ARCOBALENO O ARCA-BALENA ?

                                                                                                                               di  Ermete Ferraro

Evviva! E’ nata la coalizione-raggruppamento-cartello che unisce la Sinistra storica con la tradizione ambientalista dei Verdi, il cui leader ha esultato, definendo "utile" il voto dato "a un soggetto che ha nel simbolo i colori della pace e come obiettivo la tutela dell’ambiente". Beh, a dire il vero, non è che l’aggettivo "utile" sia proprio il massimo per lanciare la nuova formazione politica. Sappiamo però che il vocabolario della politica e i concetti che dovrebbero stare dietro le parole si sono irrimediabilmente ristretti, per cui pare proprio che ci tocca accontentarci d’un codice linguistico vago, approssimativo e sbrigativo.

Il fatto che votare per "la Sinistra – l’Arcobaleno" risulti utile, comunque, sembrerebbe proprio ciò che interessa alla maggioranza di quelli che le hanno dato vita, e che adesso si alternano a fare i complimenti intorno alla culla della neonata, lasciando però trasparire qualche imbarazzo e cautela, dettati forse dalla necessità di prendere tempo, per capire meglio… a chi assomigli la pargoletta…  Una delle poche cose certe di questa creatura è che l’hanno battezzata con due nomi, uno femminile e l’altro maschile, tanto per non scontentare nessuno. Anche il suo logo risulta da una sintesi grafica, in cui appaiono, in basso, delle onde iridate, mentre nel semicerchio superiore sembrerebbe essersi esaurita la fantasia dei creatori, che non hanno saputo trovare niente di meglio che scriverci il doppio nome di cui sopra, rigorosamente in caratteri rossi e verdi, su sfondo bianco. Nutro qualche sospetto che Pecoraro Scanio abbia tentato di farvi collocare un sole-che-ride, ma qualcuno certamente gli avrà fatto notare che così il nuovo logo avrebbe acquisito un’inquietante somiglianza col simbolo del partito socialdemocratico di una volta.  Per non parlare del fatto che, a quel punto, PRC e PCI si sarebbero sentiti in dovere d’inserire anche loro una falcetta-e-martellino da qualche parte, con prevedibili conseguenze negative sul piano grafico.

Dunque, vediamo un po’ gli elementi che abbiamo finora a disposizione per esprimere un giudizio. (1) Votare la Sinistra – l’Arcobaleno  (forse sarebbe meglio chiamarla "Sinistrarcobaleno", per snellire un po’ questo nome composto, come si fa con Pierpaolo o Giambattista…) è qualcosa di utile; (2) si tratta di un’alleanza il cui simbolo ricorda la pace e l’ambiente e, secondo una dichiarazione del neo-leader Bertinotti, (3) lascia trasparire "la grande ambizione di cambiare la società". Beh, mi sa che è ancora troppo poco per riuscire a trascinare le masse, inducendole a votare per la neonata formazione, soprattutto se si tiene conto che i primi provvedimenti che il leader dei Verdi si è sentito di proporre, a mo’ di esemplificazione, sono state le leggi per le unioni civili e per il conflitto d’interessi…  Sarà probabilmente solo una sensazione, ma nella generale confusione di elezioni politiche le cui vicende sono iniziate con l’accusa rivolta dalla coalizione conservatrice a quella "democratica" di volergli copiare il programma, ho l’impressione che anche a Sinistra del PD le idee non siano troppo chiare. O, peggio ancora, che non si ritenga nemmeno tanto "utile" chiarirle agli elettori, ai quali si chiede piuttosto un’adesione "a pelle", istintiva – come dire? – "senza se e senza ma"…

sinistra_arcobaleno_thumbnailPer carità, non fraintendetemi. Da nonviolento ed ecopacifista storico, personalmente apprezzo molto sia il nome sia il simbolo della nuova formazione. Da primo eletto a Napoli dei Verdi (nel lontano 1987), e come primo e unico capogruppo circoscrizionale (nel 1995) di una formazione denominata "Verdepace-Arcobaleno", nessuno più di me può condividere questa scelta, che mi ricorda pure l’esperienza napoletana dell’associazione "Verdarcobaleno", iniziata proprio in quegli anni insieme con l’amico Antonio D’Acunto, ultimo consigliere regionale dei "Verdi Arcobaleno".  Quello che mi convince di meno non è infatti né il logo iridato (che mi riporta col pensiero a tante battaglie antimilitariste e pacifiste), né la parola "Sinistra" (che semmai mi ricorda la breve, ma positiva, esperienza che ho fatto da primo presidente "verde" di una Circoscrizione napoletana, alla guida di una…minoranza che potrebbe oggi tranquillamente identificarsi nella nuova formazione politica).

