedente. L’espressione “come mai prima” (“like never before”), viceversa, lancia un messaggio alternativo, improntato sì al cambiamento, ma auspicando un processo di “apertura” di tipo mentale, e quindi d’inversione rispetto alla consueta ‘normalità’.
«“Aperto Come Mai Prima” è fondato sul convincimento che non dobbiamo ‘tornare’ alla normalità. Piuttosto, possiamo tutti andare avanti e rendere il mondo non soltanto differente, ma migliore – dice Walter Susini, Vicepresidente del marketing della Coca-Cola Europa, Medio Oriente ed Africa (EMEA) – Nel momento in cui andiamo oltre la quarantena, stiamo celebrando non solo la riapertura fisica dei nostri stimati clienti, ma anche la riapertura della nostra mentalità collettiva. Noi vediamo la crisi come un’opportunità per essere più aperti e più empatici». [i]
Insomma, dopo la pandemia dovremmo evitare di fare un passo indietro, per ‘tornare’ a ciò che c’era prima. Il cuore del messaggio, invece, è che bisogna andare ‘avanti’, perché è così che si ‘migliora’ la vita, utilizzando le esperienze negative e la tremenda crisi sanitaria come stimolo a diventare più “aperti ed empatici”. Le espressioni ‘avanti’ e ‘oltre’, insomma, suggeriscono il superamento dei vecchi parametri ed un cambiamento abbastanza radicale, quasi un’evangelica ‘metànoia’, che dovrebbe indurre l’umanità tutta verso altri e più positivi valori. Tutto bene allora? Beh, andrebbe anche bene se a pronunciare queste parole ed a promuovere questo messaggio non fosse proprio la multinazionale che da 130 anni sta “rinfrescando il mondo”, vendendo centinaia di tipi di bevande, generalmente gassate, in 200 paesi e raggiungendo così un fatturato di circa 40 miliardi di dollari. Ma quale sarebbe il contenuto di questa ‘rivelazione’? Qual è esattamente il ‘verbo’ che la Coca-Cola vuole trasmetterci mediante i versi di un rapper, opportunamente trasformati in slogan pubblicitari?
2. Il testo originale in lingua inglese era un po’ diverso.
Composto e recitato da George the Poet coincide parzialmente con quello della versione italiana. Non intendo lanciarmi in un commento filologico, ma le ‘varianti’ hanno un peso nell’analisi testuale. Abbiamo già visto come perfino il titolo del ‘poem’ del rapper anglo-ugandese abbia subito una mutilazione, essendo stato cassato l’aggettivo ‘open’, che invece è un po’ la chiave di lettura del brano. Fatto sta che le versioni diffuse in Italia in realtà sono due e coincidono solo in parte. Mettiamole a confronto, precisando che nella versione più breve mancano parecchi versi, mentre ce ne sono altri (tra parentesi quadre e in grassetto) che risultano differenti o addirittura assenti in quella più lunga.
Aspetta. [Aspetta, fermati.] / Chi ha detto che dobbiamo tornare alla normalità? [ tornare come prima.] / [E se la nuova normalità fosse diversa da quella a cui eravamo abituati?] / E se il più grande cambiamento fossimo tu ed io? / E se scegliessimo di aprirci al nuovo e dire: /Non dirò più che il mio lavoro è poco importante / Non dirò mai più che gli insegnanti hanno troppe vacanze / O che odio la scuola e che non vedo l’ora di finirla / E se sorridessi un po’? /Se viaggiassi meno ma apprezzassi ogni passo? / E se credessi di poter cambiare le cose con la mia cucina? O con la mia musica? / E se facessi di tutto per non sentirmi un estraneo nella mia casa. / E se invece di farmi guidare, inseguissi i miei sogni? / E se ci fossi ogni volta che hai bisogno di un amico? / Farò valere ogni mia parola / Farò contare il mio voto, farò ascoltare la mia voce / Non dimenticherò mai che insieme siamo più forti / Lo porterò nel mio cuore per sempre / Lo abbiamo fatto [Ce l’abbiamo fatta!] / Abbiamo attraversato la tempesta / [Per questo sarò umile, felice, coraggioso, sincero, consapevole.] / Per questo ci saremo [Ci sarò] / Come mai prima. [#ComeMaiPrima]. [ii]
«CI SAREMO COME MAI PRIMA”: COCA‑COLA PER LA RIPARTENZA […] Un messaggio positivo, un inno a guardare il mondo con occhi diversi dopo l’emergenza COVID-19. Con un lancio congiunto a livello europeo, Coca-Cola torna a comunicare con la campagna “Ci Saremo come mai prima”. Un invito ad apprezzare da una nuova prospettiva tutto ciò che abbiamo intorno a noi, trovando un’opportunità in questa “nuova normalità”. Realizzata da 72andSunny Amsterdam, la nuova campagna segna un momento di cambiamento culturale e sociale…».[iii]
Da notare che si parla di ‘ripartenza’, utilizzando un termine piuttosto comune del linguaggio politico italiano, ma banalizzando un messaggio che ambirebbe ad essere alternativo. Del resto lo stesso slogan – con una sottile operazione di orwelliano ‘bispensiero’ – mutua, capovolgendolo, quello affiorato da più parti come reazione ad una pretesa ‘normalità’ che gran parte dei guasti del nostro mondo – ambientali, socio-economici e sanitari – li ha in effetti provocati. Una cosa, infatti, è dichiarare più radicalmente: “Mai come prima”, sottolineando come la pur devastante pandemia possa e debba rivelarsi occasione per un cambiamento profondo, avendo messo in luce l’assurdità e l’iniquità del nostro modello di sviluppo. Ben diverso, invece, è proclamare: “Mai come prima”, evocando vaghi scenari di cambiamento ‘in meglio’ ed auspicando un’imprecisata ‘diversità’, da trasformare poi in “nuova normalità”. Uno dei versi inglesi eliminati (“Per questo sarò umile, felice, coraggioso, sincero, consapevole”), però, se non altro lascia intendere in che direzione dovrebbe avviarsi tale cambiamento, che potrebbe renderci maggiormente disponibili ed ‘aperti’ al nuovo.
3. La versione italiana ha espunto molte frasi del testo di George Mpanga:
And we can’t just do what we’d formerly do. / What if I don’t wait for another crisis to embrace the love that I’ve missed? / My ears are not my earphones. What if I listen. /What if I’m missing how bright your eyes glisten. / (What if) I just smile a bit. Travel less and love every mile of it. / And what if I don’t dance, but just for you I might give in to the rhythm soon. / And I’ll learn my lesson from a bad memory, / and I’ll keep social distance from bad energy / And I’ll prove that funny beats sexy any day. / But I’m still cute, anyway. / What if my dreams never take the backseat again, / What if I’m there whenever you need a friend./ What if I celebrate my skin, my hair, my body, every day! Even Mondays. / I won’t waste another minute without you. / I’ll read you the poems that I’ve written about you. / So many come to mind. / I’ll move forward, without leaving anyone behind. / I’ll lead, like a woman / I’ll never say this city has too many tourists again. / I’ll have a family of dozens./ Give my little nephews and nieces some cousins. / I’ll stay right beside you. /I’ll say Yes, Yes, Yes, I do. / So I’ll be (humble, happy, brave, honest, mindful and) /OPEN LIKE NEVER BEFORE.
Già esaminando il testo italiano prima citato, in ogni caso, emergono interessanti spunti di analisi di quella proposta ‘alternativa’, che mi sembra opportuno sottolineare:
Appello ad un nuovo protagonismo (“E se il più grande cambiamento fossimo tu ed io?”)
Rivalutazione del lavoro, quello proprio (“Non dirò più che il mio lavoro è poco importante”) ma anche quello, spesso sottovalutato, degli altri (“Non dirò mai più che gli insegnanti hanno troppe vacanze”)
Invito all’ottimismo ed alla speranza (“E se sorridessi un po’? Se viaggiassi meno ma apprezzassi ogni passo? E se credessi di poter cambiare le cose con la mia cucina? O con la mia musica?”);
Proposta di riappropriarsi della quotidianità domestica (“E se facessi di tutto per non sentirmi un estraneo nella mia casa?”)
Richiamo ad impegnarsi di più, con un atteggiamento proattivo (“E se invece di farmi guidare, inseguissi i miei sogni? […] Farò valere ogni mia parola. Farò contare il mio voto, farò ascoltare la mia voce”)
Esortazione a perseguire la cooperazione (“Non dimenticherò mai che insieme siamo più forti”) perché è solo così è possibile “attraversare la tempesta”
Invito a modificare il proprio atteggiamento (“Per questo sarò umile, felice, coraggioso, sincero, consapevole”), mescolando però valori (umiltà, coraggio, sincerità) uno stato d’animo (la felicità) ed una condizione mentale (consapevolezza).
Niente male davvero, se questo innovativo messaggio non servisse principalmente a veicolare il rilancio ed il cambiamento d’immagine di un’azienda multinazionale che – secondo Greenpeace – è stata fra i principali inquinatori dell’ambiente, considerando che nel solo 2016 ha prodotto più di 100 miliardi di bottiglie di plastica, in larghissima parte non riciclata; che consuma annualmente più di 300 miliardi di litri d’acqua, e che, infine, sfrutta massivamente tale risorsa fondamentale anche per coltivare la canna da zucchero, di cui è il maggiore consumatore mondiale. [iv]
4. Aggiungiamo le parti mancanti alla lodevole – ma ipocrita – sfilza d’intenzioni e d’impegni
Le parti del testo di George the Poet che non compaiono nella versione italiana, infatti, rendono ancora più chiaro il senso del messaggio di questa pretestuosa Coke-Revolution.
Richiamo a non sprecare l’occasione di recuperare il bene perduto (“E se non spettassimo un’altra crisi per abbracciare l’amore che abbiamo perso?”)
Rivalutazione di uno stile di vita più naturale e spontaneo (“Le mie orecchie non sono i miei auricolari. E se ascoltassi? Se solo sorridessi un po’? Se viaggiassi di meno ma apprezzassi ogni chilometro?”)
Assunzione di una serie d’impegni, per cambiare facendo tesoro della presente esperienza (“Imparerò la lezione da un doloroso ricordo, manterrò un distanziamento sociale pur partendo da una cattiva energia…”)
Auspicio di un’esistenza alimentata da aspirazioni, slanci solidali ed apprezzamento per sé e per gli altri (“E se i miei sogni non trovassero più posto nel sedile posteriore? E se fossi lì ogni volta che hai bisogno d’un amico? E se celebrassi la mia pelle, i miei capelli, il mio corpo, ogni giorno. Anche il lunedì? Non sprecherò un altro minuto senza te […] Andrò avanti, ma senza lasciare nessuno indietro […] Avrò una famiglia numerosa […] Starò proprio accanto a te…”).
Insomma, dal ‘claim’ pubblicitario della Coca-Cola – espresso opportunamente con toni poetici e quasi profetici – emergerebbe una visione alternativa della società, in cui ogni persona sarà più consapevole, saprà apprezzarsi e autorealizzarsi, ma al tempo stesso sarà anche attenta ai bisogni degli altri, mostrandosi più solidale e collaborativa.
Il guaio è che il pubblico la Coca-Cola Company ha rivolto questo vibrante appello – milioni di clienti, prevalentemente giovani, che in tutto il mondo consumano massivamente le sue bibite, consentendole di fatturare circa 40 miliardi di dollari all’anno – non mi sembra davvero il più ricettivo in tal senso. Sorge quindi il legittimo sospetto che, utilizzando il titolo d’un vecchio film di Carlo Vanzina, l’unico commento da fare sia è: “Sotto il vestito niente”. Quale coerenza potrebbe esserci, infatti, tra il modello di chi da 130 anni produce e diffonde ovunque bevande gassate ed iperglicemiche, con slogan pubblicitari diventati quasi simbolo del consumismo, e l’attuale, accattivante, proposta di cambiamento del nostro modello di società e del nostro stile di vita?
Dopo gli slogan ormai ‘storici’ (come“Deliziosa e rinfrescante” nel 1886, “Ridà slancio e sostiene” nel 1890, “La pausa che rinfresca” nel 1929), è dagli anni ’60 che cominciarono a comparire messaggi e più insinuanti, globali e visionari, tipo: “Tutto è meglio con Coca-Cola” nel 1963, “Vorrei comprare una Coca al mondo” nel 1971, “La Coca aggiunge vita” nel 1976, “La vita ha un buon sapore” nel 2001, “Rendilo reale” nel 2003, “Il lato Coca della vita” nel 2007 ed “Aperta felicità” nel 2009. [v]
La verità è che – in base ai dati diffusi dall’Oxfam – la Coca-Cola è andata costantemente in tutt’altra direzione, figurando all’ottavo fra le dieci multinazionali che avrebbero comunque fatto qualche sforzo, dal 2013 al 2016, per diventare un po’ più eque ed ecologicamente sostenibili. [vi] Per la precisione, essa ha migliorato un po’ il suo impatto sulla terra (voto: 8), nei confronti delle donne, dei lavoratori e della risorsa acqua (6), ma sfrutta ancora la manodopera, restando purtroppo ancora molto indietro nel rispetto dei coltivatori (3) e della trasparenza aziendale (5). [vii] Dove sarebbe allora la dichiarata rivalutazione del lavoro, della naturalità e della solidarietà dietro il propagandistico vestito della sedicente Coke-Revolution?
5. Qualche osservazione finale e riflessione critica.
Oltre che sul tale mistificante messaggio, qualche osservazione andrebbe fatta anche sulla debolezza delle realtà effettivamente alternative – impegnate nel sociale, religiose, ambientaliste e pacifiste – che in questo difficile periodo hanno pur cercato di far sentire la loro voce, per affermare la necessità di un vero e profondo cambiamento. Mentre perfino colossi multinazionali come la Nestlé (93,4 miliardi di dollari, 42° posto in classifica) o la PepsiCo (65 miliardi di dollari, 86° posto) [viii] continuano impudentemente a blaterare di ‘sicurezza alimentare’, ‘cittadinanza globale’ e ‘sostenibilità ambientale’, in quanti hanno davvero raccolto il messaggio di tanti movimenti, associazioni ed organizzazioni non governative? Un messaggio che esse tentano con difficoltà di diffondere, improntato a valori anti-capitalistici come il rispetto del lavoro umano, la redistribuzione della ricchezza, la conversione ecologica, la decrescita felice, il rifiuto del consumismo, l’impegno per fonti energetiche pulite e rinnovabili, la liberazione dalla dittatura della finanza, l’alimentazione sana e la salvaguardia della biodiversità naturale.
Quanti sono stati effettivamente raggiunti ed influenzati dalle profonde riflessioni che – anche in ambito pacifista – hanno esortato a coniugare il contrasto del riscaldamento globale (in parte causa anche del diffondersi di devastanti pandemie), con un modello di società più giusto, decentrato, disarmato e nonviolento? [ix] Temo che siano stati molti meno di quanti hanno apprezzato la…effervescente campagna pubblicitaria #ComeMaiPrima, illudendosi che basti guardare il video ‘visionario’ di un rapper, o che far propri alcuni slogan di sapore vagamente alternativo possa cambiare questo mondo, dominato dalla logica predatoria e violenta di un capitalismo sempre più sfrenato e senza limiti.
Quello che possiamo e dobbiamo fare, intanto, è demistificare questi messaggi pseudo-alternativi, riconducendoli alla loro natura di bollicine frizzanti ma vuote e neppure del tutto innocue. Se vogliamo fare della grave crisi sanitaria provocata dalla pandemia di Covid-19 un’occasione per cambiare davvero questa realtà, il vero slogan da adottare resta quindi: #MaiPiùComePrima, non certamente l’ambiguo #ComeMaiPrima della Coke. Se non altro per dimostrare che non ci lasciamo incantare dalle belle parole e che a noi, la Coca-Cola…non ce la darà più a bere.
