Fenomenologia dello ‘strumento militare’

Esercito…italiano?

È stato pubblicato sul sito esercito.difesa.it (senza data, ma probabilmente nel 2019) un istruttivo opuscolo intitolato: “Operiamo oggi per la difesa e la sicurezza – Prepariamo insieme le sfide di domani”. La funzione del documento è quella di presentare ufficialmente la posizione della prima forza armata in merito alla necessità di adeguarsi alle nuove esigenze che deve fronteggiare. Per citare le parole del Capo di S.M. dell’E.I., Gen. Farina, che ne ha curato la ‘prefazione’, l’intento è quello:

«…di condividere l’idea di quali siano le sfide che dovremo fronteggiare e di come ci stiamo preparando a vincerle […] In tale prospettiva, coerentemente con le missioni affidate alla Difesa, l’Esercito Italiano deve essere uno Strumento versatile, interoperabile, resiliente e in possesso di idonee capacità per intervenire a tutto spettro, dagli scenari alle più alte intensità a quelli di stabilizzazione. Senza tralasciare, peraltro, le operazioni di homeland security o i concorsi a supporto della collettività nazionale […] Una modernizzazione che deve necessariamente passare attraverso la creazione di una Forza Integrata Nazionale che coinvolga l’intero Comparto Difesa, il Sistema Paese e contempli una stretta sinergia con il mondo dell’industria e della ricerca…». [i]

Nelle 75 pagine dell’opuscolo tali finalità emergono abbastanza chiaramente, ma qualcuno deve aver pensato che – trattandosi di materia militare – non fosse il caso di essere eccessivamente espliciti, per cui ha infarcito il testo di espressioni criptiche, perle di burocratese, immancabili tecnicismi e soprattutto anglicismi inutili, ma tanto ‘cool’. Scorrendo le 15.759 parole del testo, li ho evidenziati, catalogati e messi in ordine alfabetico: da questa indagine lessicale è emerso infatti che i termini in lingua inglese utilizzati nel libretto, fra singole parole ed espressioni complesse, sono ben 91:

Agile, agile leader, all inclusive, all terrain vehicle, appeal, automotive, aware; Background, basket, big data; Civil military cooperation, collective security, combat power, combat proven, combat service support, combat support, command landing, common security and defense policy, competitive, competitors, concept development & experimentation, cooperative security, core tasks, counter improvise explosive device, counter unmanned aerial system, credible, crisis response,  cyber; Defense capacity building, deployability, design, disruptive activities; Electronic warfare, electronic warfare intelligence, expeditionary; Female engagement, fighting among the people, framework; Hardware, high-tech, homeland security, hub, human intelligence; Improvised explosive device, in-cash, influence, information operations, in-kind, intelligence, intelligence surveillance; Joint, junion leaders; Key leader engagament, know how; Local leader engagement, lower tier; Mission command, modelling & simulation, modernization, multi domain, multi domain operations, multiple launch rocket system; Network enabler capacities, networked, non combat; Output; Partnership, peer competitor, permanent structured cooperation, projecting stability, psy-ops; Readiness, readiness initiative, real time, resilient, robotic autonomous syste; Security and safety, situational awareness, space based, summi; Target acquisition, targeting, task force, transforming while operating, trend; Understanding, unmanned vehicle, upgrade, upper layer; Value chain; Whole-of-gov approach.

Al di là del provincialismo che caratterizza da molto tempo gli italiani, incapaci di fare un discorso o di scrivere qualcosa senza adoperare termini stranieri – spesso a sproposito o in modo errato – risulta abbastanza buffo che neanche i vertici dell’Esercito Italiano siano riusciti a fare a meno di adoperare un centinaio di termini anglofoni, fra l’altro per spiegarci l’importanza della “identità…dei soldati italiani”. [ii]  La domanda è: si tratta solo di uno sciocco vezzo per apparire più moderni, tecnologici ed internazionali, o c’è qualche altro motivo che spieghi l’inondazione di vocaboli che d’italiano non hanno nulla? Del libriccino peraltro è stata curata anche la versione inglese, per cui la loro utilità nel testo originale sembrerebbe ancor meno giustificabile, se non sapessimo che è dal secondo dopoguerra che la nostra repubblica aspira segretamente a diventare la cinquantunesima stella della bandiera statunitense. Il colonialismo culturale che ci ha pervaso, veicolato dai mezzi di comunicazione di massa ed ora da internet, è evidente a tutti i livelli, dall’importazione di spettacoli, mode ed abitudini a quella di generi letterari, artistici e musicali. Tale subalternità culturale è veicolata dal medium linguistico, e quindi ci ritroviamo generazioni che si esprimono in uno sconcertante italiese, che conoscono le strade di New York più di quelle della loro città e che continuano tuttora a identificarsi ciecamente nei loro miti d’oltre oceano. Nello specifico, le nostre forze armate – incastrate da 70 anni nella morsa della NATO, della cui scacchiera strategica sono importanti pedine – tendono dunque ad esprimersi in lingua inglese perché i referenti dei loro messaggi – ben oltre i destinatari istituzionali del governo – sono i loro veri capi, che risiedono a Washington e nella sede ‘alleata’ a Bruxelles.

