NO “PAGO BANCOARMAT” !

—–di Ermete Ferraro

“Banche armate”. No, non è un errore: si tratta proprio del nome della campagna promossa da Missione Oggi Mosaico di pace Nigrizia, per fare controinformazione e sensibilizzare l’opinione pubblica sul perverso intreccio tra i principali istituti di credito e l’industria delle armi; insomma, tra le multinazionali della finanza e quelle che trafficano in strumenti di morte. E, in effetti, noi italiani non ci facciamo mancare niente, da questo punto di vista. Siamo o non siamo all’ottavo posto nel mondo per spese militari ed al settimo nell’export di armamenti ? E allora, perché meravigliarci se intorno a questo ghiotto boccone ronzano tante mosche e mosconi travestiti da banchieri? A quanto pare, il settore che tira di più è proprio quello che una volta veniva denominato come “complesso militare-industriale” o “industria di morte”. Ricordo che negli anni ’70 c’era un vivace dibattito, anche all’interno del sindacato, sulla “riconversione civile” del settore bellico. Beh, a distanza di 30 anni l’impressione è che a resistere strenuamente sia stato proprio quest’ultimo, e che tante risorse finanziarie, anziché nutrire progetti di pace e di sviluppo solidale, siano andate a ingrassare l’industria degli armamenti….. Molti degli istituti di credito che finanziano questo immondo mercato (ne trovate qui sotto l’elenco, aggiornato all’anno scorso, tratto dal sito ufficiale della campagna: http://www.banchearmate.it) ovviamente hanno cominciato ad avvertire la pressione dei loro clienti più informati e consapevoli, che hanno minacciato d’interrompere il loro rapporto con chi appoggia i mercanti di morte. Qualcuno si è perfino spinto ad un’effettiva riduzione o interruzione di questo genere di finanziamenti, ma – come si sottolinea giustamente nell’editoriale di giugno ’08 del periodico “Bancanote”- la questione della presenza o meno in quella ‘lista nera’ non può esaurire le responsabilità etiche di tante banche nell’import-export di armamenti, mettendo in secondo piano altre non meno pesanti, come il finanziamento delle operazioni riguardanti le armi leggere. L’Italia, anche in questo caso, è al top della classifica dei produttori-esportatori mondiali e sarebbe ben strano se dovessimo fare un processo solo a chi finanzia i venditori di missili, trascurando chi foraggia i mercanti di pistole e fucili. Il nostro dovere è quello di opporci ad entrambi, a partire dalla diffida alle “banche armate” di cui ci troviamo facilmente ad essere correntisti (basta scorrere l’elenco per incontrare tutti i principali istituti creditizi italiani, a partire da Intesa-Sanpaolo che domina questa poco edificante “hit parade”), ma preoccupandoci anche di tutte le operazioni finanziarie che coinvolgono i nostri soldi in tanti squallidi affari. Per informarvi in proposito, e per capire come la nostra responsabilità morale non possa fermarsi alle soglie della nostra banca, per quanto sorridente e disponibile possa presentarsi, consiglio di visitare il sito cit. della Banca Popolare Etica e di approfondire questa ed altre esperienze di finanza alternativa.

DISPERSIONE, DISAGIO, DISADATTAMENTO…

                               di Ermete FERRARO

Sono passati 34 anni da quando presi la decisione di mettere da parte la mia attività di operatore sociale e di animatore socio-culturale per tornare a quell’insegnamento per il quale mi ero laureato ed abilitato dieci anni prima. Dal ’75 al ’77, il servizio civile che avevo prestato come obiettore di coscienza alla "Casa dello Scugnizzo" mi aveva condotto su un terreno del tutto nuovo ed appassionante. Ero diventato un educatore che si occupava di gruppi di bambini ed i ragazzi di un quartiere difficile di Napoli e, per riflesso, un "social worker" con/per quelle famiglie e quella comunità in cui quei minori stavano crescendo e si stavano formando. In quel decennio di "full immersion" in una realtà esistenziale e socio-culturale lontanissima da quella nella quale ero cresciuto, e grazie alla guida di maestri del calibro di Mario Borrelli e dei suoi primi collaboratori, avevo capito che conoscere ed analizzare quel contesto non serviva per intervenirvi presuntuosamente dall’esterno, in base ai miei schemi mentali ed alle mie priorità, ma piuttosto per coglierne i bisogni reali e per rispondere ad essi nel modo più adeguato ed efficace possibile.

