Dare nuove gambe alla nonviolenza in cammino.

Mao Valpiana e Daniele Taurino (Mov. Nonviolento)

Ho partecipato sabato 24 febbraio – in rappresentanza del MIR Italia – al XXVII Congresso nazionale del Movimento Nonviolento, che si è tenuto a Roma dal 23 al 25 presso lo Spazio Pubblico- FP CGIL. Il Movimento – fondato nel 1964 da Aldo Capitini – si è riunito, dopo una lunga parentesi dovuta anche al periodo della pandemia, per portare il proprio contributo alla mobilitazione di Europe for Peace contro tutte le guerre, ma soprattutto per fare il punto sullo stato della propria organizzazione e sulle campagne nelle quali è da impegnato, all’interno della Rete Italiana Pace e Disarmo, di cui sta curando la segreteria organizzativa.

Nella serata di venerdì 23 si era già svolto l’incontro pubblico “Verso un’Europa democratica, ecologica, nonviolenta” e diversi interventi (fra cui quello di un dirigente di Legambiente) hanno sottolineato la centralità di un collegamento tra l’impegno per contrastare la crisi ecologica e quello contro le guerre, per il disarmo e per un’alternativa nonviolenta in materia di difesa. È questo, quindi, il primo punto che ho ritenuto opportuno sottolineare nel mio intervento a nome del MIR Italia, affermando che un progetto ecopacifista può e deve diventare uno degli elementi fondamentali di sinergia per opporsi sia all’attuale escalation bellica, sia ai diffusi atteggiamenti ostili verso una vera (e quindi radicale) svolta ecologista.

Il secondo tema-chiave, ribadito fin dal titolo dell’assemblea congressuale (“Obiezione alla guerra, oggi!”), è stato ovviamente quello del rilancio delle tradizionali lotte antimilitariste e nonviolente, per opporsi al progressivo ed allarmante scivolamento verso soluzioni armate ai conflitti, sospesi tra il ritorno a modalità belliche di vecchio stampo (guerre di trincea e di posizione) ed apocalittici scenari quali il ricorso alle armi nucleari e le ‘guerre spaziali’. In particolare, il recupero del concetto stesso e delle potenzialità pratiche di termini come ‘disobbedienza civile’, ‘resistenza alla guerra’ ed ‘obiezione di coscienza’ (fatalmente appannati da 20 anni di disaffezione dall’impegno politico e di sospensione, insieme con la leva obbligatoria, anche del servizio civile dei giovani obiettori antimilitaristi) rappresenta per entrambi i movimenti nonviolenti un’indiscutibile priorità, rinforzata dalla prospettiva più globale di opposizione alla repressione dello stesso diritto di obiettare. In tal senso, la partecipazione del MIR e del MN alla rete promotrice della #ObjectWarCampaignè stata un’eccezionale (sebbene drammatica) occasione per manifestare solidarietà agli obiettori, resistenti e disertori coinvolti nelle più palesi guerre in corso (russi, bielorussi, ucraini, israeliani e palestinesi), costruendo per loro un’efficace rete di protezione e sostegno, ma anche offrendo loro un supporto giudiziario e legislativo a livello internazionale.

Una terza importante questione trattata nel corso degli interventi congressuali è stata la difesa alternativa (non armata, civile, sociale e nonviolenta), che non può che essere (per usare temini gandhiani) l’indispensabile risposta ‘costruttiva’ alla pur necessaria azione ‘ostruttiva’ contro il complesso militare industriale, che genera conflitti armati, svolte autoritarie e militariste ed alimenta un già fiorente commercio di micidiali strumenti di morte, di distruzione e di devastazione ambientale. Anche in questo campo c’è purtroppo da recuperare un bel po’ di anni di mancata o scarsa controinformazione su un secolo di efficaci esperienze di resistenza civile e difesa alternativa, ma anche un ruolo dell’attuale ‘servizio civile universale’ , così da motivare i giovani a diventare protagonisti di una svolta antimilitarista e nonviolenta. Se è vero, come affermava Mao Valpiana, che in questi lunghi anni la nonviolenza, pur non risultando adeguatamente visibile come alternativa, ha comunque continuato a scorrere sotterranea come un ‘fiume carsico’, sembra ormai giunto il momento (oggi!) di farla finalmente riaffiorare, per bonificare con le sue acque di vita una realtà mortifera, desertificata dalla crisi ecologica e devastata dalle guerre.

Pertanto è evidente l’urgenza di interventi formativi che – pur senza la pretesa d’inseguire i giovani, come giustamente affermato dal presidente nazionale del MN – offra loro una serie di opportunità di educazione alla e per la pace, di addestramento alle pratiche e alle tecniche nonviolente e di aggregazione associativa fondata sul protagonismo ma anche sulla maturazione della consapevolezza dell’insostenibilità etica, ecologica, politica e socioeconomica delle soluzioni distruttive ai conflitti Questi infatti vanno opportunamente  riconosciuti e poi trasformati ed affrontati in modo costruttivo. Tutto ciò, ovviamente, implica l’importanza fondamentale della parallela battaglia contro la militarizzazione di scuole, università ed enti di ricerca, denunciandone la crescente pervasività ed opponendosi a questa deriva antidemocratica e violenta, ma anche e soprattutto sviluppando crescenti occasioni di formazione, promuovendo progetti di peace education e diffondendone le ‘buone pratiche’ nelle istituzioni scolastiche ed accademiche.

Ulteriore tassello di un ‘programma costruttivo’ comune per i movimenti nonviolenti – emerso anche dalla discussione congressuale – è l’elaborazione comune di un’articolata proposta di modello alternativo di sviluppo, di convivenza e di relazioni.  Si è opportunamente ricordato, fra l’altro, che Papa Francesco, oltre a indirizzare costantemente il suo magistero sull’opposizione alla follia delle guerre e all’insensato sfruttamento ed inquinamento dell’ambiente naturale, ha anche dichiarato che la nonviolenza dovrebbe diventare lo stile della politica’. Per dirla con i maestri nonviolenti, dovrebbe insomma manifestare sempre più la sua natura di fine e mezzo di un cambiamento virtuoso, in una prospettiva di pace, giustizia e salvaguardia del pianeta, nostra ‘casa comune’.

Ma poiché il Movimento Nonviolento – come il MIR Italia – è impegnato con forze e risorse limitate in campagne particolarmente impegnative (Italia Ripensaci! – Un’altra difesa è possibile – Object War – reti contro il commercio delle armi etc.), si pone anche una questione di alleanze e di necessarie sinergie per potervi fare fronte. In tal senso, come ho avuto modo di ribadire nel mio intervento, va senza dubbio valutata positivamente l’esperienza di un coordinamento attraverso networks nazionali (come la RIPD) ed ultranazionali (War Resisters, Internation Fellowship of Reconciliation, European Bureau of Conscientious Objectors, Europe for Peace, etc.).  Allo stesso tempo, come affermato anche da Mao Valpiana, c’è anche bisogno di far valere la propria identità di nonviolenti, e quindi un ‘pensiero forte’ che va condiviso con un movimento per la pace molto composito, che spesso tende a puntare su obiettivi comuni minimali o comunque parziali. Ecco allora che si manifesta il pressante bisogno di quella capitiniana “aggiunta nonviolenta” di cui i nostri due storici movimenti italiani (e le rispettive reti internazionali) non possono non essere portatori e propagatori.

Concludendo, nel rinnovare gli auguri di buon lavoro agli amici e compagni di strada del Movimento Nonviolento, ci complimentiamo con loro anche per l’intensa e positiva mattinata di confronto, che è stata arricchita dalla presenza e dall’incisivo intervento di Olga Karach (iconica oppositrice pacifista alle politiche belliche della Bielorussia, e per questo perseguita e tuttora a rischio di espulsione dalla Lituania) e dai contributi registrati di noti attivisti per il diritto all’obiezione di coscienza in paesi in guerra come Russia ed Ucraina, Israele e Palestina. Non sono mancati altri importanti ed efficaci interventi, come quelli di sindacalisti, formatori e di una reporter che con Riccardo Iacona si è occupata delle guerre in corso per la trasmissione di Rai 3 Presa diretta.

Ermete Ferraro con Enrico Peyretti

Infine, una nota originale è stata la trasmissione dello schioppettante e surreale contributo di uno straordinario giocoliere con le parole come Alessandro Bergonzoni. Ed è proprio su questo aspetto, apparentemente secondario, che voglio concludere questa mia breve nota, sottolineando come ai persuasi della nonviolenza, ma anche ai giovani che ad essa si avvicinano timidamente, si possano proporre nuovi ed originali canali di ricerca, educazione ed azione per la pace. Uno di questi, oltre al già citato progetto ecopacifista, è quella eco-ireno-linguistica, cui sto cercando di dare corpo in prima persona.  L’intervento travolgente di Bergonzoni, infatti, ci ha ricordato quanta ambiguità e negatività si nascondano dietro le parole che usiamo ogni giorno, alimentando discorsi di odio, stereotipi razzisti e propaganda bellicista. Osservare, decostruire e demistificare i linguaggi violenti, quindi, è solo il primo passo per ricercare alternative comunicative non solo non aggressive, ma che ci aiutino anche a costruire relazioni giuste, pacifiche ed ecologiche, a tutti i livelli.

In questa preoccupante fase di svolta controriformista ed autoritaria, supportata da palesi messaggi politici d’intolleranza del dissenso e di stampo poliziesco, dunque, la nonviolenza ha più che mai bisogno di nuove teste da contaminare e di nuove gambe su cui avanzare.


(C) 2024 Ermete Ferraro – Art. pubblicato anche dall’Agenzia Internaz. di Stampa PRESSENZA (https://www.pressenza.com/it/2024/02/dare-nuove-gambe-alla-nonviolenza-in-cammino/ )

GUERRA E PACE A NAPOLI

«’O munno è comme uno s’ ’o ffa»

Ho partecipato recentemente alla presentazione del libro che l’amico Claudio Pennino ha dedicato alla tradizione culturale del popolo napolitano riguardante i sette vizi capitali, rivisitati attraverso locuzioni proverbiali più o meno note.[i]  Stimolato da quell’originale rassegna di detti popolari e wellerismi – opportunamente commentati ed integrati da riferimenti ‘alti’ come le Sacre Scritture, teologi e filosofi antichi, ma anche scrittori, sociologi e psicologi – ho ricercato nella tradizione culturale di Napoli riferimenti ad un tema che mi è caro, quello della pace.

Non a caso uno dei più noti libri sapienziali dell’Antico Testamento è quello dei Proverbi (in greco Παροιμίες, in latino Proverbia, ma nell’originale ebraico מִ֭שְׁלֵי (Meshalìm), cioè parabole, detti tradizionali). Infatti, se vogliamo scoprire ciò che la gente comune ha per secoli avuto come riferimenti etici per il proprio comportamento personale e sociale, non possiamo fare a meno di attingere anche alla fonte della saggezza popolare, a lungo tramandata oralmente di padre in figlio.  Una saggezza, d’altra parte, che spesso si manifesta con proverbi che dicono tutto ma anche il contrario, per cui è possibile trovarvi indicazioni e raccomandazioni talora diametralmente opposte. Tornando all’eccezionale tradizione napolitana, pur con evidenti contraddizioni, vi si riscontra la solida lezione di buon senso, originata dalla dura esperienza quotidiana da cui erano stati tratti quegli exempla [ii] per ammaestrare il popolo incolto.

Ebbene, se passiamo in rassegna la maggioranza di quei proverbi [iii], ne emerge di solito un aspro realismo, con scarsa concessione alle virtù alte ed a precetti moralistici (vedi: Me staje abbuffanno ‘ regole ‘e viento), propendendo verso un utilitarismo più pragmatico che ispirato ad astratti principi. Sebbene molti proverbi siano lascino trasparire una visione del mondo piuttosto fatalista (racchiusa in detti quali: “’A che munno è mmunno, è gghiuto sempe accussì”. “‘A necessità fa llegge”, “Chi campa deritto campa affritto”, “Addò ‘nce stanno ‘e fatte nun ce pônno ‘e pparole”, “Contr’ ’a forza nun ce ponno raggione[iv]) è altrettanto vero che la saggezza popolare ha spesso ancorato l’azione a principi profondamente radicati e largamente condivisi.

