BENTORNATO, MARIO ! (1)

Bentornato, Mario ! (1) 

Caro Mario,

questa volta ti scrivo per esprimerti la mia gioia per il tuo ritorno tra noi. Un ritorno "virtuale", certo, ma non meno commovente e profondo, che ti ha finalmente riportato in mezzo a noi e ti ha permesso d’incontrare, dopo tanti anni, tanti tuoi vecchi amici e compagni di strada. Sabato scorso, tra i velluti e gli stucchi dorati del teatro "Mercadante", non solo abbiamo finalmente potuto vederti e parlare di te, ma ci siamo anche anche sentiti per tre ore tuoi interlocutori. Eh già, come recitava il titolo della manifestazione ("Parliamone con Mario") in quella sala non c’erano solo le impalpabili immagini della tua intervista a Moreno Alessi, ma c’eri proprio tu, con il tuo sguardo sfottitore, con la tua inconfondibile mimica, con le tue pause da incallito attore di una vita da film.

Sabato mattina è avvenuto un piccolo miracolo. Per alcune ore la macchina del tempo ci ha riportati indietro, a quegli incredibili anni ’60 e ’70, ed intorno a te si sono materializzati decine di personaggi che hanno scritto, insieme con te, tante pagine fondamentali di una storia di Napoli che ben pochi conoscono e che deve ancora essere studiata compiutamente. Dissoltesi le immagini evocatrici del filmato in cui tu ti raccontavi in prima persona, nulla più mi sembrava come un’ora prima e sono certo che tutti i presenti si sono sentiti effettivamente immersi in una realtà che ha ormai ben pochi punti in comune con quella attuale. Una realtà di fede solida, popolare e laica; di proposte profetiche per turbare gli equilibri ipocriti dei benpensanti di sempre; di lavoro sociale, sanitario e educativo "dal basso", animato da speranze incrollabile e da convinzioni trascinanti. Altro che alternanza tra pensiero debole e pensiero unico! Altro che volontariato col bollino blu e concertazione tra istituzioni e terzo settore! Altro che "committenza pubblica", con tanto di gare di appalto, associazione temporanee d’impresa, protocolli d’intesa e via burocratizzando…!

Il tuo ripercorrere quegli anni – dal seminario all’avventura notturna in mezzo agli scugnizzi, dalla "chiesa mobile" alle lotte con i baraccati, dagli studi londinesi al radicamento della tua casa dello scugnizzo come centro di sviluppo comunitario – ci ha riportati bruscamente ad un’epoca in cui si parlava poco di "progetti" ma molto di "Progetto"; poco di sedicenti "organismi rappresentativi" ma assai di più più di protagonismo popolare. Anni in cui il verbo "servire" – fosse coniugato in chiave evangelica o marxista – aveva ancora un senso compiuto. Anni in cui si sentiva che "schierarsi" non era una scelta faziosa ma un dovere etico, prima ancora che politico e che, come diceva don Milani, la stessa obbedienza (religiosa, di partito, di ruolo…) non era più una virtù, bensì uno schermo per non decidere con la propria testa, secondo ragione e coscienza.

Dopo quelle immagini che ti ri-evocavano così efficacemente, ho visto l’assessore Cardillo vistosamente commosso; ho sentito il sindaco Jervolino emotivamente coinvolta da un messaggio che l’interpellava come cristiana e come napoletana; ho sentito serpeggiare in sala una sensazione comune di rimpianto per quel periodo eroico, privo di dubbi e di compromessi, in cui non si stava tanto a studiare le strategie, ma si agiva e ci si comprometteva, si obiettava duramente ma, al tempo stesso, si lavorava in prima persona per costruire alternative credibili e funzionali. Le belle testimonianze che hanno seguito il riconoscimento pubblico dell’Amministrazione Comunale di Napoli nei tuoi confronti (una medaglia d’oro consegnata al tuo omonimo nipote), hanno ripreso con intensità ed efficacia questo clima non tanto di ricordo, quanto di recupero di quello spirito che don Sturzo avrebbe definito "libero e forte" e che tu hai saputo "incarnare" così bene nel tuo lavoro con gli ultimi di quella eduardiana "Napoli milionaria", che non sarebbe mai più stata come prima della guerra.  (SEGUE…)

BENTORNATO, MARIO! (2)