Una seconda possibile spiegazione dell’utilizzo di termini specifici del gergo militare e d’inutili traduzioni inglesi di vocaboli italiani potrebbe essere che è in atto da anni una trasformazione del nostro linguaggio comune in una specie di Neolingua orwelliana.[iii] Come quella imposta nell’impero del Grande Fratello in quella narrazione – distopica ma spaventosamente profetica… – essa è utilizzata per omologare e controllare, ma anche per mistificare la realtà e per ridurre le capacità espressive delle parole. Un linguaggio freddo, tecnocratico, abbreviato, ridotto a sigle anodine, ad esempio, risulta utile a chi deve far credere ai propri cittadini che “la guerra è pace”. E poi il ricorso all’inglese, oltre a suggerire un’efficienza aziendale, rende tutto vago e sfumato, celando ipocritamente il senso vero dei termini usati. Pensiamo ad espressioni come electronic warfare, psy-ops, targeting, o fighting among the people. Esse risuonerebbero più chiare, ma piuttosto allarmanti, se fossero espresse con: ‘guerra elettronica’, ‘operazioni di guerra psicologica’ ‘prendere a bersaglio’ o ‘combattimenti fra la gente’…   L’opuscolo, da questo punto di vista, è un caso esemplare di attualizzazione che poteva essere del ‘latinorum’ usato dal vile don Abbondio manzoniano per aggirare il povero Renzo, confondendogli le idee per impedirgli di capire. Come lui, preso in giro ma non rassegnato ad esserlo, anche noi dovremmo però rispondere: «Si piglia gioco di me? […] Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?”.[iv]

Modernizzare, adeguare e efficientizzare (la guerra)

L’obiettivo più evidente dell’opuscolo è spiegare le enormi potenzialità ed il livello qualitativo dell’esercito italiano, ma anche mettere in evidenza quanto sono inadeguati gli investimenti governativi per modernizzarlo e adeguarlo alle ‘sfide’ di un mondo globalizzato, ipertecnologico, socialmente complesso e politicamente precario.

«L’instabilità del quadro internazionale, caratterizzato da un crescente grado di incertezza e dalla presenza di minacce multiformi e multidimensionali, determina una straordinaria rilevanza del tema della sicurezza percepita, anche dall’opinione pubblica, come una delle principali priorità nazionali. In tale quadro, l’Esercito è oggi più che mai “in prima linea” nel garantire al Paese uno Strumento Terrestre caratterizzato da elevata prontezza operativa e versatilità d’impiego, in grado di operare, con efficacia, sia nelle missioni internazionali sia sul territorio nazionale». [v]

Questo paragrafo rappresenta una buona sintesi di quanto è ripetuto e sviluppato in seguito. Emergono infatti alcune parole-chiave che sottolineano le criticità da affrontare (instabilità, incertezza, minacce multidimensionali) ed i concetti-base della ristrutturazione in chiave aziendale delle forze armate (prontezza, versatilità, efficacia). Ma, per complicare le cose, si ricorre ad equilibrismi verbali per descrivere il quadro in cui l’esercito dovrebbe operar, alternando i citati anglicismi (ad es.: transforming while operatingo common security and defense policy) con formule standardizzate (ammodernamento e rinnovamento, concept development & experimentation), ed utilizzando attributi come agile, competitivo, credibile o permamente, per caratterizzare una forza amata che sia davvero ‘moderna’, ‘operativa’ e ‘multifunzionale’.