[ix] A tal proposito, v. anche: La nonviolenza al tempo del coronavirus, a cura di Maria Elena Bertoli, Pisa, Centro Gandhi Edizioni, 2020 (quaderno Satyagraha n. 37), con vari contributi fra cui: Ermete Ferraro, Lessico virale. Voltiamo pagina. Se non ora Q.U.A.N.D.O.? (pp. 61-87)
Veicolato dai social media, sta circolando su Internet un breve video, prodotto e diffuso dalla Web tv del nostro Ministero della difesa il cui significativo titolo è: “L’esempio di oggi, per i grandi di domani”.[i] La scelta di collocare tale aureo messaggio solo in coda, accompagnato dal patriottico hashtag #AbbraccioTricolore, intendeva forse sottolinearne l’alta valenza educativo-sociale o, più banalmente, è stato solo un elementare espediente propagandistico. Infatti colpisce la stucchevole propaganda militarista e la brevità dell’audiovisivo (meno di un minuto) non riesce ad eliminare la sgradevole sensazione di assistere alla strumentalizzazione del volto candido ed entusiasta di alcuni ragazzi, per inneggiare retoricamente alle forze armate italiane.
Un deprecabile caso di scarso rispetto nei confronti dell’infanzia, ma anche del buon senso degli italiani, presi in giro da una pubblicità promozionale dei nostri militari, un mix di Mulinobianco, Immobiliare.it e Capitanfindus. Soprattutto, un pessimo esempio per i ‘grandi di oggi’, nei quali si vorrebbe ribadire la sciocca convinzione che i bambini siano dei ‘piccoli adulti’ senza diritti né cervello, da plasmare a propria immagine e somiglianza.
Non è un caso che negli ultimi decenni si siano moltiplicate le agenzie di selezione per minori da impiegare nel mondo della pubblicità commerciale, per sfruttare sempre più questo comodo bacino di testimonial, i cui diritti – affidati alla tutela di chi esercita il potere genitoriale – sono invece spesso violati, in nome del profitto e della popolarità.
«Il messaggio di cui il bambino è testimonial nello spot pubblicitario difficilmente può essere contrastato o rifiutato, perché egli rappresenta la purezza, l’incapacità di mentire e, in quanto tale, veicola la bontà e la genuinità dei contenuti pubblicitari […] Qual è il rischio di questo processo di adultizzazione precoce? Il rischio è che si brucino le tappe, che i bambini vivano un qualcosa che non è idoneo per la loro età. […] Con una sorta di “precocizzazione” il piccolo è in un certo senso privato della libertà di esplorare e apprendere autonomamente […] La famiglia, la scuola, tutte le agenzie educative devono tutelare l’infanzia e contrastare questa precoce adultizzazione dei bambini…». [ii]
Oltre al menzionato fenomeno della ‘adultizzazione’ dei minori – problema sul quale si sono autorevolmente pronunciati diversi psicologi, fra cui la prof. Oliverio Ferraris [iii] – mi sembra che sia, anche in questo caso, una vera e propria ‘adulterazione’ dei minori, cui si attribuiscono pensieri e dichiarazioni preconfezionati, estranei al loro vissuto e sentire. Come ha sottolineato Brunella Gasperini [iv], si rischia così di determinare in loro un ‘inquinamento’ mentale e comportamentale, che cancella o falsa le modalità spontanee dell’infanzia e provoca pericolosi effetti sulla crescita emotiva dei bambini.
I dizionari citano parecchi sinonimi della parola ‘adulterazione’: alterazione, falsificazione, manipolazione, contraffazione, sofisticazione, ma quello che meglio si addice all’operazione mediatica promossa dal Ministero della difesa credo che sia ‘manipolazione’. Il termine è usato ovviamente in senso psicologico, ma conserva il riferimento alla fisicità del gesto del ‘plasmare’ a propri fini la malleabile personalità infantile. Una volta tale ruolo ‘formativo’ era affidato alla fiaba – si osservava acutamente in un libro sulla ‘spot generation’ – ma adesso è passato alla pubblicità, che lo esercita in modo ancor più insidioso.
«…la fiaba costituiva spesso la fonte di gran parte delle rappresentazioni sociali attraverso cui i bambini venivano educati a capire come funzionava il mondo e quali erano le regole: oggi lo spot di una bibita diventa l’occasione per insegnare ai bambini come va il mondo e qual è il sistema di attese che dovrà caratterizzarli da adulti […] …la televisione mostra una certa immagine del mondo, provvedendo a una cornice per ciò che è accettabile e per ciò che non lo è nella società…» [v]
Che a formare le menti e le coscienze dei nostri ragazzi/e si propongano i rappresentanti del complesso militare-industriale è un aspetto particolarmente preoccupante della strisciante militarizzazione della società italiana, dove nelle scuole la presenza di soldati, carabinieri, marines ed altri esponenti delle forze armate sta diventando sempre più frequente ed ingombrante. Sulla doppiezza ideologica di certe operazioni, del resto, basti pensare che nel 2006 il Ministero della Pubblica Istruzione lanciò un ambizioso programa nazionale denominato “La pace si fa a scuola”, con la finalità di promuovere iniziative improntate alla pace, alla cooperazione e allo sviluppo. Peccato però che il primo partner del progetto fosse proprio…il Ministero della Difesa! [vi]
Diritti (e rovesci)dell’infanzia
Eppure non mancano fonti normative che dovrebbero scoraggiare coloro che intendono utilizzare l’immagini e discorsi di bambini a fini pubblicitari. I diritti dei minori dovrebbero essere tutelati in primo luogo dalla Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza del 1989, nella cui premessa è scritto:
«In considerazione del fatto che occorre preparare pienamente il fanciullo ad avere una sua vita individuale nella società, ed educarlo nello spirito degli ideali proclamati nella Carta delle Nazioni Unite, in particolare in uno spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà…». Tale concetto è ribadito al comma 1 dell’art. 29 della stessa Convenzione: «…d) preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia tra tutti i popoli e gruppi etnici, nazionali e religiosi e delle persone di origine autoctona…» [vii]
Il fatto è che, nel nostro paese, le norme di legge relative all’impiego di minori in attività propagandistiche inopportune o poco adatte alla loro età si riferiscono quasi esclusivamente all’ambito della pubblicità commerciale. Infatti, oltre codici di autodisciplina pubblicitaria, fu emanato anche il Decreto Ministeriale n. 425 del 1991, che però si concentrava sul divieto di far propagandare ai minori bevande alcoliche e prodotti del tabacco, sebbene all’art. 3 si riportavano anche più generali “norme a tutela dei minorenni”, fra cui:
«1. La pubblicità televisiva, allo scopo di impedire ogni pregiudizio morale o fisico ai minorenni, non deve: a) esortare direttamente i minorenni ad acquistare un prodotto o un servizio, sfruttandone l’inesperienza o la credulità; b) esortare direttamente i minorenni a persuadere genitori o altre persone ad acquistare tali prodotti o servizi; c) sfruttare la particolare fiducia che i minorenni ripongono nei genitori, negli insegnanti o in altre persone; d) mostrare, senza motivo, minorenni in situazioni pericolose».[viii]
L’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria [ix] dovrebbe vegliare sull’osservanza di questa regola ma, in primo luogo, ad intervenire in casi di palese “sfruttamento” dell’inesperienza, credulità e fiducia dei soggetti minorenni, dovrebbe essere il Garante dell’Infanzia, sul cui sito si trovano, oltre alle norme citate, troviamo alcuni utili riferimenti.
«In particolare, le comunicazioni commerciali, ai sensi del paragrafo 4.2. Codice Media e Minori: a) non debbono presentare minori come protagonisti impegnati in atteggiamenti pericolosi (situazioni di violenza, aggressività…ecc.) […] Sono anche previste delle precise regole di comportamento per cui le emittenti sono tenute: […] – a non utilizzare i minorenni in “grottesche imitazioni degli adulti». [x]
Quest’ultima frase è particolarmente significativa, a mio parere, perché travalica il solo ambito commerciale per stigmatizzare la tendenza a sfruttare l’immagine dei minori come adulti in miniatura, indotti ad imitarne atteggiamenti e comportamenti con esiti decisamente ‘grotteschi’, proprio come sta succedendo coi soldatini in erba proposti dal video e dalle foto recentemente diffusi dal Ministero della difesa.
Dall’Opera Balilla alle Psy-Ops
Di propaganda militarista e bellicista, del resto, noi italiani c’intendiamoparecchio. Durante il ventennio fascista, infatti, larga parte dei messaggi del genere furono affidati all’utilizzazione strumentale di bambini ed adolescenti, inquadrati e disciplinati come soldati in miniatura, per formarli allo spirito guerresco ed all’orgoglio nazionalista.
«L’Opera Nazionale Balilla (ONB), istituita nel 1926, inquadrava, attraverso una rigida educazione fascista, i giovani sino ai diciotto anni: dagli otto anni ai quattordici gli iscritti prendevano il nome di “balilla”, dai quindici ai diciotto quello di “avanguardista”. […] Dal 1933 anche i bambini dai sei agli otto anni furono inquadrati nei “figli della lupa” […] Nel reportage di Giuseppe Antoci, destinato a comunicazioni di propaganda, sono illustrate le attività di un gruppo di balilla ragusani: la lettura di “Gioventù in armi”, il quindicinale della GIL, le esercitazioni paramilitari con il moschetto, il gioco….Il giuramento dei balilla: “Nel nome di Dio e dell’Italia giuro di eseguire gli ordini del duce e di servire con tutte le mie forze e, se necessario con il mio sangue, la causa della rivoluzione fascista”.[xi]
Del resto, tutti i passati regimi dittatoriali hanno ampiamente sfruttato i bambini ed i ragazzi per operazioni di propaganda bellica ed anche alcuni governi autoritari e militaristi attuali non hanno esitato a fare altrettanto, speculando non solo sulla loro immagine, ma addirittura utilizzandoli direttamente in ciniche operazioni che li vedevano operativi come ‘bambini-soldato’. Tale deprecabile fenomeno, in violazione di ogni norma etica e giuridica, ha visto minorenni coinvolti in operazioni militari o illegali in molte zone del mondo, direttamente oppure come supporto ai militari (vedette, messaggeri, spie, cuochi). [xii]
Ma anche la letteratura ed il cinema (dalla ‘Piccola vedetta lombarda’ deamicisiana all’icona dello ‘scugnizzo’ col fucile delle Quattro Giornate) hanno contribuito ad alimentare la retorica dei piccoli eroi, per non parlare di alcune assurde tradizioni di un tempo, secondo le quali i bambini erano ‘grottescamente’ travestiti da piccoli militari, in occasione di mascherate carnevalesche e perfino di prime comunioni e cresime…
Da molti anni, però, la rozza propaganda del passato è stata sorpassata da più aggiornate e raffinate tecniche di persuasione, utilizzate nelle cosiddette Psy-Ops, uno dei tanti acronimi della corrente Neolingua orwelliana, in riferimento alle ‘operazioni psicologiche’, al servizio di guerre combattute anche in maniera virtuale e ideologica. [xiii] Nell’istruttivo articolo del 1998 intitolato “Propaganda Techniques”, basato su un manuale pubblicato dall’U.S. Department of the Army già nel 1979, ad esempio, si chiarisce che:
«La conoscenza delle tecniche di propaganda è necessaria per promuovere la propria propaganda e per scoprire gli stratagemmi nemici delle PSYOPS. […] L’approccio tipo “gente semplice” o “uomo comune” tenta di convincere il pubblico che le posizioni del propagandista riflettono il senso comune della gente. È progettato per conquistare la fiducia del pubblico comunicando nel modo comune e nello stile del pubblico. I propagandisti usano linguaggio e maniere ordinari […] nel tentativo di identificare il loro punto di vista con quello della persona media. […] “Leader umanizzanti”. Questa tecnica offre un ritratto più umano degli U.S. e più amichevole dei capi militari e civili. Li umanizza in modo che il pubblico li consideri come esseri umani simili o, meglio ancora, come figure gentili, sagge e paterne…» [xiv]
Pillole (indorate) di militarismo
Ma torniamo al video prodotto dal nostro Ministero della difesa, per analizzarne le sequenze e far emergere il linguaggio utilizzato ed i messaggi più o meno subliminali che veicola. Lo spot ovviamente si affida molto alle immagini militari di repertorio, che s’intrecciano alle frasi pronunciate da quattro mini-testimonial, dell’apparente età di 9-10 anni. In effetti il video è una specie di trasposizione filmica del tradizionale crest interforze, il cui emblema a scudo è diviso nei quattro campi corrispondenti alle altrettante forze armate: esercito, marina, aeronautica e carabinieri.
Nella prima sequenza, dopo un’immagine di elicotteri, su sfondo grigioverde con una stella gialla, una bambina bruna, inforcando binocolo, dichiara fieramente: “Da grande vorrei aiutare tutti i miei amici. Anche quando sono lontani”. Compaiono a questo punto dei bersaglieri in tuta mimetica, intenti a caricare grandi sacchi su un elicottero.
Segue un ragazzino bruno in camicia bianca, sullo sfondo di una parete azzurra con onde bianche, poggiato ad un tavolo sul quale spiccano berretto e divisa da capitano di fregata. Collegandosi alla frase precedente, egli esclama con orgoglio: “Come il mio papà, che sa sempre qual è la direzione giusta!”, mentre sono di nuovo inquadrati il berretto da ufficiale, strumenti di navigazione ed un cannocchiale. Segue una scena con onde e spruzzi d’acqua, un argenteo cacciatorpediniere ed una pista dove alcuni marinai in tuta bianca sembrano caricare su un elicottero una barella con un soggetto da soccorrere.
Il più ‘grottesco’ è il terzo mini-testimonial: un bambino biondo abbigliato con un buffo caschetto stile ‘barone rosso’, che dapprima fa decollare dal suo tavolo un modellino di ‘caccia’ tricolore con la mano sinistra, mentre subito dopo impugna con la destra un aeroplanino di carta, scandendo con voce sognante: “Vorrei volare alto… Sempre più in alto!”. Compaiono a questo punto tecnologici piloti, uno dei quali si prepara a decollare col suo cacciabombardiere supersonico. Si materializzano quindi le immancabili ‘frecce tricolori’, che sorvolano la capitale, lasciando sopra il Vittoriale la loro scia colorata.
La quarta sequenza presenta una bambina dai capelli castani, con un abitino nero, su uno sfondo azzurro scuro sul quale si profila lo skyline di una città. La piccola, che poggia la mano su un tavolo dove spiccano un berretto femminile da graduato dei carabinieri ed un lampeggiante blu, dichiara solennemente: “Sarò sempre pronta a difendere le persone in difficoltà”, mentre sullo schermo vediamo un’autovettura della Benemerita, con dentro due agenti di pattuglia, con la mascherina chirurgica sul volto.
L’ultima sequenza è una sintesi delle scene precedenti, con la prima brunetta che proclama: “Da grande vorrei essere come loro” ed il piccolo aspirante marinaio che aggiunge: “…che lottano contro ogni pericolo”. Il biondino col caschetto da aviatore prosegue: “…difendono i più deboli…” ed infine la fiera carabinierina esclama entusiasta: “…e fanno diventare l’Italia più sicura e più bella!”
Decodificare i messaggi
Per prima cosa, osserverei che non mi sembra che siamo di fronte ad uno spot qualitativamente eccezionale. L’insieme, oltre che ampiamente retorico, risulta infatti piuttosto banale. È però opportuno cogliere qualche aspetto meno evidente del video, leggendo metaforicamente tra le righe del testo e delle immagini.
La prima osservazione è che – pur nell’evidente scorrettezza dell’utilizzo di minori per propagandare le nostre forze armate – gli autori hanno cercato di salvare un po’ ipocritamente il principio della parità di genere, impiegando due bambine e due bambini.
La seconda annotazione riguarda la sceneggiatura, che alterna l’esaltazione della potenza di strumenti di guerra tecnologicamente avanzati (elicotteri, cacciatorpediniere, cacciabombardieri) col volto ingenuo, entusiasta e rassicurante di piccoli/e, che ovviamente sottolineano il lato buono delle forze armate, utilizzando verbi positivi come ‘aiutare’, ‘andare nella direzione giusta’, ‘lottare contro ogni pericolo’, ‘difendere i deboli’, ‘far diventare più sicura l’Italia’.