A lasciarmi poco convinto, semmai, è l’evidente fretta e superficialità con cui è stato concluso il ciclo di un processo che pur durava da molti anni, senza evidente successo, sol perché ormai non restava altro tempo da perdere e le elezioni bussavano già alle porte. Ecco, è proprio questa "utilità" troppo strumentale ed assai poco attenta alla maturazione effettiva del processo stesso che adesso suscita qualche perplessità, costringendomi a pormi qualche domanda scomoda e politicamente scorretta su fini e sui mezzi della nuova coalizione rosso-verde. Il predetto Antonio D’Acunto, in un suo recente editoriale on-line sul sito nazionale dell’Associazione VAS, ha fatto importanti osservazioni in proposito, scrivendo: "Oggi nasce la Sinistra l’Arcobaleno: la questione per molti della sinistra e della cultura ambientalista è se esso è la sommatoria, l’escamotage elettorale, di alcune forze politiche o anche di singoli politici, in grandissima difficoltà, per salvare la loro presenza alla Camera ed al Senato, oppure è il reale avvio, la vera nascita di un grande soggetto politico, sì di un Partito Nuovo, che sappia fondere la storia, i valori, i bisogni della Sinistra politica con l’Ecologia; il Mondo di oggi con le Future Generazioni, la Salvezza dell’Uomo con quella del Pianeta, con l’attualità di un programma chiaro e forte che vada in tale direzione."

Ecco: il vero problema mi sembra che sia proprio questo e non può essere certo eluso facendo ricorso a slogans elettorali o a frasi ad effetto. Se ci troviamo effettivamente di fronte ad una vera scelta, ad una reale novità nel panorama politico, ci saranno senz’altro quelli che D’Acunto chiamava "segnali netti, chiari nei contenuti e nella rappresentatività" , indice evidente di "un rinnovamento profondo che deve valere per l’insieme de la Sinistra l’Arcobaleno".  In caso contrario, invece, ci troveremmo ahimé di fronte ad una pura e semplice trovata elettorale, un’alleanza sotto forma di "arca-balena", "utile" solo a salvare i Pinocchi e i Geppetti di turno, ma il cui richiamo risulterebbe ovviamente molto debole e che quindi sconterebbe l’ambiguità e la strumentalità di una pseudo-scelta.

Attenzione allora: i cittadini comuni, i giovani soprattutto, sono maledettamente stanchi e delusi. Non hanno bisogno di spot di facciata, ma di una chiarezza e coerenza diventate merci sempre più rare in quella specie di mercatino rionale della politica in cui siamo costretti a scegliere. Se invece "la Sinistra-l’Arcobaleno" saprà emergere da questo clima di "saldi di fine stagione" e se riuscirà a proporre qualcosa di veramente nuovo e convincente, che faccia leva sul protagonismo e la partecipazione diretta, sono certo che le adesioni  a questo progetto alternativo diventeranno sempre più numerose e convinte. Auguriamoci che così sia !

 

CIAO, MARIO…!

borrelli3Lettera a Mario Borrelli

di Ermete Ferraro

Ciao Mario! Ieri sera, nella “tua” vecchia parrocchia di Mater Dei non eravamo in tanti a ricordarti, e comunque neanche ai tuoi funerali, giusto un anno fa e nella stessa chiesa, c’erano tutti quelli che pur devono molto alla tua incredibile esperienza di padre e di maestro. D’altra parte non sarebbe bastato il Duomo se fossero intervenuti alla santa messa in tuo ricordo le centinaia di ex-scugnizzi tuttora sparsi per il mondo, di ex-baraccati, di ex-prostitute, per non parlare delle migliaia di lavoratori, disoccupati, donne, vecchi e bambini ai quali la “Casa dello Scugnizzo” ed il Centro Comunitario di Materdei hanno offerto per 57 anni non solo uno spazio unico per stare insieme, ma un’accoglienza solidale e fattiva, un’occasione inostituibile per crescere come persone, come gruppo e come comunità.

Un anno fa a darti l’ultimo saluto, oltre a parenti e amici ed a noi vecchi amici e collaboratori della Fondazione, c’erano stati alcuni di quelli  che hanno condiviso almeno una tappa della tua fantastica avventura, come: Tonino Drago, Giuliana Martirani, Samuele Ciambriello, Geppino Fiorenza, Donatella Trotta, ed a rappresentare la Chiesa di Napoli era venuto un vicario episcopale, latore e lettore di un messaggio del Cardinale. Ieri, invece, erano presente tra noi il Sindaco Jervolino e l’assessore Cardillo, per testimoniare di persona il riconoscimento, sia pur tardivo, di una città che ha il brutto vizio di dimenticare i grandi uomini ai quali ha dato i natali e che, proprio come hai fatto tu, l’hanno fatta conoscere in tutto il mondo, …