Se non sapessimo che si parla di come far guerra in modo più efficace, potremmo pensare che si sta trattando del ‘core business’ di un’azienda e dei modi per fronteggiarne i competitors. Ma poiché il tabù costituzionale impedisce di pronunciare e scrivere quest’antica e terribile parola, ecco che si parla ipocritamente solo di ‘conflitti’, come se essi fossero tutti armati e avessero intenti distruttivi come le azioni belliche. Il secondo trucco neolinguistico è ricorrere spesso agli eufemismi, grazie ai quali si discute di ‘missioni’ per non usare il termine ‘spedizioni di guerra’; di ‘cooperazione’ anziché di alleanze militari; di ‘strumento militare’ invece che di ‘forze armate’; di ‘scenari’ piuttosto che di ambiti d’intervento armato. Il documento si sofferma ad illustrare le ‘aree di crisi’, indicando i ‘teatri operativi’ nei quali si progetta di svolgere operazioni militari, i cui targets/bersagli da tempo non sono più gli eserciti avversari, ma la popolazione civile e le infrastrutture fondamentali. È proprio questo il senso dell’enigmatica espressione fighting among the people, una delle chiavi che ci aiutano a capire come la guerra sia ormai profondamente cambiata e la sua natura sia sempre più dirompente e pervasiva, come del resto affiora in uno dei rari momenti di chiarezza del testo, laddove si afferma che:

«…è presumibile che il futuro campo di battaglia sia costituito da ambienti urbanizzati e con una forte presenza di personale civile […] Gli spazi di manovra saranno generalmente affollati da soggetti combattenti (legittimi o illegittimi), non combattenti (popolazione locale, operatori           di            organizzazioni governative/non governative e operatori dei mass media) e da altri soggetti di cui sarà sempre più difficile comprendere l’atteggiamento…» [vi]

Tutto il documento, inoltre, è imperniato su un assioma: combattere oggi, e tanto più domani, è molto diverso da ciò che credono le persone comuni e – si legge tra le righe – forse gli stessi politici. Il quadro di riferimento per interventi militari è assai più complesso ed articolato di prima, per cui lo ‘strumento militare’ deve adattarsi al cambiamento delle situazioni. Non si tratta solo della già evidenziata ‘instabilità’ degli scenari geo-politici. Si fa cenno un po’ vagamente alle ‘minacce’ provenienti da varie parti, da quelle di tipo ‘cibernetico’ (legate alla diffusione incontrollata e a tutti i livelli delle tecnologie informatiche) a quelle socio-economiche (disastri naturali, crisi finanziarie, attacchi terroristici). A causa di tale ‘complessità, sostiene il documento, è indispensabile rendere l’intervento dell’esercito  più agile, flessibile e multiforme, agendo sia sul piano strettamente militare, sia su quello immateriale e ‘civile’ delle operazioni psicologiche.

«È essenziale comprendere la filosofia strategica alla base di questo obiettivo, che richiama l’uso estensivo di un approccio indiretto per sfruttare ogni possibile debolezza a livello fisico, morale e concettuale, attraverso un uso combinato di misure militari e non militari […] La possibilità di contrastare (una) “manovra senza restrizioni” e multi-domain dipenderà molto dal mantenimento di un equilibrio tra credibili capacità di difesa e deterrenza e quelle di sicurezza cooperativa unite a compiti di gestione delle crisi, disponendo di capacità a 360° e tecnologicamente competitive» . [vii]

Ritorna il ‘latinorum’ militecnocratico, che alterna diplomatici eufemismi (‘approccio indiretto’, ‘uso combinato’) coi soliti anglicismi (multi-domain) e coll’indecifrabile gergo degli addetti ai lavori (‘manovra senza restrizioni’, ‘sicurezza cooperativa’, ‘gestione delle crisi’). In effetti il succo del discorso sarebbe molto più semplice: l’esercito dovrà misurarsi sia con azioni belliche vere e proprie, sia con interventi non armati, ‘collaterali’ e preventivi, per i quali però non è stato ancora adeguatamente formato e finanziato. In buona sostanza, il messaggio implicito inviato ai cittadini italiani è che l’esercito rappresenta il cuore della difesa e della sicurezza nazionale. Quello rivolto a chi li governa è invece che l’esercito ha potenzialità notevoli ma necessitano investimenti sullo ‘strumento militare’, per assicurarne l’adeguatezza alle nuove sfide. Peccato che il messaggio esplicito sia più tortuoso ed in codice, sebbene risulti comunque abbastanza chiaro che si bussa a soldi, anche mediante un piccato confronto con gli stanziamenti ben più sostanziosi per ammodernare le altre armi. La ‘sindrome di Cenerentola’ è particolarmente evidente in una tabella dove si sottolinea che mentre per l’E.I ci si è fermati alla II-III generazione tecnologica dei sistemi d’arma, nel caso di Marina ed Aeronautica si è giunti invece alla IV-V generazione. Commenterebbe Totò: “E ho detto tutto!”.