Anche la parte visiva asseconda questa vena buonista, mostrandoci militari che caricano sugli elicotteri non certo armamenti, ma solo sacchi di aiuti alimentari e feriti da soccorrere. Per i bombardieri l’operazione sarebbe stata più improbabile, per cui si è fatto ricorso alla retorica patriottarda delle frecce tricolori, mentre per i carabinieri l’accento è andato sulla loro missione di tutori dell’ordine (lampeggiante) e della sicurezza collettiva (mascherina).
La colonna sonora, pomposamente orchestrata ma ridondante nel suo ritmo incalzante, completa questo cortometraggio smaccatamente propagandistico, che si chiude con lo slogan a lettere cubitali: “L’esempio di oggi, per i grandi di domani”.
Di fronte a questa operazione mediatica sarebbe opportuno che ogni cittadino/a che non si lascia abbindolare dalla retorica nazional-militarista si chieda cosa può fare per contrastarla. Il primo passo è quello di prendere (e far prendere) coscienza di quanto sia subdola tale iniziativa ma, soprattutto, di quanto sia del tutto inappropriato – se non illegittimo – sfruttare l’immagine di minori per vendere all’opinione pubblica ciò che il Ministero della difesa chiama eufemisticamente “strumento militare”. Infatti, come ho posto in evidenza in un recente contributo [xv], quando il suo interlocutore è il governo o gli ‘alleati’ della NATO, se ne mettono in mostra lo spirito bellicoso, l’expertise tecnologica e la brillante leadership dei suoi quadri. In questo caso, ancora una volta, s’insiste invece sulla valenza ‘civile’ e ‘popolare’ dei nostri militari, sul volto buono e fraterno di adulti (madri e padri) che sono di esempio ai loro pargoletti, che a loro volta sembrano ansiosi d’imitarli.
Spieghiamo allora ai nostri bambini e ragazzi che si tratta anche in questo caso di una ‘pubblicità ingannevole’, che presenta le forze armate – strumento sì, ma di guerra – come una sintesi fra boy scouts, volontari della protezione civile ed operatori socio-sanitari ed assistenziali delle ONG. Spieghiamo ai nostri figli che i 26 miliardi spesi dal governo per la ‘difesa’ (71 milioni ogni giorno…) non servono per fare assistenza o prestare soccorso nelle emergenze, ma per equipaggiare ed armare 20.000 militari per il solo Esercito, di cui quasi 3.500 impegnati in cosiddette ‘missioni’ all’estero, che da sole costano 1,6 miliardi.
Facciamo loro capire che coi soldi per acquistare gli F35 si sarebbero potute attrezzare 150.000 terapie intensive; [xvi] che un solo sommergibile ci costa quasi un miliardo e mezzo di euro e che né i cacciabombardieri né i mezzi sottomarini possono essere considerati strumenti di pace e di sicurezza. Informiamoli che la nostra Repubblica “che ripudia la guerra” esporta armi per 2,5 miliardi di euro, anche a paesi devastati da guerre decennali e che, mentre tutti gli italiani erano bloccati dalla pandemia, le fabbriche di armi e i cantieri militari non si sono mai fermati.
Se questo è l’esempio che stiamo dando ai nostri ragazzi, beh non c’è sicuramente da andarne fieri!
[xii] “Si stima che 250.000 bambini siano coinvolti in conflitti in tutto il mondo. Sono usati come combattenti, messaggeri, spie, facchini, cuochi, e le ragazze, in particolare, sono costrette a prestare servizi sessuali, privandole dei loro diritti e dell’infanzia.” > https://www.unicef.it/doc/224/bambini-soldato.htm – Un documentato saggio sui ‘bambini soldato’ è: Cristina Gervasoni, Lo sfruttamento militare dell’infanzia. Il problema dei bambini soldato nella saggistica in lingua italiana, Univ. di Venezia (D.E.P. N. 9, 2008) > https://www.unive.it/media/allegato/dep/n9correzioni/Ricerche/Gervasoni-saggio-a.pdf
Quanto più passa il tempo tanto più avverto la sensazione non solo di un’evidente degenerazione del confronto politico, ma anche della perdita del senso stesso del concetto di ‘politica’. Non credo di essere affetto dalla pur frequente sindrome del vecchio brontolone, ma che si tratti di una semplice constatazione.
Pur volendo
tralasciare la classica distinzione anglosassone fra policy e politics (che sottolinea
la differenza fra l‘agire concreto – spesso spregiudicato – dei politici ed il
pensiero politico nell’accezione più alta, cioè come ideologia, visione globale
della società), mi sembra evidente che il XXI secolo ci ha messi di fronte ad
una concezione profondamente diversa dell’azione politica.
D’altronde, in più di quarant’anni d’impegno diretto – di movimento, istituzionale e di tipo associativo – ho sperimentato in prima persona che neanche l’agire per motivazioni ‘civili’ e al di fuori delle istituzioni è risultato del tutto indenne dai difetti e dalle problematiche registrabili nelle dinamiche politiche istituzionali, o comunque partitiche. Il guaio è che spesso anche la ‘militanza’ politica di base riproduce, in scala minore, i vizi attribuiti di solito ai ‘palazzi’ da cui chi la pratica ha voluto prendere le distanze.
Ma si tratta di un mero contagio, dovuto alla necessità di rapportarsi comunque ai ‘politici’ allo scopo di perseguire i rispettivi obiettivi associativi, oppure di un fenomeno più profondo e complesso, che investe il comportamento sociale ed gli stessi fondamenti morali dell’essere umano?
Io
propenderei per questa seconda possibilità, in quanto la ‘scala’ più o meno
ridotta in cui si agisce e lo stesso contesto dell’azione mi sembrano
importanti, ma non determinanti.
Basta guardarsi intorno per accorgersi di quanto, a tutti i livelli della convivenza civile, risulti sempre più difficile valutare una situazione, discernere i suoi elementi positivi e negativi e, conseguentemente, prendere poi una decisione nel merito.
Infatti, se solo riflettiamo sulle nostre quotidiane esperienze (familiari, di lavoro, da condomini o da semplici cittadini…) ci rendiamo conto di quanto il nostro agire sia condizionato da tanti elementi esterni alle questioni che dovremmo affrontare e risolvere.
Sono elementi che attengono alla sfera emotiva ed utilitaristica più che a quella razionale e che di tali questioni ci fanno vedere, sentire e capire ciò che ci piace o ci fa comodo, anziché i dati di fatto. Ma se i filosofi antichi auspicavano razionalisticamente una ‘adequatio rei ed intellectus’, pur volendosi accontentare di molto meno della perfetta corrispondenza tra realtà e pensiero, ho l’impressione che il mondo della politica sempre più ci stia mettendo di fronte ad una scissione radicale tra questi due termini.
Non
mi sembra il caso di allargare troppo l’ambito di questa mia riflessione, per
cui mi limito a constatare quanto l’agire politico sia viziato da alcuni,
diciamo così, difetti di percezione, nella
misura in cui i suoi più comuni difetti somigliano molto a quelli della vista.
Le
mie esperienze personali, infatti, mi hanno confermato nell’idea che il confronto
su dati che dovrebbero essere oggettivi è spesso compromesso da fenomeni legati
appunto alla percezione che ciascuno ne ha. Proverò quindi a proporre una
sintetica rassegna delle patologie relative al contesto che nel titolo ho
chiamato ‘oftalmologia politica’.
MIOPIA POLITICA
«Difetto della vista che consiste in una rifrazione dell’occhio, per cui gli oggetti distanti appaiono sfocati, mentre si vedono meglio le cose molto vicine».[i]
Da altra fonte apprendiamo che: «La miopia è un’ametropia o un’anomalia refrattiva, ossia una patologia oculistica a causa della quale i raggi luminosi provenienti da un oggetto posto all’infinito non si focalizzano correttamente sulla retina, ma davanti a essa. La conseguenza è che gli oggetti osservati tendono ad apparire sfocati e la visione migliora con la riduzione della distanza a cui si guarda».[ii]
Ebbene, anche in politica ho spesso la sensazione che giudizi, valutazioni e decisioni siano assunti da persone affette da tale patologia oculistica. Secondo la Treccani, la ‘miopia politica’ sarebbe caratterizzata, in senso figurato, dalla: «mancanza di perspicacia, cortezza di vedute, grettezza intellettuale…» [iii].
Effettivamente, una visione politica viziata dall’assenza di profondità si rivela riduttiva, limitata e parziale. Chi “non riesce a guardare oltre il proprio naso” è di fatto condannato ad assumere decisioni ancorate al qui e ora, senza una vera prospettiva. Chi è politicamente miope agisce di solito in modo personalistico se non meschino, senza tener conto delle esigenze collettive, del bene comune e, soprattutto, delle conseguenze nel tempo e nello spazio delle proprie decisioni.
Anche il comportamento dell’attuale classe politica si direbbe soggetto ad una visione dei problemi (si tratti del fenomeno migratorio, dei conflitti armati o delle risposte da dare alla disoccupazione) che denota la mancanza di una visione a medio-lungo termine. Il risultato è l’assunzione di provvedimenti emergenziali, di corto respiro, viziati dalle contingenze elettorali e che non tengono conto né delle esperienze passate né delle prospettive future.
Ma anche i comportamenti estranei alla politica istituzionale risentono spesso di questa spiacevole incapacità di guardare lontano. Qualunque problema una realtà associativa o di movimento si trovi ad affrontare, infatti, andrebbe inquadrato in un contesto più ampio e visto in una proiezione temporale maggiore. Eppure, proprio a causa della miopia politica, la ricerca del risultato a breve prevale sul perseguimento di risultati più stabili e sulla condivisione delle battaglie con altri soggetti. Il guicciardiniano ‘particulare’, insomma, fa perdere di vista la visione d’insieme e talora insterilisce le lotte, finalizzandole al mero perseguimento di un qualche risultato, di cui attribuirsi orgogliosamente la paternità.
IPERMETROPIA POLITICA
«In oculistica, anomalia dell’occhio, generalmente dovuta alla brevità dell’asse anteroposteriore del globo oculare, per cui le immagini si formano dietro la retina e pertanto sono sfocate. …». [iv].
In ambito politico anche questo difetto della visione risulta piuttosto frequente, sia pur molto meno che in passato. Una volta la caratteristica di guardare lontano, di mirare ad obiettivi remoti, si attribuiva ai sognatori, ai ‘profeti’ della politica, a quelli nei quali la prospettiva ideologica prevaleva sulla concretezza fattuale. Ma questo, per certi aspetti, era un pregio e non un limite.
Oggi, più banalmente, si ha piuttosto l’impressione che molti politici – a livello istituzionale ma anche di movimento – si rifiutino di guardare in faccia la realtà e i suoi problemi concreti, cui non sanno – o non possono – offrire risposte reali ed efficaci. Succede allora che ci si rifugi nelle visioni di lunga portata, nelle questioni strategiche e a livello globale o nella pur innegabile complessità delle questioni. Il risultato che ne segue è frequentemente la retorica parolaia, che serve solo a coprire la rinuncia ad agire nell’immediato, non assumendo decisioni concrete, con le relative responsabilità.
In altri termini, se gran parte delle azioni politiche cui assistiamo sono evidentemente condizionate dalla miopia di chi guarda il dito e non la luna, ci sono molte altre situazioni che lasciano pensare che chi fa politica si stia limitando a guardare la luna, ignorando il dito di chi segnala quel problema, che vive concretamente, qui e ora, sulle proprie spalle.
E’ la ben nota sindrome del ‘benaltrismo’, per la quale un intervento pratico, immediato e strettamente attinente la questione in oggetto viene sovente bollato come ‘di corto respiro’, in quanto i veri problemi sarebbero ben più ampi, strutturali e complessivi. Affermazione questa banalmente vera, ma che non implica affatto che le azioni dirette e dal basso siano inutili.
Per esempio, ai comitati di base, creati proprio per affrontare e dare soluzione a vicende o vertenze specifiche e concrete – in termini amministrativi, politici o anche giudiziari – spesso si imputa con aria di sufficienza il fatto di occuparsi di ‘quisquilie’ e di non affrontare i veri problemi di fondo che, ovviamente, sono sempre… ‘ben altri’.
ASTIGMATISMO POLITICO
«A causare l’astigmatismo può essere un’alterazione della curvatura della cornea che, anziché avere una forma normalmente sferica ha un profilo ellissoidale. In questo caso i raggi di luce provenienti dagli oggetti vengono proiettati in maniera disuguale nei vari punti della retina. L’occhio astigmatico vede male sia da lontano sia da vicino, gli oggetti possono apparire sfocati ma anche sdoppiati». [v]
Questa “aberrazione dei sistema ottico” [vi] – dovuta ad una visione deformata più che viziata dall’errata ‘messa a fuoco’ degli oggetti – mi sembra ugualmente applicabile all’ambito dell’azione politica. Nel caso dei politici astigmatici, dunque, la criticità non risiede nella difficoltà d’inquadrare i problemi immediati in un contesto più ampio e lungimirante, o viceversa nella tendenza a perdere di vista la concretezza delle questioni in nome di astratte visioni ideologiche e fumose prospettive future.
Il
difetto, in questo caso, è riscontrabile nella loro visione confusa e talora
‘sdoppiata’ delle questioni che sono chiamati ad affrontare. A Napoli, con
efficace sintesi, si usa dire di questo genere di persone che: “addò vedono e addò cecano”,
sottolineando con ironia che agiscono in modo diverso, se non opposto, a
seconda dei casi e degli interlocutori.
Di solito i diretti interessati attribuiscono tale comportamento a “sano realismo”, ma di rado riescono a dissipare la sgradevole sensazione che le loro contraddizioni siano piuttosto frutto di opportunismo, doppia morale o meschino calcolo personale.
Il
guaio è che ci stiamo sempre più assuefacendo a ciò che il profeta Orwell chiamava ‘Bispensiero’ (nell’originale: Doublethink) [vii], per il quale lo
‘sdoppiamento’ delle immagini concettuali può giungere a negare ogni nesso
logico tra i concetti, affermando al tempo stesso tutto ed il contrario di
tutto. “E’ il ‘populismo, bellezza!”
avrebbe affermato qualcuno.
«Questa è la forma della politica contemporanea: la coesistenza degli opposti, la capacità di affermare formalmente l’esistenza di un Bene che, tuttavia, coincide materialmente con il suo opposto: lo sfruttamento, l’oppressione fino alla contraddizione che consiste nella cancellazione della stessa idea di contraddizione […] L’equivalenza tra gli opposti è la formula magica del populismo. In questa ideologia non si tratta di scegliere se essere di destra o di sinistra, ma di affermare entrambe – contemporaneamente, in maniera coordinata, uno dopo l’altro, in una logica ricorsiva. L’obiettivo è coprire tutto l’arco della rappresentanza politica, fingere di rappresentare tutti alla luce del buon senso e del senso comune».[viii]
PRESBIOPIA POLITICA
«Il potere di accomodazione, massimo nell’infanzia […] si riduce progressivamente con l’età […] e si esaurisce del tutto tra i sessanta e sessantacinque anni. Questa progressiva perdita del potere di accomodazione è nota come presbiopia , essa è dunque dovuta al fatto che il cristallino non è più in grado di modificare la sua curvatura a causa del suo progressivo indurimento e ingrossamento».[ix]
Ammettiamolo: nelle nostre critiche alla maniera corrente di fare politica c’è talvolta una buona dose di presbiopia politica. Quelli che hanno vissuto esperienze ben diverse ed in periodi abbastanza lontani nel tempo, infatti, sono naturalmente portati a rimarcare solo gli elementi che considerano una ‘degenerazione’ della vera Politica.
Io stesso, considerandomi ormai tra questi, ammetto che faccio non poca fatica a seguire le acrobazie verbali e comportamentali degli attuali politicians. Ritengo che molte delle riserve espresse da noi ‘vecchietti’ sono effettivamente motivate e solidamente fondate nella realtà dei fatti. E’ pur vero, d’altronde, che anche in questo campo il ‘potere di accomodazione’ del nostro intelletto a situazioni e contesti, insospettabili fino ad un decennio fa, condiziona inevitabilmente il giudizio che ne diamo. La ‘sclerosi’ dell’agire politico, con la conseguente incapacità di comprendere fenomeni nuovi e stili diversi, va considerata un rischio oggettivo, cui occorre contrapporre rimedi adeguati, proprio come negli altri casi affrontati in precedenza.