Tonino Drago – vero profeta della nonviolenza e tuo collaboratore in quella "ricerca sulla pace" di cui sei stato di fatto l’antesignano in Italia – ha sottolineato giustamente proprio questo aspetto della "solidarietà popolare" e della "religiosità popolare", che sono andate appannandosi progressivamente, scavando un solco sempre più profondo tra le due Napoli. E la giornalista Donatella Trotta ha ricordato non a caso che tu – difensore del diritto alla casa delle prostitute delle baracche del Porto – in una delle tue ultime interviste hai duramente denunciato la "prostituzione" che serpeggia sempre più verso il potere in tutte le sue forme. Sul palco del Mercadante, con sullo sfondo il tuo viso provocatore, si sono alternati tanti tuoi vecchi "compagni", dall’ex-animatore della Mensa dei Bambini Proletari Geppino Fiorenza al già prete-operaio Giovanni Tammaro; dai due mitici "fratelli Greco" dei Centri Sanitari Popolari a Gianni Attademo, da sempre impegnato con i minori a rischio. Ed in sala ti applaudivano – e un po’ si applaudivano – tanti altri amici di quei tempi, da Edoardo Petrone a Mirella Pignataro; da Lanfranco Genito a quelli che hanno lavorato con te dagli anni ’70, come Sergio Minichini, Patrizia di Matteo, Gigi Bucci ed io stesso. Il ricordo più sentito, però, è stato quello del tuo ex-scugnizzo Salvatore Di Maio, ora importante dirigente comunale, che ha aperto e concluso questo incontro in cui abbiamo parlato di te e con te.

Da quel filmato tu sei emerso come ti abbiamo conosciuto, irridente ed autoironico, pienamente consapevole di tutto quanto hai fatto ma al tempo stesso capace di smitizzarti da solo, al punto da dire che quando si è liberi davvero ci si sente più leggeri, meno indispensabili, capaci di riconoscersi dei "fessi" qualunque. Penso che sia il tuo modo colorito per parafrasare la nota frase di S. Paolo, quando invitava i seguaci di Cristo a fare tutto il loro dovere, riconoscendosi però, alla fine, solo dei "servi inutili". Beh, caro Mario, dopo questo incontro con te io, come credo anche altri, mi sono sentito davvero tale, ma ho anche assaporato il piacere ed il grande privilegio di esserti stato vicino per parecchi anni e di averti avuto come maestro.

Ciao e grazie per quello che ci hai lasciato e che – è una promessa – sapremo far fruttificare.

Ermes

 

CIAO, MARIO…!

borrelli3Lettera a Mario Borrelli

di Ermete Ferraro

Ciao Mario! Ieri sera, nella “tua” vecchia parrocchia di Mater Dei non eravamo in tanti a ricordarti, e comunque neanche ai tuoi funerali, giusto un anno fa e nella stessa chiesa, c’erano tutti quelli che pur devono molto alla tua incredibile esperienza di padre e di maestro. D’altra parte non sarebbe bastato il Duomo se fossero intervenuti alla santa messa in tuo ricordo le centinaia di ex-scugnizzi tuttora sparsi per il mondo, di ex-baraccati, di ex-prostitute, per non parlare delle migliaia di lavoratori, disoccupati, donne, vecchi e bambini ai quali la “Casa dello Scugnizzo” ed il Centro Comunitario di Materdei hanno offerto per 57 anni non solo uno spazio unico per stare insieme, ma un’accoglienza solidale e fattiva, un’occasione inostituibile per crescere come persone, come gruppo e come comunità.

Un anno fa a darti l’ultimo saluto, oltre a parenti e amici ed a noi vecchi amici e collaboratori della Fondazione, c’erano stati alcuni di quelli  che hanno condiviso almeno una tappa della tua fantastica avventura, come: Tonino Drago, Giuliana Martirani, Samuele Ciambriello, Geppino Fiorenza, Donatella Trotta, ed a rappresentare la Chiesa di Napoli era venuto un vicario episcopale, latore e lettore di un messaggio del Cardinale. Ieri, invece, erano presente tra noi il Sindaco Jervolino e l’assessore Cardillo, per testimoniare di persona il riconoscimento, sia pur tardivo, di una città che ha il brutto vizio di dimenticare i grandi uomini ai quali ha dato i natali e che, proprio come hai fatto tu, l’hanno fatta conoscere in tutto il mondo, …

Enrico Cardillo, in un articolo pubblicato dal “MATTINO” dopo la tua morte, così ti descriveva: “Tu, famoso nel mondo come apostolo dei poveri, non violento ma straordinariamente carismatico nell’organizzare e sostenere le lotte per la casa, il lavoro, l’autoriduzione di affitti insostenibili, la salute durante il colera, l’aumento del pane, l’istruzione pubblica gratuita, la pace nel mondo. Poi vennero anche film e libri che narravano la tua storia, quella di Don Vesuvio, il prete degli scugnizzi”. E poi ricordava le decine di personaggi che ti hanno incrociato in quegli anni eccezionali, tra cui Luigi e Donato Greco, Mariella La Falce, Felice e Mariella Pignataro, Tonino Drago, Giovanni Tammaro, Claudio Ciambelli, Paolo Giannino, Goffredo Fofi, Luciano Carrino, Massimo Menegozzo, Piero Cerato, Geppino Fiorenza, Vittorio Dini, Fabrizia Ramondino, Domenico De Masi, Enrico Pugliese, Percy Allum, Giuliana Martirani e tanti altri. Un mondo “alternativo” che oggi ci sembra quasi incredibile, composto di pediatri di base e animatori socioculturali, di fisici e giudici, di scrittori e sociologi, di credenti e non credenti, tutti uniti però dalla voglia di cambiare la loro realtà “dal basso” (allora di diceva così, anche se oggi questa espressione suona ormai un po’ strana…).