Teatri, scenari, attori: la drammaturgia bellica

«Lo Strumento Terrestre, al fine di poter assolvere efficacemente le missioni assegnate per legge e garantire, nel contempo, la massima sicurezza al proprio personale, ha più volte reiterato ampi e quanto mai necessari processi di trasformazione, incardinati sulle improrogabili esigenze legate alla repentina evoluzione della minaccia nei Teatri operativi […] e a quelle scaturite dai mutamenti dello scenario di riferimento, come ad esempio la rinnovata attenzione della NATO alla “Difesa Collettiva” e la rinnovata importanza assunta, soprattutto per l’Italia, del Fianco Sud dell’Alleanza […] Si tratta, nel concreto, di considerare lo sviluppo dello Strumento Militare come un ineludibile processo multilivello, condotto non solo in ambito nazionale, ma parallelamente anche in quelli della NATO e dell’UE…»[viii]

In queste parole riscontriamo un altro espediente retorico cui i militari si affidano per nobilitare ciò che non riescono a dire esplicitamente. Siamo infatti nell’ambito della metafora – peraltro non proprio nuova – che ci presenta la guerra come una sorta di spettacolo da mettere in scena. Si parla allora di teatri operativi e di scenari di riferimento, ricorrendo anche il termine attori, come se si trattasse di un dramma da rappresentare sul palcoscenico, a cui lavorano maestranze, interpreti e registi. Lo ‘scenario’ di riferimento, in questo caso, sarebbe la cosiddetta Difesa Collettiva, dapprima evocata genericamente e poi declinata nelle sue due articolazioni: l’Alleanza Atlantica(OTAN-NATO) e la Politica Europea di Sicurezza e Difesa (PESD), istituita dalla U.E. già dal 2008, ma che in questi ultimi anni va concretizzandosi.[ix]  Mentre in relazione a quest’ultima l’opuscolo evita di assumere posizioni nette sull’ipotesi di un vero e proprio esercito europeo,[x] nel  primo caso si ribadisce che l’Italia è inadempiente, in quanto stanzia per la Difesa meno del 2% del PIL, percentuale più volte riaffermata dai vertici NATO-USA e ribadita anche nell’ultimo vertice di Bruxelles.  [xi] Ma se questi sono i contesti di fondo, quali sarebbero invece i ‘teatri’ nei quali queste due allegre compagnie di giro dovrebbero esibirsi?

«Ai fini della sicurezza nazionale, viene considerata irrinunciabile la stabilità della: REGIONE EURO-MEDITERRANEA, un’area geopolitica che comprende l’Europa, i Balcani, il Mar Nero, il Mediterraneo medio orientale e il Maghreb; REGIONE EURO-ATLANTICA, un’area di fondamentale interesse che racchiude i Paesi membri dell’Alleanza Atlantica. In ottica nazionale, non è quindi possibile separare la sicurezza delle due regioni, dal momento che sono entrambe pilastri complementari ed essenziali della difesa e della sicurezza della Patria. Dalla loro sovrapposizione sono delineabili due grandi aree di instabilità: L’AREA DI CRISI ORIENTALE, caratterizzata dalla politica estera assertiva della Federazione Russa, particolarmente sentita dagli alleati geograficamente più vicini sotto forma di potenziale minaccia convenzionale/ibrida […] A ciò, sempre in detta area, si aggiunge quella particolarmente instabile coincidente con il Medio Oriente e, più in generale, il Golfo Persico. L’AREA DI CRISI A SUD, è interessata da un ciclo di instabilità diffusa che, a partire dal fenomeno del terrorismo, sta acuendo le sfide della sicurezza per l’Europa e l’Alleanza Atlantica. Si tratta di un trend negativo alimentato da una combinazione di fattori, tra i quali rilevano: presenza di entità statuali e di governi particolarmente fragili o assenti; debole sviluppo economico; cambiamenti climatici; squilibrio demografico; estremismo violento e attività criminali. Tutto questo crea un terreno fertile per attori statuali e non statuali che perseguono l’uso della violenza, attività terroristiche e/o criminali e, non ultimo, contribuiscono a generare dei fenomeni migratori verso l’Europa e diffusa instabilità nelle aree a noi limitrofe». [xii]

Dal linguaggio teatrale gli autori dell’opuscolo sono passati ad un codice vagamente ‘meteorologico’. Sembra di vedere il colonnello televisivo di turno, che indica sul planisfero le principali ‘perturbazioni’ atmosferiche che provocano la crescente ‘instabilità’ nei vari quadranti. A preoccupare i tutori della ‘sicurezza nazionale’ sono in particolare l’area di crisi orientale (dove dalla Russia sembra che spirino venti gelidi) e quella meridionale, spazzata da fenomeni meteo complessi quanto preoccupanti, poiché il calore del terrorismo si combina col vento delle migrazioni. Ovviamente, quando nel documento si parla alla ‘sicurezza nazionale’ chi scrive si riferisce piuttosto agli interessi globali della nazione leader della NATO, considerato che i rapporti dell’Italia sia con la Federazione Russa sia con i paesi mediorientali non sono affatto tali da minacciare la nostra amata ‘patria’.