STRABISMO POLITICO
«Questo difetto visivo è spesso causato da uno squilibrio dei muscoli responsabili dei movimenti del bulbo oculare. Il parallelismo degli assi dello sguardo risulta così disturbato, in maniera saltuaria o permanente. Lo strabismo può essere convergente, divergente o verticale e interessare un occhio o entrambi gli occhi». [x]
Come nel caso dell’astigmatismo, una visione strabica delle vicende politiche può condurre ad arbitrari giudizi, valutazioni contrastanti e stridenti contraddizioni.
Se in politica difetta la percezione binoculare, la stereopsi , i risultati sono quasi sempre negativi, per cui l’azione che ne deriva risulta fatalmente viziata falsata e reprensibile. D’altro canto, mi sembra che sia abbastanza diffusa anche una certa tendenza a giustificare la parzialità dei politici, o quanto meno a considerarla, in qualche modo, un’inevitabile componente di quella specie di gioco delle parti.
Del resto, un pensiero sdoppiato, nutrito dalle contraddizioni azzerate con un codice verbale che assomiglia molto alla Neolingua orwelliana, porta inevitabilmente a una visione strabica della realtà, che confonde le cause con gli effetti, oppure considera normale ciò che fino a poco tempo prima aveva vivacemente riprovato nel comportamento altrui.
Indubbiamente
i politici ‘di lotta e di governo’
non sono una novità; però, avrebbe commentato Totò, “qui si esagera, perbacco!” e si direbbe che quelli attuali sottovalutino che, per citare ancora il
Principe, “ogni limite ha una pazienza”…
Insomma, mutuando un efficace aforisma di Oscar Wilde, potremmo concludere che:
«L’amore (ma anche l’apprezzamento politico…) non è cieco ma presbite: prova ne sia che comincia a scorgere i difetti a mano a mano che s’allontana». [xi]
Sarebbe bene che chi fa politica tenesse nel debito conto questo saggio avvertimento…
Uno dei principali meriti della trasposizione televisiva della prima parte della saga narrativa di Elena Ferrante è aver fatto scoprire a noi italiani – oltre che ai telespettatori statunitensi – la potenza eccezionale della lingua napolitana. Una lingua geniale nel vero senso della parola, nelle accezioni riportate dal vocabolario Treccani: “Che è conforme al proprio genio, cioè all’indole […] che ha finezza e vivacità”. [i] In effetti sono stati i produttori americani che hanno voluto che sugli schermi, dietro i sottotitoli inglesi o italiani, la sonorità dei dialoghi fosse quella, d’un Napolitano verace, ben diverso dal miscuglio linguistico indistinto e bastardo che ancora risuona per le vie della nostra Città. Ritengo che sia stata una scelta opportuna, non dettata solo dal prevedibile intento di ‘colorire’ la narrazione in senso deteriormente folklorico, ma probabilmente anche dall’esigenza di superare una sorta di tabù comunicativo.
Ci voleva il salutare scossone d’una sceneggiatura televisiva largamente scritta in napolitano – che tradisce la scelta fatta da colei che quei romanzi aveva scritto, evocandolo ma non esibendolo – per metterci di fronte al vero tradimento, quello cioè che di quest’antica e geniale lingua ha fatto chi ha voluto o dovuto scartarla, come uno strumento vecchio inadeguato e volgare. Certo, il discorso è più complesso e richiederebbe un’analisi sociolinguistica più approfondita di quella che si limita ad assegnare colpe e responsabilità allo stesso popolo di Napoli o a chi ne ha scientemente voluto annientare l’identità culturale e linguistica con un violento processo di sapore coloniale. Il problema, in effetti, è fino a un certo punto ‘di chi è la colpa? , ma piuttosto come si possa – qui ed ora – partire dall’attuale situazione per recuperare i valori autentici del Napolitano, impedendone il progressivo decadimento e valorizzandone le eccezionali potenzialità.
L’idea di
affrontare questo particolare aspetto dei libri della Ferrante (e dello
sceneggiato da essi ricavato) mi è stata ispirata, oltre che da un ventennale
impegno di napolitanofilo e napolitanologo, dall’inaspettato contatto da parte
di una docente di letteratura in un istituto superiore di New York, che intende
farne oggetto di ricerca e mi ha chiesto la disponibilità ad un confronto. Sono
rimasto piacevolmente sorpreso dal fatto che in un prestigioso liceo della grande mela si rifletta sul rapporto tra
la nostra lingua ed il contesto sociale della Napoli post-bellica che la
Ferrante ha mirabilmente saputo evocare. Ad un simile interesse per tale
questione fa invece riscontro l’insensibilità e la sordità di gran parte del
mondo accademico e scolastico italiano per un problema che va ben oltre le
sorti di quelli che ci si ostina a chiamare ‘dialetti’. Molti media anglo-americani – oltre agli
studiosi – hanno approfondito la dimensione linguistica del fenomeno letterario
Ferrante, con una sensibilità che sembra difettare dalle nostre parti. Non si
tratta di cavalcare battaglie identitarie di retroguardia o di rinnegare l’importanza
di uno strumento linguistico unitario. La questione è in che modo e per quali
motivi si è giunti all’attuale situazione e che cosa si può realisticamente
fare per evitare che la forzata italianizzazione prima, e la massificazione
mediatica poi, cancellino il mondo d’idee, percezioni ed emozioni di cui il napolitano
è geniale espressione.
Il nocciolo
del problema suscitato dalla ricercatrice newyorkese è il rapporto tra lingua e
potere, pssia il ruolo dell’Italiano come elemento indispensabile ai ceti
marginali per integrarsi nella società e scalarne faticosamente i gradini, rinunciando
però alla loro espressione linguistica naturale, stigmatizzata come inadeguata
e volgare. Questo mi ha portato con la mente e col cuore alla lontana
esperienza del mio impegno – prima in servizio civile e poi come lavoro sociale
volontario e professionale – presso il Centro Comunitario Materdei della ‘Casa
dello Scugnizzo’. Mi sono ricordato soprattutto delle acute analisi sociologiche
ed antropologiche che già negli
anni Sessanta il suo fondatore, il mitico Mario Borrelli, aveva fatto del
contesto sottoproletario napolitano e del suo immaginario collettivo, che in quel
linguaggio unico al mondo trovava un eccezionale veicolo espressivo ma, al tempo
stesso, la cristallizzazione di secoli di subalternità culturale. [ii]
Lingua:
specchio e/o generatrice della realtà
Jean Noel Schifano, Dizionario appassionato di Napoli, Napoli, Il mondo di Suk, 2018
«Dobbiamo essere grati a Elena Ferrante – ha scritto Ciro Pellegrino – per una cosa che non ha fatto e a Saverio Costanzo, il regista della trasposizione televisiva de L’Amica Geniale per una cosa che non ha preso dal primo libro della tetralogia che racconta la vita di Elena Greco e Lila Cerullo. […] Anche per la serie tv Gomorra è avvenuto lo stesso, ma non si tratta dello stesso napoletano. La lingua partenopea dei dialoghi dell’Amica è ricercata, sintatticamente corretta, è figlia del periodo storico in cui è ambientato il racconto (gli anni Cinquanta) ed è straordinariamente ricca di vocaboli e riferimenti, senza bisogno di metafore ardite o del cupo valore impresso dai camorristi della serie ispirata al libro di Roberto Saviano…» [iii]
Il precedente esperimento di sceneggiatura in napolitano – quello del citato serial ‘Gomorra’ – ha diffuso infatti un’immagine stereotipata di questa lingua, privandola della sua duttilità espressiva ed incupendone i toni. La lingua dello sceneggiato tratto dai romanzi della Ferrante, pur restando aderente al contesto socioculturale misero e marginale della Napoli del dopoguerra, ne coglie comunque più sfumature e tonalità, mettendoci però di fronte ad un codice espressivo prevalentemente violento, talvolta spietato nella sua crudezza. Niente a che vedere col napolitano melodioso e dolce delle celebri canzoni o con quello arguto e piccante delle farse e delle ‘macchiette’. Dai dialoghi dello sceneggiato, che la Ferrante aveva filtrato con un Italiano che ne attenuava il ruvido realismo popolare, risulta chiaro come una lingua duttile e geniale come il napolitano – al tempo stesso rassicurante cordone ombelicale e vincolante catena – fosse vissuto dai membri di una comunità periferica come una gabbia espressiva, un condizionamento da cui cercare di fuggire. Il dosaggio di italiano col ‘dialetto’ nelle conversazioni delle due ragazze appare quindi l’indice del loro progressivo distacco da un ambiente senza futuro né speranza, dal quale devono sradicarsi, a costo di sacrificare una parte di se stesse.
«…Il regista Saverio Costanzo […] ha sviluppato la serie in napoletano ed è forse riuscito a far sprigionare, nella veemenza dei dialoghi quell’energia spaventosa e straripante che l’autrice, nei suoi libri, ha cercato di esorcizzare con l’italiano. […] Una lingua scarna, dura, spaventosa, resa ancor più terribile dagli occhi di una bambina, vissuta in un mondo difficile, dove non c’è spazio per la dolcezza, per l’attenzione verso l’infanzia; un mondo dove ai bambini non viene risparmiata la vista di un male che non possono comprendere, se non metabolizzandolo nella fantasia. L’emozione senza mediazione, l’energia primigenia e distruttrice di una lingua calda e viscerale, intensa e violenta. […] Un groviglio di significati, che un napoletano ha il privilegio di poter comprendere appieno, e che, anche per i più giovani, può rievocare il ricordo sopito delle epoche difficili, della vita cruda, vissuta dalla gente semplice di Napoli e del nostro Sud, tra i contraccolpi di eventi storici incomprensibili che non li hanno mai visti protagonisti, ma sempre vittime inermi, ad arrangiarsi da soli e, senza aiuti, ricostruire le proprie vite e la propria immaginazione». [iv]
Queste acute
osservazioni di Teresa Apicella, e l’analisi socio-antropologica che ne
traspare, ci riportano al quesito iniziale: una lingua è soltanto lo specchio
di una comunità oppure è capace di forgiarne le sensibilità, le capacità
espressive, le caratteristiche culturali e, perché no, i destini? E’ in fondo la vecchia questione del rapporto
tra contenuto e forma, significante e significato, tra la realtà e il codice che
la rappresenta. Una relazione che mi è sempre sembrata biunivoca, nel senso che
una certa visione del mondo e la fattualità degli eventi contribuiscono a generare
il mezzo espressivo più adeguato, ma è altrettanto vero che il medium utilizzato è pragmaticamente capace
di plasmare pensieri e azioni di un gruppo sociale, imprimendogli un particolare
carattere.
Nel romanzo
della Ferrante lo stretto rapporto tra linguaggio e specificità socioculturale
mi sembrava già fondamentale, ma la trasposizione cinematografica del testo ha
conferito maggiore evidenza a questa relazione. L’aspetto più evidente è la
caratterizzazione della lingua come segnale di promozione sociale, strumento
per acquisire importanza e gratificazione all’interno di una comunità chiusa ed
impermeabile alla evoluzione esterna. Il passaggio dal napolitano all’italiano,
conseguentemente, ha finito col costituire un termometro della mobilità sociale.
Il teatro, più ancora che la narrativa, ha spesso rimarcato questa brusca e
forzata trasformazione, in cui i sottoproletari cercano in ogni modo di omologarsi
ai ceti borghesi, che a loro volta si sforzavano di assomigliare a quelli
aristocratici, con accenti ora farseschi e caricaturali (alla Totò, per
intenderci), ora decisamente più drammatici (come nelle commedie di Eduardo De
Filippo). Ma su tali aspetti dell’Amica Geniale su cui direi che pochi in
Italia hanno approfondito mentre, paradossalmente, interessanti analisi ci giungono
dal mondo anglosassone ed americano, come quella di Amy Glynn.
«Bene, il linguaggio è tutto in questo libro, e intendo sia la straordinaria prosa di Ferrante sia il fatto che all’interno della storia, le lingue sono dispositivi di trama, designatori di caratteri e stenografia per argomenti molto importanti di classe, educazione e mobilità, senza i quali c’è relativamente poca storia […] Sia che i personaggi del libro parlino in ‘corretto’ italiano oppure in napoletano, c’è un indicatore di appartenenza, una dichiarazione politica, una storia implicita sulla posizione del personaggio in una gerarchia spesso brutale e violenta. […] (‘L’amica geniale’) è anche una storia di formazione sulla lingua in sé, sul linguaggio vernacolare e sulle ’lingue comuni’ e sul notevole potere di trasformazione delle parole imbrigliate, su come le nostre lingue ci definiscono come persone, come comunità, come tribù». [v]
Rifiuto del dialetto e resistenza del dialetto
Lenù in una na scena da ‘L’amica geniale’
Il difficile viaggio di Lenù verso una realtà diversa da quella ‘tribale’ in cui aveva vissuto la sua infanzia s’identifica allora con la sua volontà di uscire dagli schemi comunicativi del gruppo sociale da cui intendeva distaccarsi, lasciandosi alle spalle un doloroso destino di insuccessi e frustrazioni, quotidiane meschinerie e violenze. Tutta presa dal suo innamoramento per “la lingua dei fumetti e dei libri”[vi] – vissuta come veicolo di riscatto sociale – è lei stessa a confessare amaramente:
«Non ho nostalgia della nostra infanzia […] La vita era così e basta, crescevamo con l’obbligo di renderla difficile agli altri prima che gli altri la rendessero difficile a noi» [vii]
Un altro
bell’articolo che affronta l’importanza della lingua nel romanzo della Ferrante
e nella sceneggiatura televisiva da esso ricavata è stato scritto da Justin
Davidson – critico musicale e vincitore di un Pulitzer – che già dal titolo richiama la nostra attenzione sul
“significato nascosto dietro il dialetto de L’Amica
Geniale”. Dopo aver opportunamente premesso che «L’Italia è un’invenzione del XIX secolo unificata da una lingua ufficiale
che, fino al XX secolo, la maggior parte degli italiani non parlava»[viii], Davidson torna sul
rapporto tra romanzo e sceneggiato, sottolineando sia la valenza personale e
comunicativa del non utilizzo del ‘dialetto’ da parte della Ferrante, sia l’intento
neorealista del regista dello sceneggiato, che ha voluto renderci in modo brutalmente
diretto lo scarto socio-culturale fra la chiusa e cupa comunità del periferico
rione popolare e l’altra Napoli,
quella elegante e borghese del centro.
