Dagli ‘Smarties’ alle ‘smart cities’

smartiesLa prima volta che mi sono imbattuto nel vocabolo inglese ‘smart’ si trattava di un noto prodotto dolciario industriale – chi non conosce gli Smarties? – consistente in coloratissime pastiglie dall’anima di cioccolato, nate nel Regno Unito addirittura prima della seconda guerra mondiale. Erano gli anni ’60: allora ero giovane e non mi ponevo domande su perché quei variopinti confetti si chiamassero così ma mi limitavo ad ingurgitarli. Solo molto tempo dopo (per la precisione 70 anni più tardi) la stessa azienda produttrice (la Nestlé) annunciò di aver dovuto ritirare da commercio i suoi Smarties ricoperti dal colorante sintetico  E133 (il ‘blu brillante FCF, ricavato dal liquido della distillazione del carbone per ottenere il coke). Esso infatti risultava piuttosto tossico o, quanto meno, dannoso in età infantile e poteva causare “iperattività, orticaria, insonnia […] sedimentazioni a livello renale e dei vasi linfatici” .[i]  Offrire ai bambini delle semplici pastiglie di cioccolato evidentemente era ormai troppo banale: bisognava colorarle coi residui di lavorazione del carbon coke per renderle così più… smart .

Da allora questo anglicismo ci ha perseguitato sempre più, attraversando vari ambiti dell’offerta commerciale, da quello automobilistico (come non ricordare la mini-vettura tedesca chiamata appunto Smart, utilizzando un ingegnoso acronimo) fino ad arrivare alle ‘smart cards’ (cioè le svariate carte magnetiche di plastica che utilizziamo ogni giorno al posto del denaro) oppure alle ‘smart cities”  ed alla ‘mobilità smart’, di cui si riempiono la bocca alcuni ambientalisti da salotto. Però, a parte l’uso troppo frequente e spesso immotivato d’un vocabolo inglese – potrebbe chiedere qualcuno – che cosa c’è di male a utilizzare questo aggettivo in vari contesti, sia pur con un comune rinvio all’idea di qualcosa di evoluto, moderno ed intelligente?  Beh, non ci sarebbe niente di male se dietro questa ammiccante parolina non si nascondessero significati molto più complessi e contraddittori. In questi casi io sono solito ricorrere ad un metodo infallibile: l’analisi etimologica d’una parola per comprenderne l’origine, ma anche la trasformazione semantica successiva.

Se chiedete ad un qualsiasi connazionale di media cultura che cosa pensa che significhi ‘smart’, e quindi come tradurrebbe in Italiano questo aggettivo, molto probabilmente risponderebbe: sveglio, intelligente, furbo o qualcosa di simile. Essere ‘smart’ , inoltre, ritengo che per i più comporti anche una connotazione di abilità, di evoluzione scientifica e tecnologica e di modernità. Basta del resto consultare un dizionario della lingua italiana per trovare elencata un’altra serie di significati – quasi tutti positivi – attribuiti a questa parola, fra cui: “elegante, alla moda […] sveglio… abile… brillante, spiritoso […] rapido, veloce… considerevole” [ii] , ma anche “…ingegnoso, svelto, vivace,acuto.” [iii]Ciò che si scopre consultando un dizionario etimologico della lingua inglese, però, è piuttosto sorprendente, in quanto ci rinvia ad un’origine del termine abbastanza diversa e, per certi versi, contrastante. Nell’Old English, infatti, questo aggettivo significava :

“doloroso, duro… che causa un dolore acuto […] Col significato di ‘eseguito con forza e vigore’ si trova dal 1300 c.: Con l’accezione di ‘svelto, attivo, intelligente’ è attestato dal 1300 c., dal concetto di battute o parole ‘taglienti’ etc., o anche ‘abile nel contrattare’ […] Con riferimento ad apparecchi/dispositive, nel senso di ‘che si comporta come se fosse guidato dall’intelligenza’ (come nel caso di ‘bombe intelligenti’) è attestato per la prima volta nel 1972…” [iv]