Ebbene, proprio su questi ‘teatri’ le nostre forze armate (ed in particolare l’esercito) vorrebbero recitare al meglio la loro ‘parte’. Continuando a leggere l’opuscolo, infatti, si individua anche la sceneggiatura ipotizzata. Si tratta, a quanto pare, di un dramma in tre atti: il primo s’intitola “Deterrenza”, il secondo “Difesa” ed il terzo “Incremento della sicurezza”. Viene giustamente rispettata anche la regola aurea del climax, che impone un crescendo nell’evolversi della narrazione o dei testi teatrali. Si passa infatti dall’azione preventiva (mista, in quanto non solo di carattere politico-militare) a quella di effettiva difesa armata (di cui si sottolinea il carattere convenzionale ma anche ‘ibrido’) per giungere a quella ‘stabilità’ che, in termini militari, equivale al controllo totale della di una determinata area. In tutte queste tre fasi, si sottolinea, occorre necessariamente mantenere quella Readiness Initiative che è un altro dei punti chiave dello ‘strumento militare’ moderno. In parole più semplici, le forze armate devono essere pronte ad intervenire ovunque ed in breve tempo.

«Nel merito, l’Italia promuove tutte le iniziative tese a orientare e rafforzare il ruolo dell’Alleanza verso il Mediterraneo e il Medio Oriente al fine di affrontare, in modo sistemico, le continue crisi e la perdurante instabilità, così come la minaccia del terrorismo e l’estremismo violento in tali aree. Nello specifico, tali sollecitazioni sono state recepite dalla NATO che ha approvato il Framework for the South e, contestualmente, ha creato un Hub regionale per il Sud, nella sede del Joint Force Command (JFC) di Napoli. Inoltre, l’attenzione ai citati tre Core Tasks ha portato l’Alleanza a indentificare le caratteristiche strategiche che le Forze Armate dei Paesi Membri – e dunque anche l’Esercito – dovranno soddisfare: essere credible, networked, aware, resilient, agile, inclusa la capacità di integrarsi in maniera strutturata e standardizzata con le componenti non-militari per operazioni Non-Combat ed a supporto delle popolazioni locali». [xiii]

In modo sistemico’ è un’espressione elegante per affermare che di tale assetto militare non ci libereremo facilmente, mentre ‘in maniera strutturata e standardizzata’ suggerisce che l’organizzazione militare italiana sarà sempre più dipendente dalle ‘sante alleanze’ di cui fa parte e sempre meno autonoma ed autodiretta. Traspare però un certo fastidio per il condizionamento politico derivante dall’appartenenza delle FF.AA. ad una repubblica democratica, un vero e proprio ostacolo a dispiegarne tutte le potenzialità…

«Restrizioni legali, morali e politiche tese alla limitazione dell’uso della forza e alla minimizzazione dei danni collaterali, potranno imporre una significativa riduzione delle possibilità dei Comandanti di sfruttare appieno le risorse disponibili, a tutti i livelli ordinativi. Ciò implicherà la necessità di integrare nei vari staff esperti del settore giuridico-legale e di dedicare più risorse all’organizzazione del processo di intelligence e targeting». [xiv]

Debolezze e forza dello ‘strumento militare’

Il fastidio espresso dagli autori del documento suona come quello, un po’ infantile, tipico di chi lamenta di essere disturbato nel proprio ‘gioco’ da troppi elementi estranei. Oltre ai citati vincoli all’uso della forza, l’opuscolo ne elenca altri sette: spazi di manovra sempre più congestionati, aree sempre più confuse, settori sempre più contesi, zone sempre più connesse, capacità di sorveglianza del campo di battaglia, vulnerabilità crescente agli attacchi di tipo cyber, dipendenza tecnologica e controllo spaziale. [xv]  Come in tutte le analisi aziendali, del resto, oltre che dei punti di forza e delle opportunità di un’organizzazione bisogna tener conto anche dei fattori negativi, come i punti di debolezza e le minacce. Si applica infatti il c.d. ‘metodo SWOT’ (Strenghts, Weaknesses, Opportunities, Threats) [xvi], una matrice stanfordiana utilizzata largamente nella pianificazione delle imprese. Il buffo è che, per una sorta di nemesi storica, dopo che per decenni le aziende si sono ispirati nella loro progettazione il linguaggio strategico dei militari, ora sono proprio questi ultimi a prendere in prestito il loro metodo di analisi. Questi otto elementi, percepiti come ‘debolezze’ e ‘minacce’, hanno due elementi in comune: (a) la tendenza a crescere continuamente; (b) il fatto di determinare confusione nel quadro operativo.