Innegabilmente, la maggioranza dei detti popolari consigliano di agire assoggettandosi alla tradizionale legge del più forte, suggerendo che a chi ha ricchezza e potere ci si debba inchinare, puntando così all’esigenza primaria della sopravvivenza in un mondo dominato dalla violenza ed in cui i deboli soccombono. Basti pensare al cupo pessimismo di espressioni quali: Chi pecura se fa ‘o lupo s’ ’a magna”, “Chi vence ave sempre raggione”, “Chi tene ll’arma ‘mmano è ppatrone d’ ’o munno, “Chi perde ave sempe tuorto”, “Chisto è ‘o munno: chi naveca e cchi va ‘nfunno”, “‘O nemmico ‘e ll’ommo è ll’ommo stesso”, “A cchi se fa puntone, ‘o cane ‘o piscia ‘ncuollo”.[v]

«Una è ’a guerra ca ce spetta…»

Però, grazie a quella stessa esperienza di vita, soprattutto nell’ambito dei rapporti interpersonali, il buon senso popolare ha insegnato pure che: Chi forza nunn’ave s’arma d’ingegno” (contrapponendo la razionalità al ricorso alla forza, se non altro quando non si è in grado di fronteggiarla adeguatamente) e che sarebbe saggio e utile sperimentare strade alternative alla solita reazione violenta e vendicativa, che comunque quasi sempre non risolve nulla o addirittura peggiora le situazioni (Mo faccimmo n’acciso e nu ‘mpiso”, “ ‘Nccopp’ô ccuotto acqua vullente…) [vi]. Non mancano quindi esortazioni a comportarsi con prudenza, comprensione e senza violenza, come ad esempio: Male nun fa’ e ppaura nunn’avé”, “Meglio è a dda’ c’a rricevere”, “‘O mmuollo rompe ‘o ttuosto”, “Chi semmena ardìche nun recoglie vruoccole”, “Chi semmena viento raccoglie tempesta”, “Chi semmena cortesie, mete lo benefizio”, “Chi patesce cumpatesce”) [vii].  La stessa cultura popolare, inoltre, mette spesso in ridicolo chi si crede forte e potente, con locuzioni proverbiali come: Vale cchiù uno a ffa’ ca ciente e ccumannà”, “‘E fodere cumbatteno e ‘e sciabbole stanno appese oppure, con sano realismo, Nun cuntrastà chi nun tene che pperdere[viii].

Il tema della guerra è abbastanza presente nella cultura popolare, con toni ora seri e drammatici, ora invece beffardi o caricaturali. Già il fatto stesso di opporsi a qualcuno, ad esempio, è talvolta definito Fa’ ‘a guerra a uno. Ma non manca la consapevolezza che molto spesso la violenza peggiore è quella anche solo verbale (“Accide cchiù ‘a lengua ca na schioppettata), mentre un altro proverbio (“‘A guerra cerca ‘a pace e ‘a pace cerca ‘a guerra”) sottolinea piuttosto l’assurda incontentabilità di un’umanità mai paga della propria situazione [ix].

Nei detti popolari non manca neppure la consapevolezza che la prima vittima di un conflitto bellico è sempre la verità (“Ntiempo ‘e guerra buscie comm’ ’a terra [x]) e, soprattutto, che l’unica cosa per cui sarebbe giusto combattere – per citare Viviani – è la quotidiana lotta per la sopravvivenza (“Una è ‘a guerra ca ce spetta / e ppurtroppo l’îmm’ ’a fa’ / chella llà ca tutte ‘e juorne / se cumbatte pe ccampà[xi]

Il poeta e drammaturgo napolitano, in uno dei suoi “Dieci Comandamenti”, ci presenta infatti un quadro lucido e spietato di che cos’è davvero la guerra, che solo apparentemente replica la violenza insita nella natura animale, ma è in effetti molto peggiore, in quanto non risponde tanto a connaturati istinti bestiali quanto ad una ben precisa volontà di dominio e sfruttamento.

«Largo e tunno chisto è ‘o munno: / pure ll’uommene, se sa /s’hann’ ‘a massacrà!                        
Che ll’afferra ca na guerra / ogne tanto s’ha dda fa’? /Forse pe’ sfullà?!                
So’ ‘e putiente, malamente, /  ca cchiù ‘a vorza hann’ ’a ‘ngrassa’, / senz’ave’ pietà!                    
‘O prugresso? More ‘o fesso! / Ih che bbella civiltà! /Che mmudernità!»
[xii].

Questi versi, profondi e purtroppo attuali, dipingono infatti un mondo ingiusto e violento, in cui la parte più ricca e potente dell’umanità è impegnata ad arricchirsi ulteriormente, senza provare alcuna compassione per i ‘fessi’ che muoiono nelle guerre a tal fine scatenate, mistificate però in nome del ‘progresso’ e di una irresistibile ‘modernità’.

«Cca nuje simmo crestiane / e ttenimmo ‘o ccore ‘mpietto! /    
E c’è cara ‘a vita nosta, / perciò mmerita rispetto!        
E vedimmo, pe ’stu fatto, / ‘e campà cu ‘a legge ‘e Ddio!            
‘Nnanze a Ddio nuje simmo eguale: / nun ce stanno “tu” e “io”!             
Ma però ‘e Cummandamente / se rispettano? Nun sempe!       
E sse sape…. ‘O munno è ttristo! / Chisti ccà so’ bbrutti tiempe!              
E ma allora, ‘o munno è ttristo  /e nnisciuno ‘o pò ccagnà?»
[xiii].

La risposta critica di Viviani alla mortifera logica bellica è molto chiara: se davvero siamo ‘cristiani’ (nel duplice senso dialettale di esseri umani e di seguaci di Cristo), il rispetto della vita dovrebbe costituire il primo imperativo categorico. Il secondo principio della ‘legge di Dio’ è che siamo tutti uguali (papa Francesco direbbe ‘fratelli tutti’), senza differenze e con pari diritti. Eppure i Comandamenti divini (da Gesù sintetizzati nei due precetti evangelici fondamentali, equiparando l’amore per Dio a quello per il prossimo [xiv]) non sono affatto rispettati, accampando pretestuosamente la scusa che “‘o munno è tristo”, ma dimenticando quanto affermato dal saggio proverbio che ho citato inizialmente, per cui invece: “‘O munno è comm’uno s’ ’o ffa”.

Di solito, nel variegato repertorio della tradizionale saggezza proverbiale troviamo affermazioni ispirate alla dura legge del più forte, maè altrettanto vero che altri detti napolitani ci esortano invece alla riflessione e alla prudenza: ’A pacienza vale cchiù d’ ’a scienza”, “Astipa e mmiette ‘ncore: quann’è tiempo caccia fore”, “A una â vota s’acchianano ‘e ffosse”, “Chi cerca chello ca nun deve, trova chello ca nun vô”, “Chi nun tene pietà pietà nun trova”, o anche “Chi cerca ’o mmale ‘e ll’ate trova ’o mmale sujo”, “Chi s’appicceca senza raggione fa pace senza suddisfazione” o “’E bbuone parole acconciano ’e male fatte”  [xv].

«Che sacrilegio…Nun facimmo male, Amà…»

Nel tradizionale contesto socioculturale autoritario, in cui il rifiuto di andare in guerra era considerato non solo come palese dimostrazione di vigliaccheria ma anche di scarsa virilità (“Chi nunn’è bbuono p’ ’o rre nun è bbuono manco p’ ’e riggina”, o anche “Chi nunn’è bbuona a ffa’ ‘o surdato, ‘a mugliera s’ ’a fotteno ll’ate), è abbastanza evidente che il concetto stesso di ‘obiezione di coscienza’ non avesse alcuno spazio [xvi]. Alcuni proverbi, però, ci ricordano come spesso si ricorresse ad un sicuro espediente per scansare il servizio militare e, soprattutto, per essere esonerati dal combattimento: farsi passare per malati di mente, secondo la nota espressione “Fa’ ‘o fesso pe nnu’ gghì’ â guerra[xvii].  Paradossalmente, quindi, per non partecipare alla follia della guerra si doveva far finta di essere stupidi o folli…[xviii] . Eppure la saggezza popolare non ha mancato di sottolineare che la povera gente – o comunque gli persone innocenti – sono le prime vittime di morte e devastazione provocate da conflitti d’interessi di chi ha potere, come recita il proverbio: “E ciucce s’appiccecano e ‘e varrille se scassano[xix].

Sulle ragioni di natura economica delle guerre, retoricamente fregiate di motivazioni nobili ed elevate, si esprime invece un’altra acuta locuzione proverbiale: “E denare so’ comm’ê surdate: so’ ffatte apposta p’ ’a guerra [xx]. Da ricordare poi anche il detto popolare “Meglio nu malo accordo ca na causa vinciuta[xxi], dal quale – passando dall’ambito legale per le controversie private a quello riguardante i conflitti più importanti e generali – si ricava la saggia considerazione di quanto sarebbe meglio addivenire ad una transazione – che media fra interessi spesso opposti – anziché affrontare gli inevitabili strascichi polemici di una netta vittoria.

Odi e storiche rivalità, infatti, fanno perdere ‘e lume” e “l’arraggia fa sulo rammaggio, col rischio di “ascì fore d’ ’a vuluntà ‘e Ddio e di “farse piglià d’ ’e diavule”, come non manca di ricordare Claudio Pennino passando in rassegna i proverbi che si soffermano sul peccato dell’ira [xxii]. La collera, infatti, obnubila la ragione e fa salire “o sango a ll’uocchie, per cui chi ne è afflitto  si sente “vollere ‘o sango dint’ê vvene (variante: “saglì ‘o sango â parte d’ ’a capa”) [xxiii].

Un ‘cameo’ letterario napolitano in tema di “Guerra e Pace” è l’omonima poesia/canzone, scritta nel 1937 dallo stesso Raffaele Viviani, da cui traspare amarezza e dolore:

«‘Ntiempo ‘e pace ‘e marenare: / figlie ‘nterra e varche a mmare.
‘Ntiempo ‘e guerra, juorne amare:/ varche ‘nterra e figlie a mmare.
Guerra e pace, pace e guerra:/ se distrugge e cresce ‘a terra»
[xxiv].

Per concludere sulla percezione del dramma della guerra da parte del popolo di Napoli, non posso fare a meno di citare la celebre commedia “Napoli milionaria!” di Eduardo De Filippo. Vi ritroviamo infatti i possibili atteggiamenti della gente comune di fronte alle conseguenze della guerra sulla propria esistenza quotidiana. A partire dall’atavica arte di arrangiarsi sempre e comunque, con un pizzico di cinismo e tanto opportunismo, incarnata da Amalia Jovine, dai suoi figli e da buona parte dei parenti e vicini di casa. Alla loro fatalistica rassegnazione ad un male cui non solo ci si dovrebbe adattare, ma da cui è perfino possibile ricavare cospicui vantaggi economici, nel capolavoro eduardiano fa da drammatico contraltare la stralunata, e talora patetica, figura di Gennaro, il capofamiglia reduce da un’esperienza bellica che lo ha duramente segnato e profondamente cambiato, ma che non riesce proprio a condividere coi suoi familiari.

«Che sacrilegio Ama’…Paise distrutte, creature spese, fucilazione…E quanta muorte…’E lloro e ‘e nuoste…E quante n’aggio viste…’E muorte so’ tutte eguale […] Chesta, Ama’, nun è guerra. È n’ata cosa […] ‘A sta guerra ccà se torna buone, ca nun se vo’ fa’ male a nisciuno…Nun facimmo male, Amà…Nun facimmo male…» [xxv]

Fatto sta che nessuno presta veramente attenzione alle sue dolenti parole, ma soprattutto nessuno ha voglia di ascoltarlo, perché condividerne la terribile angoscia significherebbe mettere in discussione la propria disinvolta condotta in tempo di guerra. Viceversa, quasi tutti gli altri, di fronte alle sue dettagliate e reiterate narrazioni di quella carneficina, cercano piuttosto di metterlo a tacere, ispirati dall’ambigua saggezza popolare racchiusa nel noto proverbio: Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Scurdammoce ’o passato [xxvi], che in realtà era il ritornello d’una canzone risalente allo stesso periodo di quella Napoli, devastata dai bombardamenti ma resa ‘milionaria’ dall’euforia economica portata dagli ‘alleati’.

«AMEDEO: Ma mo’ staie ccà cu nuie…Nun ce penza’ cchiù… GENNARO: Nun ce penzo cchiù? È na parola. E chi se po’ scurdà… AMEDEO (superficiale): Va buo’, papà…Cca è fernuto tutte cose… GENNARO (convinto) No. Ti sbagli. Tu nun he’ visto chillo c’aggio visto io p’ ’e paise…’A guerra nun è fernuta…» [xxvii].

«A chi ’a pace nun stima, ’a guerra nun lle manca»

Trattare di guerra e pace riferendosi alla cultura popolare di Napoli non può comunque prescindere dal fatto che parliamo d’una città profondamente segnata da secoli di dominazioni straniere e che è stata vittima di guerre sanguinose, seguite da periodi di dopoguerra in cui si è disperatamente tentato di ristabilire una certa – seppur travagliata – ‘normalità’.