Enrico Cardillo, in un articolo pubblicato dal “MATTINO” dopo la tua morte, così ti descriveva: “Tu, famoso nel mondo come apostolo dei poveri, non violento ma straordinariamente carismatico nell’organizzare e sostenere le lotte per la casa, il lavoro, l’autoriduzione di affitti insostenibili, la salute durante il colera, l’aumento del pane, l’istruzione pubblica gratuita, la pace nel mondo. Poi vennero anche film e libri che narravano la tua storia, quella di Don Vesuvio, il prete degli scugnizzi”. E poi ricordava le decine di personaggi che ti hanno incrociato in quegli anni eccezionali, tra cui Luigi e Donato Greco, Mariella La Falce, Felice e Mariella Pignataro, Tonino Drago, Giovanni Tammaro, Claudio Ciambelli, Paolo Giannino, Goffredo Fofi, Luciano Carrino, Massimo Menegozzo, Piero Cerato, Geppino Fiorenza, Vittorio Dini, Fabrizia Ramondino, Domenico De Masi, Enrico Pugliese, Percy Allum, Giuliana Martirani e tanti altri. Un mondo “alternativo” che oggi ci sembra quasi incredibile, composto di pediatri di base e animatori socioculturali, di fisici e giudici, di scrittori e sociologi, di credenti e non credenti, tutti uniti però dalla voglia di cambiare la loro realtà “dal basso” (allora di diceva così, anche se oggi questa espressione suona ormai un po’ strana…).

Beh, quello che è certo è che “in basso”, tra gli “ultimi” ci sei rimasto tu per mezzo secolo, in quella che Cardillo, sempre nel suo articolo, definiva la “Napoli degli esclusi, dei più poveri, di quelli cui vengono negati i diritti” e che tanto “doveva al tuo insegnamento forte e non violento”.  Eppure quella “città che ti deve tanto” non era realmente presente ai tuoi funerali né, ieri, al ricordo dell’anniversario della tua morte, che ha spento la tua esistenza terrena ad Oxford, dove vivevi ormai da circa dieci anni. Come si dice di solito in questi casi: nemo propheta in patria”…? Non lo so, ma d’altra parte non è un certo un caso se, invece, il prestigioso “TIMES” di Londra ti ha riservato un lungo articolo, nel quale racconta …Don Vesuvio, la Tigre di Napoli, il Santo di Napoli, il “Provocatore”, definendoti “visibile trionfo di dedizione cristiana e di una determinazione che non si lascia piegare dalle avversità” e ricordando il tuo “senso di convinzione senza compromessi”. Non è un caso nemmeno che l’altrettanto prestigiosa LSE (London School of Economics) – dove negli anni caldi 1968-70 conseguisti una laurea magistrale in “amministrazione sociale” – abbia pubblicamente celebrato il tuo percorso di operatore sociale d’avanguardia, laddove la nostra Università ed altre istituzioni accademiche non hanno ricordato neppure con una riga la scomparsa di un grande figlio di Napoli, il solo che sia riuscito a mettere d’accordo la teologia con la sociologia, la ricerca storica con una pionieristica peace research, il gusto genuino per la tradizione del popolo napoletano col netto rifiuto di ogni forma di folklore che, in nome del profitto, inchiodi Napoli alla sua squallida “filosofia della miseria”.

E poi, dov’era – un anno fa come anche ieri – quella “chiesa del dissenso” che ti haMario ed io visto protagonista per anni, come primo direttore della rivista “IL TETTO” e come instancabile animatore di quel “Coordinamento dei gruppi volontari”, che riuscì a riunire a Materdei le migliori espressioni del mondo cattolico più impegnato, dei gruppi nonviolenti e per l’obiezione di coscienza e di quelle “comunità di base” di cui resta solo un pallido ricordo? Ti sarà bastato il messaggio inviato al tuo funerale dall’attuale Arcivescovo  per cancellarti dalla memoria tanti anni di freddezza, di gelido distacco, di diffidenza malcelata, che ti hanno seguito nel tuo difficile percorso da “outsider” di tutte le istituzioni, fossero ecclesiastiche ma anche civili e politiche?  E che fine hanno fatto quelli che oggi si sciacquano la bocca con termini come welfare community o empowerment, ma non sanno (o hanno preferito scordarsi…) che per decenni sei stato tu il solo riferimento internazionale nel piccolo mondo antico dell’assistenzialismo nostrano, e che i tuoi saggi che parlavano di “coscientizzazione e sviluppo comunitario” li hai scritti quando qui da noi neppure si parlava di “politiche sociali” …?

Simona Petricciuolo, in un suo articolo su di te pubblicato su “IL MATTINO”, ha scritto: Borrelli ha dimostrato che era possibile svincolarsi da tutti i poteri, lui che da sacerdote, per seguire al meglio la propria vocazione, si è dovuto svincolare anche da quello della Curia, e fare qualcosa di concreto per aiutare che ne aveva bisogno”. Mi sembra che effettivamente abbia saputo cogliere quanto sia stata sempre difficile e contro-corrente ogni tua scelta, anche quando era quella di essere “semplicemente un cristiano”, come dichiarasti in una tua vecchia intervista alla BBC, respingendo “con impazienza” – per citare ancora “THE TIMES” – la tendenza a trasformarti già in vita in “santo virtuale”… Eppure non facile tentazione, visto che per anni sei stato considerato quasi un super-eroe, grazie al libro di Morris West – citato perfino dalla moglie del presidente degli USA, Eleanor Roosvelt – al film in bianco e nero su “Don Vesuvio”, alle centinaia di articoli ed interviste radiotelevisive, alla tua stessa fama di esperto internazionale di sviluppo e di pace, invitato a far da relatore per la comunità Europea, per la Nazioni Unite e in decine di forum mondiali sull’educazione alla pace.