«La traiettoria di Elena è la storia di una donna che cambia il suo modo di parlare, e con essa il tranello della classe, della famiglia, della brutalità e della lealtà. […] Costanzo, però, va oltre qualcosa di molto più strutturato e profondo dell’autenticità o del colore locale: usa le gradazioni del dialetto per delineare la classe, rivelare la psicologia dei personaggi e portare avanti la trama. […] le uniche presenze di quartiere che parlano il vero italiano sono insegnanti e bibliotecari. Ma pure tra i proletari anche le forme più dure di dialetto si piegano alle circostanze. […] Il grado del dialetto denota ben più della classe sociale; allude anche alla lealtà del relatore. Un capo del crimine locale giura per la famiglia e parla il gergo locale. Un aspirante studioso parla italiano, ha pensieri sulla politica nazionale e non vede l’ora di sfuggire ad un tenace Sud provinciale. Dopo la seconda guerra mondiale, l’Italia ha dovuto riformarsi da sola, ricucendo culture disparate in una traballante idea di nazione. Il servizio militare obbligatorio è stato utile. Così hanno fatto la televisione e le scuole. Ma è stata l’economia fiorente che ha fatto di più per legare insieme le fortune di cittadini che altrimenti non avrebbero avuto nulla a che fare l’uno con l’altro. Stefano Carracci capisce che ci sono soldi da fare e clienti da corteggiare oltre i pochi isolati che chiama a casa, ed è pronto a parlare la loro lingua…» [ix]
L’alternativa
che si presentava alle due amiche era restare vincolate ad un destino di
miseria e degrado – economico ma anche culturale ed affettivo – oppure rompere
definitivamente con la propria comunità di appartenenza, con la sua violenza inevitabile
e quasi fatale e col suo gergo amaro, adoperato come un’arma per rendersi
reciprocamente la vita difficile. Paradossalmente, come acutamente nota il
critico statunitense, dello stesso dialetto, nella sua forma più aspra, si
serve il fratello di Lenù proprio per rivendicarne il diritto ad evadere da
quel contesto deprivato:
«Nel mondo di Ferrante, tale insieme di tensioni – tra il rione e la nazione, la famiglia e l’istruzione, la pistola e la mente – si manifestano nelle sottigliezze del discorso. Quando i genitori di Lila decidono di strappare la ragazza dalla scuola e metterla al lavoro, suo fratello maggiore Rino (già evasore scolastico) difende il suo diritto all’istruzione – in un dialetto virulento e inimitabile. L’ironia è intenzionale: egli usa il napolitano per cercare di spingerla fuori dall’orbita della famiglia che parla napolitano» [x]
E’ lo storico
paradosso della cultura subalterna dei ‘vinti’
che si sforza di uscire da tale subalternità rinnegando se stessa ed
omologandosi al modo di vivere ed esprimersi che considera ‘vincente’. Il
pesante prezzo da pagare è il doloroso abbandono di una parte di se stessi
(come nel caso di Elena), ma anche lo schizofrenico sovrapporsi in Raffaella di
un’impalcatura culturale costruita con la lingua ‘dei fumetti e dei libri’ alla sua istintiva vitalistica aggressività plebea. Con la differenza che, mentre la prima si sente un po’ inadeguata in entrambi i contesti, la
sua geniale amica sembra sempre a suo
agio, sicura di sé. Lenù vive costantemente, e con intima sofferenza, il suo
rapporto di dipendenza da Lila, ma si convince che questo dislivello non è
frutto d’una maligna ricerca della superiorità. L’amica sembra piuttosto seguire
tenacemente il proprio filo logico, inseguire il suo progetto, come quando
Elena le parla della sua fantastica avventura col padre nella Napoli ‘bene’, ma
sente la sua foga gelarsi di fronte alla apparente indifferenza di lei,
restandone ‘dispiaciuta’.
«Lei…mi ascoltò senza curiosità e lì per lì pensai che facesse così per cattiveria, per togliere forza al mio entusiasmo. Ma dovetti convincermi che non era così, aveva semplicemente un filo di pensiero suo che si nutriva di cose concrete, di un libro come di una fontanella […] Il mio racconto, per lei, era in quel momento solo un insieme di segnali inutili da spasi inutili. Se ne sarebbe occupata, di quegli spazi, solo se le fosse capitata l’opportunità di andarci». [xi]
Riscatto
sociale: fuga o impegno?
Un’altra scena da ‘L’amica Geniale’
Il conflitto tra ‘bellezza’ e ‘violenza’ segna profondamente il romanzo, contrapponendo un mondo ‘civile’ di sapere, gentilezza e relazioni paritarie all’ambiente tribale del rione periferico, caratterizzato da ignoranza, sopraffazione e disparità perfino tra soggetti marginali. La stessa lingua napolitana si direbbe il veicolo espressivo obbligato di quest’ultima realtà, eppure – come era già stato notato – all’interno del ‘dialetto’ della sceneggiatura affiorano significative varianti. Un idioma frutto di quasi tremila anni di stratificazioni culturali, del resto, non può essere confinato al linguaggio ‘basso’, capace di esprimere solo impulsi primari e ruvida aggressività. La ricchezza semantica del napolitano, la sua inimitabile arguzia e la sua dolcezza musicale non devono essere ridotti a lingua di quella plebe da cui la maestra Oliviero esortava Elena a fuggir via, perché ‘era una cosa molto brutta’. Del resto sono molti i passi del romanzo in cui l’autrice sottolinea che lo stesso ‘dialetto’ veniva parlato con modalità espressive diverse, che vanno da quelle più intime delle confidenze tra adolescenti a quelle aspre e volgari dei furiosi litigi. Il loro rione è sì un microcosmo, ma rispecchia personalità diverse e spesso contrapposte, a partire proprio dalle due amiche. Mentre Elena persegue il suo riscatto sociale disancorandosi sempre più dal proprio contesto, Raffaella, grazie alla sua intelligenza ed ostinazione, cerca invece di portare il ‘progresso’ dentro la comunità, senza rinnegare se stessa ed il proprio linguaggio, che invece impara a modulare secondo registri e tonalità differenti a seconda delle circostanze.
«Il suo spirito è mosso dalla ricerca del miglioramento: per sé, per il rione, per quelle persone che lei riconosce come suoi pari, per quanto meno brillanti o più sfortunate. Se Lenù è motivata da un forte spirito di rivalsa, che la porta a cercare altrove le sue radici e la sua essenza, Lila è ancorata fortemente al rione, da cui si distacca con difficoltà. È legata a quegli affetti che fanno parte della sua esistenza, nonostante la miseria e la crudeltà. Per questo Lila cerca soluzioni ai problemi, cerca di migliorare il suo rione. […] Don Achille e i Solara sono i rappresentanti di un sistema brutale, una civiltà di vergogna e violenza, che Lila si propone di abbattere con il suo esempio, arricchendo la sua famiglia, smuovendo l’economia con una produzione locale di artigianato di qualità. I suoi sono progetti ambiziosi, che devono purtroppo scontrarsi con l’avidità e la noncuranza di chi le sta a fianco». [xii]
Inutile dire
che la mia simpatia propende verso la caparbia determinazione di Raffaela
Cerullo. Sono stato per dieci anni operatore educativo e socio-culturale
nell’unico centro comunitario operante in un rione sottoproletario del centro
storico di Napoli e per altri vent’anni docente d’Italiano in una scuola media prima
dell’area periferica della città e poi di uno dei suoi contesti più ‘plebei’ come quello della
Vicaria. Ho conosciuto tante ragazzine come Lenù e Lila, così come ho vissuto
in prima persona sia l’ostilità sorda di famiglie che non riuscivano a scorgere
un destino diverso per i propri
figli, sia l’ambizione di chi pensava che la scuola fosse uno strumento per
riscattarsi dalla miseria più che dall’ignoranza. Per i bambine e le bambine
che ho incontrato in quei trent’anni d’insegnamento il percorso verso
l’evoluzione espressiva è stato spesso faticoso e talvolta frustrante. Io però
ho sempre cercato di non usare l’insegnamento dell’Italiano come un arnese per
spiantarne le radici culturali e linguistiche ed operare una trasformazione che
prevedesse il ripudio della loro identità ed autenticità espressiva.
Ispirandomi a don Milani, ho provato piuttosto ad aiutare i miei alunni a
padroneggiare la lingua per non esserne dominati. A conquistare l’uso della
parola come “chiave fatata che apre ogni
porta” , per capire ed essere capiti appieno e riuscire così ad esplorare
liberamente le meraviglie del sapere.
«Le parole racchiudono percorsi formativi, sono strumenti per interagire con la realtà. La padronanza delle parole libera l’allievo consentendogli di avere un rapporto immediato con la vita, dominare le parole, estremizzare i significati consente a ciascuno di diventare cittadino attivo e non subalterno. Ecco perché, a Barbiana, si puntava non sulla quantità del tesoro chiuso nella mente e nel cuore dei ragazzi, ma su ciò che si colloca sulla soglia, fra il dentro e il fuori, sulla parola». [xiii]
E’ così che dieci
anni fa ho iniziato pionieristicamente ad affiancare all’insegnamento
istituzionale della lingua italiana quello extracurricolare del Napolitano, come
strumento di consapevolezza della ricchezza e nobiltà di un’espressione
considerata povera e volgare, oltre che come rivendicazione della dignità di una
cultura millenaria quanto ‘geniale’. Ed è per questo stesso motivo che ho
apprezzato la sceneggiatura ‘vernacolare’ de ‘L’Amica geniale’, assaporando accenti ormai banditi dalla scuola
ma anche dai media che, dopo aver
omologato il modo di parlare e scrivere degli Italiani, ci stanno assuefacendo
ad un’anglicizzazione forzata, spesso immotivata e inopportuna, della
comunicazione formale e perfino informale. Viceversa non ho apprezzato che nella
prosa italiana della Ferrante il dialetto,
evocato ma esorcizzato al tempo stesso, riaffiorasse solo in occasione dello scambio
d’invettive feroci, come osserva Andrea Villarini, docente all’Università per
Stranieri di Siena. Dalla sua analisi emerge anche che nel romanzo si fa ricorso
all’italiano per ‘escludere’ qualcuno dalla conversazione e che l’italianizzazione di Elena, laureata alla
Normale di Pisa, le comporta una
dolorosa autoesclusione dal dialogo con la stessa madre.
«Solo in pochissime situazioni il dialetto irrompe in superficie tra le righe dell’opera. Avviene quando si tratta di trascrivere i momenti nei quali i protagonisti si lanciano insulti tra di loro […] La cosa interessante è vedere come anche in questi frangenti la Ferrante non trascriva l’intera frase in dialetto, ma esibisca solo le singole parole insultanti. […] L’alternanza degli usi linguistici tra italiano e dialetto non è caotica, ma è governata da regole sociolinguistiche ben precise. […] Una di queste regole è quella che potremmo definire dell’inclusione e dell’esclusione, ed è una tipica risorsa che noi parlanti utilizziamo per coinvolgere o escludere qualcuno da una conversazione […] Per la prima volta [sua madre] messa di fronte a una figlia che ce l’ha fatta (diciamo così), si rende conto che la lingua con la quale si è espressa da sempre non aiuta. È la scoperta di un’alterità linguistica che pone il dialetto in condizione succube. Troviamo qui una delle funzioni cardine che gli italofoni hanno compiuto tra le masse dialettofone. Far loro percepire che il dialetto, sino a quel momento lingua onnipotente, non è più buono per tutte le occasioni. Fino ad allora questa stessa funzione era stata svolta dalla burocrazia, la lingua dello Stato, laddove il cittadino si trovava nelle condizioni di non poter comprendere norme e leggi, ma qui siamo in presenza di un rapporto tra familiari e quindi di una spinta verso l’italiano che, essendo esercitata dal dover comunicare con un proprio caro, è molto più forte».[xiv]
Sviluppo
o semplice metamorfosi?
L’effetto collaterale di tale trasformazione – come quella di Lenù in Elena – è spesso lo straniamento di chi sente di aver perso la propria identità ma non ha ancora acquisito dimestichezza col suo nuovo sé. Per il radicale cambiamento del suo codice linguistico, infatti, ella ammette il disagio di chi sente la sua stessa voce quasi estranea e le parole pronunciate dissonanti dai propri pensieri. Elena insomma – come tantissimi giovani spiantati dal loro contesto socioculturale – avverte l’imbarazzo e la frustrazione di quello sradicamento.
«Arrivai al collegio piena di timidezze e di goffaggini. Mi resi subito conto che parlavo un italiano libresco che a volte sfiorava il ridicolo, specialmente quando, nel bel mezzo di un periodo fin troppo curato, mi mancava una parola e riempivo il vuoto italianizzando un vocabolo dialettale» [xv]
Si ripropone
qui il divario tra un cambiamento come sviluppo, che dovrebbe servire a
liberare potenzialità ed espressività di un individuo dai condizionamenti
ambientali, ed una metamorfosi che, pur nella sua radicalità, gli sovrapponga nuovi
condizionamenti e ne alimenti ulteriori frustrazioni. Ovviamente solo il primo cambia
davvero gli individui, consentendo loro di assumere coscienza della propria
situazione e di prendere il futuro nelle proprie mani. Andrebbe invece evitato
un cambiamento forzato dagli eventi, la brusca ‘metamorfosi’ di chi deve
acquisire una personalità ed un linguaggio imposti dall’esterno. L’unico modo
per salvarsi dalla condanna ad una nuova subalternità sarebbe far parte di quel
processo collettivo e liberatorio di ‘comunicazione
e coscientizzazione’, su cui si era soffermato Mario Borrelli nel suo già
citato saggio del 1975.
Non è certo un
caso che uno dei suoi ex scugnizzi –
brillantemente affermatosi nei decenni successivi sul piano culturale e
professionale – abbia recentemente voluto raccontare la sua personale metamorfosi in un libro scritto in terza
persona. La lettura della sua coraggiosa autobiografia si è intrecciata con le mie riflessioni sull’Amica geniale. Di quella storia
inventata, in effetti, Tore avevacondiviso con impressionante
somiglianza il lungo e faticoso processo di cambiamento, partendo dalla
precarietà esistenziale del sottoproletario napoletano degli anni ’50 per
giungere al travagliato ma soddisfacente raggiungimento dei propri obiettivi.
«I suoi primi cinquant’anni lo costrinsero a continue trasformazioni, nel tentativo di somigliare alle figure che, di volta in volta, divennero il suo riferimento. Fu, dunque, più persone mentre cresceva, portandosi dietro sempre ‘o figlio d’’o Mullunaro, facendo grandi sforzi per mantenere sopito il sottoproletario che aveva dentro. Il nuovo secolo lo costringerà a misurarsi con altri cambiamenti, con successi e fallimenti e quando, all’improvviso, cambierà tutto, avrà la sensazione di aver corso senza essere riuscito ad imparare a camminare…» [xvi]
La vicenda di
Salvatore – sospeso fra la voglia di fuggire di Lenù e l’ambizione ostinata di
chi, come Lila, vuole anche contribuire al cambiamento della sua comunità – mi
sembra un buon esempio di chi ha intravisto che il suo futuro avrebbe dovuto
essere ‘fuori’ del suo rione ed ha
seguito testardamente il suo sogno. Lo ha fatto senza rinnegare le proprie
radici, ma cercando nella scuola prima e poi nella politica gli strumenti per
costruire il proprio futuro non da solo ma insieme con gli altri. E non è poco.
[ii] Tra le sue tante opere rivestono particolare
importanza su questo versante: Mario Borrelli, Unearthing the Roots of the Sub-Culture of the South Italian
Sub-Proletariat, Londra, 1969 (paper) – in italiano: A caccia della sottocultura del sottoproletariato del Sud Italia; Idem,
“Scuola e sviluppo capitalistico in Italia”,
in Social Deprivation and Change in education, Atti del convegno
internazionale di York, Nuffield Teacher Enquiry, York University, 1972 ; Idem, Socio-Political
Analysis of the Sub-Proletarian Reality of Naples of Intervention for the
Workers of the Centre, Londra, 1973 (paper). In italiano: Analisi socio-politica della realtà di
Napoli e linee d’intervento per gli Operatori del Centro
Anche questa estate, per interrompere la solita villeggiatura estiva al mare, abbiamo deciso di fare un piccolo viaggio. Il criterio dell’alternanza Italia-estero ci ha fatto optare questa volta per una settimana in Romania. Perché proprio là? Beh, oltre ad essere uno stato per noi ancora inesplorato, non nego che l’antica Dacia eserciti tuttora un certo fascino sia per la sua storia sia per il suo territorio, ricco di affascinanti paesaggi e di interessanti testimonianze artistiche. Non posso negare neppure che uno dei motivi della curiosità che la Romania esercita su di me risiede anche nella sua lingua: un curioso impasto di latinità miracolosamente conservata nei secoli e di influssi molto eterogenei, che vanno dal tedesco al turco, dagli idiomi slavi al francese. [i] Chi, come me, ama la diversità ambientale e culturale è naturalmente attratto da questa terra così varia e dai suoi abitanti. Molti altri italiani, del resto, sono stati attirati dalla Romania, ma per motivi un po’ meno nobili, visto che spesso si tratta di puro opportunismo economico, al punto tale che su un territorio rumeno in particolare sono state delocalizzate talmente tante fabbriche italiane che qualcuno chiama quell’area l’ottava provincia del Veneto. Ma questa è un’altra storia.