Lo stesso concetto di ‘pace’ – se consultiamo un esaustivo e documentato lessico della lingua napolitana [xxviii] , seppure in qualche modo sacralizzato (ad es. nell’espressione: “Nsanta pace), è comunemente riportato alla sua accezione più banale e quotidiana di tranquillità, assenza di conflitti, rassegnazione (“Essere ‘na pace”, “lassà ‘mpace”, “metterse l’anema ‘mpace), ma anche di accordo tra parti in conflitto (“fa’ pace”, “fa fa’ pace”, “sta parapatte e pace”)  [xxix].

Da alcune citazioni letterarie emerge spesso l’idea di una pace a livello emotivo-sentimentale: “Ha perza ’a pace soia pe na guagliona (F. Russo), “Che pace, che silenzio!” (E. Murolo), ma talvolta anche una visione un po’ più ampia, come quella che fa da titolo a questo paragrafo, che sottolinea come chi non apprezza il valore in sé della pace prima o poi si troverà ad affrontare la tragedia della guerra. D’altra parte è altrettanto vero che, come recita un altro proverbio: “Nun po’ canoscere ’a pace chi nun ha pruvata ‘a guerra” [xxx].  

Sfogliando un altro corposo ed autorevole lessico del Napolitano, il significato di ‘pace’ che emerge più frequentemente dalle citazioni riportate è quello di tranquillità, ma anche di pazienza, rassegnazione, accordo: “Quanno volite fa pace co le mogliere”, “Li gradasse co chisto aggiano pace”, “Pigliate spasso e doppo stammo pace”, “Va staje pace) [xxxi] .

Eppure una pace che somiglia troppo al consonante vocabolo “pazienza” non è una vera alternativa alla violenza ed alla guerra, né tanto meno è uno strumento per superare ingiustizie e sopraffazioni. Una volta la si definiva “rassegnazione”, “conformismo”, ma oggi si preferisce parlare spesso, ipocritamente ed a sproposito, di “resilienza” [xxxii], confondendo la resistenza passiva – che invece fa parte dello strumentario della difesa nonviolenta – con la deleteria quanto frequente abitudine ad adattarsi allo statu quo, senza cercare di cambiarlo.

Concludo, tornando al grande Eduardo, con la citazione di alcuni versi d’una poesia nella quale ha espresso il suo desiderio d’una pace che non sia quella dei cimiteri né tanto meno che si prepari di nuovo a riempirli, ma sia piuttosto il frutto d’una coscienza raggiunta e del superamento di un’impotenza rassegnata. Una pace positiva, attiva e costruttiva, che apra le porte ad una vita diversa e degna di essere vissuta.

«Io vulesse truvà pace; / ma na pace senza morte.

Una, mmieze’a tanta porte, / s’arapesse pe’ campa’!

[…] Senza sentere cchiù ‘a ggente / ca te dice: io faccio…,io dico,

senza sentere l’amico / ca te vene a cunziglia’.

Senza senter’ ‘a famiglia / ca te dice: Ma ch’ ‘e fatto?

Senza scennere cchiù a patto / c’ ‘a cuscienza e ‘a dignita’.

Senza leggere ‘o giurnale… / ‘a nutizia impressionante,

ch’è nu guaio pe’ tutte quante / e nun tiene che ce fa’.

[…] Pecchè, insomma, si vuo’ pace / e nun sentere cchiu’ niente,

e ‘a spera’ ca sulamente / ven’ ‘a morte a te piglia’?

Io vulesse truva’ pace | ma na pace senza morte.

Una, mmiez’ ‘a tanta porte / s’arapesse pe’ campa’!

S’arapesse na matina, / na matin’ ‘e primavera,

e arrivasse fin’ ‘a sera / senza di’: nzerràte lla’». [xxxiii]


N O T E

[i] Claudio PENNINO, Peccato cunfessato è mmiezo perdunato. I sette vizi capitali nella parlata napoletana, Napoli, Ed. Intra Moenia, 2023

[ii]L’etimologia della parola esempio si ricollega al latino exemplum, a sua volta, da eximĕre = trarre fuori. L’esempio, quindi, è qualcosa o qualcuno “tratto fuori” (dalla massa comune), selezionato, messo in evidenza come modello, come campione da imitare (buon esempio) o da evitare (cattivo esempio)”. https://www.etimoitaliano.it/2016/06/esempio.html#:~:text=L’etimologia%20della%20parola%20esempio,da%20evitare%20(cattivo%20esempio)

[iii] In questo caso, fra i tanti disponibili, oltre a quello già citato mi sono limitato a consultare i seguenti testi: Raffaele BRACALE, Comme se penza a Nnapule – 2500 modi di dire napoletani (a cura di Amedeo COLELLA), Napoli, Cultura Nova Ediz., 2018; Vittorio PALIOTTI, Proverbi napoletani, Firenze, Giunti, 1995; Vittorio GLEIJESES, A Napoli si diceva così (Detti e Proverbi), Napoli, S.E.N., 1976.

[iv] “Mi stai riempiendo la testa di regole vuote, fatte di vento”, “Da che il mondo è mondo è andata sempre così”, “La necessità fa la legge”, “Chi vive rettamente muore afflitto”, “Dove ci sono i fatti non possono le parole”, “Contro la forza le ragioni non valgono”.

[v] “Chi si fa pecora se lo mangia il lupo”, “Chi vince ha sempre ragione”, “Chi ha l’arma in mano è padrone del mondo”, “Chi perde ha sempre torto”, “Questo è il mondo: chi naviga e che va a fondo”, “Il nemico dell’uomo è l’uomo stesso”, “A colui che si comporta come uno spigolo di strada il cane piscia addosso”,    

[vi] “Chi non ha forza si arma d’ingegno”, “Adesso facciamo: uno ucciso e uno impiccato”, “Sopra la scottatura acqua bollente”.

[vii] “Male non fare, paura non avere”, “È meglio dare che ricevere”, “Il tenero rompe il duro”, “Chi semina ortiche non raccoglie broccoli”, “Chi semina vento raccoglie tempesta”, “Chi semina cortesie ne raccoglie il beneficio”, “Chi patisce compatisce”.

[viii] “Conta più uno che fa che cento che comandano”, “I foderi combattono e le sciabole restano appese”, “Non metterti contro chi non ha niente da perdere”.

[ix] “Ne uccide più la lingua di una fucilata”, “La guerra cerca la pace e la pace cerca la guerra”.

[x]In tempo di guerra, bugie (grandi) come la terra”.

[xi] Raffaele VIVIANI, “Si vire a ll’animale”, da: I dieci comandamenti, 1947   – Vedi in proposito anche il mio articolo in napolitano: Ermete FERRARO, “ ‘A nurmalità è ‘o prubblema, no ‘a soluzzione…”, quotidiano Napoli, 29.04.2020, https://www.quotidianonapoli.it/cronaca-e-notizie-di-napoli-e-provincia/a-nurmalita-e-o-prubblema-no-a-soluzzione/

[xii]Largo e tondo, questo è il mondo/ pure gli uomini, si sa, devono massacrarsi / Che li prende, al punto che una guerra / ogni tanto si deve fare? / Forse per sfollare? / Sono i potenti, malvagi / che devono ingrassare sempre più la borsa / senza avere pietà! / Il progresso? Muore il fesso / Ah, che bella civiltà/ Che modernità!”.  Viviani, op. cit.  (N.d.A. – La grafia del testo vivianeo è stata da me lievemente modificata).

[xiii]  “Qua noi siamo cristiani / ed abbiamo il cuore in petto / e c’è cara la nostra vita / perciò merita rispetto / E vediamo perciò / di vivere in grazia di Dio / davanti a Dio noi siamo uguali / non ci sono ‘tu’ e ‘io’ / Ma allora i Comandamenti / si rispettano? Non sempre / E si sa: il mondo è cattivo / questi qua son tempi brutti / Ma allora il mondo è cattivo / e nessuno può cambiarlo?”.   Ibidem

[xiv] «Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. E il secondo è questo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più importante di questo» (Mc 12,29-31).

[xv] “La pazienza vale più della scienza”, “Conserva e metti da parte nel tuo cuore; quando è il momento giusto tiralo fuori”, “Ad una alla volta si ripianano le fosse”, “Chi va in cerca di quello che non deve trova quello che non vuole”, “Chi non prova compassione non la troverà”, “Chi cerca il male altrui trova il proprio”, “Chi litiga senza ragione fa la pace senza soddisfazione”, “Le parole buone aggiustano i fatti cattivi”.

[xvi] “Chi non è valido per il re non è valido neppure per la regina”, “Se qualcuno non è capace di fare il soldato, di sua moglie se ne vedono bene gli altri”.

[xvii] “Fare la parte dello scemo per non andare in guerra”.

[xviii]  Cfr. la celebre e solenne affermazione: «Alienum a ratione bellum iam aptum esse ad violata iura sarcienda» traducibile con: «È estraneo alla ragione [irrazionale] che la guerra possa essere uno strumento adatto per rivendicare dei diritti violati», contenuta nell’Enciclica di Papa Giovanni XXIII “Pacem in terris” (1963).

[xix] “Gli asini litigano e i barili si rompono”.

[xx]I soldi sono come i soldati: sono fatti proprio per la guerra”.

[xxi] “Meglio una cattiva transazione che una causa vinta”.

[xxii]  C. Pennino, op. cit., pp. 135 e ss.

[xxiii] Espressioni traducibili con: “avere il sangue agli occhi”, “sentirsi ribollire il sangue nelle vene” e “sentirsi risalire il sangue al cervello”.

[xxiv] Cfr. R. VIVIANI, “E c’è la vita” (1930)

[xxv]  Eduardo DE FILIPPO, “Napoli milionaria!”, in I capolavori di Eduardo, Vol. I, Torino, Einaudi, 1973, p. 210 (NdA: la grafia del testo è quella originale di Eduardo). Trad.: “Che sacrilegio, Amalia. Paesi distrutti, bambini dispersi, fucilazioni..E quanti morti…I loro e i nostri. E quanti ne ho visti…I morti sono tutti uguali […] Questa, Amalia, non è guerra, è un’altra cosa […] Da questa guerra qua si torna buoni, che non si vuole fare male a nessuno…Non facciamo male Amalia… Non facciamo male”).

[xxvi] Giuseppe Fiorelli e Nicola Valente, “Simme ‘e Napule, paisà”, Napoli, Casa ed. ‘La Canzonetta’, 1944

[xxvii] “Napoli milionaria!”, cit., p.212 (Trad.: “Amedeo: Ma adesso stai con noi. Non ci pensare più. Gennaro: Non ci penso più? È una parola: chi se lo può dimenticare? Amedeo: Va bene papà, qua ormai è finito tutto… Gennaro: No, ti sbagli. Tu non hai visto quello che ho visto io girando per i paesi…La guerra non è finita”).

[xxviii] Don Matteo COPPOLA, Grande dizionario della lingua napoletana, Vico Equense, Ass.ne Cult.le Don Matteo Coppola, 2018

[xxix] Ivi, voce “pace”, vol. II, p. 104-105 (Trad.: “In santa pace”, “Essere una pace”, “Lasciare in pace”, “mettersi l’anima in pace, “far pace”, “far fare pace”, “stare patta e pace”).

[xxx]  Ibidem, Trad.: “Ha perso la pace sua per una ragazza”, “Che pace, che silenzio!”, “Non può conoscere la pace chi non ha provato la guerra”.

[xxxi] Cfr. Emmanuele ROCCO, Il vocabolario del dialetto napolitano, Voce “pace”, in: Antonio VINCIGUERRA, Studio ed edizione critica della parte inedita F-Z, Università degli Studi di Firenze, 2013, p. 614. Trad.: “Quando volete far pace con le mogli”, “I gradassi con ciò abbiano pace”, “Pigliati in divertimento e dopo stiamo in pace”, “Vai a stare in pace”).

[xxxii] Cfr. Ermete FERRARO, “Etimostorie #9: Resilienza” (12.03.2023), Ermetespeacebook . https://ermetespeacebook.blog/2023/03/12/etimostorie-9-resilienza/

[xxxiii] Cfr. Eduardo DE FILIPPO, Io vulesse truvà pace. https://storienapoli.it/2022/09/28/io-vulesse-truva-pace/  . Da questa poesia ho tratto ispirazione per una mia versione ‘nonviolenta’, pubblicata il 02/11/2014 sul mio blog:  https://storienapoli.it/2022/09/28/io-vulesse-truva-pace/  (Trad.: Io vorrei trovare pace/ ma una pace senza morte / Una, in mezzo a tante porte / si aprisse per vivere […] Senza star a sentire la gente / che ti dice: io faccio, io dico… / senza star a sentire l’amico/ che ti viene a consigliare / Senza star a sentire la famiglia / che ti dice: ma che hai fatto? / Senza scendere più a patti / con la coscienza e la dignità / Senza leggera nel giornale / la notizia impressionante / che è un guaio per tuti quanti / ma non puoi farci niente […] Perché insomma, se vuoi pace / e non sentir più niente / devi sperare solamente / che viene la morte a prenderti? / Io vorrei trovare pace / ma una pace senza morte / Una, in mezzo a tante porte / si aprisse per vivere! / Che si aprisse una mattina / una mattina di primavera /e arrivasse fino a sera / senza dire: ‘Chiudete là’ ”.