Lo ‘strumento militare terrestre’, infatti, risulta pesantemente condizionato da questi elementi di disturbo, che ne limitano lo spazio di manovra, creano scompiglio, alimentano contese, esaltano l’interconnessione delle zone a ne rendono difficile il controllo, rendendolo più vulnerabile e dipendente da tecnologie finora estranee, come quelle cibernetica e spaziale.

«Gli eserciti del futuro dovranno confrontarsi con sfide variegate…mutevoli, dove alcuni concetti del recente passato verranno sistematicamente ribaltati e sostituiti […] In sintesi lo Strumento Militare Terrestre cambierà veste aggiornando in grandissima parte l’esercizio delle attuali funzioni operative che, nel post 2035, dovranno essere in grado di supportare, sin dal livello tattico, forme di manovra caratterizzate dall’integrazione degli assetti secondo il principio del Multi Domain Operation all’interno di un ambiente multilivello, dove gli effetti letali e non letali delle azioni militari avranno ricadute, in tempo reale – vista l’interconnettività dei sistemi di comunicazione globali, ormai sempre più real time – non solo sul dominio fisico ma anche e, soprattutto, sul dominio cognitivo». [xvii]

Di fronte ad un sistema di riferimento così variegato mutevole ed interconnesso, insomma, si propone d’introdurre nelle strategie dell’esercito mutamenti, aggiornamenti ma soprattutto maggiore integrazione con le altre armi e con altri livelli di azione. Che non si parli di strategie aziendali ma di guerra è evidente dal riferimento agli ‘effetti letali e non letali delle azioni militari’, che evoca comunque morti e distruzioni, ma anche crescenti effetti collaterali sul piano cognitivo, obiettivo prioritario delle operazioni di guerra psicologica.[xviii] Proprio ad esse ci si riferisce quando si scrive che:

«…la competizione con un eventuale avversario si attua al di sotto della soglia dello scontro diretto, e quindi utilizzando tecniche e procedure tipiche di una minaccia ibrida, compresa la sua narrativa mediatica ed informativa».[xix]

Un’altra criticità, secondo l’opuscolo, sarebbe riscontrabile nell’utilizzazione del suddetto ‘strumento militare terrestre’ in compiti non strettamente istituzionali, come quelli legati alla sicurezza urbana ed al controllo del territorio. Si tratta di un fenomeno caratterizzato però in modo ambiguo, essendo percepito al tempo stesso come elemento di debolezza (usura di mezzi e personale per scopi non militari) ma anche di forza (promozione dell’immagine dell’esercito come presidio fondamentale di polizia e di protezione civile), come dimostra la seguente dichiarazione, a mezza strada fra lamentela e legittimo orgoglio.

«L’Esercito ha saputo adattare mezzi e materiali già nelle proprie disponibilità, ma un simile impiego ne ha causato un progressivo logorio, anche a causa di un loro utilizzo in aree urbane, in un contesto operativo ed ambientale differente rispetto a quello per cui furono introdotti in servizio. Inoltre, l’Esercito, al pari delle altre Forze Armate, è istituzionalmente impiegato per concorsi a favore di organismi esterni all’A.D. per interventi di pubblica calamità, di pubblica utilità e non operativi. La capacità di adattamento con cui la Forza Armata ha storicamente fornito il proprio contributo in circostanze di pubblica calamità, ha dimostrato l’elevata resilienza e il carattere intrinsecamente flessibile della nostra organizzazione nella sua interezza…» [xx]

All’idea di ‘pronto intervento’ in senso militare si sovrappone qui una concezione che inquadra le forze armate come uno strumento ibrido dello Stato centrale, che deve essere quindi abbastanza flessibile e versatile per intervenire anche in casi di calamità naturali, di minacce alla pubblica sicurezza o di emergenze sanitarie, come si è visto soprattutto in questi ultimi anni. Un esercito sempre più ‘vicino’ alla gente, presente sul territorio in varie circostanze, capace di apparire sempre più nella sua veste protettiva e ‘amica’…

Da soldatini di piombo a moderni ‘transformers’

Ma se lo ‘strumento militare’ deve diventare sempre più duttile e flessibile, per adattarsi alle nuove esigenze e sfide che deve affrontare, occorre una profonda ristrutturazione delle forze armate. Vanno sviluppate caratteristiche e doti particolari, che troviamo nella parte del documento intitolata un po’ retoricamente “L’uomo al centro” e sintetizzata da una discutibile rielaborazione della classica immagine dell’Uomo vitruviano, inserito in una grande stella dorata.