Beh, quello che è certo è che “in basso”, tra gli “ultimi” ci sei rimasto tu per mezzo secolo, in quella che Cardillo, sempre nel suo articolo, definiva la “Napoli degli esclusi, dei più poveri, di quelli cui vengono negati i diritti” e che tanto “doveva al tuo insegnamento forte e non violento”.  Eppure quella “città che ti deve tanto” non era realmente presente ai tuoi funerali né, ieri, al ricordo dell’anniversario della tua morte, che ha spento la tua esistenza terrena ad Oxford, dove vivevi ormai da circa dieci anni. Come si dice di solito in questi casi: nemo propheta in patria”…? Non lo so, ma d’altra parte non è un certo un caso se, invece, il prestigioso “TIMES” di Londra ti ha riservato un lungo articolo, nel quale racconta …Don Vesuvio, la Tigre di Napoli, il Santo di Napoli, il “Provocatore”, definendoti “visibile trionfo di dedizione cristiana e di una determinazione che non si lascia piegare dalle avversità” e ricordando il tuo “senso di convinzione senza compromessi”. Non è un caso nemmeno che l’altrettanto prestigiosa LSE (London School of Economics) – dove negli anni caldi 1968-70 conseguisti una laurea magistrale in “amministrazione sociale” – abbia pubblicamente celebrato il tuo percorso di operatore sociale d’avanguardia, laddove la nostra Università ed altre istituzioni accademiche non hanno ricordato neppure con una riga la scomparsa di un grande figlio di Napoli, il solo che sia riuscito a mettere d’accordo la teologia con la sociologia, la ricerca storica con una pionieristica peace research, il gusto genuino per la tradizione del popolo napoletano col netto rifiuto di ogni forma di folklore che, in nome del profitto, inchiodi Napoli alla sua squallida “filosofia della miseria”.

E poi, dov’era – un anno fa come anche ieri – quella “chiesa del dissenso” che ti haMario ed io visto protagonista per anni, come primo direttore della rivista “IL TETTO” e come instancabile animatore di quel “Coordinamento dei gruppi volontari”, che riuscì a riunire a Materdei le migliori espressioni del mondo cattolico più impegnato, dei gruppi nonviolenti e per l’obiezione di coscienza e di quelle “comunità di base” di cui resta solo un pallido ricordo? Ti sarà bastato il messaggio inviato al tuo funerale dall’attuale Arcivescovo  per cancellarti dalla memoria tanti anni di freddezza, di gelido distacco, di diffidenza malcelata, che ti hanno seguito nel tuo difficile percorso da “outsider” di tutte le istituzioni, fossero ecclesiastiche ma anche civili e politiche?  E che fine hanno fatto quelli che oggi si sciacquano la bocca con termini come welfare community o empowerment, ma non sanno (o hanno preferito scordarsi…) che per decenni sei stato tu il solo riferimento internazionale nel piccolo mondo antico dell’assistenzialismo nostrano, e che i tuoi saggi che parlavano di “coscientizzazione e sviluppo comunitario” li hai scritti quando qui da noi neppure si parlava di “politiche sociali” …?

Simona Petricciuolo, in un suo articolo su di te pubblicato su “IL MATTINO”, ha scritto: Borrelli ha dimostrato che era possibile svincolarsi da tutti i poteri, lui che da sacerdote, per seguire al meglio la propria vocazione, si è dovuto svincolare anche da quello della Curia, e fare qualcosa di concreto per aiutare che ne aveva bisogno”. Mi sembra che effettivamente abbia saputo cogliere quanto sia stata sempre difficile e contro-corrente ogni tua scelta, anche quando era quella di essere “semplicemente un cristiano”, come dichiarasti in una tua vecchia intervista alla BBC, respingendo “con impazienza” – per citare ancora “THE TIMES” – la tendenza a trasformarti già in vita in “santo virtuale”… Eppure non facile tentazione, visto che per anni sei stato considerato quasi un super-eroe, grazie al libro di Morris West – citato perfino dalla moglie del presidente degli USA, Eleanor Roosvelt – al film in bianco e nero su “Don Vesuvio”, alle centinaia di articoli ed interviste radiotelevisive, alla tua stessa fama di esperto internazionale di sviluppo e di pace, invitato a far da relatore per la comunità Europea, per la Nazioni Unite e in decine di forum mondiali sull’educazione alla pace.