Parco Mascagna: da salvato a…disboscato

Una volta erano semplicemente i ‘giardinetti di via Ruoppolo’ e per intere generazioni di bambini della collina vomerese sono stati l’unico spazio verde dove giocare. Ma dopo il 1990, in seguito alla mobilitazione d’un intero quartiere per difenderli dalla distruzione – il prezzo da pagare per realizzare un assurdo parcheggio interrato di ben 10 piani – sono diventati un vero ‘luogo del cuore’, teatro di una lotta popolare e nonviolenta riuscita a sconfiggere, dal basso, la logica perversa del cemento e dell’automobile. 

Non è quindi un caso che quella stessa area verde comunale, dopo la sua ristrutturazione e valorizzazione, sia stata poi intitolata a Marco Mascagna, giovane pediatra ambientalista che come e più degli altri si era reso protagonista di quella eccezionale battaglia ecologista, morto poco tempo dopo, travolto da un’autovettura mentre pedalava sulla sua bici.

Da allora il ‘Parco Mascagna’ ha subito varie fasi di deterioramento, depauperamento del patrimonio arboreo e degrado delle strutture ludiche, per una mancata manutenzione ordinaria e per interventi inopportuni, con chiusura parziale di spazi verdi e ricreativi. Ma nel 2019 – col finanziamento della Città Metropolitana di Napoli (programma ‘Ossigeno Bene Comune’) l’Amministrazione Comunale approvò finalmente una delibera per la sua ‘riqualificazione’. Un progetto già discutibile, ma che per ben quattro anni non ha comunque trovato attuazione.

Solo una decina di giorni fa – dopo la chiusura dell’intero parco per due mesi, motivata da potenziali rischi per la sicurezza dei fruitori a causa di alberi ritenuti malati ed instabili – la sbandierata ‘riqualificazione’ è iniziata, ma nel modo peggiore. La ditta appaltata dal Comune, infatti, per quasi una settimana ha abbattuto numerosi lecci lungo il perimetro del parco, senza che fosse apposto l’obbligatorio ‘cartello di cantiere’ e senza che l’Assessorato al Verde e la Direzione competente rispondessero alla richiesta urgente via PEC di accedere agli atti autorizzativi e di certificazione agronomica che avvalorassero quella preoccupante strage.

Come scriveva Il Mattino del 26 novembre: “Un folto gruppo di cittadini si è radunato all’esterno dei cancelli del parco Mascagna per esprimere la loro disapprovazione allo sterminio di alberi che in questi giorni la ditta incaricata dal Comune sta portando avanti […] Il paesaggio visibile dall’esterno del parco Mascagna è spettrale: ceppaie, alberi tagliati in più parti, tronchi a cui sono state quasi del tutto asportate le chiome e un vero e proprio tappeto di foglie…”

Il Circolo di Napoli di V.A.S. – di cui sono portavoce – in questa circostanza è stato uno dei soggetti più attivi di questa mobilitazione, insieme con le altre componenti della Rete Sociale No Box e del comitato spontaneo ‘mamme per il parco Mascagna’. Ho inviato ben due PEC chiedendo ufficialmente di accedere agli atti; con altri ho presidiato e contestato i lavori di capitozzamento e abbattimento dei lecci perimetrali ed ho anche denunciato formalmente anomalie amministrative e procedure sbrigative al vicino Commissariato di P.S. ed alla stazione dei Carabinieri Vomero-Arenella, richiedendo inoltre l’intervento urgente del Gruppo di Napoli dei Carabinieri Forestale. Tutto senza apprezzabili riscontri, mentre molti cittadini/e reclamavano invece chiarimenti su quella strage di alberi compiuta in nome della pretesa ‘riqualificazione’ di un’area verde comunale.

Dopo un servizio piuttosto parziale del TGR Campania e la tendenziosa intervista fattami nel corso di una ‘diretta’ da parte di Canale 5, finalizzata ad additare gli ambientalisti come irriducibili rompiscatole che ostacolano l’attività dei Comuni, se non addirittura come complici di tragiche vicende causate dalla caduta di alberi, una delegazione della Rete civica che si batte per salvare i giardini di Marco da questa brutale ‘squalificazione’ è stata finalmente ricevuta a Palazzo San Giacomo dall’Assessore alla Salute, al Verde e all’Ambiente, dott. Santagada. Alla presenza del dirigente comunale, di due agronomi e della R.U.P., è stato possibile presentare le nostre osservazioni critiche sulla mancata trasparenza delle procedure e sul rischio di spogliare il Parco di gran parte delle sue alberature, introducendo invece in quello spazio piuttosto ridotto funzioni diverse (area cani, area fitness, area ristoro), senza la prevista informazione e partecipazione civica e sulla base di interventi non condivisi né opportunamente pubblicizzati.

Dalla vivace riunione del 28 novembre è emersa una serie di posizioni da parte dell’A.C. che in alcuni casi avvalorano più che dissipare i dubbi espressi dagli ambientalisti. Si conferma infatti che saranno eliminati 23 alberi nella sola area perimetrale (in quanto danneggiati irrimediabilmente da insetti xilofagi), ma parallelamente si dichiara che ne saranno ripiantate altrettanti proprio della stessa tipologia (lecci) che ha subito l’infestazione. Si riconosce l’omissione dell’apposizione del cartello di cantiere, ma dopo oltre una settimana se ne appone uno, piuttosto piccolo, all’interno di un’area recintata e interdetta al pubblico. Si annuncia un’auspicabile fase di collaborazione tra Comune e Cittadini per garantire trasparenza e partecipazione, ma dopo 10 giorni non sono tuttora disponibili le copie delle certificazioni agronomiche e delle relative autorizzazioni agli abbattimenti, lasciando fra l’altro inevasa la richiesta di sapere quanti altri alberi saranno eliminati anche nell’area interna del parco, per la quale non esiste un monitoraggio preventivo.

Da ecopacifista, che 35 anni fa a quella lotta nonviolenta per salvare quei giardini ha partecipato in prima persona, non posso fare a meno di denunciare questa ennesima discutibile operazione di pseudo-valorizzazione del verde cittadino. Allo stesso modo devo rilevare quanto poco e male i media diano spazio alle vertenze ecologiste e civiche, arrivando talvolta a criminalizzarne gli attori come un pericoloso ostacolo a lavori pubblici sui quali, a quanto pare, non si deve mettere il naso e per i quali trasparenza e partecipazione sono visti con fastidio.  


(C) 2023 Ermete Ferraro – Articolo pubblicato sul sito web di V.A.S. aps, all’indirizzo https://verdiambientesocieta.eu/2023/11/30/parco-mascagna-unarea-verde-di-napoli-ad-oggi-disboscata/

I ‘proclami’ del pensiero unico filo-israeliano

L’articolo di Ruben Razzante su IL MATTINO del 17.10.2023 “I proclami del terrore che il web non blocca” (https://www.ilmattino.it/pay/edicola/i_proclami_del_terrore_che_il_web_non_blocca-7698939.html?refresh_ce) mi sembra un esempio lampante di come, paradossalmente, si possano attaccare su un giornale le strategie di disinformazione finalizzate a “spargere veleni” proprio mentre si opera in quella stessa direzione. 

Il bersaglio del giornalista sono i ‘social’ ed il ‘web’, attraverso i quali organizzazioni islamiste “come Hamas” (quali?), con una “amplificazione costante”, punterebbero ad “alimentare un clima altamente tossico e contrassegnato dal terrore permanente” […] per alimentare la spirale della drammatizzazione del conflitto.” 

Al giornalista, a quanto pare, non viene in mente che uno dei problemi che hanno reso esplosivo questo infinito conflitto possa essere stato proprio il complice silenzio dei media sulla tragica situazione in cui da 75 anni si trovano i Palestinesi, privati di ogni diritto, espulsi dal loro territorio e marginalizzati da una politica di apartheid.  Ciò che ga lui appare una provocatoria “amplificazione” è piuttosto lo svelamento inevitabile d’una condizione insostenibile, su cui in troppi, e per troppo tempo, si è preferito tacere, se non mistificarne la natura.

Il “terrore permanente” cui sono stati sottoposti per decenni i Palestinesi (compresi donne, anziani e bambini), secondo Ruben Razzante, non esisteva già da prima, ma sarebbe frutto solo di una “spirale della drammatizzazione del conflitto”, finalizzata ad “esacerbare gli animi” con un “linguaggio d’odio” e “disseminando sul terreno del dialogo ostacoli subdoli difficilmente disinnescabili”.

Mi sembra evidente che i termini usati dal giornalista escludano di fatto ogni responsabilità dello Stato d’Israele, sebbene la sua arrogante politica – di stampo colonialista e militarista – sia stata caratterizzata da tutt’altro che tentativi di “dialogo” e “costruttivi percorsi di pacificazione”. Ad alimentare il “clima altamente tossico” denunciato nell’articolo, viceversa, mi sembra che contribuisca lo stesso autore, ad esempio quando opera una speciosa e partigiana differenza tra gli appelli a favore di Israele e quelli a favore dei Palestinesi.

Egli, infatti, non esita a scrivere che: “molte celebrità hanno deciso di esporsi, proprio usando le piattaforme social, postando storie e commenti e per dichiarare piena solidarietà ad Israele. Ma ce ne sono state anche altre che hanno sfruttato lo spazio virtuale per condividere appelli in favore della causa palestinese”.  Risulta palese il giudizio di valore sotteso a queste parole: le personalità che hanno appoggiato gli Israeliani sarebbero quasi degli eroi, che hanno avuto il coraggio di “esporsi” mediaticamente. Viceversa, i personaggi che hanno manifestato solidarietà ai Palestinesi avrebbero biecamente “sfruttato lo spazio virtuale”.

“Fake news”, “comportamenti sbagliati”, “un siero letale iniettato nei circuiti mediatici”,   secondo il giornalista, sarebbero il prodotto esclusivo di “provocatori e produttori seriali di notizie false” (ovviamente filo palestinesi…), per cui: “la circolazione online di contenuti falsi e manipolati contamina i circuiti informativi e ispira il più delle volte reazioni violente e scomposte che infiammano le lotte tra fazioni allontanando il traguardo della pace” e “mettono a repentaglio la stabilità mondiale”.

Quest’ultima frase mi sembra particolarmente rivelatrice di che cosa intenda l’autore dell’articolo quando parla di “pace”.  È probabilmente la ‘pace’ della subalternità accettata supinamente, dell’ingiustizia assurta a regola, delle violazioni dei diritti umani date per ovvie e scontate. È la ‘pace’ che non comprometta la “stabilità mondiale”, anche se quest’ultima si fonderebbe sulla stabilizzazione di logiche imperialiste, interessi economici imposti con le armi, depredazione ambientale e sfruttamento dei soggetti più deboli e marginali.

Non sono certo questi i “traguardi” cui tende il vero movimento per la pace, che si fonda invece sulla nonviolenza, la salvaguardia dei diritti umani, la giustizia sociale, e propone percorsi di disarmo, di smilitarizzazione e di ripudio della guerra. Ecco perché non sono i cosiddetti “proclami del terrore” che intossicano l’opinione pubblica, ma piuttosto l’imposizione di un pensiero unico e la caccia a chi da esso dissente.

Dall’EireneFest alla…“Eiréne” di Aristofane

Stavo tornando a Napoli dopo due giorni trascorsi alla seconda edizione del ‘festival del libro per la pace e la nonviolenza’ (Roma, 26-28 maggio) e, dovendo ingannare il tempo nell’attesa del treno, ho evitato le sbrilluccicanti gallerie dello shopping per curiosare invece tra gli scaffali della libreria della stazione Termini. Lì mi è fatalmente caduto l’occhio su un volumetto [i] il cui titolo era troppo provocante per resistervi. Si trattava infatti di una vivace traduzione, con testo greco a fronte, di “EIPHNH” (Pace), tra le meno note delle commedie di Aristofane nelle quali ricorre la tematica dell’ostilità di cittadini e contadini, di donne e uomini, alla follia omicida e devastante della guerra.

L’intonazione comico-grottesca delle sue mirabolanti storie non deve ingannarci. La verità incontrovertibile è che già due millenni e mezzo fa il teatro greco affrontava l’assurdità e bestialità della guerra, non solo mettendone in luce gli esiti catastrofici sulle condizioni economiche, sociali e familiari della gente comune, ma anche sferzando impietosamente i volgari interessi di politicanti e mercanti d’armi nel nefasto propagarsi degli eventi bellici.