Dal 1984, anno in cui ripresi ad insegnare (scegliendo non a caso di lavorare con i ragazzini delle medie e decidendo di farlo in due ambienti assai problematici, inizialmente nella parte vecchia di Casoria e, in seguito, nella zona del cosiddetto "Buvero", nel quartiere Vicaria di Napoli) ho tentato comunque di mettere a frutto la precedente esperienza di educatore ed assistente sociale, in primo luogo cercando di non dimenticare mai che dietro ogni "alunno" c’è un bambino, una famiglia, un quartiere, un modo di vivere, di pensare e di valutare. La seconda acquisizione che ho cercato di utilizzare anche da docente è che insegnare è un’attività fondata sulle dinamiche della psicologia di gruppo, e che la necessaria "personalizzazione" dell’insegnamento non esclude affatto l’esigenza di fare della scuola un’esperienza collettiva, di socializzazione, e non soltanto di formazione e d’istruzione.

Sono ormai parecchi anni, inoltre, che affianco al mio quotidiano lavoro d’insegnante (nel senso che ho appena chiarito) anche un impegno socio-educativo esterno alle mie classi, svolgendo il ruolo (chiamato inizialmente "funzione obbiettivo" e poi "funzione strumentale") di chi si occupa di analizzare e comprendere meglio la realtà scolastica, per proporre interventi e servizi volti specificamente a promuovere il "benessere" degli alunni/e. Era ed è un modo per cambiare un po’ la prospettiva della scuola, provando per prima cosa a mettersi dalla parte dei ragazzi, per comprendere meglio tutto ciò che produce in loro quello che eufemisticamente viene chiamato "disagio scolastico". In effetti si tratta di un malessere per niente nuovo e ovviamente molto diffuso, ma in contesti socio-economici e culturali come quelli dove ho scelto di operare capita molto spesso che vada ben oltre le dimensioni per così dire "fisiologiche" del comprensibile fastidio per un’attività vissuta come costrizione e fatica, trasformandosi in reazioni più dirompenti e preoccupanti, sospese tra la fuga dalla scuola (dispersione) e l’opposizione aperta ad essa (trasgressività, aggressività, bullismo).

DISPERSIONE, DISAGIO…segue (2)

Anche nel corso di questo ‘anno scolastico mi sono occupato di "disagio e dispersione" nella scuola media dove insegno da un bel po’, e alla fine ho provato a tracciare un bilancio di questo mio specifico impegno, che comportava sia il monitoraggio delle assenze frequenti o addirittura della totale inosservanza dell’obbligo di frequenza scolastica da parte di una buona fetta di alunni/e, sia la verifica delle situazioni più problematiche sul piano della socializzazione e del comportamento, tipiche di quel famoso "disagio" scolastico. In ambedue i casi, naturalmente, non si trattava solo di analizzare questi fenomeni, ma anche di porvi rimedio, intervenendo nel modo più opportuno ed efficace. Ebbene, mentre comprendere le origini remote e le cause specifiche di comportamenti del genere risulta abbastanza agevole, soprattutto a chi abbia un minimo di competenza sociale, quello che senza dubbio resta invece più difficile è trovare la chiave giusta per dare delle risposte chiare, univoche e concrete a quelle situazioni di disagio, peraltro sempre più diffuso e trasversale. Io penso che la nostra società sia viziata da due gravi peccati d’origine: il primo è l’influenza negativa esercitata dai vaghi sensi di colpa di genitori ed altre figure adulte nei confronti dei bambini, che finisce per condizionare pesantemente, se non per inficiare del tutto, un’azione educativa degna di questo nome, perpetuando il lassismo di chi, non sapendo più proporre valori e modelli comportamentali in modo credibile, rinuncia del tutto a farlo. Il secondo "peccato originale" credo sia legato ad uno stile di vita sempre più globalizzato e monoculturale, che è riuscito a fondere la tradizionale disattenzione per il futuro – tipica di chi è abituato da secoli a vivere alla giornata e ad apparire più che essere – con lo scellerato consumismo indotto chi è riuscito a mercificare tutto e ad esaltare la soddisfazione del piacere individuale come unico parametro di scelta, azzerando ovviamente ogni forma di etica e di solidarietà di gruppo