Sai una cosa, Mario? In questa prima settimana di Quaresima mi è tornato spesso alla mente il termine “incarnazione”, parola-chiave della tua esistenza religiosa e laica al tempo stesso. L’amore senza timore per Dio; la vera solidarietà ( che può essere solo da uguali) verso la sofferenza dei fratelli; la speranza operosa nel cambiamento; la sete di giustizia e di pace; la difesa d’ufficio dei diritti dei più deboli e degli ultimi – che sono poi il centro vivo della “buona notizia” di Gesù – avevano per te l’esigenza di “incarnarsi”, di diventare realtà concreta (e sofferenza vera…) qui e ora. Nessuno più di te amava le parole e la loro magia, e questa era una delle cose che – insieme con la scelta dei poveri – mi hanno fatto sempre sentire vicino a te, al tuo gusto filologico, alla tua ricerca d’insospettabili collegamenti tra concetti e parole… Eppure hai scritto, presentando un libro di Francesco de Notaris: …Il dilemma è sapere che cosa significa la nostra parola, da dove parte e cosa vuole… Ci siamo fatti prigionieri della parola. La parola si è staccata dalla persona come strumento o paravento o difesa. Chi parla quando nessuno vuol sentire parla a se stesso. E se uno parla a se stesso, perchè parla? […] La Parola si è fatta carne e si è tuffata nel nulla e si è nascosta tra gli uomini nel silenzio e nel dolore e si è fatta luce, forza, sostegno, speranza concreta e resurrezione. I rami sono le radici del cielo, come le radici sono i rami della terra. Rifacciamoci con fatica e dolore le nuove radici anche se l’albero sta imputridendo, da liberi e giusti e solidali con tutti quelli cui la storia degli umani ha riservato lo stesso disumano destino sociale”.

Ecco, tu sei riuscito effettivamente a vivere libero, giusto e solidale con tutti quelli che il nostro disumano “progresso” ha lasciato e continua a lasciare indietro, soprattutto in quest’epoca di globalizzazione selvaggia e di religione iperliberista del materialismo, che  emargina sempre più chi non regge il passo e finisce con l’inciampare, mentre di “buoni samaritani” ce ne sono rimasti molto pochi, e alla carità cristiana si è preferito sostituire l’assistenza burocratica o lo pseudo-volontarismo del non-profit”…

Quando Donatella Trotta t’intervistò, per il “MATTINO”, seppe cogliere in te: “…un lampo nello sguardo dalla trasparenza dell’ acquamarina rimasto aguzzo: ad evocare un’antica, indomita focosità stemperata soltanto dall’età e dai…capelli bianchi”. Ed è effettivamente difficile non ricordare i tuoi incredibili occhi azzurri, che trapanavano l’interlocutore con lo sguardo indagatore e un po’ sfottitore che non hai mai perso, e che affiora perfino nella tua ultima intervista davanti ad una telecamera, che ora abbiamo trasformato in un film per ricordarti meglio alle nuove generazioni. “Del resto – commentava la giornalista – [Borrelli] non ha mai avuto peli sulla lingua l’ex “Don Vesuvio” che più di cinquant’anni fa scelse di intrecciare concretamente la propria vita di sacerdote oratoriano e fine studioso con gli scugnizzi orfani del dopoguerra napoletano, con i baraccati e le puttane senza diritti, vivendo e combattendo con loro on the road al di là di ogni convenzione, da scomodo e ribelle prete-scugnizzo e polemico avventuriero di Dio, vagabondo tra i vagabondi e maieuta caparbio e insofferente a qualunque forma di sopraffazione e iniquità dell’uomo sull’uomo”.

Effettivamente tu sei stato tutto questo:  “sacerdote e fine studioso” ma anche “scomodo e ribelle prete-scugnizzo”. Anche la definizione di “polemico avventuriero di Dio” ti sarebbe piaciuta, perché diametralmente opposta a quella colorita definizione di “filibustiere di Dio” con cui spesso gratificavi uno dei rappresentanti di quella “chiesa con la ‘c’ minuscola” da cui ha sempre preso le distanze. Anche “vagabondo tra i vagabondi” rende bene gli anni da te vissuti intensamente tra carbonai, operai, baraccati, girando con la tua “chiesa mobile” dove c’era lo spazio per le “guarattelle” così come per il Santissimo, e dove il latino, il napoletano e l’inglese si erano sposati incredibilmente in una comunicazione in cui la parola serviva davvero a testimoniare la verità.

Ciao, Mario! Ci manchi, mi manchi tanto… Non voglio affatto trasformarti in un “santino” – anche perché so che mi prenderesti a male parole –  ma spero tanto che questo mio ricordo riesca a raggiungerti e a farti sentire quanto abbiamo ancora bisogno del tuo esempio, della tua profondità di pensiero, della tua ironia, delle tue provocazioni, come quando hai dichiarato, nell’ultima intervista che vedremo presto come film, che il futuro non ha senso, se non ha radici nel nostro personale presente, concetto che bene esprimevi anche nella presentazione al libro di De Notaris:

“Se i semi del nostro futuro non sono nel nostro presente passeremo alla storia come muti testimoni di una città morta. Quale alternativa resta al ‘silenzio della ragione’ ? La protezione dei santi morti che tardano a fare miracoli o dei santi vivi che non sentono la responsabilità di operarli?. La speranza non può esaurirsi in un futuro di cose da possedere ma in un futuro di uomini disposti a cambiarsi. Se permane un’atmosfera di emergenza, di anormalità, di eccezionalità,di escatologia, di messianismo sociale, i piani futuri saranno concepiti in un contesto di dipendenza e di servitù.”