Volevo invece soffermarmi proprio sulla lingua romena alla quale – come ogni volta che viaggio – ho cercato di avvicinarmi con interesse e rispetto, utilizzando – oltre ad un frasario-vocabolario – anche un manuale forse un po’ vecchiotto, ma abbastanza efficace, dal titolo beneaugurante ‘ Il romeno senza sforzo ’. [ii] Forse le lezioni seguite non mi sarà basteranno per conversare amenamente con gli abitanti di Bucarest e delle altre città che ho in mente di visitare, ma quel testo mi ha dato un’idea più chiara e precisa di come si articola questa lingua-cugina, rimasta curiosamente ancorata dopo molti secoli al latino dei suoi conquistatori. L’aspetto che mi ha colpito maggiormente, sfogliando manuale e frasario, è che alcune espressioni romene mi suonavano stranamente familiari dal punto di vista sia fonetico sia lessicale. E non solo in quanto italiano, ma soprattutto come amante – e da anni docente e promotore – della lingua napolitana, con la quale ho scoperto a poco a poco diverse curiose consonanze. Non mi pare proprio il caso di mettermi in questa sede a fare una disquisizione glottologica sugli elementi di somiglianza tra romeno e napolitano. Ho pensato allora che, per darne almeno un’idea, sarebbe stato più utile ed efficace ricorrere ad un immaginario dialogo tra due interlocutori, che ho chiamato Vicienzo e Tudor.
Molti di voi sicuramente ricordano certe barzellette di una volta, che incominciavano proprio come il titolo che ho dato a questo mio post vacanziero. Si tratta anche in questo caso di una breve storiella, ma lo scopo non è quello di fare ridere con battute un po’ stereotipate sui vizi di questo o quel popolo, ma piuttosto di un modo per mostrare concretamente che un napoletano ed un romeno sono comunque destinati a capirsi, e non solo per l’abitudine di gesticolare o per lo spirito salace che ne accomuna il modo di esprimersi. Va bene, direte voi, ma in questo dialogo che cosa c’entra l’italiano? Ecco, appunto, non c’entra per niente, visto che la lingua napolitana non è affatto un dialetto dell’italiano ma un idioma neolatino del tutto autonomo e, se permettete, con una storia ancora più lunga di quello che ci hanno abituato a considerare ‘nazionale’ e praticamente unico, sol perché da un secolo e mezzo il meridione della nostra penisola è diventata colonia di chi allora lo ha conquistato. Ma, anche in questo caso, bando alle disquisizioni di natura storico-politica per lasciar spazio alla conversazione tra il medico romeno Tudor Popescu e l’infermiere napolitano Vicienzo Russo, con l’avvertenza che la grafia usata per il romeno, come vedrete, comprende qualche lettera un po’ diversa, ma facilmente assimilabile. [iii]
Tudor: Scużati-mă …
Vicienzo: Dicìte: comme ve pozzo ajutà?
Tud.: Eu nu sînt Italian, sînt român.
Vic.: Vabbuò, nun fa niente. Tanto ce capimmo ‘o stesso.
Tud.: Scużati-mă, nu m-am prezentat. Eu mă cheamă Tudor Popescu.
Vic.: Piacere assaje! Io me chiammo Vicienzo Russo.
Tud.: Cred ca sintem vecini..
Vic.: Overamente! Però è ‘a primma vota ca ve veco accà.
Tud.: La ce ora vine autobuzul?
Vic.: Beh, vene quanno capita…Accà nun ce stanno orarie…
Tud.: Nu pot să cred!
Vic.: Eh, vuje nun ce putite credere però accussì vanno ‘e ccose a Napule.
Tud.: Ce faceţi?
Vic.: Io che faccio? Faccio ‘o ‘nfermiere ô spitale.
Tud.: Bine! Eu sint medic la spitala, la Bucureşti.
Vic.: Vide nu poco ‘a cumbinazzione! Aggio ‘ncuntrato justo a nu miedeco. E mo’ che ce facite accà?
Vic.: Vabbuò. Pe vvuje è ‘a meglia cosa. Arrivederci duttò. Stateve bbuono!
Tud.: Voi cum faceţi ? De ce nu veniţi cu mi?
Vic.: Grazzie assaje, duttò, si nun ve dispiace…
Tud.: Bine! Totul se aranjeaza!
Vic.: Beh, anche pe ogge avimmo arrangiato…
Qui la storiella finisce, ma spero che vi abbia dato sufficiente dimostrazione di come un napolitano potrebbe tranquillamente chiacchierare con un romeno. Sarà un caso se la bandiera della Repubblica Napolitana del 1799 è proprio uguale a quella romena?… Comunque, quando tornerò dal mio viaggetto in Romania, vi farò sapere se questa somiglianza ha funzionato anche per me e per la mia famiglia.
P.S.: Nel caso in cui vi sia capitato di comprendere le frasi in romeno meglio di quelle in napolitano, vi consiglierei caldamente di decidervi ad imparare a parlare e scrivere la nostra nobile ed antica lingua. Magari iscrivendovi al corso che terrò anche il prossimo anno all’Unitre di Napoli…Arrivederci a settembre. O meglio: ce verimmo! La revedere!
‘O Nnapulitano è na lengua o nu dialetto? Chi ‘o pparla e addò? E ancora, quanno s’avess’ ’a parlà Taliano e quanno ’o dialetto? L’Italia, comme stato, è na ’mmenzione bastantemente nova e quase miraculosa. Contr’a tutte ‘e prubbabbeletà puliteche, (’o statista Conte Mettenich dicette na vota ca ll’Italia nun era nient’ ’e cchiù ‘e nu termene geografeco), ’o Stato Taliano nascette ô 1871, doppo ca paricchie state nazziunale se mettettero ‘nzieme pe furmà chello ca mo’ chiammamo Italia.
Ce vulettero quase 100 anne pecché ’o Taliano accummenciasse a addeventà ’a lengua parlata dint’ ’e ccase e p’ ’a via, ’ncopp’ ’a tutto grazzie â ‘mmenzione d’ ’a televisione e â rezza nazziunale d’ ’a RAI. Ddio c’ajute tuttequante ’ntiempo ’e Internét – po’ essere can nun ce vo’ assaje tiempo ca parlarrammo tuttequante cu ll’ashtagghe e ll’emmoje.
Nun ce sta periculo ca ’stu fatto succede a Napule. ’O fatto è ca ê ffamiglie e ê putecare, pe Napule e ‘e pizze vicine, lle piace ’e cchiù ’e parlà Nnapulitano, ’a lengua antica d’’o Rregno d’’e Ddoje Secilie. Museciste e judece, chianchiere e barriste sciuliéano assaje spisso int’’o ddialetto lucale. Pe tutte ll’anne ca io songo stata a Napule, aggio cercato ’e tutt’ ’e mmanere, ma quase sempe a vvacante, comm’avevo ’a fa’ pe trasì int’a suggità secreta d’’a ggente che parlano ’o Nnapulitano.
E’ na lengua che nun se po’ ‘mparà. Pparlà bbuono talianamente pare quase nu ‘ntuppo pe chi vo’ parlà napulitanamente. ’Mmacenàteve nu paro ’e frobbece pigliate pe na currente cuntinua ’e vvucale, po’ tagliate e mise n’ata vota ’nzembra pe furmà na specie ’e verme sulitario lenguisteco. Ê Taliane d’’o Nnorde ’o Nnapulitano pare quaccosa che nun s’arriva a capì, però paricchie ’e lloro songo ‘ncantate d’’e ccuriose saglie-e-scinne ’e stu dialetto misteriuso.
‘A semmana passata, me songo assettata cu ’o professore Ermete Ferraro, nu canuscitore d’’o Nnapulitano, pe vedé ‘e sestimà ’e ccose. Tanto p’accummencià, io l’aggio spiato comme se po’ ’mparà ’o Nnapulitano e si ’o Nnapulitano po’ esse pure qualeficato comme lengua.
’O duttore Ferraro m’ha subbeto fatto sapé che stessa ’a quistione si ’o Nnapulitano è na lengua opuro nu dialetto sta soda sempe ô stesso pizzo. ’O Ffrangese, ’o Spagnuolo, ’o Ppurtuese (‘nzomma, tuttequante ’e llengue rumanze) songo sulo dialette reggiunale che fanno capo ô Llatino vulgare. ’O fatto è che ’a Storia ’a scriveno chille ca venceno: a ccà veneno ’e differenze che int’’a ‘stu munno fanno addiventà ’e llengue cchiù o mmeno ’mpurtante.
E cumunque ’o Nnapulitano – che tene certamente na grammateca unneca e na bella tradezzione letteraria – ha dda essere qualefecato comme lengua.
Mo’ comm’a mmo’, a Napule ’a differenza che passa ‘mmiezo a llengua e dialetto sta ‘nnanz’a ll’uocchie ‘e tuttequante. Nu sacco ’e ggente arbasciuse d’esse Suddiste – paricchie ‘mmiezo a lloro cu ’a nustalgìa d’’e tiempe d’’o Rregno d’’e Ddoje Secilie… – facettero trasì ’stu fatto int’ô trascurzo puliteco, cundicenno ca ’o Nnapulitano è na lengua e pe cchèsto ha dda essere rispettata. Se po’ certamente capì a chille c’ ’a penzano accussì.
Chiammatelo comme v’aggarba, ’o Nnapulitano è na lengua allera e friccicarella, bbona pe ll’ironia e ’a cummedia. Siconno ô dr. Ferraro, ’sta lengua sarria ll’arede d’ ’a tradezzione d’ ’a cummedia grieca antica. Nun se po’ propeto nun fa’ caso ê mmosse, â museca e ô pazzià che fanno parte d’ ’o Nnapulitano. Si sulo io c’ ’a facesse a me ‘mparà ’a pparlà ‘sta lengua commilfò…
Sbenturatamente – dice ’o dr. Ferraro – ’a ggente che scriveno bbuono ’o Nnapulitano spisso nun ’o pparlano bbuono e ’o stesso succede pure tutt’ô ccuntrario. Pe cchesto, ’a meglia cosa pe se ‘mparà ’o Nnapulitano è sulo campà ‘mmiez’â ggente che ’o pparlano e trasì cu a capa e cu ’o penziero int’ ’o scuro d’ ’o core d’ ’a lengua addò stammo ’e casa. L’abbenture c’aggio passate pe me ’mparà ’o Nnapulitano se pônno cuntà comme na specie ’e battìsemo d’ ’o ffuoco…
Appriesso veneno ’e cunziglie meje pe ffa’ a vveré ca faje o saje ’o Nnapulitano accussì bbuono p’esse nu periculo p’ ’e viche e p’ ’e vvie che vanno giranno pe ‘mmiezo Napule.
1) ’E vvucale smurzate: ’E pparole napulitane spisso smorzano ’e vvucale finale che stanno dint’ ’e soccie taliane. Chesto succede pure ’e cchiù cu ’e vierbe. Parlà Napulitano è comme si tenisse ’a dicere nu sacco ’e cose int’ ’a nu limmete ’e tiempo. ’E pparole veneno a cadé int’ ’a nu brusco ‘staccato’ p’ ’a pressa. Purzì ’a frase taliana pe traducere: “I need tu buy a house” tene na certa languetezza (“Devo comprare una casa”), però napulitamente ’a soccia frase addeventa: “Aggi’ ‘a accattà na casa”. Capita spisso, ’nfatte, ca ’a sillaba ‘-re’ ô ffinale d’ ’e vierbe int’ ’o Nnapulitano vene ammuzzata senza cumplimente. Accussì, quanno tenite nu dubbio, parlate ’o Ttaliano comme si jate ’e pressa e ve state mazzecanno chiù gomma ancora ’e chella ca tene ‘mmocca Sean Spicer a na Cunferenza Stampa d’ ’a Casa Janca. Na ‘mmaggena assaje puèteca, tanto pe ce capì.
2) ’O Schwa:’E vvucale ‘O’ e ‘E’ int’ ’o ffinale d’ ’e pparole napulitane sonano quase tale e quale. ‘Nfatte tutt’ ’e ddoje sonano come na ‘uh’ ‘ngresa opuro, comme ’o cchiammano ’e patute d’ ’a lenguisteca, teneno ’o suono ‘schva’. Abbasta sulo ca penzammo pe assempio a na canzona c’ ’a sape tutt’ ’o munno, comme ‘O sole mio. ’A vucale ‘e’ che sta â fine ’e sole e chella ‘o’ â fine ‘e mio napulitanamente teneno ’o soccio suono smurzato. Accussì se po’ quase subbeto appurà si chillo che canta ’sta canzona è o nun è nu Napulitano verace.
Pruvate a ssentere Il Volo o Luciano Pavarotti quanno cantano ’O sole mio. Isse, senz’ ’0 vvulé, prununciano sane ’e vvucale ‘o’ e ‘e’, che napulitanamente avesser’ ‘a sunà assaje smerzate. Tuttequante sanno ca Enrico Caruso, Napulitano verace, facette granne ’sta canzona. Pirciò, ausate ’o suono schwa e po’ essere pure ca ce ’a ffacite a ffa’ credere â ggente ca tenite ammeno na socra napulitana.
3) Cantate, cantate, cantate: pare na specie ’e stereotepo e pe ‘stu fatto ’e Nnapulitane se putessero pure piglià collera. Fatt’è ca nisciuno ’e nuje (e stess’io) po’ nnià ca ’e Napulitane cantano, e pure nu sacco! Se tratta ’e pecundria, priezza o ’e leticarìa, ce sta sempe na canzona c’ha dda essere murmuriata, tammurriata o alluccata. Chella che ppiace ’e cchiù è ’O surdato ’nnammurat0, che arriva a ll’abbrucato crescendo: “Oje vita, oje vita mia”. Io aggio ‘mparato ’a chella pazzarella d’ ’a socra mia ca tuttequante pônno cantà e hanno ‘a cantà cuntinuamente ’sta strufetta, pe ffa sentere a ll’ate ogne pussibbele quistione ‘e sentimente. Chi tene besuogno ’e l’emmoje quanno si’ na vecchia meza-sorda ’e 93 anne opuro, comm’a mme, na scema ’e Mmericana che nun ’a teneno fiducia manco d’ ’a fa’ vollere na caurara ’e maccarune? Nun sapite che dicere? Embé, respunnite cu ’na canzona bbona p’attaccà.
4) Pruverbie: ’Nce sta nu ditto napulitano pe tuttequante ll’accasione. ‘Mparateve quacche pruverbio e si tenite ‘a lengua ancora attaccata, abbasta ca dicite nu pruverbio cu bbastante presumenzia, ca smaniate comm’a nu puliteco spasteco e ca dimannate retoricamente: “E’ vero o no?”. ’O ditto napulitano che mme piace ’e cchiù è “Chi chiagne fotte a chi ride”. Si ’o traducimmo tale e quale int’a ll’ingrèse nun se capisce bbuono chello che vo’ dicere, cioè: ’e ccriature ca chiagneno songo geluse figlie ‘e ‘ntrocchia e vuje femmene nun l’avite propeto ’a penzà. ‘Mparateve nu bellu ditto, facite pratteca annant’ô specchio e po’ parlate cu nu carisema assuluto e a ssecurdune. Na lista d’’e pruverbie cchiù annummenate ’a putite truvà ccà: (http://napoli.fanpage.it/i-dieci-proverbi-napoletani-piu-belli/).
5) Tenite fiducia! ’E Napulitane parlano cu assaje cunvinzione ’e nu cuofano ’e argumiente, che vanno d’ ’o tiempo che ffa nzì ô fatto si int’ ’o rraù verace s’ha dda mettere o no ’a cepolla (No!), opuro si fosse caso o no ’e fa’ cremmà nu pariente d’ ’o vuosto ch’è muorto (pure chesta risposta sarrìa nu bellu NO!). ‘O famuso commeco Totò, int’ ’e filme che facette, nun parlava napulitanamente spisso comme se tende a penzà. Comme ’o dr. Ferraro me facette capì, chello che faceva essere Totò accussì napulitano era sperciarmente ’o carisema che isso teneva. A Napule simmo canusciute pe nu sacco ’e cose, però lloco ‘mmiezo l’indifferenzia nun ce sta. Forze è cchesta ’a raggiona pecché quanno io vaco spianno ê Napulitane quanno e pecché parlano ‘ndialetto ‘mmece d’ ’o Taliano, isse nun me sanno risponnere ’e na manera pricisa. Io me fiuro c’ ’a risposta è assaje semprice. ’O Nnapulitano è na lengua pe cummencere e nuje l’ausammo pe ffa’ capì ’e sentimiente ’e tutte ’e mmanere.