.Se si dà un occhiata ai tanti progetti che – nel nostro Paese come all’estero – tentano di contrastare il drammatico binomio disagio/dispersione, appare chiaro che essi si pongono nella maggior parte dei casi come un "correttivo" e/o una "integrazione" a quel modello educativo e didattico considerato "di base", considerando tali interventi come un modo per superare il "disadattamento" dei minori e per aiutarli ad "inserirsi" meglio proprio in quella società che ha prodotto quegli stessi guasti. Il progressivo, e sicuramente preoccupante, aumento dei tassi di questi "disadattati" alla scuola, però, ci costringe a chiederci se il nostro compito di educatori sia proprio quello, o se invece non sia il caso di guardare oltre una "normalità" che ogni anno risulta meno…normale.  Ad esempio: un ragazzino non riesce proprio a seguire un discorso, a capire un testo anche breve, ad esprimere quello che pensa e che sente? Niente paura: gli diamo un po’ di attività sportiva in più, lo mettiamo davanti al monitor di un computer oppure rispolveriamo il vecchio e vituperato "avviamento professionale", mandandolo in qualche laboratorio artigianale ad imparare un mestiere… Il "minore" in questione non riesce ad entrare a scuola in orario ed a restare decentemente per alcune ore tra i suoi coetanei; non ce la fa proprio a rispettare le regole collettive; si esprime solo in maniera aggressiva e senza alcun rispetto per le cose e le persone? Bene: lo facciamo frequentare per meno tempo e secondo regole diverse, alleggerendogli il carico didattico e magari facendogli fare soprattutto quello che già sa fare, così almeno non si scoccia…

DISPERSIONE, DISAGIO…segue (3)

 Ma siamo proprio sicuri che questa sia la strada giusta? Non è, per caso, che stiamo solo cercando di "rimuovere" il problema senza neppure provare a trovare una soluzione insieme con i ragazzi che pretendiamo di aiutare, assecondandone e cristallizzandone invece il disadattamento ? "Beh, sapientone – avverto che qualcuno mi sta dicendo a questo punto – tu invece che cosa diavolo hai da proporre?".  Mi dispiace se la mia risposta non risulta all’altezza dell’analisi, ma sinceramente – e, col passare degli anni posso aggiungere, umilmente – ammetto di non conoscere la soluzione giusta sempre e comunque né, del resto, mi sogno di rigettare del tutto le attuali strategie "rieducative". Sto solo chiedendomi se non sia un po’ da farisei affrontare il disagio scolastico come se fosse una malattia che colpisce il corpo sano della comunità scolastica, ed alla quale ci si debba precipitare a rispondere con "rimedi" che assomigliano troppo  quei farmaci che dovrebbero curare i guasti che quella stessa società continua a generare senza scrupoli né ripensamenti.  Per carità: dieci anni di animazione socio-culturale con ragazzini "a rischio" mi hanno insegnato che "fare" qualcosa è importante e che le "attività", soprattutto se svolte nella giusta dinamica di gruppo, sono indispensabili per avviare un percorso formativo che non sia mummificato negli schemi di una scuola che sembrerebbe sempre diversa e agitata da continue riforme, ma che stranamente, e in buona sostanza, riesce comunque a restare sempre la stessa da decenni. Il fatto è che le "attività", i "progetti" servono a poco – se non a nulla – quando non si sia nemmeno cominciato ad aprire un dialogo educativo degno di questo nome, affrontando il nodo stesso del disagio, che è quello relazionale.

Finché i ragazzi e le ragazze non impareranno a trovare dentro di sé le parole giuste per esprimere il loro malessere, per comprenderne le ragioni e per condividerle con altri – siano essi compagni o figure adulte di riferimento – ritengo estremamente improbabile che si riesca a ricostruire rapporti che troppo stesso si limitano a reprimere o ad esasperare la conflittualità, senza affrontarla per trovare soluzioni costruttive e non distruttive. In tal senso mi è stato molto utile il percorso formativo che ho seguito recentemente sulla "mediazione scolastica", un approccio che utilizza il gioco, le attività e qualsiasi altra tecnica di animazione come strumenti per educare i ragazzi/e a capire e gestire le proprie emozioni, ad affrontare apertamente i conflitti e a contrattare con gli altri delle soluzioni che non saranno forse le migliori in astratto, ma nascono dal rispetto reciproco e da obiettivi condivisi e comuni. Ovviamente un approccio del genere appartiene ad una mentalità che privilegia una visione "behaviorista" dell’educazione, ma non credo che escluda un’impostazione che faccia leva, invece, su valori morali e sullo sviluppo di una coscienza individuale e collettiva. Quello che è certo è che non possiamo più restare immobili, continuando a descrivere ed analizzare problematiche che sono state già abbondantemente affrontate, ma che non abbiamo la minima idea di come fronteggiare.  Non è tanto questione di che cosa far fare o non far fare ai troppi ragazzini/e che – per usare una colorita espressione napoletana – "schifano"  quella scuola dalla quale si sentono "schifati". L’unica risposta valida, credo, è concentrata nel celebre "I CARE", di cui don Milani aveva fatto la sua bandiera pedagogica. Proviamo a fargli sentire che a noi, invece, importa molto di loro e che siamo davvero al loro servizio per aiutarli a trovare la strada migliore per uscire dal disagio. Proviamo ad ascoltarli ed a capirli, senza condannarli o giustificarli a priori, e forse le cose andranno meglio.