  Aiutaci, Mario, stacci vicino, soprattutto in questo periodo di continue e artificiose “emergenze”, per costruire insieme, dal basso, quel “futuro di uomini disposti a cambiarsi”, senza aspettare miracoli né nuovi messianismi. Forse così riusciremo davvero a proseguire il lavoro che hai portato avanti per tanto tempo, testardamente e controcorrente, e dimostreremo di aver capito la tua lezione. Ciao, Mario, e grazie!

        Ermes

CENT’ANNI DI SOLITUDINE…

Ad un secolo esatto dalla nascita, il pittore

 Guglielmo Ferraro nel ricordo del figlio Ermete. 

L’otto febbraio ricorrevano esattamente 100 anni dalla nascita del pittore Guglielmo Ferraro, mio padre, morto nel novembre del 1988, quasi venti anni fa ed il cui autoritratto accompagna queste righe.

Non mi è facile parlarne qui e adesso, come non è stato facile finora, trovando le parole giuste per ricordarlo degnamente e rispettando, al tempo stesso, quella sua caratteristica riservatezza di persona schiva, timida, umile.

Un uomo, un padre ed un’artista di poche parole, che ha attraversato quasi in punta di piedi gli ottanta anni della sua vita, da vero signore, in mezzo al chiasso, alla volgarità ed all’esibizionismo di un ambiente nel quale sembrava essere capitato quasi per caso e dove si sentiva a disagio.

Cent’anni di solitudine: il titolo del famoso romanzo di Gabriel Garcia Marquez mi è venuto automaticamente alla mente ripercorrendo questo secolo che ci divide dalla nascita di mio padre Guglielmo. Ma attenzione: si tratta di una solitudine che non va letta come mancanza di riferimenti, di affetti, di agganci con la realtà, ma piuttosto nel senso di oggettiva estraneità ad un mondo che egli avvertiva sempre più lontano dalla propria concezione dell’arte, più prossima a quella umanistica e, al tempo stesso, ad una sua visione quasi religiosa, come rilettura personale della realtà.DSCN1498

 “Ferraro rappresenta il caso singolare di un pittore che rifugge da ogni formula e da schemi e schermi dell’inflazione modernisticascriveva il maestro Domenico Spinosa, presentando il catalogo della sua personale del 1974 – [il visitatore] avrà la rara occasione di poter accostare un pittore che opera, che ha sempre operato, con la coscienza e la religiosa fiducia di un buon artigiano […] Una presenza…questa di Ferraro, singolare e confortevole; una pausa rilassante e rasserenante in mezzo a tanta confusione: un’affermazione di rara compostezza artistica e morale, sincera e umana fra tanti sfiatati annunzi di miracolistici eventi. Nel gran vuoto e nel gran silenzio che si lascia indietro il vaniloquio degli istrioni di turno, la voce di Ferraro così sommessa e – nella apparenza – così dimessa, acquista il valore di un richiamo a quanto di autentico e generoso impegno possa tendere l’interesse dell’uomo…”

 Ecco, “la coscienza e la religiosa fiducia di un buon artigiano”: in questa efficace sintesi del suo vecchio amico e collega Mimì Spinosa – persona peraltro molto diversa da lui, sia caratterialmente sia artisticamente – mi sembra che rispecchi fedelmente la vita e l’opera di Guglielmo Ferraro.

E bene gli si attagliano anche altri attributi utilizzati in questa presentazione: la sua presenza, umana e pittorica, ha effettivamente costituito una “pausa rasserenante e confortante” nel caos di un’arte troppo spesso urlata provocatoriamente, gettata in faccia al suo smarrito e confuso fruitore. La “compostezza artistica e morale” di mio padre Guglielmo – come testimoniato da Spinosa – è stata infatti la cifra stessa della sua vita, caratterizzata dalla sincerità dell’ “autentico e generoso impegno”  di chi,  però, ha scelto di mantenere “sommessa” la propria voce.

“Guglielmo Ferraro è temperamento riflessivo, pacato e ben disposto alla concezione lirica delle cose dipinte…” – osservava acutamente il critico Eolo Serao, cogliendone la poetica di pittore per cui l’osservazione e la riflessione erano sempre e comunque il primo, indispensabile, passo per poter poi trasfigurare liricamente la realtà, che si trattasse di quella di una persona, di un paesaggio oppure delle “cose” suggestivamente e un po’ misteriosamente composte in unità nelle sue tante nature morte…

Di “vibratili sensibilità e controllata moderazione” ebbe a scrivere invece un altro critico d’arte, Armando Miele, riuscendo a cogliere sia la sua volontà di rifuggire da ogni esasperata e falsata visione di ciò che cade sotto i nostri sensi, sia l’innata tendenza ad una moderazione che nasceva dal rispetto della realtà e dall’istintiva repulsione verso ogni forma di esagerazione e di plateale esibizionismo.