Si comincia affermando che c’è bisogno di un personale pronto, motivato, professionalmente preparato ed eticamente partecipe dei valori ispiratori della disciplina militare”. Si prosegue esaltandone i pilastri etici: “promuovere l’identità militare – la disciplina, l’integrità morale e lo spirito di Corpo – rappresenta per l’Esercito un fondamentale obiettivo su cui sviluppare il proprio carattere collettivo”. Si conclude ribadendo che la preparazione tecnica deve essere comunque affiancata: “…da forte motivazione, da un’autodisciplina, da un coraggio morale e un senso del dovere che travalicano le incombenze manageriali della professione”. [xxi]

Siamo qui quasi all’autoesaltazione, in modo da nobilitare il discorso di tono aziendalista (quando si parla di comunicazione interpersonale e mediatica, local leader engagement, key leader engagement) con la solita vecchia retorica militare, imperniata da secoli su immarcescibili principi quali: disciplina, coraggio e senso del dovere. Insomma, al vecchio soldatino di piombo, rigido ed immobile, con cui giocavano da piccoli i nonni, deve subentrare un ‘operatore militare’ sempre più adattabile polivalente e tecnologico. Un futuristico transformer, che può essere impiegato ora come uno spietato ‘terminator’, ora come un qualificato amico, pronto a soccorrerci e a vegliare sulla nostra sicurezza. Ma per svecchiare l’esercito di una volta occorre un suo radicale ‘ringiovanimento’, per cui siamo informati che:

«In tale contesto, lo Stato Maggiore dell’Esercito ha sviluppato uno studio volto alla realizzazione di un nuovo modello di reclutamento che, investendo su una nuova figura di Volontario a ferma pluriennale, strutturata su un arco temporale indicativo di 3/6 anni, garantirebbe un maggiore appeal della professione militare sulle nuove generazioni e un adeguato ritorno per la Forza Armata in termini di capacità operativa “giovane”, spendibile per un periodo di impiego più lungo». [xxii]

I principi-guida di questa ristrutturazione sono enunciati poche pagine dopo, quando si parla di come valorizzare i soldati di oggi e di domani, puntando sui tre pilastri della ‘meritocrazia’, della ‘trasparenza’ e della ‘partecipazione’, ma senza trascurare opportuni incentivi motivazionali, come una maggiore ‘salvaguardia della salute’, un accresciuto ‘benessere’ del personale militare e la ‘tutela dei rapporti familiari’.  Belle affermazioni – peraltro mutuate da filosofie militari da decenni familiari oltreoceano – ma che suonano poco credibili, se solo si pensa al livello di trasparenza e partecipazione riscontrabile tuttora nelle nostre forze armate, per non parlare di quanto la salvaguardia della salute, del benessere e dei legami familiari siano conciliabili con il mestiere di chi fa il soldato di professione.

Concludo quest’analisi, dunque, proprio esaminando un altro aspetto semiologico dell’opuscolo, cioè quello iconografico, tenendo conto che le immagini sono spesso più eloquenti delle stesse parole. A dire la verità – a dispetto della tanto propagandata visione ‘buonista’ e sorridente dei militari, che aiuterebbero e proteggerebbero la popolazione civile – la maggioranza delle fotografie poste a corredo del testo insiste più che altro sul ruolo bellicoso dei nostri militari.  Infatti, sulla settantina di immagini presenti, più di 40 ci mostrano soldati in tuta mimetica, zaino, elmetto ed armamento convenzionale (fucili e mitra) oppure sbarcati da elicotteri o appollaiati sulla torretta di un carrarmato. Molte foto esibiscono addirittura veri e propri scenari di guerra (tra fiamme, polvere e fumo) oppure posizioni di puntamento e di difesa delle postazioni, mentre solo alcune rinviano ad operazioni di soccorso o ad impieghi di natura più tecnologica ed informatica.

Istruttivo è anche il corredo infografico che sintetizza alcuni dati quantitativi, da cui apprendiamo ad esempio che dei 18.700 militari dell’E.I., a ‘difendere la patria’ sul territorio nazionale ce ne sono solo 7.300, mentre sono impiegati in missioni all’estero 3.300 unità. I restanti 8.000 soldati sono invece classificati sibillinamente come ‘forze in prontezza’. Dalla stessa sintesi grafica emerge che i soldati italiani sono impegnati anche in stati africani subsahariani come Niger Mali e perfino Repubblica Centro Africana (difficilmente classificabili come aree euromediterranee) oppure che abbiamo ancora oltre 350 nostri uomini nel Kosovo – sebbene la guerra sia finita nel 1999 – e più di 550 in Iraq – dove il conflitto armato è terminato da più di 8 anni.