Sai una cosa, Mario? In questa prima settimana di Quaresima mi è tornato spesso alla mente il termine “incarnazione”, parola-chiave della tua esistenza religiosa e laica al tempo stesso. L’amore senza timore per Dio; la vera solidarietà ( che può essere solo da uguali) verso la sofferenza dei fratelli; la speranza operosa nel cambiamento; la sete di giustizia e di pace; la difesa d’ufficio dei diritti dei più deboli e degli ultimi – che sono poi il centro vivo della “buona notizia” di Gesù – avevano per te l’esigenza di “incarnarsi”, di diventare realtà concreta (e sofferenza vera…) qui e ora. Nessuno più di te amava le parole e la loro magia, e questa era una delle cose che – insieme con la scelta dei poveri – mi hanno fatto sempre sentire vicino a te, al tuo gusto filologico, alla tua ricerca d’insospettabili collegamenti tra concetti e parole… Eppure hai scritto, presentando un libro di Francesco de Notaris: …Il dilemma è sapere che cosa significa la nostra parola, da dove parte e cosa vuole… Ci siamo fatti prigionieri della parola. La parola si è staccata dalla persona come strumento o paravento o difesa. Chi parla quando nessuno vuol sentire parla a se stesso. E se uno parla a se stesso, perchè parla? […] La Parola si è fatta carne e si è tuffata nel nulla e si è nascosta tra gli uomini nel silenzio e nel dolore e si è fatta luce, forza, sostegno, speranza concreta e resurrezione. I rami sono le radici del cielo, come le radici sono i rami della terra. Rifacciamoci con fatica e dolore le nuove radici anche se l’albero sta imputridendo, da liberi e giusti e solidali con tutti quelli cui la storia degli umani ha riservato lo stesso disumano destino sociale”.

Ecco, tu sei riuscito effettivamente a vivere libero, giusto e solidale con tutti quelli che il nostro disumano “progresso” ha lasciato e continua a lasciare indietro, soprattutto in quest’epoca di globalizzazione selvaggia e di religione iperliberista del materialismo, che  emargina sempre più chi non regge il passo e finisce con l’inciampare, mentre di “buoni samaritani” ce ne sono rimasti molto pochi, e alla carità cristiana si è preferito sostituire l’assistenza burocratica o lo pseudo-volontarismo del non-profit”…

Quando Donatella Trotta t’intervistò, per il “MATTINO”, seppe cogliere in te: “…un lampo nello sguardo dalla trasparenza dell’ acquamarina rimasto aguzzo: ad evocare un’antica, indomita focosità stemperata soltanto dall’età e dai…capelli bianchi”. Ed è effettivamente difficile non ricordare i tuoi incredibili occhi azzurri, che trapanavano l’interlocutore con lo sguardo indagatore e un po’ sfottitore che non hai mai perso, e che affiora perfino nella tua ultima intervista davanti ad una telecamera, che ora abbiamo trasformato in un film per ricordarti meglio alle nuove generazioni. “Del resto – commentava la giornalista – [Borrelli] non ha mai avuto peli sulla lingua l’ex “Don Vesuvio” che più di cinquant’anni fa scelse di intrecciare concretamente la propria vita di sacerdote oratoriano e fine studioso con gli scugnizzi orfani del dopoguerra napoletano, con i baraccati e le puttane senza diritti, vivendo e combattendo con loro on the road al di là di ogni convenzione, da scomodo e ribelle prete-scugnizzo e polemico avventuriero di Dio, vagabondo tra i vagabondi e maieuta caparbio e insofferente a qualunque forma di sopraffazione e iniquità dell’uomo sull’uomo”.

Effettivamente tu sei stato tutto questo:  “sacerdote e fine studioso” ma anche “scomodo e ribelle prete-scugnizzo”. Anche la definizione di “polemico avventuriero di Dio” ti sarebbe piaciuta, perché diametralmente opposta a quella colorita definizione di “filibustiere di Dio” con cui spesso gratificavi uno dei rappresentanti di quella “chiesa con la ‘c’ minuscola” da cui ha sempre preso le distanze. Anche “vagabondo tra i vagabondi” rende bene gli anni da te vissuti intensamente tra carbonai, operai, baraccati, girando con la tua “chiesa mobile” dove c’era lo spazio per le “guarattelle” così come per il Santissimo, e dove il latino, il napoletano e l’inglese si erano sposati incredibilmente in una comunicazione in cui la parola serviva davvero a testimoniare la verità.