“Conosco la sua pittura: in essa trovo l’uomo con le sue delicatezze, con i suoi silenzi, con le sue meditazioni – osservava il critico Piero Girace – […] Ha una sua poesia genuina e la esprime in modo compiuto, nella disciplina della forma, con una colorazione soave…”

Sì, mio padre era una persona con una “delicatezza” e d’una compostezza decisamente estranee al suo – e a maggior ragione al nostro – tempo. La sua “genuinità” era frutto di un rigore formale della “fiducia del buon artigiano” e della “francescana umiltà” di cui parlava Spinosa, che non lo hanno mai abbandonato, anche quando ha avuto l’onore di esporre in contesti artistici prestigiosi, come la Biennale di Venezia, la Quadriennale di Roma, il Premio “Michetti” o le tante edizioni della Mostra Nazionale d’Arte Sacra.

La stessa genuinità ed umiltà che lo hanno accompagnato nel corso dei suoi tanti anni d’insegnamento, prima come assistente all’Accademia di Belle Arti e poi come titolare della cattedra di Ornato disegnato al Liceo Artistico di Napoli.

Ricordo che, da bambino, il suo “studio” m’incuteva uno strano timore reverenziale, col grande cavalletto, la tavolozza multicolore, le centinaia di quadri e tavolette esposte ed accatastate, gli strani oggetti che mi apparivano, quasi surreali, disposti sul tavolo in attesa di essere fissati su tela o compensato dallo sguardo assorto e penetrante e dalla pennellata densa di mio padre.

Ricordo il suo impegno, minuzioso e infaticabile, nel cercare in quei tubetti di colori ad olio – di cui mi par quasi di avvertire ancora l’odore caratteristico, sposato a quello dell’acquaragia… – l’alchimia giusta per far rivivere, ricreandola, la realtà di una veduta, il volto di una donna o la fisicità immobile di frutti, fiori, oggetti e perfino pesci e uccelli, visti come soggetti da studiare e ri-produrre…

Da ragazzo sono stato spesso a far compagnia alla sua tranquilla solitudine nello studio di via Ribera, o l’ho accompagnato nei suoi frequenti giri quando si trattava di andare a catturare la natura della realtà all’aperto, in occasione delle cosiddette “estemporanee di pittura”.

L’ho seguito spesso nella sua scoperta della strana atmosfera silenziosa ed operosa dei cantieri navali nel porto di Napoli. Sono rimasto a fissarne i movimenti quando, dietro il suo cavalletto portatile, scrutava panorami e scorci di Forio d’Ischia, di Baia oppure di Agnano, quasi se se ne stesse nutrendo per poterli restituire agli altri attraverso la sua pittura, come un’ape che estrae dai  fiori il loro nettare, per trasformarlo in qualcosa di simile ma anche di profondamente diverso.

L’ho guardato mentre studiava un volto, le venature di una mano, la piega di un abito – in occasione di uno dei suoi molti ritratti – cercando di cogliere fino in fondo l’espressione, il sorriso e la stessa fisicità di chi stava pazientemente posando per lui da ore, guardando a sua volta quella figura alta, distinta, assolutamente seria e distaccata eppure così dolce.

Me lo ricordo bene, con i pennelli tra le dita macchiate di colore, col viso velato ogni tanto dagli sbuffi di fumo quando tra le sue dita compariva la punta incandescente di una sigaretta, che interrompeva periodicamente il lavoro della mano, assorbendolo in una contemplazione ancora più assorta del soggetto che aveva davanti.

Questo succedeva sia che si trattasse delle sue modelle "dal segno un po’ tedesco" (S. Ortolani), o di una delle sue nature morte "…dense e gustose, ove le tonalità dei verdi bottiglia rilucono gravi, conferndo un’aura misteriosa al dipinto" (P. Girace), oppure ancora dei suoi paesaggi "…così gentilmente primitivi, e pur carichi di sollecitazioni naturalistiche" colti dalla sua "assorta e delicata visione" che produceva "una bella veduta, precisa e ariosa", secondo le parole del critico Carlo Barbieri.

Ebbene, Guglielmo Ferraro ha attraversato i suoi 80 anni di vita guardando il mondo, la realtà, come un grande repertorio di meravigliose immagini da cogliere e restituire poeticamente agli altri, dopo essersene imbevuto profondamente. Ha comunicato, come insegnante, questa magia della forma e del colore a generazioni di allievi dell’Accademia-Liceo di via Costantinopoli, restando però anche lì un po’ spaesato in quel contesto rumoroso, brusco, agitato, attraversato dalla scontentezza e dai fremiti ribellistici dei ragazzi degli anni ’60 e ’70 e, sul versante dei docenti, dal sensazionalismo rutilante delle provocazioni artistiche, tipiche dell’informale e della pop-art.