Aristofane lo faceva a suo tempo e a modo suo, con la satira pungente e le battute oscene tipiche di un genere drammaturgico nato dai culti dionisiaci, in cui la guerra, apportatrice di distruzione e morte (thanatos) era presentata come l’antitesi del godimento amoroso (eros), e della pacifica esistenza di chi produce con fatica e vorrebbe godersi i frutti di quella produzione. Lo schema narrativo delle commedie aristofanee riguardanti la pace è peraltro abbastanza costante, come spiega Albini nella sua introduzione, facendo alcuni esempi.

«Negli Acarnesi, stufo della guerra, Diceopoli manda un uomo-dio a concludergli una pace personale con gli Spartani. Nella Pace, Trigeo sale al cielo su uno scarabeo stercorario per chiedere a Zeus le ragioni del conflitto in corso. Negli Uccelli, Pisetero e Euelpide, disperati per le rissosità e faziosità urbane, fondano una nuova città a mezza strada tra terra e cielo. Nella Lisistrata, sdegnate per il perdurare dello stato di belligeranza, le donne proclamano lo sciopero del sesso…» [ii].

Nella Pace è un contadino attico che compie la sua stravagante ‘missione impossibile’ ascendendo goffamente ad un Olimpo ormai evacuato dalle divinità, dove risiede provvisoriamente solo Ermes. Trigeo, infatti, vuole eroicomicamente riportare sulla terra quella Pace che il gigante Polemos (guerra) aveva recluso in una profonda caverna (allegoria dell’oscurità dell’ignoranza), ostruendone l’ingresso con pesanti massi (gli ostacoli che gli umani frappongono per non far emergere le scomode verità).  Ed è proprio Ermes a spiegargli il motivo del sorprendente esodo degli dei olimpici dalla loro abituale residenza.

«Erano furiosi contro i Greci. Nella loro vecchia sede hanno sistemato il Gigante Guerra e lo hanno autorizzato a far di voi quello che gli piaceva. Loro si sono ritirati nei quartieri alti del cielo: non volevano più vedervi combattere e sentire le vostre suppliche […] Perché vi hanno offerto più volte la pace e voi avete sempre preferito menar le mani […] Di conseguenza non so se rivedrete più la Pace […] Il Gigante Guerra l’ha gettata in fondo ad una spelonca […] e poi l’ha sbarrata con un mucchio di pietre. Così non potrete più riprendervi la Pace» [iii].

Un coro di voci invoca il ritorno della Pace

Lo scambio di battute tra Guerra ed il suo servo Kydoimos (personificazione dell’orrendo frastuono delle battaglie, della confusione e del tumulto, tipici d’ogni scontro armato) offre ad Aristofane l’occasione per puntare il dito contro i generali guerrafondai (l’ateniese Cleone e lo spartano Brasida), i ‘pestelli’ coi quali il gigante vuol “ridurre in polpettone tutte le città[iv]. Da lì parte il Coro, voce dolente di chi fa appello al comune impegno contro l’incombente minaccia di distruzione.

«Ognuno accorra subito, è in gioco la salvezza / ora o mai più, miei Greci, occorre compattezza /Abbandonate i ranghi e la rossa divisa / risplende una giornata ai generali invisa […] Estrarremo la Pace, la dea che è senza eguali / l’amica delle vigne, usando pale e pali» [v].

L’alternarsi delle battute di Trigeo con quelle del Coro sottolinea quindi la bellezza della pace ritrovata, attaccando “chi fabbricando lance e smerciando scudi desidera la guerra per guadagnare di più” ed invitando perciò gli amanti della pace “a darsi da fare”.

L’inevitabile ed eterna contrapposizione tra chi fabbrica falci e chi produce spade emerge con chiarezza, seppure nel tono comico aristofaneo, così come risulta evidente che l’interesse fraudolento di chi semina zizzania ed alimenta i conflitti bellici sarà sempre antitetico a quello di chi coltiva la terra e produce beni. Ed è sempre Ermes a rivelare che una delle abituali armi di Guerra per seminare la paura è la menzogna, la falsificazione, l’inganno. Infatti: «La città, pallida e atterrita, inghiottiva di gusto tutte le calunnie che le venivano gettate…» [vi].

Quando finalmente Trigeo – grazie alla collaborazione di altri volenterosi – riuscirà a liberare Pace dalla grotta in cui Guerra l’aveva segregata, riportandola sulla Terra, la sua riconquista sarà festeggiata da una folla osannante, che così l’implora:

«….Metti fine / a battaglie e tumulti: avrai il nome / di ‘dea che scioglie gli eserciti’ / Blocca i sottili sospetti, son fonte / di male dicerie reciproche. / Rimescola da capo / noi Greci / in un succo di amicizia, / infondi nelle menti / una più mite intesa…» [vii].

L’alternativa alla guerra psicologica di chi falsifica la realtà, semina sospetti ed eccita gli animi, rinfocolando odi e incomprensioni, allora come ora restano dunque gli sforzi per un’intesa reciproca, la mitezza della nonviolenza e la determinazione a recuperare relazioni pacifiche. Ma non è un caso che l’appellativo che Aristofane assegna alla dea Pace è Lisimaca – colei che scioglie gli eserciti, che ci libera dalle battaglie – ricordandoci anche oggi che non esiste pacifismo che non sia antimilitarismo, cioè opposizione ad un intero sistema di violenza istituzionalizzata e glorificata.

Ebbene, ora come allora – come è emerso dai numerosi incontri nel corso dell’EireneFest – ancora una volta tocca a noi liberare Pace dalla spelonca delle mistificazioni, dei sospetti e degli odi alimentati da chi invece ha interessi a nutrire il gigante Guerra. E, ora come allora, i costruttori di pace (eirenopoiòi) devono fare ricorso – insieme e convintamente – alle basi nonviolente della pace: verità, cooperazione, riconciliazione, rispetto della vita e rifiuto di ogni collaborazione con chi persegue il denaro ed il potere a costo della soppressione delle vite e della devastazione ambientale.

Dopo 2400 anni ormai avremmo dovuto capirlo…


[i] Aristofane, Pace, Introduzione e traduzione di Umberto Albini, note di Fulvio Barberis, Milano, Garzanti, 2002

[ii]  Ivi, p. viii

[iii] Ivi, pp. 15-17

[iv]  Ivi, p. 19

[v]  Ivi, pp. 21-23

[vi] Ivi, p. 41

[vii]  Ivi, p. 63


© 2023 Ermete Ferraro

Etimostorie #9: Resilienza

Fino a poco più di cent’anni fa il sostantivo ‘resilienza’ era poco conosciuto ed utilizzato, per cui era difficile riscontrarne traccia in un discorso o in uno scritto. L’uso frequente, talora impreciso, che se ne fa in questo periodo, viceversa, sta progressivamente affermando il concetto che questa parola – al di là del riferimento ad una ben precisa proprietà fisica di alcuni materiali – attenga ad una qualità, una caratteristica virtuosa, connessa al comportamento umano, come peraltro era già successo con l’analogo, ma ben diverso, concetto di ‘resistenza’.

«La parola appare per la prima volta in italiano nel XVIII sec. col significato generico, non necessariamente legato ad un settore specifico, di capacità dei corpi di rimbalzare, di tornare indietro. L’accezione è legata alla sua origine latina: il verbo latino resilire, composto da re- + salire, ‘saltare’ si usava nel significato di ‘ritornare di colpo’, ‘rimbalzare indietro’, per estensione anche ‘ritirarsi’, ‘contrarsi’ […] Il latino resiliens comincia a circolare nella letteratura scientifica, redatta in latino fino al Seicento, per indicare “sia il rimbalzare di un oggetto, sia alcune caratteristiche interne legate all’elasticità dei corpi, come quella di assorbire l’energia di un urto contraendosi, o di riassumere la forma originaria una volta sottoposto a una deformazione” (L’elasticità di resilienza, accademiadellacrusca.it, 12/12/2014)”…». [i]

Etimologicamente parlando, l’idea centrale è quella di un oggetto (e per estensione anche di un soggetto) che abbia in sé l’elasticità necessaria per non lasciarsi de-formare dagli urti provenienti dall’esterno, riuscendo a reagire ad essi, recuperando così la forma iniziale.  Il verbo in transitivo latino salire(la cui forma nominale del supino-participio era saltum) viene tradotto variamente, con: saltare, slanciarsi, balzare, scorrere, pulsare etc.  Dalla sua più frequente forma iterativa saltare sono poi derivati (con la consueta variazione vocalica /a/ > /u/ e grazie ai relativi prefissi) un grappolo di verbi ben noti, come ‘esultare’, ‘esaltare’, ‘insultare’, ‘sussultare’ e ‘risultare’. Con lo stesso meccanismo derivativo, peraltro, dalla forma base si è formato il verbo italiano ‘assalire’, ma anche quello spagnolo salir (nel senso di sbucare fuori, uscire).

D’altronde il verbo greco originario allomai (hallomai) aveva lo stesso significato (saltare, sgorgare, scaturire), per cui il senso fondamentale di entrambi è quello di qualcosa/qualcuno che salta fuori, venendo a modificare una situazione statica iniziale. Non è un caso, infatti, che i sacerdoti romani conosciuti come Salii, e prima di loroquelli greci denominati Coribanti, si caratterizzassero proprio per le loro danze orgiastiche e saltellanti, da cui sono forse derivate le nostre ‘tarantelle’, anch’esse dotate infatti di una forte valenza esorcistica e rituale. Lo stesso termine ‘presule’ (oggi applicato ai prelati cattolici) è quindi uno strano ricordo di pratiche pagane, riferendosi al sacerdote più importante, che guidava quelle frenetiche danze.

Questo spiega come mai ad ogni azione violenta ed improvvisa diretta contro qualcuno (si tratti di un assalto fisico oppure di un insulto verbale) corrisponda solitamente dapprima una istintiva reazione emotivo-motoria (il sussulto) e poi un più volontario sforzo per reagire al colpo ricevuto, o con un ulteriore assalto violento oppure recuperando la situazione iniziale, con quella resilienza che ne dovrebbe neutralizzare effetti. La differenza tra ‘resistenza’ e ‘resilienza’ – come si spiega efficacemente in un articolo – è che: «La resistenza è silenziosa, ferma, ostinata sulla propria posizione, dura come sasso, là dove la resilienza è flessibile, adattabile, fantasiosa. La resistenza è dei forti, cose o uomini che siano. La resilienza è solo umana» [ii].

Re-sistere comporta infatti una reazione attiva, oppositiva e pertanto quasi sempre violenta, verso chi ha compiuto un assalto aggressivo, allo scopo di mantenere ad ogni costo la situazione iniziale.  La reazione resiliente, invece, esclude un atteggiamento di rigidità (sintetizzata dal bellicoso motto latino “frangar, non flectar”, tradotto con “Mi spezzo ma non mi piego”) e pertanto può prevedere un temporaneo cedimento [iii] che non è una resa, ma una reazione nonviolenta e creativa, spesso ancor più efficace.  Sant’Agostino, non a caso, capovolgeva la frase citata esortando i cristiani con le parole “Flectamur facile, ne frangamur”, invitandoli ad esercitare quella flessibilità in cui ritroviamo il ruolo positivo e non passivo della resilienza.

Però stiamo attenti, dal momento che quest’indubbia qualità – a forza di utilizzare questo termine un po’ troppo e non sempre a proposito – non sia trasformata in ciò che non è, mediante un processo di logoramento, logico prima che linguistico, cui peraltro sono già state sottoposte altre parole ‘alternative’.

«Perché questa curiosità etimologico-linguistica? Perché la parola “resilience” è ormai onnipresente in ogni discorso dei manager e degli economisti, e spesso anche negli articoli, negli studi e nelle analisi di economia e finanza, e nel linguaggio della Commissione europea e dei ministri delle Finanze dell’Eurozona […] Ma attenzione: abbiamo già visto che cosa è successo al termine “sostenibilità”, usato in origine nel suo senso di sostenibilità ecologica (non produrre danni irreversibili all’ambiente, tutelarlo nella durata), e passato poi anche a designare un concetto finanziario…» [iv]

Già, perché l’indubbia positività di una reazione diversa da quella aggressiva e violenta subita, fondata quindi sulla flessibilità e la capacità di recupero, rischia purtroppo di essere artatamente confusa con una ‘non-resistenza’, con l’atteggiamento passivo del classico pugile suonato, capace solo di ‘incassare’ bene i colpi. Anche il concetto psicologico di ‘adattamento’ all’ambiente fisico e sociale – di per sé positivo – è stato alla lunga svilito in una tendenza a non reagire, ad accettare passivamente la realtà, accontentandosi dell’esistente.

Il gandhiano satyagraha [v] c’insegna invece che la resilienza è anch’essa una forma di opposizione al male, di allenamento ad una resistenza alternativa alle avversità, che sbilancia e mette in crisi l’assalitore violento e ci consente di recuperare le forze. Ecco perché ad insulti ed assalti dovremmo addestrarci a reagire in modo opposto, spiazzante e nonviolento. Solo così potremo davvero esultare per un risultato positivo.