Ciao, Mario! Ci manchi, mi manchi tanto… Non voglio affatto trasformarti in un “santino” – anche perché so che mi prenderesti a male parole –  ma spero tanto che questo mio ricordo riesca a raggiungerti e a farti sentire quanto abbiamo ancora bisogno del tuo esempio, della tua profondità di pensiero, della tua ironia, delle tue provocazioni, come quando hai dichiarato, nell’ultima intervista che vedremo presto come film, che il futuro non ha senso, se non ha radici nel nostro personale presente, concetto che bene esprimevi anche nella presentazione al libro di De Notaris:

“Se i semi del nostro futuro non sono nel nostro presente passeremo alla storia come muti testimoni di una città morta. Quale alternativa resta al ‘silenzio della ragione’ ? La protezione dei santi morti che tardano a fare miracoli o dei santi vivi che non sentono la responsabilità di operarli?. La speranza non può esaurirsi in un futuro di cose da possedere ma in un futuro di uomini disposti a cambiarsi. Se permane un’atmosfera di emergenza, di anormalità, di eccezionalità,di escatologia, di messianismo sociale, i piani futuri saranno concepiti in un contesto di dipendenza e di servitù.”

  Aiutaci, Mario, stacci vicino, soprattutto in questo periodo di continue e artificiose “emergenze”, per costruire insieme, dal basso, quel “futuro di uomini disposti a cambiarsi”, senza aspettare miracoli né nuovi messianismi. Forse così riusciremo davvero a proseguire il lavoro che hai portato avanti per tanto tempo, testardamente e controcorrente, e dimostreremo di aver capito la tua lezione. Ciao, Mario, e grazie!

        Ermes

CENT’ANNI DI SOLITUDINE…

Ad un secolo esatto dalla nascita, il pittore

 Guglielmo Ferraro nel ricordo del figlio Ermete. 

L’otto febbraio ricorrevano esattamente 100 anni dalla nascita del pittore Guglielmo Ferraro, mio padre, morto nel novembre del 1988, quasi venti anni fa ed il cui autoritratto accompagna queste righe.

Non mi è facile parlarne qui e adesso, come non è stato facile finora, trovando le parole giuste per ricordarlo degnamente e rispettando, al tempo stesso, quella sua caratteristica riservatezza di persona schiva, timida, umile.

Un uomo, un padre ed un’artista di poche parole, che ha attraversato quasi in punta di piedi gli ottanta anni della sua vita, da vero signore, in mezzo al chiasso, alla volgarità ed all’esibizionismo di un ambiente nel quale sembrava essere capitato quasi per caso e dove si sentiva a disagio.

Cent’anni di solitudine: il titolo del famoso romanzo di Gabriel Garcia Marquez mi è venuto automaticamente alla mente ripercorrendo questo secolo che ci divide dalla nascita di mio padre Guglielmo. Ma attenzione: si tratta di una solitudine che non va letta come mancanza di riferimenti, di affetti, di agganci con la realtà, ma piuttosto nel senso di oggettiva estraneità ad un mondo che egli avvertiva sempre più lontano dalla propria concezione dell’arte, più prossima a quella umanistica e, al tempo stesso, ad una sua visione quasi religiosa, come rilettura personale della realtà.DSCN1498

 “Ferraro rappresenta il caso singolare di un pittore che rifugge da ogni formula e da schemi e schermi dell’inflazione modernisticascriveva il maestro Domenico Spinosa, presentando il catalogo della sua personale del 1974 – [il visitatore] avrà la rara occasione di poter accostare un pittore che opera, che ha sempre operato, con la coscienza e la religiosa fiducia di un buon artigiano […] Una presenza…questa di Ferraro, singolare e confortevole; una pausa rilassante e rasserenante in mezzo a tanta confusione: un’affermazione di rara compostezza artistica e morale, sincera e umana fra tanti sfiatati annunzi di miracolistici eventi. Nel gran vuoto e nel gran silenzio che si lascia indietro il vaniloquio degli istrioni di turno, la voce di Ferraro così sommessa e – nella apparenza – così dimessa, acquista il valore di un richiamo a quanto di autentico e generoso impegno possa tendere l’interesse dell’uomo…”

 Ecco, “la coscienza e la religiosa fiducia di un buon artigiano”: in questa efficace sintesi del suo vecchio amico e collega Mimì Spinosa – persona peraltro molto diversa da lui, sia caratterialmente sia artisticamente – mi sembra che rispecchi fedelmente la vita e l’opera di Guglielmo Ferraro.