Ha vissuto silenziosamente le amarezze di chi non si è mai rassegnato alla trasformazione del mondo dell’arte in un grande "mercato", dal quale si è sempre ritratto con la dignitosa fermezza di chi credeva in quello che faceva ma, d’altra parte, non aveva nessuna intenzione di polemizzare o di rivendicare nient’altro che la propria libertà di coscienza e di azione. Ha mantenuto sempre il low profile di chi, con modestia ma consapevolmente, fa il proprio dovere fino in fondo, senza aspettarsi gratificazioni personali dall’apprezzamento degli altri.

C’è una bella ma poco conosciuta "lettera agli artisti" che Giovanni Paolo II scrisse nel 1999, nella quale il Papa ad un certo punto affermava che: "nel modellare un’opera, l’artista esprime di fatto se stesso a tal punto che la sua produzione costituisce un riflesso singolare del suo essere, di ciò che è e di come lo è…" . Ebbene, questo è certamente vero per mio padre Guglielmo, , che ha sempre conservato quello "stupore" di cui parla più avanti lo stesso Papa, come dell’unico atteggiamento adeguato "…di fronte alla sacralità della vita e dell’essere umano […] La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente. E’ invito a gustare la vita e a sognare il futuro".

Guglielmo Ferraro, al di là delle tante opere manifestamente classificabili come "arte sacra", ha saputo infatti cogliere quel richiamo alla bellezza trascendente della stessa realtà, di fronte alla quale c’è sempre da stupirsi e che l’arte ci aiuta a riscoprire, come se la vedessimo per la prima volta. Come uomo, come docente e come padre ha conservato lo stesso naturale ritegno, lo stesso distacco che non era freddezza né rigidità, ma un modo per rifugiarsi in un mondo tutto suo, poestico e un po’ nostalgico, da cui usciva fuori talvolta, insospettabilmente, con vecchie canzoni napoletane o con caustiche battute e fulminanti giochi di parole…

Sono passati vent’anni dalla sua morte ed egli è sempre presente nella mia casa, nella mia famiglia, attraverso i molti quadri che ne ricoprono le pareti, facendo compagnia ai libri che mi hanno accompagnato in questi anni. E’ una presenza discreta ma calda, come quando era ancora fra noi, che fin da allora mi ha dato sicurezza, stabilità e valori saldi in cui credere, anche a costo di fare scelte "alternative", rischiando come lui la solitudine della diversità. Per questo gli sono grato e, nel rispetto della taciturna riservatezza che gli era propria, cercherò di ricordarlo come merita. 

Cercherò di ricordarlo soprattutto a chi ha completamente cancellato dalla memoria un’intera generazione di pittori napoletani del Novecento, dotati di gusto e di finezza artistica, ma sovrastati dalla volgarità barocca di troppi pinturicchi folkloristici e, al tempo stesso, da troppi artisti smaniosi di cavalcare un’avanguardia diventata presto post-avanguardia, senza essere riuscita a comunicare praticamente nulla al cuore e alla mente dei suoi ‘spettatori’.    

 Forse così, dopo questi cent’anni di solitudine, scopriremo che in realtà di veri artisti e maestri del colore a Napoli ne abbiamo avuti davvero tanti, e che riscoprirne l’opera significa anche rivalutarne la personalità e l’originalità.

MISURA, PROVIDENZIA E MERITANZA…

fedMisura, providenzia e meritanza

Federico II


Misura, providenzia e meritanza
fanno esser l’uomo sagio e conoscente
e ogni nobiltà bon sen[n]’avanza
e ciascuna ric[c]heza fa prudente.       4

Nè di ric[c]heze aver grande abundanza
faria l’omo ch’è vile esser valente,
ma della ordinata costumanza
discende gentileza fra la gente.       8

Omo ch’è posto in alto signoragio
e in riccheze abunda, tosto scende,
credendo fermo stare in signoria.       11

Unde non salti troppo omo ch’è sagio,
per grande alteze che ventura prende,
ma tut[t]ora mantegna cortesia.       14

Estratto da "http://it.wikisource.org/wiki/Misura%2C_providenzia_e_meritanza"

Stamattina, sfogliando in metropolitana l’edizione napoletana del quotidiano “City”, mi sono imbattuto nell’affascinante rappresentazione marmorea di Federico II riportata sopra, forse l’unica che ne riproduca esattamente l’aspetto. Da cittadino dell’infelice Napoli del XXI secolo, di fronte a quello sguardo severo ed aperto al tempo stesso, mi è venuto allora spontaneo chiedermi che diavolo avrebbe pensato quel grande ed illuminato sovrano delle miserande vicende odierne della città dove nel 1224 egli fondò la Universitas Studiorum che ne porta ancora il nome.