’O felosefo spagnuolo Miguel de Unamuno jeva dicenno: “Cada filologia es una filosofia”, che putimmo traducere: “Ogne filologia è na felosofia”. Cu ’stu penziero ‘ncapa, aggio spiato ô dr. Ferraro che penzava ca fosse ’o ’ssenziale d’ ’a felosofia d’ ’o Nnapulitano. “Chesta è na dumanna defficele ’a risponnere – m’ha ditto – Napule è na cetà ’e culunizzature e pputenzie furastiere. Paricchie hanno lassato ’a marca lloro ‘ncopp’a Napule. Io penzo però ca nun ce sta dubbio ca pure nuje âmmo lassato na bbona marca ’ncopp’a lloro.“ Me songo sfurzata ’e capì comme ’stu fatto putesse risponnere a chella che io me penzavo na dimanna assaje ’struita. Mo’ però credo che ll’aggio capito.
’A meglia felosofia pe pittà ’o Nnapulitano è stessa ’a vitalità soja.
E’ na lengua parlata e scritta ausata ‘mmiezo a tuttequante ’e classe e tuttequante ’e riune. Ò tiempo d’ ’a televisione e d’Internét – cu tutto ’o scamazzo e l’apparamiento lenguisteco ca se portano appriesso – ’a lengua napulitana nun tene nisciuna ‘ntenzione ’e se fa’ trascurà. Faciteve na passiata pe nu vico sperduto ’e Chiaja opuro pe na via ’e Scampia e sentite ’o Nnapulitano che saglie ’ncoppa,’mmiezz’a l’addore d’ ’a Ggenuvese che pepetea e ’o casino che fanno ’e mezze. E’ na cosa ca nun tene classe e nemmanco tiempo. ’O Nnapulitano sta ccà pe ‘nce rummané, e che ppiacere è cchistu ccà. Mo’ nun me resta ca fa’ quaccosa pe cummencere ’e vvicine ’e casa ca saccio comme se parla.
Kristina era na ‘mpiegata pubbreca che però mo’ passa ’o tiempo sujo muvennose ’ntra Napule e ’a custiera ’malfitana. Pe ttramente, essa cucina, cumbina ‘tour’ d’ ’o vino e d’ ’e ccose ’a magnà e, ogne tanto, se mette pure a strillà ’nNapulitano. Essa porta annanze na cumpagnia che s’occupa ’e viagge e d’ ’o magnà – chiammata “Sauced & Found”, che â ggente che veneno a visità ’o Sudd ’e ll’Italia lle dà accasione ’e vevere ’o vino c’ ’a scusa che hann’ ’a canoscere ll’uve ’e na vota (pur’essa ausa pe sé a soccia scusa). Quanno nun se sta occupanno ’e ‘tour’ nummenate primma, se strafoca na Pizza Margarita.
Scommetto che questo titolo vi ha lasciati un po’ perplessi. Eppure, vi assicuro, non sto evocando uno strano connubio calcistico (anche se per un paio d’anni l’atalantino Manolo Gabbiadini ha effettivamente giocato con la SSC Napoli…), ma solo un riferimento mitologico. Racconta infatti la leggenda – ripresa da poeti come Teocrito ed Ovidio – che la piccola Atalanta era stata abbandonata dal padre su un monte. Allattata da un’orsa, non solo sopravvisse ma diventò una provetta cacciatrice, facendo fuori due centauri un po’ sporcaccioni e partecipando alla cattura del cinghiale Calidonio. Il padre alla fine la riconobbe, ma le impose di sposarsi e di smetterla di fare il maschiaccio. Atalanta, che era un tipetto tosto, sfidò allora i suoi pretendenti ad una gara di corsa, precisando che avrebbe sì sposato l’eventuale vincitore, però avrebbe anche fatto fuori i perdenti. Eppure trovò un giovanotto più furbo di lei (Melanione per alcuni, Ippomene per altri) che, protetto da Afrodite, le fece perdere la gara distraendola col trucco delle tre mele d’oro del giardino delle Esperidi, lasciate cadere opportunamente lungo il percorso. Atalanta, conquistata dal giovanotto, scoprì così che non si vive di sola caccia e che anche l’amore ha una sua attrattiva, tanto che non esitò ad appartarsi con l’ex rivale nel tempio di Cibele. Secondo una versione della storia, Afrodite, sdegnata per l’ingratitudine del ragazzo e per la profanazione del luogo sacro, avrebbe trasformato entrambi in leoni, impedendo loro di accoppiarsi, in base ad una credenza di quei tempi. Secondo un’altra versione, essi invece si sarebbero sposati e sarebbero vissuti felici e contenti. Non solo, ma Atalanta avrebbe dato alla luce un bel bambino che – in ricordo della prolungata verginità della madre – fu chiamato…Partenopeo. Questi sarebbe poi diventato il più giovane partecipante alla famosa spedizione dei Sette contro Tebe, difeso dalle frecce infallibili donategli da Artemide, ma osteggiato dalla solita Afrodite, protettrice dei Tebani.
Statua della sirena Partenope – Napoli
Questo paraustiello mi è servito ad introdurre un’esperienza molto particolare, che ho vissuto in questi giorni e mi piace condividere. Forse qualcuno dei miei 25 lettori ricorda un articolo (Napolitudine: due segnali positivi), che avevo postato sul mio blog a febbraio dello scorso anno. Nel secondo esempio che portavo di ‘segnali positivi’ per una ripresa d’un sano ‘orgoglio partenopeo’, infatti, c’era quello di una signora napoletana residente a Bergamo che si mi aveva contattato, augurandosi di tornare nella propria città ma, soprattutto, di riportarvici i figli, il più grande dei quali – affetto da napolitudine – avrebbe avuto piacere di frequentare la scuola statale del Vomero dove insegno lettere e svolgo anche un corso di lingua e cultura napoletana. Ebbene, lo scorso settembre questo loro ‘sogno’ si è finalmente avverato ed ora il ragazzo (che simbolicamente chiamerò Partenopeo…) è uno degli alunni della seconda media a indirizzo musicale di cui sono il docente coordinatore. Ovviamente gli ci è voluto un po’ per ambientarsi in un contesto piuttosto diverso (aveva frequentato fin da piccolo un esclusivo collegio bergamasco…), ma è contentissimo di questo ‘ritorno’ ed ha ben socializzato con i suoi nuovi compagni/e. Il bello è che Partenopeo ha comunque mantenuto un buon rapporto con la sua vecchia classe (che chiamerò Atalanta…), tanto che sua madre mi ha informato che l’intera ‘squadra’ bergamasca sarebbe presto venuta in trasferta a Napoli in visita d’istruzione, per ammirare le bellezze della nostra città ma anche per incontrarlo e fare festa con lui. Beh, sarò un sentimentale, ma la cosa mi ha colpito e commosso. Soprattutto vi ho colto l’aspetto simbolico d’un momento d’incontro e, perché no, di riconciliazione tra due realtà molto diverse da tanti punti di vista, ma affratellate da altri aspetti, a partire dalla comune età e condizione di studenti.
Ermete con M. de Giovanni
Il momento magico dell’incontro-gemellaggio fra le due classi si è concretizzato pochi giorni fa, suscitando nella famiglia di Partenopeo un contagioso entusiasmo e al tempo stesso un po’ di ansia, pur di assicurare agli ospiti bergamaschi una permanenza piacevole ed un memorabile ma anche divertente momento di scambio. Illustre testimonial di questo simpatico e simbolico ricongiungimento tra Atalanta a Partenopeo (insieme con i suoi nuovi compagni) è stato nientemeno che il famoso scrittore Maurizio de Giovanni, napoletano verace ma conosciuto ovunque per i suoi affascinanti romanzi polizieschi, recentemente riproposti anche dal serial ‘Bastardi di Pizzofalcone’. Grazie alla mediazione di un libraio vomerese, infatti, de Giovanni ha cortesemente accettato di venire ad incontrare le due classi, intrattenendosi per quasi due ore con loro, coi rispettivi docenti (napoletani e bergamaschi) e con gli altri partecipanti, sul valore fondamentale della lettura per suscitare quella immaginazione che la società dei consumi sta sempre più mortificando e disincentivando. Il libro, da sempre veicolo di scoperta autonoma e personale della realtà, ha spiegato ad un pubblico attentissimo ed affascinato dalle sue parole, può e deve essere per i ragazzi il vero antidoto alla pigrizia mentale ed all’atrofizzazione del ‘muscolo’ immaginativo, indotta dall’eccesso di messaggi standardizzati, che fanno leva esclusivamente sulle immagini dei film e dei videogiochi, lasciando ben poco alla fantasia ed agli altri sensi. E’ stato un momento davvero magico, che ha catturato l’attenzione dei presenti ed ha suscitato un interessante e vivace scambio successivo tra il pubblico e lo scrittore che, fra l’altro, si era soffermato anche sugli aspetti meno noti di Napoli.
Il giorno successivo – stanchi per una intensa giornata di visita al centro antico ed a Pompei – i ragazzi/e dell’Atalanta hanno nuovamente incontrato i nostri Partenopei, ma in modo più informale ed intorno ai tavoli di uno dei tanti locali dove ognuno sceglie il suo panino e si diverte a scambiare quattro chiacchiere con gli amici, compatibilmente col livello dei decibel che si raggiunge di solito in queste circostanze conviviali. E’ stato un altro momento di grande cordialità, che ha consentito anche a noi altri insegnanti di conoscerci un po’ e di confrontarci sui comuni problemi come genitori e come docenti. Ma di cose un comune fra Bergamo e Napoli – come avevo accennato il giorno prima nel mio intervento, prima di dare la parola a Maurizio de Giovanni – ce ne sono parecchie, anche se non si direbbe. Alla faccia degli stereotipi e degli atteggiamenti sprezzanti ed ostili di chi ama seminare zizzania, pur trattandosi di due realtà geograficamente ed urbanisticamente assai differenti, non sono poche le similitudini. Certo, Bérghem ha circa un decimo degli abitanti della seconda, vanta radici gallico-traspadane e non certo
De Giovanni all’incontro in libreria tra le classi di Bergamo e Napoli
greche ed è attraversata da corsi d’acqua piuttosto che affacciarsi sul mare ma, a ben guardare, si possono riscontrare anche alcuni parallelismi. Ad esempio, entrambi le città sono divise in una parte alta ed in una bassa; si fregiano di uno stemma civico con gli stessi colori (oro e rosso); ospitano musei ed un orto botanico e, particolare simpatico, le due zone urbane sono collegate da funicolari. E poi, basta fare una piccola ricerca per accorgersi che personaggi nati a Bergamo sono di casa a Napoli, dove sono state loro intitolate alcune strade. E’ il caso di grandi artisti che abbiamo in comune, come il pittore Michelangelo Merisi detto il Caravaggio (1571-1610), l’architetto Cosimo Fanzago (1591-16178) ed il musicista Gaetano Donizetti (1797-1848).
Ciò significa che i nostri ragazzi, dopo questo incontro, quando si troveranno davanti a famosissime tele del Museo di Capodimonte come la Flagellazione di Cristo del Caravaggio, o alla marmorea Guglia di S. Gennaro alle spalle del Duomo di Napoli, oppure assisteranno nel San Carlo ad opere come la Lucia di Lammermoor e l’Elisir d’amore , ricorderanno che gli autori di questi capolavori non appartengono né a Napoli né a Bergamo, ma all’umanità intera. Ciò non significa che non debbano andare fieri della propria città e non abbiano il diritto di rivendicare il rispetto della loro identità culturale. Al contrario, un po’ controcorrente, io continuo a pensare che amare e rispettare le proprie radici non abbia niente a che fare con atteggiamenti discriminatori ed ostili nei confronti degli ‘altri’. A proposito di identità e di radici, ho scoperto con piacere che anche a Bergamo si coltiva questo sano interesse per le lingue e le tradizioni locali. Nessuno più di me, che da un decennio cerco di salvaguardare la lingua napolitana insegnandola anche ai ragazzi delle scuole medie, può apprezzare il fatto che sia stata promossa una ‘Scuola di dialetto bergamasco’ e che ci sia chi si preoccupa di conservare detti e proverbi di quella tradizione popolare. Al termine dell’incontro conviviale tra le due classi, ho perfino suggerito ad uno dei miei alunni di recitare un tipico modo di dire bergamasco, come simbolica offerta di amicizia verso i giovani ospiti. Il guaio è che la frase che avevo scelta (“A ülis bé se spent negot” cioè: “A volersi bene non si spende nulla”) è caduta nel vuoto, poiché anche i ragazzi cui era stata rivolta – non praticando più il dialetto – non avevano la minima idea di cosa significasse…
In ogni caso, sono soddisfatto che questa visita-gemellaggio abbia, nel suo piccolo, contribuito a creare ponti di amicizia ed a demolire muri di diffidenza reciproca. E tutto questo grazie al loro – ed ora nostro – Partenopeo, intorno al quale si è ricucito un rapporto e si è dato un bel segno di amicizia. Di questi tempi, scusate se è poco…
Ho sempre provato un’irresistibile attrazione per il linguaggio di Totò. A prescindere dall’evidente caratterizzazione umoristica del suo incredibile ed originalissimo idioma, ciò che mi ha sempre colpito era la sua capacità di trasformare funambolicamente la realtà, capovolgendola ed esaltandone gli aspetti più paradossali. Certo, sarebbe più semplice farsi quattro risate con le sue battute – le uniche che potrei ascoltare per innumerevoli volte senza che il loro effetto comico si esaurisca – ma mi sembrerebbe troppo poco e gli renderebbe un merito assai limitato.
C’è stato un tempo in cui avevo pensato di dedicarmi ad un approfondimento della lingua di Totò, ma poi ho rinviato a lungo la realizzazione di questo progetto, fino ad accorgermi che un ottimo linguista, Fabio Rossi, aveva già prodotto uno studio sistematico sull’argomento. Il libro s’intitola “La lingua in gioco – Da Totò a lezione di retorica”, è stato pubblicato nel 2002 dall’editore Bulzoni ed è aperto da un’illustre prefazione, firmata da Tullio De Mauro. E da tale Maestro – recentemente scomparso – a Rossi viene il riconoscimento della serietà ed accuratezza di questo studio sul linguaggio rivoluzionario ed anti-stereotipico di Totò.
“L’intero materiale verbale di Totò è stato da Rossi esplorato in ogni piega. Gli strumenti d’analisi e i reattivi della linguistica, dalla vecchia e solida dialettologia, alla linguistica up-to date…. pragmalinguistica, neoretorica, semantica,lextlinguistik, rules changing creativity, palinsesti celati nel significante e fatti esplodere, tutti sono stati adoperati sistematicamente, di capitolo in capitolo, per scomporre e ricostruire criticamente il significato d’insieme del lavoro linguistico svolto da Totò….” [i]
Di fronte a questa esauriente e documentatissima ricerca, sarebbe ‘interurbano’ da parte mia tentare di scrivere qualcosa di nuovo o di originale. Semmai, potrei provare a riprendere alcune osservazioni di Fabio Rossi per riflettere sulla necessità di riscoprire, ancora oggi, l’incredibile serbatoio di giochi di parole e di artifici retorici che hanno rivoluzionato il concetto stesso di comicità. Una comicità per troppo tempo giudicata ‘leggera’, mentre era tutto meno che superficiale, in quanto metteva impietosamente a nudo l’ipocrisia ed il ridicolo di certe situazioni e di certi modi di esprimersi. Una delle sue possibili chiavi interpretative, infatti, potrebbe essere l’irresistibile monito di Totò: “Parli come badi!”, classico esempio di sconfitta clamorosa delle frasi fatte, ricorrendo ad un nonsense che ne capovolge la logica prevedibile e stereotipata.