E bene gli si attagliano anche altri attributi utilizzati in questa presentazione: la sua presenza, umana e pittorica, ha effettivamente costituito una “pausa rasserenante e confortante” nel caos di un’arte troppo spesso urlata provocatoriamente, gettata in faccia al suo smarrito e confuso fruitore. La “compostezza artistica e morale” di mio padre Guglielmo – come testimoniato da Spinosa – è stata infatti la cifra stessa della sua vita, caratterizzata dalla sincerità dell’ “autentico e generoso impegno”  di chi,  però, ha scelto di mantenere “sommessa” la propria voce.

“Guglielmo Ferraro è temperamento riflessivo, pacato e ben disposto alla concezione lirica delle cose dipinte…” – osservava acutamente il critico Eolo Serao, cogliendone la poetica di pittore per cui l’osservazione e la riflessione erano sempre e comunque il primo, indispensabile, passo per poter poi trasfigurare liricamente la realtà, che si trattasse di quella di una persona, di un paesaggio oppure delle “cose” suggestivamente e un po’ misteriosamente composte in unità nelle sue tante nature morte…

Di “vibratili sensibilità e controllata moderazione” ebbe a scrivere invece un altro critico d’arte, Armando Miele, riuscendo a cogliere sia la sua volontà di rifuggire da ogni esasperata e falsata visione di ciò che cade sotto i nostri sensi, sia l’innata tendenza ad una moderazione che nasceva dal rispetto della realtà e dall’istintiva repulsione verso ogni forma di esagerazione e di plateale esibizionismo.

“Conosco la sua pittura: in essa trovo l’uomo con le sue delicatezze, con i suoi silenzi, con le sue meditazioni – osservava il critico Piero Girace – […] Ha una sua poesia genuina e la esprime in modo compiuto, nella disciplina della forma, con una colorazione soave…”

Sì, mio padre era una persona con una “delicatezza” e d’una compostezza decisamente estranee al suo – e a maggior ragione al nostro – tempo. La sua “genuinità” era frutto di un rigore formale della “fiducia del buon artigiano” e della “francescana umiltà” di cui parlava Spinosa, che non lo hanno mai abbandonato, anche quando ha avuto l’onore di esporre in contesti artistici prestigiosi, come la Biennale di Venezia, la Quadriennale di Roma, il Premio “Michetti” o le tante edizioni della Mostra Nazionale d’Arte Sacra.

La stessa genuinità ed umiltà che lo hanno accompagnato nel corso dei suoi tanti anni d’insegnamento, prima come assistente all’Accademia di Belle Arti e poi come titolare della cattedra di Ornato disegnato al Liceo Artistico di Napoli.

Ricordo che, da bambino, il suo “studio” m’incuteva uno strano timore reverenziale, col grande cavalletto, la tavolozza multicolore, le centinaia di quadri e tavolette esposte ed accatastate, gli strani oggetti che mi apparivano, quasi surreali, disposti sul tavolo in attesa di essere fissati su tela o compensato dallo sguardo assorto e penetrante e dalla pennellata densa di mio padre.

Ricordo il suo impegno, minuzioso e infaticabile, nel cercare in quei tubetti di colori ad olio – di cui mi par quasi di avvertire ancora l’odore caratteristico, sposato a quello dell’acquaragia… – l’alchimia giusta per far rivivere, ricreandola, la realtà di una veduta, il volto di una donna o la fisicità immobile di frutti, fiori, oggetti e perfino pesci e uccelli, visti come soggetti da studiare e ri-produrre…

Da ragazzo sono stato spesso a far compagnia alla sua tranquilla solitudine nello studio di via Ribera, o l’ho accompagnato nei suoi frequenti giri quando si trattava di andare a catturare la natura della realtà all’aperto, in occasione delle cosiddette “estemporanee di pittura”.

L’ho seguito spesso nella sua scoperta della strana atmosfera silenziosa ed operosa dei cantieri navali nel porto di Napoli. Sono rimasto a fissarne i movimenti quando, dietro il suo cavalletto portatile, scrutava panorami e scorci di Forio d’Ischia, di Baia oppure di Agnano, quasi se se ne stesse nutrendo per poterli restituire agli altri attraverso la sua pittura, come un’ape che estrae dai  fiori il loro nettare, per trasformarlo in qualcosa di simile ma anche di profondamente diverso.

L’ho guardato mentre studiava un volto, le venature di una mano, la piega di un abito – in occasione di uno dei suoi molti ritratti – cercando di cogliere fino in fondo l’espressione, il sorriso e la stessa fisicità di chi stava pazientemente posando per lui da ore, guardando a sua volta quella figura alta, distinta, assolutamente seria e distaccata eppure così dolce.

Me lo ricordo bene, con i pennelli tra le dita macchiate di colore, col viso velato ogni tanto dagli sbuffi di fumo quando tra le sue dita compariva la punta incandescente di una sigaretta, che interrompeva periodicamente il lavoro della mano, assorbendolo in una contemplazione ancora più assorta del soggetto che aveva davanti.