Quali considerazioni avrebbe fatto quello che fu denominato stupor mundi di fronte a quella capitale del Mediterraneo, che è stata trasformata in città emblema del malgoverno e della devastazione ambientale? Credo che avrebbe avuto un bel po’ di motivi per stupirsi lui di come si sia riusciti a ridurre Napoli a capitale internazionale della munnezza e del malaffare… L’autore delle Constitutiones Regni Utriusque Siciliae (o "Costituzioni Melfitane") sarebbe rimasto certamente sconcertato nel constatare che perfino il sannitico "maestro giustiziere" del nostro incredibile Stato repubblicano è stato costretto a dare le dimissioni, perchè messo sotto accusa proprio da quei "giustizieri" di cui avrebbe dovuto essere il ministro…

A colpirmi, però, sono stati anche i versi del suo sonetto che ho riportato in apertura, nel quale – lasciando stare per un po’ i temi dell’amor cortese – Federico di Svevia si soffermava invece sulle virtù politiche che riteneva fondamentali, e che ne costituiscono il titolo: "Misura, providenzia e meritanza". Si tratta, purtroppo, di tre requisiti di cui oggi egli rischierebbe di non trovar più nemmeno le tracce fra coloro che esercitano funzioni di governo…  Come si fa, infatti, a parlare di misura di fronte alla smisurata arroganza di questa classe dirigente, incredibilmente incapace di ammettere, almeno in parte, le proprie responsabilità? Che cosa c’entra questa smarrita virtù dei tempi antichi con l’attuale, e altrettanto smisurata, sete di controllo di ogni aspetto della pubblica amministrazione da parte di gruppi d’interesse e di pressione? E poi: chi fra i politici attuali ci terrebbe a mostrarsi "sagio e conoscente", quando l’esercizio del potere è ormai stato privato d’un pur minimo legame con la saggezza e la conoscenza?

E di quale providenzia potrebbe andare in cerca quel grande e lungimirante sovrano in un’epoca come quella che stiamo vivendo, in cui prevedere le conseguenze dei propri atti e delle proprie scelte sembra diventato inutile – se non addirittura dannoso – alla pratica politica? Quello che è certo è che, se i nostri amministratori (ordinari e straordinari) avessero minimamente esercitato la virtù della "providenzia", non saremmo certo giunti a questo punto, non solo  in materia di rifiuti ma anche di gestione delle risorse territoriali, di contrasto alla disoccupazione e di provvedimenti per frenare il degrado quotidiano delle nostre città.

Non ne parliamo poi della meritanza, di cui il povero Federico II stenterebbe a trovare i segni in una società che ha progressivamente reciso ogni rapporto tra occupazione di funzioni di responsabilità ed effettivo merito e competenza per esercitarle. Per lui era evidente che la gentileza fra la gente non deriva affatto dalla abundanza di richeze – cui viceversa sembrano tendere tutti – ma piuttosto dall’ordinata costumanza  di chi conosce il proprio dovere e lo esercita ordinariamente, abitualmente. Il guaio è che chi si trova in una posizione di signoragio – cioè di potere e di controllo delle risorse – s’illude di potervi restare a lungo, saldo e stabile, ma spessoè costretto a sperimentare quanto sia facile "scendere tosto" da quell’artificioso piedistallo, come tutti recentemente abbiamo potuto verificare, scorrendo le cronache politico-giudiziarie di tanti nostri governanti.

Federico II ammoniva più di otto secoli fa che lomo sagio dovrebbe stare molto attento a non fare troppi "salti", ma chi cavolo glielo va a raccontare ai nostri politici di mestiere, per i quali "saltare" opportunisticamente da una parte all’altra sembra una sorta di caratteristica innata? Ecco, allora, che le altezze raggiunte da troppi di loro rischiano di trasformarsi in trampolini per ulteriori salti, con conseguenze spesso disastrose anche per loro stessi…

Fissando il volto fiero di quell’imperatore che seppe guardare molto lontano ma senza perdere la saggia concretezza di chi sa quello che fa, proviamo allora a sognare di poter essere amministrati da persone dotate di senso della misura, di capacità di previdenza e di effettivi meriti… Immaginiamo per un attimo di trovarci di fronte a chi non confonde il "signoragio" (cioè il puro e semplice esercizio del potere) con quella "signoria", che è frutto invece di una reale, effettiva, riconosciuta, capacità di governo…  Proviamo, infine, a figurarci una realtà dove la gentileza e la cortesia sostituiscano per un po’ le vagonate di volgarità e di arroganza provinciale da cui siamo circondati…. Beh, non ci resta che darci da fare, dal basso e in prima persona, perché tutto questo non resti solo una fantasticheria ma possa diventare, almeno in parte, realtà. La nostra realtà.