Continuando ad approfondire l’etimologia germanica di questa parola, si scopre che essa è strettamente legata al concetto di dolore fisico (ted. ‘Schmerz’), rinviando – senza o con la ‘s’ iniziale – addirittura al latino ‘mordere’, al greco ‘smerdnos’ (terribile) ed al verbo sanscrito ‘mardayati’ (frantumare, strofinare, schiacciare).

smart-bombsA questo punto qualche dubbio sulla totale connotazione positiva di questo attributo dovrebbe coglierci. Fra l’idea di creare dolore e paura con atti palesemente violenti ed il moderno concetto di ‘smartness’ (qualità intesa nell’accezione di: prontezza mentale, acutezza, intelligenza) c’è infatti un salto logico fin troppo evidente per non portarci a riflettere su questa strana ‘evoluzione’ semantica. Dobbiamo chiederci allora quale sia il nesso fra queste due categorie mentali. La prima risposta che mi viene in mente è che categorie come efficacia ed efficienza di un’azione potrebbero spiegarne la connotazione positiva con il latente riferimento all’astuzia, all’abilità ed alla dura determinazione di un soggetto nel perseguire un determinato scopo. Non a caso l’aggettivo inglese ‘smart’ rinvia al suo omologo ‘sharp’ , la cui etimologia ci riporta al mondo delle armi bianche, alle loro punte acute ed alle loro lame affilate (vista l’origine dal verbo germanico ‘sharf’ , che indica la capacità di tagliare o di pungere. Il significato positivo di questo attributo (“intelletto o percezione acuta o penetrante“ [v]) gli è derivato successivamente e in senso figurato.

L’idea che l’intelligenza sia una qualità propria delle persone che pensano e si comportano in modo ‘acuto’ (dal lat. acus = ago) e che usano un linguaggio ‘tagliente’ è un chiaro sintomo di una visione aggressiva della civilizzazione. Il progresso stesso viene considerato frutto di una lotta per l’affermazione di una parte sull’altra, sia pur utilizzando le ‘armi’ della scaltrezza o, quanto meno, anche quelle. Non a caso, infatti, Machiavelli consigliava così chi vuole governare:

<<Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende: non di manco si vede per esperienza, ne’ nostri tempi, quelli príncipi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini: et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà. Dovete adunque sapere come sono dua generazione [modi] di combattere: l’uno con le leggi, l’altro, con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie: ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. […] Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può per tanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro, e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma, perché sono tristi e non la osservarebbano a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro. A uno principe, adunque, non è necessario avere tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. >> [vi]

E’ proprio questa cinica ‘astuzia’ (l’origine è sempre guerresca, dal lat. hasta, cioè: lancia) che mi sembra incarnare meglio il concetto su cui mi sono soffermato. Una visione del mondo ‘smart’ non mi sembra necessariamente fondata sull’intelligenza in sé, semmai sull’uso di questa facoltà per affermarsi sugli altri o come ‘lione’ (che domina grazie alla sua forza) e/o come ‘golpe’ (la volpe, si sa, è il simbolo stesso dell’astuzia). A questo punto non c’è da stupirsi se qualcuno ha parlato di ‘smart bombs’ (da noi ribattezzate ‘bombe intelligenti’), o se gran parte delle soluzioni tecnologiche definite ‘smart’ pretendono di migliorare la vita dell’uomo ricorrendo a congegni elettronici che si stanno progressivamente sostituendo a lui, rubandogli il lavoro e mettendolo in condizione di essere controllato sempre e ovunque. Se aggiungiamo al campo semantico dell’aggettivo ‘smart’ anche la caratteristica della velocità e della prontezza, poi, comprendiamo come una visione del genere tenda ovviamente alla semplificazione ed all’omologazione, altri due strumenti di cui i nostri ‘principi’ si avvalgono per farci sentire semplici elementi di una realtà complessa, guidata e supervisionata dal ‘grande fratello’ di turno.  A questo punto tutto può diventare ‘smart’ (dall’orologio all’automobile, dal cibo alla vacanza, dal bancomat alle competenze linguistiche. Siamo infatti letteralmente circondati da ammiccanti proposte che c’invitano a fare nostri :‘smart food’, ‘smart cards’, ‘smart offices’ e perfino ‘smart skills’. Tutte sembrano alludere ad un mondo perfetto, dove rapidità ed efficienza si coniugano ad efficacia ed affidabilità. Ci stanno ‘smartellando’ il cervello anche sul piano urbanistico e perfino ambientale, vagheggiando città ideali, con tutti i vantaggi della tecnologia moderna ma senza nessuno dei pestiferi affetti collaterali che essa troppo spesso porta con sé.