[i] Maria Vittoria D’Onghia, “Resilienza, una parola alla moda” (16.10.2020), https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/Resilienza.html#:~:text=L’accezione%20%C3%A8%20legata%20alla,ritirarsi’%2C%20’contrarsi‘.

[ii] Silvia Magnani, “Resistenza e resilienza”, https://www.silviamagnani.it/articoli/resistenza-e-resilienza/#:~:text=La%20resistenza%20%C3%A8%20silenziosa%2C%20ferma,La%20resilienza%20%C3%A8%20solo%20umana.

[iii] Cfr. la mia Etimostoria #6: Ermete Ferraro, “Cedere e suoi derivati”, https://ermetespeacebook.blog/2022/06/21/etimostorie-6-cedere-e-suoi-derivati/

[iv] Lorenzo Consoli, “Attenti alla parola ‘resilienza’ “ (14.06.2020), https://www.eunews.it/2020/06/14/attenti-alla-parola-resilienza/

[v] Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Satyagraha

Etimostorie #8: VICO, VICOLO

 

I vicoli, si sa, costituiscono una caratteristica tipica non solo di Napoli e di altri borghi del meridione, ma anche di tante città italiane e di parecchie località al di fuori della nostra penisola. Ovviamente in quei casi assumono denominazioni differenti a seconda della rispettiva lingua, dai vocaboli inglesi alley e lane al francese ruelle, dallo spagnolo callejòn al tedesco Gasse, dal greco dromàki al russo perèulok, per non parlare dell’arabo ziquaq o del cinese hutòng. Quasi tutte le parole citate, comunque, alludono a una via piccola e stretta, così come peraltro spiegano il dizionario ‘Treccani’ (“s. m. [lat. vicŭlus, dim. di vicus. – Nel linguaggio corrente, e anche nella toponomastica ufficiale, nome dato a vie urbane di modeste dimensioni, soprattutto in larghezza“) e ‘Garzanti’ (“via molto stretta e di secondaria importanza, in un centro urbano dim. vicoletto, vicolino, pegg. Vicolaccio. Etimologia: ← dal lat. vicŭlu(m), dim. di vīcus; cfr. vico”).

Eppure, etimologicamente parlando, i ‘vicoli’ non nascono come stradine strette e tortuose, ma come veri e propri agglomerati comunitari, con una loro specifica natura sul piano toponomastico, lavorativo o identitario. Infatti i vicoli, come sanno bene i Napolitani [i] , oltre alle consuete intitolazioni a noti personaggi, hanno assunto spesso denominazioni legate talvolta alla provenienza geografica degli abitanti (es. vico Cinesi, Rua Toscana, Rua Catalana, vico Venafro, vico Egiziaca, vico Trinità degli Spagnoli etc.); attestano caratteristiche naturalistiche e geologiche (es. vico Fico, Palma, Pero, Pergole, Rose, Quercia, Limoncello, Melofioccolo, Mortelle, Noce, Nocelle, Tiglio, Olivella, Pignasecca, Marina, Molo vecchio, Ponte, Sedile di Porto, Gravina, Petraio, Grotta vecchia…) oppure richiamano mestieri ed attività che anticamente li caratterizzavano (es. Calzolai, Lammatari, Impagliafiaschi, Scassacocchi, Panettieri, Scoppettieri, Scopari, Chiavettieri, Figurari, Giubbonari, Tarallari, Tessitori, Tinellari, Ventaglieri, ma anche: Forno, Zabatteria, Gabella, Pallonetto, Molino, Spezieria, Vetriera etc.).[ii]  

Come si vede, in una prospettiva storica i vicoli sono stati una sorta di villaggi urbani, di aggregazioni comunitarie i cui abitanti si sentivano uniti da legami specifici. Non è certo un caso che nella Napoli antica, i residenti in certe aree della polis greco-romana si riunissero in 12 fratrìe, termine ellenico che rinviava appunto a legami parentali e/o a divisioni sociali di tipo clanistico all’interno della stessa tribù [iii].

Ma da dove derivano la parola ‘vicolo’ e ‘vico’? Certo, chi ha studiato il greco al liceo classico ha maggiori possibilità di scoprire le radici etimologiche di molte parole italiane di uso comune. C’è però un limite a tale conoscenza pregressa, poiché – come capita anche nel latino – la pronuncia dei vocaboli ellenici che ci è stata insegnata si è modificata nel tempo, rendendo così meno evidenti alcune somiglianze. Basti pensare al grafema β, comunemente letto come /b/ sebbene, anche nel greco moderno, si pronunci sempre /v/, oppure al grafema η, usato come se fosse solo una /e/ stretta e non una /i/, ragion per cui lo stesso nome della prima lettera è solitamente letto come ‘béta’ mentre dovrebbe essere pronunciato ‘vìta’.  Se aggiungiamo poi che alcuni segni grafici del greco antico sono scomparsi dalla grafia comune di quello ‘classico’, pur essendo avvertiti dai parlanti, si comprende che ci troviamo di fronte ad un altro piccolo ostacolo alla comprensione. È il caso del digamma (dal greco antico δίγαμμον o δίγαμμα (maiuscolo Ϝ, minuscolo ϝ), un grafema usato nella fase più arcaica.

La lettera rappresentava l’approssimante labiovelare sonora /w/. Il suo nome originale è sconosciuto, ma era verosimilmente chiamata ϝαῦ (/waw/ […] Un esempio è la parola ἄναξ (ànax, “re”) trovata nell’Iliade, che all’origine era probabilmente ϝάναξ (corrispondente al *wànaks, scritto wa-na-ku-su, delle tavolette micenee in lineare B) […] Altre evidenze insieme ad un’analisi filologica dimostrano che οἶνος era in precedenza ϝοῖνος *wòinos (confronta il lat. vinum (pronuncia antica /winom/) e l’ingl. wine)” [iv].

Si comprende allora evidente che da vocaboli greci come οἶκος (òikos > casa) o οἶνος (òinos > vino) appare meno trasparente l’etimologia di quelli italiani se non si tiene conto del ‘digamma’ che li precedeva e della pronuncia /i/ dell’originario dittongo /oi/. Viceversa, nella dizione *wìcos e *wìnos è agevole scorgere l’affinità con le nostre parole ‘vico’ e ‘vino’. Del resto, basta consultare un dizionario etimologico per scoprire che ‘vicolo’ ha una stretta parentela col primo dei due vocaboli greci citati, in quanto il concetto di ‘casa’ (per i popoli antichi ma anche per molti Napolitani di oggi…) si estendeva all’esterno delle mura domestiche, soprattutto nel caso di case popolari di ridotte dimensioni come i ‘bassi’, comprendendo parte dell’ambiente esterno, strada compresa.

“Il greco moderno dice abitualmente spiti per ‘casa’, ma tutta la famiglia di òikos, oikìa, coi suoi derivati e composti, è largamente rappresentata: da notare oikogéneia (famiglia), noikokyra (padrona di casa), voikiàzo (affittare) […] vicus, propriamente ‘villaggio’, da cui poi villa, intesa come dimora extra-cittadina…La radice è poi la stessa dell’italiano ‘vicino’, ‘vicolo’ e derivati…”. [v]  

Non è quindi un caso che ‘vico’ non indichi solo una stradina angusta all’interno delle città antiche (si pensi ai vicoletti che discendono direttamente dagli sténopoi della Neapolis greca), ma anche l’elemento toponomastico distintivo di borghi e cittadine (ad es. Vico Equense, Vico pisano, Vico del Gargano etc.). Il vicolo, dunque, era e spesso resta il luogo distintivo del rapporto coi ‘vicini’, una casa allargata a parenti ed amici, coi quali si condivideva, oltre alla condizione socio-economica, un’affinità lavorativa e spesso perfino espressiva (si pensi ai ‘dialetti’ tipici di un ristretto territorio). 

Non dobbiamo dimenticare però che dal greco antico οἶκος (pronunciato ‘ìkos’) sono derivati altri importanti vocaboli moderni, con la differenza che il dittongo /oi/ è stato letto latinamente come /e/. Pensiamo solo a parole come ‘economia’ ed ‘ecologia’, spesso contrapposte ma di cui andrebbe invece riscoperta la comune radice. Se infatti la prima è la regola per amministrare e stabilire una regola (nomìa) alla ‘casa’ nel senso ampio prima chiarito, l’eco-logìa ci riporta invece all’ambiente naturale, quella “casa comune” alla cui “cura” ci ha richiamato appassionatamente papa Francesco, a partire dalla sua fondamentale enciclica “Laudato si’ “. [vi]  Dalla ricerca di un giusto equilibrio tra esigenze umane ed equilibri ecologici, pertanto, dipende il perseguimento dell’obiettivo di quella “economia ecologica” di cui Kenneth Boulding è stato un capostipite. 

“L’economia è un termine antichissimo che indica le norme che regolano quanto avviene in una casa (ecos), in una comunità, sotto forma di scambi di beni e di denaro fra gli abitanti; l’ecologia, una parola inventata appena un secolo e mezzo fa, indica come si svolgono i rapporti fra gli occupanti di una comunità biologica, di un ecosistema, che può andare da un piccolo stagno all’enorme mare, all’intero pianeta Terra. […] Boulding è stato instancabile nel “predicare”, direi, la necessità di un cambiamento nelle regole dell’economia; compatibile con i vincoli ecologici della Terra…”. [vii]

In passato, a proposito delle specificità di Napoli, si è parlato spesso di “economia del vicolo”, alludendo ad un sistema produttivo di sopravvivenza, arcaico e solidaristico, localizzato nella parte più antica e povera della città (il c.d. ‘ventre di Napoli’) e caratterizzato da piccole attività artigianali, di autoproduzione e di scambio, nonché spesso da traffici illeciti o ai limiti della legalità. Ma l’etimologia comune di queste due parole (vicolo ed economia), ci spinge a fare qualche opportuna riflessione.

Senza lasciarsi attrarre da tentazioni folkloristiche e nostalgie passatiste, infatti, uno dei modi per cambiare davvero l’economia, invertendo la tendenza che l’ha resa l’opposto di un atteggiamento e comportamento ecologico, credo sia proprio il recupero della dimensione locale, minore, egualitaria, solidaristica e comunitaria del vivere. Un’esistenza dai modi e dai ritmi più lenti, più profondi e più dolci, come suggeriva Alex Langer [viii] , contrapponendo questa formula a quella olimpica (ma anche economica) sintetizzata nel noto slogan “altius, citius, fortius”.

Non bisogna tornare alla tradizionale (e tautologica) ‘economia del vicolo’, ma sicuramente dobbiamo invertire la rotta e recuperare una visione realmente alternativa, sobria, ecologica e di condivisione, come ci hanno indicato autori come lo statunitense Lester R. Brown [ix], l’indiano Joseph C. Kumarappa [x] ed il nostro Francesco Gesualdi [xi]. La cura della ‘casa comune’ dell’umanità non può prescindere da nuovi rapporti sociali ed economici che le restituiscano una dimensione conviviale, fondata sul bene comune e sul rispetto degli ecosistemi naturali, come ha giustamente sottolineato anche Roberto Mancini [xii].

Solo così l’òikos che abitiamo potrà tornare ospitale (spiti) e accogliente, garantendo un futuro alle prossime generazioni ma anche un presente meno drammatico alla nostra.


[i]   https://it.wikipedia.org/wiki/Fratria ed anche https://cosedinapoli.com/culture/__trashed/ Cfr. https://cosedinapoli.com/culture/vie-vicoli-e-vicoletti/

[ii]   Cfr. Stradario_del_Comune_di_Napoli_ordinato_per_Toponimi_aggiornato_al_2_12_2019.pdf

[iii]  https://cosedinapoli.com/culture/vie-vicoli-e-vicoletti/     

[iv]  https://it.wikipedia.org/wiki/Digamma

[v]  https://www.corsi.univr.it/documenti/OccorrenzaIns/matdid/matdid735966.pdf

[vi]  Cfr. https://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html   e  https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2018-05/papa-francesco-enciclica-laudato-si-ecologia-creato.html

[vii]  Giorgio Nebbia, Kenneth Boulding, padre dell’economia ambientale, 2010 > http://www.fondazionemicheletti.it/nebbia/sm-3176-kenneth-boulding/  . Fra le ultime opere di K. Boulding v. Towards a New Economics: Critical Essays on Ecology, Distribution, and Other Themes, Edward Elgar, 1992.

[viii]  Vedi  https://www.alexanderlanger.org/it/1044/4506

[ix]  Cfr. Eco-economy, Una nuova economia per la Terra, Roma, Editori Riuniti, 2002

[x]  Cfr. Economia di condivisione. Come uscire dalla crisi mondiale, Pisa, Centro Gandhi Edizioni, 2011

[xi]  Cfr.  Sobrietà. Dallo spreco di pochi ai diritti di tutti, Milano, Feltrinelli, 2010

[xii]  Cfr. Trasformare l’economia. Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche, Milano. Franco Angeli, 2014

© 2022 Ermete Ferraro

#Alpinianapoli? No, grazie!