Questo succedeva sia che si trattasse delle sue modelle "dal segno un po’ tedesco" (S. Ortolani), o di una delle sue nature morte "…dense e gustose, ove le tonalità dei verdi bottiglia rilucono gravi, conferndo un’aura misteriosa al dipinto" (P. Girace), oppure ancora dei suoi paesaggi "…così gentilmente primitivi, e pur carichi di sollecitazioni naturalistiche" colti dalla sua "assorta e delicata visione" che produceva "una bella veduta, precisa e ariosa", secondo le parole del critico Carlo Barbieri.

Ebbene, Guglielmo Ferraro ha attraversato i suoi 80 anni di vita guardando il mondo, la realtà, come un grande repertorio di meravigliose immagini da cogliere e restituire poeticamente agli altri, dopo essersene imbevuto profondamente. Ha comunicato, come insegnante, questa magia della forma e del colore a generazioni di allievi dell’Accademia-Liceo di via Costantinopoli, restando però anche lì un po’ spaesato in quel contesto rumoroso, brusco, agitato, attraversato dalla scontentezza e dai fremiti ribellistici dei ragazzi degli anni ’60 e ’70 e, sul versante dei docenti, dal sensazionalismo rutilante delle provocazioni artistiche, tipiche dell’informale e della pop-art.

Ha vissuto silenziosamente le amarezze di chi non si è mai rassegnato alla trasformazione del mondo dell’arte in un grande "mercato", dal quale si è sempre ritratto con la dignitosa fermezza di chi credeva in quello che faceva ma, d’altra parte, non aveva nessuna intenzione di polemizzare o di rivendicare nient’altro che la propria libertà di coscienza e di azione. Ha mantenuto sempre il low profile di chi, con modestia ma consapevolmente, fa il proprio dovere fino in fondo, senza aspettarsi gratificazioni personali dall’apprezzamento degli altri.

C’è una bella ma poco conosciuta "lettera agli artisti" che Giovanni Paolo II scrisse nel 1999, nella quale il Papa ad un certo punto affermava che: "nel modellare un’opera, l’artista esprime di fatto se stesso a tal punto che la sua produzione costituisce un riflesso singolare del suo essere, di ciò che è e di come lo è…" . Ebbene, questo è certamente vero per mio padre Guglielmo, , che ha sempre conservato quello "stupore" di cui parla più avanti lo stesso Papa, come dell’unico atteggiamento adeguato "…di fronte alla sacralità della vita e dell’essere umano […] La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente. E’ invito a gustare la vita e a sognare il futuro".

Guglielmo Ferraro, al di là delle tante opere manifestamente classificabili come "arte sacra", ha saputo infatti cogliere quel richiamo alla bellezza trascendente della stessa realtà, di fronte alla quale c’è sempre da stupirsi e che l’arte ci aiuta a riscoprire, come se la vedessimo per la prima volta. Come uomo, come docente e come padre ha conservato lo stesso naturale ritegno, lo stesso distacco che non era freddezza né rigidità, ma un modo per rifugiarsi in un mondo tutto suo, poestico e un po’ nostalgico, da cui usciva fuori talvolta, insospettabilmente, con vecchie canzoni napoletane o con caustiche battute e fulminanti giochi di parole…

Sono passati vent’anni dalla sua morte ed egli è sempre presente nella mia casa, nella mia famiglia, attraverso i molti quadri che ne ricoprono le pareti, facendo compagnia ai libri che mi hanno accompagnato in questi anni. E’ una presenza discreta ma calda, come quando era ancora fra noi, che fin da allora mi ha dato sicurezza, stabilità e valori saldi in cui credere, anche a costo di fare scelte "alternative", rischiando come lui la solitudine della diversità. Per questo gli sono grato e, nel rispetto della taciturna riservatezza che gli era propria, cercherò di ricordarlo come merita. 

Cercherò di ricordarlo soprattutto a chi ha completamente cancellato dalla memoria un’intera generazione di pittori napoletani del Novecento, dotati di gusto e di finezza artistica, ma sovrastati dalla volgarità barocca di troppi pinturicchi folkloristici e, al tempo stesso, da troppi artisti smaniosi di cavalcare un’avanguardia diventata presto post-avanguardia, senza essere riuscita a comunicare praticamente nulla al cuore e alla mente dei suoi ‘spettatori’.    

 Forse così, dopo questi cent’anni di solitudine, scopriremo che in realtà di veri artisti e maestri del colore a Napoli ne abbiamo avuti davvero tanti, e che riscoprirne l’opera significa anche rivalutarne la personalità e l’originalità.

“VIENI AVANTI, CHRETIEN !”

                                                di Ermete Ferraro

Ricordate la vecchia ma celebre battuta che introduceva gli sketch dei fratelli De Rege?  Quella frase, rivolta dalla "spalla" al protagonista comico ("Vieni avanti, cretino!")  mi è curiosamente tornata in mente stamattina, mentre riflettevo sull’evangelo di questa domenica, dedicato al brano di Matteo sulle "Beatitudini".