“ I linguaggi burocratico, politico e commerciale, in particolare, sembrano fatti essenzialmente di usi irriflessi. Il linguaggio comico, e nella fattispecie quello di Totò, molto spesso infrange tale automatismo, ora invertendo l’ordine delle espressioni cristallizzate (desto o son sogno), ora deformandone i termini (volare è potare), ora sostituendo una delle parole che compongono la collocazione (sedia a gas). Ancora una volta, dunque, ridendo e divertendo, Totò ci induce (malgré lui) a riflettere sullo statuto stesso della comunicazione e a porci, nei limiti del possibile, al di fuori della lingua che parliamo, per osservarla meglio e per capirne gli usi irriflessi e le condizioni del suo funzionamento e della sua comprensibilità. “ [ii]
Si sa che l’umorismo si fonda anche e soprattutto su meccanismi capaci di sorprenderci, di demistificare le convenzioni e di smascherare quello che Pirandello chiamava l’‘autoinganno’ della vita, ma bisogna riconoscere a Totò una capacità eccezionale di farlo non solo a livello di capovolgimento delle situazioni e di mimica grottesca, ma principalmente a livello linguistico, sia sul piano semantico sia su quello morfo-sintattico.
Badare a come parlava Totò, quindi, mi sembra quindi il modo migliore per comprenderne lo spirito profondamente innovativo, che i critici hanno scoperto solo molto tardi e che ha portato ad una ‘riabilitazione’ dei suoi film. Sarebbe impossibile concentrare in poche pagine le caratteristiche accuratamente analizzate e catalogate nello studio di Rossi, per cui mi limiterò a metterne in evidenza solo alcune, a partire da una mia particolare sensibilità a determinati aspetti dell’universo totoiano.
2 . Modestamende, qualche lingua la parlo…
Il primo elemento di questa carrellata sulle straordinarie facoltà espressive di Antonio de Curtis è, naturalmente, il suo giocare sulle caratterizzazioni linguistica, e quindi sulla percezione deformata che di un certo idioma ha chi non lo conosce. E’ proprio grazie allo stravolgimento dello strumento linguistico ‘medio’ che egli otteneva effetti unici, da quello irriflesso del riso fino ad una più consapevole comprensione di ciò che rende ridicoli determinati modi di esprimersi. Uno di questi moventi comici è, non a caso, un dato caratteristico della nostra cultura contemporanea, cioè la crescente tendenza a far ricorso, a proposito e a sproposito, a quelli che una volta si chiamavano ‘forestierismi’, usati spesso solo per apparire ciò che non si è. [iii]
Ai tempi di Totò andavano molto di moda i francesismi, elementi posticci che avrebbero dovuto sembrare eleganti e che egli sconvolgeva e dissacrava, facendone spassose caricature, come nel caso di: “veramòn” (vraiment); “sciarcutièr“ (charcutier); “mo esce Antonio” (Moet-Chandon); “pedicuoio” (pedicure); “che jolì famme” (quelle jolie femme) ; “adiè mon petì sciù” (adieu mon peti choux); “le scioffèr son le scioffèr “(les affaires sont les affaires): “colpo di fodero” (coup de foudre) e così via.
Allo stesso procedimento erano sottoposti da Totò anche gli allora già molto diffusi anglicismi – frutto del dopoguerra e della presenza americana – con lo stesso effetto comico ed al tempo stesso straniante. Pensiamo ad espressioni come: “La colazione degli inglesi si scrive britofist ma si pronuncia bracfesso”; “Mister, prec, quo vadis?”; “nàighete clebbe” (night club); “scecchi” (cheques); “cambingo” (camping); “striptiamoci” (nel senso: di spogliamoci); “boi scùter” (boy scout); “fischi” (whisky); “ciriola” (cheer you).
In una società che si sforzava di apparire moderna e cosmopolita (oggi diremmo ‘globalizzata’) il coltello sarcastico del Principe metteva a nudo il ridicolo di una competenza linguistica raccogliticcia e superficiale, che spesso diventava fonte di equivoci e doppi sensi. Ciò vale per le lingue straniere (come i pasticci linguistici ispirati dal tedesco e dallo spagnolo), ma anche per quelle ‘dotte’, che dovrebbero attestare la cultura ‘alta’ del parlante mentre, viceversa, ne rivelano l’ignoranza. Nel primo caso siamo di fronte a divertenti battute, di cui cito qualche esemplare: “Bitter” (bitte) ; “tankscen” (dankeschoen) ; “aoffidersen” (auf wiederseeen); “Telefunken” (nel senso di ‘telefono’); “Sogno spagnolas, per la maiellas!”; “Corazòn: in spagnolo significa che ore sono”; “In spagnolo si dice ‘te quiero’, come bicchiero e carabiniero”; “Un uomo grasso, in spagnolo: ‘un ombre chiatto’ “, e via dicendo.
Nel secondo caso vengono a galla, invece, le pretese di chi ostenta un traballante latinorum per sembrare più autorevole. Si tratta di una vera e propria girandola di citazioni maccheroniche e deformazioni popolari, ormai celebri espressioni come: “Audax fortuna juventus”; “ezia e andìo”; “Castigat ridendo mores: ridendo castigo i mori”; “Gattibus frettolosibus fecit gattini guerces”; “De gustibus non ad libitum sputazzellam”; “Non esageramus!”; “Vigliacchibus, , mascalzonibus, farabuttibus!”; “Morsa tua vita mea” ; “abbondandis adbondandum” oppure “Lupus in fabula? C’è un lupo nella fabbrica…”.
“Come si vede già dai pochi esempi citati, l’uso delle lingue straniere risponde ad almeno tre importanti requisiti: innesca il meccanismo comico (sia per la semplice deformazione fonetica, sia perché talvolta nascono curiose omonimie […]; ritrae l’incertezza e l’emarginazione del parlante di scarsa cultura, che tenta, come meglio può, di capire e di farsi capire; deride l’abuso dei forestierismi in coloro che vogliono darsi un tono…” [iv]
Alcune di queste espressioni di Totò ci fanno tuttora sorridere, pur avendo perso un po’ della loro forza a causa del progressivo abbandono del latino come ingrediente della conversazione tra intellettuali. La presa in giro dei forestierismi, invece, resta molto attuale in un’età in cui il linguaggio quotidiano è sempre più infarcito di termini stranieri, in particolare inglesi, molto frequentemente più orecchiati che davvero conosciuti e compresi.
Un discorso a parte va fatto per il Napoletano e per i vari dialetti italiani, verso i quali il Principe ha sempre mostrato un atteggiamento piuttosto ambivalente, facendo il verso a questi ultimi – spesso ridicolizzati – ed utilizzando un miscuglio linguistico…parte nopeo e parte italiano. Il Napoletano, come osserva Rossi, non assume mai il carattere di una contrapposizione all’italiano ufficiale, semmai è l’antidoto popolare ad una lingua pomposa e pretenziosa, bersaglio della satira di Antonio de Curtis. Talvolta egli appare addirittura dialettofobo[v] , soprattutto quando sfotte i siciliani, i pugliesi oppure i ‘polentoni’ nordisti. In realtà le cadenze dialettali gli servono solo per far ridere, sottolineandone le ‘stranezze’ fonetiche e caratterizzando buffamente i personaggi.[vi]
3 . Parlate, parlate, òrsu..!
La carica comica del linguaggio totoiano, come giustamente è stato osservato, risiedeva in modo particolare nella sua inarrestabile ed inesauribile capacità di giocare con le parole, sezionandole, stravolgendole e facendo loro dire cose molto diverse da quelle prevedibili. Nelle sue battute, la logica combinatoria tipica del linguaggio verbale diventava un meccanismo scombinatorio, che non si limitava a dissacrare l’ovvietà, l’ipocrisia e la convenzionalità che troppo spesso le parole trasmettono, ma generava un codice linguistico del tutto originale. Ci troviamo dentro echi del dadaismo e della rivolta futurista, ma soprattutto la vena irridente irriverente e sfottente che era caratteristica di un napoletano verace come lui.
“Totò è un dadaista della comunicazione, un giocoliere del linguaggio. Uno che le parole le sgretola, le tritura, le reimpasta. Le deforma espressionisticamente. Le reinventa. Sorprendente e impertinente: da vero buffone che smaschera il re, e lo mette a nudo….” [vii]
Da eccezionale ‘comico di parola’, egli tendeva a scavalcare il copione assegnato e ad improvvisare nel modo più istintivo ed anarchico, dando così un chiaro segno che non si trattava della recitazione di una parte, ma piuttosto di un’interazione verbale personale e spontanea, che gli nasceva da dentro irrefrenabile. Come osserva Roberto Escobar:
“Totò è esplosione iperbolica di desiderio, rivincita di quel che sta sotto su quel che sta sopra, trionfo della fame e del corpo e dell’amore su qualsiasi pretesa di ordine e stabilità. Gerarchie, onori, senso comune: mentre i suoi antagonisti sprofondano nel panico, Totò tutto travolge in un fiume di parole e di gesti impazziti, mascherando la ragione da follia e la follia da ragione” [viii].
Ebbene, nell’analisi condotta con scrupolo filologico da Fabio Rossi questo fiume di parole viene esplorato nelle sue componenti retoriche, facendo affiorare sì la consumata esperienza dell’attore da commedia dell’arte, ma anche un’insospettabile competenza lessicale e sintattica, che va ben oltre i tradizionali calembour del barzellettiere, del macchiettista o, oggi, del cabarettista. Certo, l’arguzia verbale di chi scherza con le parole resta la componente principale, ma non è l’unica. Il Witz, il motto di spirito – come ci ha spiegato S. Freud [ix] – va ben oltre i semplici giochetti con le parole finalizzati a provocare il riso. La tecnica della battuta di spirito, infatti, genera una vera e propria liberazione, scaricando tendenze inconsce e sprigionando una forza che altrimenti sarebbe rimasta repressa. Nel linguaggio di Totò, la liberazione espressiva veicolata dalle sue parole travolge gerarchie e convenzioni, luoghi comuni e distinzioni. Per quanto spontanea, essa fa comunque uso dei tradizionali espedienti retorici classici, di cui Rossi ci fornisce un vero e proprio catalogo. Si va dall’accumulazione dei pleonasmi alle paronomàsie; dalle rime ed assonanze alle allitterazioni martellanti; dalle metàtesi che invertono l’ordine naturale alla immaginifica creazione di parole inesistenti, eppure allusive.
Elencare tali strumenti retorici non riesce però a rendere l’idea della girandola della sua espressività verbale, portata naturalmente più all’iperbole (cioè all’amplificazione) che alla litote (attenuazione); più all’imprecazione ed all’apostrofe che alla reticenza ed alla preterizione. Uno dei mezzi espressivi più efficacemente utilizzati, in ogni caso, resta sempre il nonsense, la cui forza sconvolge l’ordine razionale, rendendo reale l’assurdo. Pensate a frasi come queste, dedicate ad un tema certo non facile come il mistero buffo della vita e della morte:
“Chi lascia la moglie morta per la viva, sa quello che lascia ma non quello che triva”; “Abbiamo vegliato la salma per tutta la notte: è stato un veglione”; “Voglio morire, mi voglio ammazzare; suicidatemi!”; “ Voi dite che sono morto? Perbacco, se lo avessi saputo sarei venuto vestito a lutto”; “Camposanto è un santo come un altro: Santo Campo”; “Un ex garibaldino morto mentre suonava la tromba: fu trombosi acuta, o acuto da trombetta?”.
Oppure assaporate battute come queste, che avevano spesso ad oggetto il rapporto con le donne:
“Alle donne piacciono gli uomini forti. Dal mio aspetto non si direbbe, la mia forza è truccata: sono un falso debole”; “Cara, ti vergogni di me perché sei vestita? Io sono in maniche di mutande”; “L’opulenza femminile è un dono, ma non tutte le opulenze riescono col buco”, “Mia moglie è un tipo apprensivo: sta sempre ad Anzio per me”; “Lei è vedovo di moglie? Colgo l’occasione per farle le mie congratulazioni”.
Il mondo di Totò, stralunato ed imprevedibile, è anche quello dove “I soldi si fabbricano al Policlinico dello Stato”, ma dove c’è qualcuno così povero che “nel caffelatte non ci mette né il caffè né il latte”, ragion per cui si ribadisce che non è vero che “..l’appetito vien mangiando. In realtà viene a stare digiuni”. Perfino le malattie vengono stravolte dall’arguzia di Totò, che ci spiega, ad esempio, che “L’acme giovanile si cura con la vecchiaia”, oppure che c’è chi “ha preso una botta al malleolo del cervello e per poco non gli veniva la meningite”. Le emergenze presenti nell’immaginario nosocomio totoiano vanno dalle “punture di zanzara nòfale” alle “coliche apatiche”; dalle patologie più gravi (“Le manca un polmone? Un altro se ne sta andando? E lasciamolo andare, mo’ ci mettiamo a correre dietro un polmone…” ) a quelle più frequenti e banali (“Ho un ottimo rimedio contro i mali di capo, i dolori capuani”). Ovviamente la sua ironia colpisce anche molte approssimative diagnosi scientifiche (“Sia ben chiaro che i nervi partono dai piedi e arrivano alla culotta cranica”), non risparmiando neanche i farmacisti (“…vendono il cotone idrofobo”) e perfino le indagini basate sui test medici (“Ma mi faccino il piacere! Esaminando la saliva si può risalire a chi ha sputato? Che schifo!”).
4. Ogni limite ha la sua pazienza!
Si potrebbe continuare all’infinito, citando le sue battute esilaranti che coinvolgono un po’ tutti quelli che si prendono talmente sul serio da non riuscire a cogliere il ridicolo e l’assurdo della vita. Credo però, a questo punto, che sia importante sottolineare che – prescindendo dalle considerazioni che si potrebbero trarre dalla ‘filosofia’ di Totò sottesa all’esplosione espressiva dei suoi testi – gli debba essere in primo luogo riconosciuta una straordinaria capacità di usare la lingua come uno strumento rivoluzionario rispetto alla convenzionale rispettabilità borghese, ma al tempo stesso come una forma espressiva eccezionalmente creativa e ricreativa.
“Vedere le parole ridotte a mero oggetto di piacere o a cavie per strani esperimenti, provare il senso di straniamento […] che Totò infonde nel rispondere fischi per fiaschi, nel disattendere le più elementari aspettative semantiche dell’interlocutore, nell’intendere letteralmente quanto ha valore metaforico e metaforicamente quanto è letterale, insomma assistere all’apparente sbriciolarsi del verbo e al suo prodigioso ricomporsi e rinascere come fenice non fa che introdurre, dall’ingresso principale (quello che passa cioè attraverso la sfumata frontiera tra possibilità di comunicare, e quindi di interagire col mondo, e impossibilità di comunicare tutto) ai più profondi meccanismi di funzionamento delle lingue umane.” [x]
Ed è così che – a 50 anni dalla morte – ho cercato di ricordare colui che non solo ci ha fatto ridere per generazioni, ma è anche riuscito a farci scoprire la magia di una lingua con cui si può giocare e divertirsi, scomponendo e ricomponendone con creatività gli elementi. In un mondo dove ancora troppi mostrano di non avere il senso del ridicolo e si ritengono al di sopra degli altri, è il caso di ricordare loro, con un’altra battuta di Totò, che: “Il trombone, checché se ne dica, eziandio, è sempre un trombone”. Per fortuna c’è stato chi ha saputo usare la comicità per metterlo a posto; un autentico direttore d’orchestra, uno cui “piace la moseca, quella con la ‘o’ maiuscola”.
N O T E ————————————————————
[i] Tullio De Mauro, Prefazione, in: Fabio Rossi (2002), La lingua in gioco – Da Totò a lezione di retorica, Roma, Bulzoni, pp. 14-15
[iii] Le citazioni seguenti sono tratte, oltre che dal testo cit., anche da altre ‘antologie’ del frasario di Totò, fra cui: Parli come badi (1994), a cura di Matilde Amorosi, con la collab. Di Liliana de Curtis, Milano, Rizzoli; Enrico Giacovelli (1994), Poi dice che uno si butta a sinistra!, Roma, Gremese; Quisquiglie e pinzillacchere – Il teatro di Totò 1931-1946 (1980), a cura di Goffredo Fofi, Milano, Savelli