Un nuovo topos retorico di questo ambientalismo 4.0 – che condivide ovviamente tale visione incentrata sull’innovazione tecnologica e sulla digitalizzazione spinta – è costituito infatti dalle cosiddette ‘smart cities’, pianificazioni urbane avveniristiche prospettate come ‘la’ soluzione all’invivibilità della nostre città moderne. Pochi però si ricordano che la parola inglese ‘digit’ non ha niente a che fare con le dita che percorrono sempre più velocemente e lievemente gli schermi ‘touch’ o le ‘smart keyboards’ dei nostri amati ‘smarphones’ , ‘tablets’  e ‘pcs’. In inglese, infatti, ‘digit’ vuol dire semplicemente ‘cifra’, per cui una civiltà digitale è, inevitabilmente, fondata sui numeri, sui valori misurabili, sulle quantità. Se andiamo a cercare su Wikipedia il significato di ‘smart city’ troviamo questa descrizione:

<< La città intelligente (dall’inglese smart city) in urbanistica e architettura è un insieme di strategie di pianificazione urbanistica tese all’ottimizzazione e all’innovazione dei servizi pubblici, così da mettere in relazione le infrastrutture materiali delle città «con il capitale umano, intellettuale e sociale di chi le abita» grazie all’impiego diffuso delle nuove tecnologie della comunicazione, della mobilità, dell’ambiente e dell’efficienza energetica, al fine di migliorare la qualità della vita e soddisfare le esigenze di cittadini, imprese e istituzioni.  […] Il concetto di città intelligente è stato introdotto in questo contesto come un dispositivo strategico per contenere i moderni fattori di produzione urbana in un quadro comune e per sottolineare la crescente importanza delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC), del capitale sociale e ambientale nel definire il profilo di competitività delle città, muovendosi verso la sostenibilità e verso misure ecologiche sia di controllo sia di risparmio energetico, ottimizzando le soluzioni per la mobilità e la sicurezza. Il significato dei due assetti (del capitale sociale e di quello ambientale) evidenzia la necessità di un lungo cammino da compiere per distinguere le città intelligenti o smart da quelle con maggior carico tecnologico, tracciando una linea netta tra di loro, ciò che va sotto il nome rispettivamente di città intelligenti e di città digitali.>>

smart-cityA parte il linguaggio usato – palesemente aziendalista e improntato ad una visione economicista della realtà, coi i suoi immancabili stereotipi come: ‘capitale’ umano, sociale e ambientale, ‘efficienza’, ‘ottimizzazione’ e ‘competitività’ – ciò che mi colpisce è che l’aspetto che dovrebbe richiamare invece una scelta ecologista si risolve nel banale rinvio al miglioramento della ‘qualità della vita’ e all’ambiguo concetto di ‘sostenibilità’. Ma, come osservavo in un precedente articolo:

<<…un modello di economia fondato unicamente sulla logica del profitto e del tutto incurante del rispetto degli equilibri biologici e di quelli sociali non potrà mai diventare ‘sostenibile’, almeno nel senso originario del termine. Se parliamo della definizione sintetica riportata all’inizio, infatti, non si comprende come un sistema fondato sulla massimizzazione del profitto possa conciliarsi con l’esigenza di garantire lavoro e cibo alla popolazione mondiale, benessere e giustizia ai singoli ed alle comunità locali, e riproducibilità alle risorse naturali.>> [vii]

Sto esagerando? Beh, proviamo a leggere un’altra definizione di ‘smart city’, che mi sembra abbastanza ufficiale, visto che è comparsa sul sito web dell’ENEA:

<<Una città è smart (Nijkamp) quando gli investimenti in capitale umano e sociale, le infrastrutture di comunicazione tradizionali (trasporti) e moderne (ICT), alimentano una crescita economica sostenibile e una elevata qualità di vita, con una sapiente gestione delle risorse naturali, ricorrendo ad una governante partecipativa. C’è quasi sempre un forte ricorso all’utilizzo delle tecnologie informatiche, di monitoraggio e controllo nella vita quotidiana, che comprende la connettività in rete, i sistemi di trasporto più moderni, le infrastrutture e la logistica e l’energia rinnovabile ed efficiente. Ad una Smart City si richiedono buone pratiche di partecipazione, elevati livelli di sicurezza, bassa incidenza della criminalità, un patrimonio culturale ben custodito. Una Smart City, se non è già una città sostenibile, per lo meno è una comunità sociale in evoluzione, mobilitata per crescere e per durare, ed anche per competere in fatto di economia, benessere ed inclusione sociale.>> [viii]

Anche in questo caso il linguaggio mostra una forte impronta tecnocratica ed economicista, ed evoca un modello di ‘crescita’ che, se accompagnata dall’aggettivo ‘sostenibile’, finisce solo col produrre uno stridente ossimoro. L’utilizzo di aggettivi con valenza positiva (sapiente, elevato, moderno, efficiente etc.) non riesce infatti a nobilitare sostantivi che rinviano ad un efficientismo produttivo, come: investimenti, crescita, governance o monitoraggio-controllo. Come osserva argutamente Roberto Mancini:

<<Uno dei risultati più paradossali di questo training è che, mentre l’economia diventa sempre più decisiva per la vita di tutti, della sua realtà effettiva si sa ben poco e si comprende ancor meno. Si diffonde così un’incapacità a sentire, a capire, a giudicare quello che accade. Nella sua dignosi della degenerazione degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, Dietrich Bonhoeffer parlava di Dummheit, cioè di ‘stupidità’, precisando che ‘si tratta essenzialmente di un difetto che interessa non l’intelletto, ma l’umanità della persona’. >> [ix]

Ecco: se non vogliamo cadere nella trappola di questa stupidità programmata, che utilizza slogan e luoghi comuni per convincerci che viviamo “nel migliore dei mondi possibili”  (l’assioma illuminista sul quale Voltaire ironizzava nel suo ‘Candido’), occorre stare molto attenti alle parole da cui siamo quotidianamente bombardati. Se la radice etimologica dell’aggettivo ‘smart’ ci riporta più al dolore ed all’aggressività che all’intelligenza ed alla saggezza, sarebbe meglio evitare di cadere in questa trappola mediatica. Si tratti dell’esaltazione acritica della ‘smart city’ o semplicemente della pubblicità degli ‘Smarties’.

© 2016 Ermete Ferraro ( http://ermetespeacebook.com )

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[i]  Cfr. http://www.my-personaltrainer.it/additivi-alimentari/E133-blu-brillante.html

[ii]  Cfr. http://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=smart

[iii]  Cfr. http://dizionari.corriere.it/dizionario_inglese/Inglese/S/smart.shtml

[iv]  Cfr. http://www.etymonline.com/index.php?term=smart

[v]   Cfr. http://www.etymonline.com/index.php?term=sharp

[vi]  N. Machiavelli, Il Principe e Discorsi, Feltrinelli, Milano, 1960 (cap. XVIII – pagg. 73-74

[vii]  E. Ferraro, L’insostenibile leggerezza della sostenibilità > https://ermetespeacebook.com/2015/05/03/linsostenibile-leggerezza-della-sostenibilita/ .V. anche lo scritto di Antonio D’Acunto, “L’insostenibilità dello sviluppo sostenibile”, in: Alla ricerca di un nuovo umanesimo, Napoli, La Città del Sole, 2015 (pp.240-270)

[viii]  Toni Federico, Innovazione e sostenibilità  > http://www.enea.it/it/pubblicazioni/EAI/anno-2013/n-5-settembre-ottobre-2013/smart-city-innovazione-e-sostenibilita

[ix]   Roberto Mancini, Trasformare l’economia. Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche, Milano, Franco Angeli, 2014 (p.10).