Interessante, infine, è anche il capitolo sulle cosiddette caserme verdi, che vorrebbe offrire un’immagine moderna ed ecologica delle strutture edilizie utilizzate dall’esercito, elencando una serie di ambiziosi obiettivi per la loro ristrutturazione, ovviamente grazie ad un cospicuo investimento statale in tale direzione. Si tratta di un indirizzo molto sbandierato dai nostri ministri della difesa, ma sulla cui credibilità mi sono già soffermato in un altro articolo. [xxiii] Basti pensare solo che dei 2.700 immobili adibiti a caserme, quelle da ristrutturare sarebbero meno di 27 (una su cento), di cui un buon terzo (9) ovviamente nel Sud e nelle isole, regioni che – bontà sua – il nostro amato esercito continua a prediligere.

Non a caso – oltre alla doppia frase che dà il titolo all’opuscolo (“Operiamo per la difesa e la sicurezza” e “Prepariamo insieme le sfide di domani” – il suo messaggio-chiave è racchiuso nel terzo slogan: “Di più insieme – Noi ci siamo sempre”.  A ciascuno di noi spetta capire se è una promessa o una minaccia, un sogno o un incubo…


N o t e

[i] Esercito Italiano, Operiamo oggi per la difesa e la sicurezza – Prepariamo insieme le sfide di domani, pp. 3-4. Sulla ristrutturazione delle Forze Armate italiane vedi: Ermete Ferraro, “Il libro grigioverde della difesa” (17.02.2017), Ermetespeacebook > https://ermetespeacebook.blog/2017/02/19/il-libro-grigioverde-della-difesa/

[ii] Ibidem

[iii] George Orwell, 1984, Rusconi, 2020 (ultima ediz. integrale in italiano dell’originale romanzo (Nineteen Eighty-Four), pubblicato nel 1948

[iv] Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, cap. II

[v] Operiamo oggi per la difesa… cit., p. 6

[vi] Ivi, p. 14

[vii] Ivi, pp. 9…10

[viii] Ivi, p. 6

[ix]  Cfr. https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52008IP0255&from=LT  Vedi anche: Parola-Marchesi-Marone-Olimpio, Le parole dell’Europa: sicurezza, ISPI, 2019 > https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/le-parole-delleuropa-sicurezza-22823

[x] Sulla c.d. ‘difesa europea’ vedi altri due miei precedenti articoli: https://ermetespeacebook.blog/2019/12/18/babbo-natale-a-12-stellette/ e https://ermetespeacebook.blog/2017/02/19/il-libro-grigioverde-della-difesa/

[xi] Sul ruolo dell’Italia nella NATO vedi anche: https://ermetespeacebook.blog/2012/06/14/lobsolescenza-della-nato-un-relitto-del-passato/  e https://ermetespeacebook.blog/2015/07/28/nato-per-combattere/ ,

[xii] Operiamo…, cit., p. 8

[xiii]  Ivi, p. 11

[xiv]  Ivi, p. 15

[xv] Cfr. parr. Da 1 a 8 alle pp. 14-16

[xvi]  Cfr. la voce ‘SWOT’ in Wikipedia > https://it.wikipedia.org/wiki/Analisi_SWOT

[xvii]  Operiamo… cit., p. 17

[xviii]  Mi sono occupato di questo fenomeno nell’articolo: “PSY-OPS, quando la guerra si fa con le parole” (04.02.2012), Ermetespeacebook > https://ermetespeacebook.blog/2012/02/04/psy-ops-quando-la-guerra-si-fa-con-le-parole/

[xix] Operiamo… cit., p. 18

[xx]  Ivi, p. 20. Sul ruolo delle FF.AA. nelle emergenze, come nella recente pandemia v.: “Presidiare l’emergenza” (23.03.2020) > https://www.academia.edu/42327562/Presidiare_lemergenza_Ermete_Ferraro

[xxi]  Ivi, pp. 24…25

[xxii] Ivi, p. 25

[xxiii] Ermete Ferraro, “Credere, Rinverdire e Combattere” (18.11.2018), Ermetespeacebook >    https://ermetespeacebook.blog/2018/11/18/credere-rinverdire-e-combattere/

© 2020 Ermete Ferraro

2 commenti su “Fenomenologia dello ‘strumento militare’

  1. Ottima analisi dei linguaggi e delle strategie militari dell’esercito italiano che, dietro il tentativo di mostrarsi moderno (ciò spiega il ricorso a tanti termini inglesi) , nasconde tutta l’obsolescenza, la nocività e l’inefficacia dello strumento militare nel gestire le crisi e i conflitti geopolitici.

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  2. Pingback: IL MILITARISMO ETERNO | Ermete's Peacebook

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