Ma che vogliono questi alpini a Napoli?” – si chiedono loro stessi in un manifesto affisso per le strade della mia città nell’assolato fine settimana ottobrino da 25 gradi. A dire la verità questo apparente sprazzo di autocoscienza è solo una domanda retorica, un banale espediente pubblicitario per attirare l’attenzione dei napolitani che escono sudati da affollati autobus o che s’incolonnano sfastidiati nel solito traffico cittadino. Per risultare più efficaci sul piano comunicativo – si saranno detti in qualche riunione tra ufficiali e media advisors –sarà meglio ricorrere al vernacolo, quel ‘dialetto’ partenopeo che le grandi imprese ormai hanno preso l’abitudine di saccheggiare scorrettamente quanto impunemente, giusto per dare un pizzico folkloristico in più ai loro messaggi.

E infatti nel manifesto che annuncia il loro sorprendente raduno del 15 ottobre 2022 troviamo quel titolone così napolitanizzato: “ma che vonno ‘sti alpini a Napule?”. Non si tratta però del comprensibile interrogativo che nasce dalla consapevolezza dell’assurdità di una sconcertante manifestazione di ‘penne nere alla partenopea’, bensì del pretesto – strumentale ma anche un po’ provocatorio… – per spiegare agli abitanti di questa città trimillenaria come e qualmente il Corpo degli Alpini sia stato fondato, giusto 150 anni fa, nientemeno proprio a Napoli…

Mo’ t’o cunte je”, si sbilanciano a dirci in un’improbabile forma dialettale, aggiungendo poi in italiano una spiegazione che – come affermano loro stessi… – “è difficile da credere”, con la quale ci rivelano che gli Alpini sono nati a Napoli grazie al Regio Decreto firmato il 15 ottobre 1872 da Vittorio Emanuele II. Undici anni dopo l’altro regio decreto col quale lo stesso monarca sabaudo si autoproclamava ‘re d’Italia’, in seguito all’annessione dell’invaso Regno delle Due Sicilie e dopo un ‘plebiscito’ farsa.

Ebbene, sorvoliamo pure sugli svarioni ortografici che, come al solito, dimostrano scarso rispetto per la lingua napolitana: vonno > vônno, a Napule > a Nnapule, mo’ > mo, t’o > t’ ‘o, cunte > conto, je > io/ i’. Molto più, a dire il vero, ci colpisce la sicumera coloniale di chi non ha mai smesso di considerarci un’esotica appendice di quel Regno, che dovrebbe sentirsi quindi onorata dal privilegio di aver dato i natali a un siffatto blasonato corpo militare.

Tu qua’ Natale…Pasca e Ppifania!!! T”o vvuo’ mettere ‘ncapo…’int’a cervella che staje malato ancora ‘e fantasia?” avrebbe causticamente esclamato l’unico Principe che Napoli abbia davvero onorato. Il guaio è che nei militari, si sa, il senso dell’ironia non è molto sviluppato. Al punto che al dissacratore Totò gli Alpini hanno dedicato addirittura una statua, prendendo per buona la sua celebre e sarcastica espressione: “Sono un uomo di mondo: ho fatto il militare a Cuneo!”….

Ma questa nostra Napoli – per Statuto ‘Città di Pace’ e protagonista di quattro giornate di lotta civile e popolare in gran parte non armata – non sa che farsene di questa primogenitura pezzotta. Questa nostra Napoli che è lontana 850 chilometri dalle Alpi da cui traggono il loro nome le autocelebranti ‘penne nere’, ma che è ancor più lontana dalla retorica patriottarda e militarista cui loro invece sono tanto affezionate.

I Napolitani non hanno confini montani da difendere e soprattutto non gli si scalda il cuore alla vista di soldati in uniforme che sfilano impettiti e marziali, tanto più in quella piazza del ‘plebiscito’ che ricorda proprio l’annessione militare sabauda. Ecco perché il vero interrogativo, più che “ma che vogliono questi alpini a Napoli?”, sarebbe forse: “ma che vogliono questi alpini da Napoli?”. Soprattutto ora, mentre soffiano allarmanti venti di guerra ed i una difficile fase della nostra storia repubblicana, che vede neofascisti e leghisti spartirsi le cariche istituzionali e di gover, mentre la logica militare pervade la società civile.  

E quindi: #alpinianapoli? Ma ci facciano il piacere!

La resistenza civile funziona, da un secolo.

Uscire dagli stereotipi sulla ‘difesa della patria’

In occasione della Giornata Internazionale della Nonviolenza [i] – vorrei andare oltre le frasi di circostanza tipiche di ogni anniversario per affrontare un punto centrale ma spesso trascurato di questa radicale scelta etica e politica: il suo modello alternativo di difesa. Mai come in questi lunghi mesi di guerra in Ucraina abbiamo assistito a ripetitive discussioni mediatiche sul sacrosanto diritto alla difesa di un popolo il cui territorio sia stato invaso militarmente da una soverchiante potenza straniera. Anche nei martellanti ed angoscianti réportages dall’Ucraina (peraltro mai riscontrati in altre circostanze belliche) si è ribadito che non si era minimamente da mettere in discussione la legittimità della difesa armata di quella nazione e, conseguentemente, che l’unica forma di solidarietà possibile da parte degli stati ‘democratici’ doveva essere l’invio di massicci aiuti economici, ma soprattutto militari, a sostegno della sua ‘resistenza’ all’invasore.

Eppure, in questo convulso moltiplicarsi d’interventi sulla una delle guerre in atto, alla scontata retorica nazionalista e militarista di chi esalta il coraggio di quelli che difendono eroicamente la patria dal nemico arrogante e violento ho sentito raramente contrapporre argomentazioni che non si limitassero ad invocare un po’ genericamente la pace o ad evocare interventi diplomatici e/o azioni sovranazionali esterne, di cui purtroppo abbiamo già conosciuto, e verifichiamo tuttora, la scarsa efficacia, la limitata credibilità e la ridotta ‘terzietà’.

Purtroppo, ai pur apprezzabili e condivisibili appelli all’immediata cessazione delle operazioni di guerra, all’armistizio, al ricorso a mediazioni internazionali ed alla solidarietà attiva cogli oppositori a una guerra cinicamente mascherata da ‘operazione militare speciale’, molto raramente sono seguite indicazioni e proposte che prefigurassero una strada davvero alternativa alla difesa militare.

Eppure, a mezzo secolo dalla legge che in Italia riconobbe il diritto all’obiezione di coscienza [ii], non dovrebbero mancare fonti (bibliografiche ed esperienziali) cui attingere per argomentare non soltanto la propria opposizione al militarismo ed il disarmo, ma anche la scelta d’una modalità difensiva non armata civile popolare e nonviolenta [iii]. E non solo per motivazioni di natura etica e/o religiosa, ma perché si è fermamente convinti che una difesa alternativa a quella armata, oltre che moralmente giusta, è realmente praticabile ed efficace.

Il fatto è che più di 30 anni di analisi, studi e proposte anche legislative sulla transizione ad un modello non violento di difesa [iv] sono state spazzate via dalla legge che nel 2004 ha abolito il servizio militare obbligatorio, ma al tempo stesso ha fatalmente azzerato il crescente movimento di obiettori di coscienza alla leva e alla stessa guerra. Quella guerra che la nostra Costituzione repubblicana all’art. 11 “ripudia” inequivocabilmente, pur proclamando all’art. 52 che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Quella guerra che è ‘follia’ ed a cui legittimamente hanno obiettato coloro i quali ritenevano che il dovere di difendere la propria terra e le istituzioni nazionali non coincidesse affatto con l’addestramento a (e la pratica di) una tradizionale difesa armata, bensì con l’impegno civile a salvaguardare comunità e territori, anche e in primo luogo con metodologie operative non militari e non violente.

Per un percorso verso la ‘transizione difensiva’

Nella nota relazione di accompagnamento del disegno di legge per l’istituzione in Italia di un Dipartimento per la Difesa Civile Non Armata e Nonviolenta vengono ricapitolati alcuni di questi compiti nei seguenti: la difesa civile, che – al contrario di quella militare – usa mezzi e strumenti coerenti con le finalità perseguite ha, tra gli obiettivi dichiarati, la difesa della Costituzione e dei diritti civili e sociali in essa enunciati; la predisposizione di piani per la difesa civile non armata e nonviolenta, compresa la formazione della popolazione; le attività di ricerca per la pace, il disarmo, la risoluzione dei conflitti e la conversione a fini civili delle industrie belliche; la prevenzione dei conflitti armati, la mediazione, la riconciliazione, la promozione dei diritti umani, l’educazione alla pace e al dialogo inter-religioso, in particolare nelle aree a rischio di conflitto, in stato di conflitto o di post-conflitto; il contrasto, infine, delle situazioni di degrado sociale, culturale ed ambientale [v].

Ma il travagliato percorso verso l’istituzione di una componente non militare della difesa italiana non è iniziato solo otto anni fa con la presentazione d’una proposta di legge d’iniziativa popolare [vi], ripresa dopo un anno dalla Proposta d’iniziativa parlamentare C 3484 [vii] e rafforzata cinque anni dopo da una ‘petizione costituzionale’ ai Presidenti dei due rami del Parlamento [viii], rimasta finora senza riscontri da parte di una classe politica ottusa e diffidente. In effetti il cammino in quella direzione era già stato preceduto negli anni ’80 da intenso lavoro preliminare, condotto da noti esponenti dei movimenti nonviolenti italiani, in primis da Antonino Drago. Essi – oltre a studiare e diffondere le teorie della Difesa Popolare Nonviolenta (DPN) e le sue esperienze storiche più significative – si sono basati su alcuni pronunciamenti della Corte Costituzionale per sancire il principio che la difesa di cui parla l’art. 52 non è esclusivamente quella armata, per cui lo stato italiano, con un apposito Comitato ministeriale, avrebbe dovuto avviare un percorso normativo di transizione verso la DPN.

 La sentenza… affermava che la Costituzione ammette, accanto alla difesa armata, una difesa non armata […] Quindi l’importante novità è che da qualche tempo il concetto di ‘difesa non armata’ è entrato ufficialmente nell’ordinamento giuridico italiano […] Si noti che, a partire dalla sentenza n. 164/85, la Corte Costituzionale ha implicitamente programmato anche il transarmo […] In questa direzione…nel 1998 è stata approvata la legge 230, di riforma dell’obiezione di coscienza e del servizio civile, ora chiamato ‘alternativo’ a quello militare […]  3) l’organizzazione e la programmazione dell’Ufficio Nazionale del Servizio Civile (UNSC) […] 4) tra le competenze dell’UNSC è prevista, all’art. 8, quella di “predisporre, di concerto col Dipartimento per il coordinamento della protezione civile, forme di ricerca e sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta” […] Ma poi lo Stato italiano ha progettato… di sospendere l’obbligo di leva…dal gennaio 2005 […] questa decisione appare una maniera per far scomparire dall’orizzonte i tanti obiettori di coscienza e allo stesso tempo di svuotare il problema politico della nascita istituzionale della difesa non armata [ix].

Il cammino iniziato in Italia nel 1967 col saggio di Capitini sulle “tecniche della Nonviolenza” [x], da 17 anni si è arenato non solo nelle secche di una politica ideologicamente ostile, ma anche per una diffusa ignoranza dei fini e mezzi della DPN e più in generale dei principi e metodi della Nonviolenza, alla quale nessuna istituzione o organizzazione è tuttora in grado di addestrarci.

Da ‘persuasi della Nonviolenza’ a ‘addestrati alla DPN’

È innegabile che una serie di secolari caratteristiche storiche ideologiche e religiose abbiano reso gli italiani meno sensibili ad una cultura e ad un’etica politica di stampo prevalentemente orientale (induista in particolare) e protestante (tipica di alcune denominazioni come valdesi, battisti, quaccheri, etc.). Infatti la tendenza della teologia morale cattolica a teorizzare il principio della ‘guerra giusta’ – sancito e consolidato da secoli di tradizione patristica e di magistero ecclesiale – si è interrotta solo nella seconda metà del XX secolo.