Il fatto è – ma pochi lo sanno –  che il termine spregiativo "cretino"  è nato dalla deformazione del francese "chrétien", come offesa ai Cristiani che avevano preso sul serio quelle affermazioni programmatiche di Gesù  e cercavano di testimoniare concretamente e tangibilmente la propria fede , applicando alla vita quotidiana la "pazzia" dell’evangelo. D’altra parte, parliamoci chiaro, senza una vera "metànoia", cioè un cambiamento radicale del nostro abituale modo di pensare e di agire, ci vuole effettivamente un bel coraggio a proclamare "beati" i poveri, gli afflitti, gli affamati e i perseguitati! Come diavolo ci verrebbe in testa, altrimenti, di esaltare l’umiltà, la mitezza, la misericordia, la purezza interiore, la sete di giustizia e di pace in un mondo in cui chi non è arrogante, prepotente, sospettoso e violento sembra destinato a soccombere miseramente? Insomma, bisogna essere proprio dei "chrétiens" per chiamare beate le vittime di un contesto ingiusto e oppressivo, invitandole perfino a "rallegrarsi ed esultare" !

Mi è poi venuto in mente che l’espressione italiana magari !(resa ancora più fedelmente dal napoletano " ‘mmacàro" ) non è altro che la ripresa letterale dell’esclamazione greca che l’evangelista Matteo volle ripetere ben nove volte per proclamare le "beatitudini" secondo Gesù di Nazareth, la nuova tavola dell’unica legge che conta, quella dell’amore.  Il passo evangelico di questa domenica, infatti, ci ripresenta il discorso-chiave della sua predicazione, ritmato nella lingua greca da quel martellante "makarioi"  che si pronuncia proprio: makàrii…. Probabilmente il termine ebraico-aramaico usato originariamente da Matteo era מאשר  (meushàr), il cui suono risulta abbastanza simile a quello dell’aggettivo greco (M-SH-R/ M-K-R) e che significa: "felice", "approvato". La traduzione italiana, figlia di quella latina ma un po’ meno fedele, è stata "beati", la cui etimologia si può forse far risalire alla radice di "bene"/"buono", nel senso di "colmi di beni.

E di quali beni, poi, sarebbe poi colmato il Chrétien? Esattamente di tutte quello che noi chiameremmo normalmente "guai", "sciagure", "sventure" e via elencando; parole indicanti qualcosa che nessuno mai si augurerebbe: povertà, afflizione, bisogno, persecuzione… Siamo onesti! Chi di noi si rivolgerebbe ad un’altra persona esclamando: "Magari tu fossi povero, afflitto, affamato e perseguitato!" senza attendersi in risposta qualche espressione assai poco evangelica? Eppure è proprio questa logica paradossale, questa "follia" evangelica, questa incredibile "stoltezza" che dovrebbe contraddistinguere i veri cristiani.     Lo  ribadiva chiaramente san Paolo nella seconda lettura di questa domenica, tratta dalla prima lettera ai Corinzi: "Dio ha scelto ciò che nel mondo è stoltezza per confondere i sapienti; Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignorabile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio." (I Cor 1,27ss)

La "buona notizia" di Gesù Cristo è resa efficacemente in questa apparentemente paradossale chiave di lettura, l’unica che ci può indurre ad aspettarci serenamente ciò che nessuno mai si augurerebbe e che, è bene chiarirlo, non diventa automaticamente buono solo perché può fungere da strumento della nostra santificazione. Il discorso di Cristo non è affatto l’esaltazione della sofferenza patita né può in alcun modo giustificare coloro che affliggono il loro prossimo e  lo lasciano  nella fame e nella sete, oppure che fanno le guerre e perseguitano chi gli è d’intralcio. Anche se la versione di Matteo sembrerebbe rinviarci ad una giustizia futura e ad un riequilibrio trascendente, la verità è che il regno di Dio lo dobbiamo realizzare ,già su questa terra, noi figli di quell’Adam che dalla terra (adamà) prese il suo nome.

Il programma alternativo di questo regno è tanto semplice quanto assurdo per la nostra mentalità: dobbiamo diventare: "poveri in spirito", cioè umili, ma anche "miti", "misericordiosi", "puri di cuore", "operatori di pace". Attenzione: nessuno dice che dobbiamo andarci a cercare masochisticamente afflizioni, sofferenze, disprezzo, diffamazioni ed insulti, ma il guaio è che sappiamo bene che chi decide di imboccare la "porta stretta" di Gesù, seguendolo su questa difficile strada, ha ottime probabilità di tirarsi addosso, una dopo l’altra, queste spiacevoli conseguenze… 

E allora facciamoci reciprocamente coraggio, perchè sappiamo bene, da duemila anni, che "il mondo" è pronto a ridicolizzarci e a trattarci da cretini se soltanto proviamo a mettere in pratica ciò in cui crediamo e se non rinunciamo a testimoniarlo con la nostra vita di tutti i giorni. E magari  ci riuscissimo davvero !…