 Il papa Giovanni XXIII, per esempio, nella sua enciclica Pacem in Terris mise di fatto in discussione tutti e tre i principi della guerra giusta, affermando che, nell’era degli armamenti atomici, fosse addirittura «alienum a ratione bellum iam aptum esse ad violata iura sarcienda» («estraneo alla ragione [ritenere] che la guerra possa essere uno strumento adatto per rivendicare dei diritti violati». Significativamente, il concilio ecumenico Vaticano II si rifiutò anche solo di parlare di “guerra giusta” nei suoi documenti ufficiali, adottando piuttosto le riflessioni sulla legittima difesa in campo internazionale come unico ambito in cui affrontare il tema della tutela dei diritti dei popoli nell’ambito del bene dell’intera umanità (Gaudium et spes, 77-82)… [xi]

Non è un caso che i profeti della nonviolenza (da Thomas Merton a Giorgio La Pira, da don Lorenzo Milani a don Primo Mazzolari) non abbiano avuto vita facile nella Chiesa Cattolica, che però dal Concilio Vaticano II ha subito una profonda riconversione, testimoniata dal magistero di pontefici come il citato Giovanni XXIII, ma anche Paolo VI, Giovanni Paolo II. Benedetto XVI e l’attuale papa Francesco [xii]. Inoltre va detto che movimenti come la cattolica Pax Christi (1945) o di matrice originariamente protestante come il Movimento Internazionale della Riconciliazione (1952) negli ultimi decenni hanno lodevolmente contribuito a diffondere in Italia una visione etico-spirituale pacifista e nonviolenta, alimentando il movimento per l’obiezione al servizio militare ed alla guerra.

Ciò che invece è mancato – quanto meno da quel 2005 che ha segnato la fine dell’esperienza diffusa e significativa del servizio civile alternativo – è stata la l’opportunità e capacità di progettare, organizzare e gestire la formazione ad un modello alternativo di difesa, facendone conoscere principi e metodi e addestrando i cittadini ad una resistenza non armata civile e popolare. Eppure già negli anni ’60 e ’70 erano stati diffusi alcuni interessanti ‘quaderni della DPN’ che documentavano varie esperienze storiche, nazionali ed internazionali, di difesa non armata. Dal 1994 in poi essi sono stati parzialmente ripresi dal Centro Studi Difesa Civile, che ha pubblicato ulteriori contributi relativi ad esperienze di resistenza non violenta in Italia, in Europa e in altri ambiti geografici. [xiii] Un piccolo contributo ho cercato di darlo anch’io, affrontando le Quattro Giornate di Napoli del 1943 in una prospettiva diversa, né populisticamente oleografica né retoricamente resistenzialista [xiv].

Un ottimo contributo ad uscire dalla genericità di una scelta etica non supportata da esperienze reali e da una concreta formazione alla pratica della DPN è stato inoltre il libro di Antonio Lombardi [xv], che illustrava il ‘funzionamento’ di una nonviolenza che puntasse ad essere costruttiva ed efficace, soffermandosi sulle caratteristiche di tale strategia alternativa ma anche sull’effettivo addestramento all’azione diretta e sulla formazione al lavoro su di sé.

Purtroppo – ha sottolineato Antonino Drago – l’impasse italiana, che ha impedito l’avvio d’un servizio civile strettamente connesso alla sperimentazione concreta e diffusa della DPN, è in parte dovuta alle stesse associazioni in cui il servizio civile si è finora prestato, che evidentemente non se la sono sentita di sostenere un modello alternativo di difesa o temono la perdita di finanziamenti statali per il terzo settore.

Un secolo di esperienze nella DPN ne dimostrano l’efficacia

Tra i problemi che in Italia hanno rallentato la diffusione delle informazioni su modelli alternativi di difesa – oltre allo sfilacciarsi dei movimenti nonviolenti ed all’assenza di una consolidata tradizione di ricerca accademica sulla pace – ci sono la scarsa diffusione della letteratura in materia (fruita quasi solo dagli ‘addetti ai lavori’ o comunque da persone già consapevoli) e soprattutto la mancata traduzione di alcune opere fondamentali di autori stranieri. Fatta eccezione per alcuni classici – ad es. i contributi di Gene Sharp [xvi], di Theodor Ebert [xvii] e di Johan Galtung [xviii], sulle cui differenze teoriche si è soffermato Drago) [xix] – scarseggiano infatti testi in italiano utili a tale formazione. Ciò è particolarmente vero se si esce dalle teorizzazioni per affrontare la DPN in modo più empirico, analizzando le esperienze storiche registrate nell’ultimo secolo in vari contesti geografici ed esaminandone la reale funzionalità ed efficacia.

Un interessante libro in tal senso è quello di Sibley – O’Brien, intitolato “After Gandhi”, una rassegna dei casi più significativi, dal Vietnam di Thich Nhat Hahn alla lotta di Martin Luther King e Rosa Parks per i diritti civili dei neri statunitensi; dalla battaglia anti-apartheid di Mandela in Sudafrica ai movimenti insurrezionali in Argentina e Kenya o alla ‘rivoluzione di velluto’ di Havel in Cecoslovacchia. Ma il testo fondamentale per dimostrare quanto efficace e vincente possa essere un modello di difesa civile e nonviolenta rispetto a quella militare (purtroppo non ancora tradotto in italiano) resta l’esaustivo studio di due ricercatrici statunitensi, Erica Chenoweth e Maria J. Stephan “Why Civil Resistance Works” (“Perché la resistenza civile funziona”) [xx]. Un approccio pragmatico e scientifico alla “logica strategica del conflitto nonviolento”, che si avvale dei metodi statistici per provare che la resistenza civile ha avuto spesso la meglio su quella militare ed armata.

Lo studio di Chenoweth e Stephan è la prima analisi che utilizza metodi quantitativi di grandi dimensioni N per confrontare l’impatto dei metodi violenti e nonviolenti nel determinare il cambiamento sociale. Hanno sviluppato un set di dati NAVCO (Nonviolent and Violent Campaigns and Outcomes) che analizza 323 esempi storici di campagne di resistenza civile avvenute in un arco di oltre cento anni […] Chenoweth e Stephan mostrano che i metodi nonviolenti sono più efficaci della lotta armata. Nei casi esaminati, le campagne non violente hanno avuto successo il 53% delle volte, rispetto a un tasso di successo del 26% quando è stata impiegata la violenza. I metodi non violenti hanno avuto lo stesso successo nei regimi democratici e nelle dittature repressive. L’analisi mostra che le forme di lotta non violente hanno maggiori probabilità di produrre cambiamenti sociali e politici che portano a società più libere e democratiche [xxi].

I recenti imbarazzati silenzi – talvolta perfino da parte dei pacifisti – di fronte alle incalzanti e categoriche affermazioni sull’assenza di vere alternative alla resistenza armata di un popolo vittima di un’invasione attestano quanto poco noti siano ancora questi dati di fatto. Non basta infatti parlare genericamente di ‘vie diplomatiche’ o di ‘mezzi pacifici’ se non si è in grado di contrapporre un’alternativa difensiva nonviolenta non solo eticamente preferibile, ma anche pragmaticamente valida ed efficace. Studiarne e farne conoscere i casi storici, come esempio di gandhiano ‘programma costruttivo’, dovrà dunque diventare un impegno prioritario per i movimenti antimilitaristi, no-war e pacifisti che non si accontentino di convincere, ma vogliano anche vincere le loro battaglie nonviolente.


Note

[i]   Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Giornata_internazionale_della_nonviolenza  e https://www.onuitalia.it/2-ottobre-giornata-internazionale-della-non-violenza/   

[ii] Cfr. “50 anni di obiezione per la pace”, numero monografico di AZIONE NONVIOLENTA, anno 59, n. 652 (4/2022)   https://www.azionenonviolenta.it/azione-nonviolenta-4-2022-anno-59-n-652/

[iii]  Cfr. Enrico PEYRETTI, Difesa senza guerra Bibliografia storica delle lotte non armate e nonviolente, Taranto, PeaceLink, 2012. https://www.peacelink.it/storia/a/36008.html

[iv] Cfr. in particolare, Antonino DRAGO, Difesa popolare nonviolenta. Premesse teoriche, principi politici e nuovi scenari, Torino, E.G.A., 2006

[v] Gianmarco PISA, “La Difesa Civile e il Servizio Civile a quindici anni dalla Legge 64”, Pisa, Scienza e Pace – Research Paper n. 35 – Aprile 2016

[vi] Cfr. documentazione relativa alla Campagna nazionale “Un’altra difesa è possibile”, ed in particolare il testo presentato alla Suprema Corte di Cassazione: https://www.difesacivilenonviolenta.org/la-proposta-di-legge/

[vii] Cfr. https://www.camera.it/leg17/126?tab=&leg=17&idDocumento=3484&sede=&tipo=

[viii] Cfr. https://www.difesacivilenonviolenta.org/wp-content/uploads/2020/06/Petizione-al-Parlamento-DCNANV.pdf

[ix] A. DRAGO, op. cit., p 368-389. Vedi anche: Idem, L’ingresso della Difesa Popolare Nonviolenta (DPN) nella legislazione italiana, PeaceLink, 2005. https://www.peacelink.it/disarmo/a/13056.html . Un interessante documento da consultare è anche: Presidenza del Consiglio dei Ministri- Ufficio Naz. Per il Serv. Civile, La Difesa civile non armata e nonviolenta (DCNAN), Roma, 2006. https://www.serviziocivile.gov.it/media/561235/DCNAN-30-gen-06.pdf

[x]  Cfr. Aldo CAPITINI, Le tecniche della Nonviolenza, Milano, Libreria Feltrinelli, 1967

[xi] Voce “Guerra giusta” in Wikipedia. https://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_giusta_(teologia)#: ~:text=%C2%ABSant’Agostino%20afferma%3A%20%22,imboscata%20agli%20abitanti%20di%20Ai.%C2%BB

[xii] Cfr. Movimento Internazionale della Riconciliazione, La colomba e il ramoscello. Un progetto ecopacifista, Torino, E.G.A., 2021, pp. 102-105

[xiii] Cfr. Centro Studi Difesa Civile, “I Quaderni – dalla Ricerca all’Azione”, Roma, CSDC, 1994-2021. https://www.pacedifesa.org/category/quaderni/

[xiv] Cfr. Ermete FERRARO: (1985) “La Resistenza Napoletana e le Quattro Giornate: un caso storico di difesa civile e nonviolenta”, Verona, Azione Nonviolenta, XXII-10 (pp.15-17; (1986) “Un caso storico di difesa popolare”, Napoli, Il Tetto, XXIII, n. 133/1986 (pp.86-95); (1993) “La resistenza napoletana e le Quattro Giornate: un caso storico di difesa civile e popolare”, in: AA.VV., Una strategia di pace: la difesa civile nonviolenta (pp.89-95), Bologna, Fuori Thema; (1993) “Le trenta giornate di Napoli”, in: AA.VV., La lotta non-armata nella Resistenza, Roma, Centro Studi Difesa Civile (Quaderno n.1)

[xv] Antonio LOMBARDI, Satyagraha – Manuale all’addestramento alla difesa popolare nonviolenta, Bozzano (LU), 2014

[xvi] Gene SHARP, Politica dell’azione nonviolenta, Torino, E.G.A., 1986

[xvii] Theodor EBERT, La difesa popolare nonviolenta. Un’alternativa democratica alla difesa militare, Torino, E.G.A., 1984

[xviii] Johan GALTUNG: Ci sono alternative! – Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1986; Gandhi oggi. Per una Alternativa politica nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1987; Pace con mezzi pacifici, Ediz. Esperia, Milano, 2000

[xix] Cfr. A. DRAGO, op. cit., pp. 375-384

[xx]  Anne SIBLEY O’BRIEN & Perry Edmond O’BRIEN with Tharanga YAKUPITIYAGE, After Gandhi – One Hundred Years of Nonviolent Resistance, Watertown, Charlsbridge, 2018 ; Erica CHENOWETH & Maria J. STEPHAN, Why Civil Resistance Works – The Strategic Logic of Nonviolent Conflict, New York, Columbia University Press, 2011 (i dati principali emergenti dal libro di Chenoweth e Stephan sono stati publicati da Antonino DRAGO nel suo libro Le rivoluzioni nonviolente nell’ultimo secolo, Aracne, Roma, 2010) .

[xxi] Cfr. Why Civil Resistance Works, review  by David Cortright (https://www.e-ir.info/2013/01/17/review-why-civil-resistance-works/

© 2022 Ermete Ferraro

Camaleonti con le stellette

Le forze armate tra conformismo atlantico e trasformismo ambientalista

ERMETE FERRARO

Sintesi: Nella prima parte dell’articolo evidenzio il difficile e contradditorio rapporto del sistema militare con un territorio che dovrebbe ‘difendere’ ma che contribuisce largamente ad inquinare e devastare, riprendendo a tal fine le mie analisi nell’ultimo decennio sulla militarizzazione della regione Campania e sul ‘mimetismo’ ambientalista delle forze armate. Nella seconda parte ripercorro gli ultimi vent’anni di contrapposizione tra una crescente consapevolezza del ruolo nocivo dei militari per gli equilibri ecologici ed una diffusa narrazione sulla loro pretesa funzione di ‘difesa’ dell’ambiente, accreditata mediante un superficiale ma progressivo greenwashing delle loro attività istituzionali. La terza parte dell’articolo, infine, è dedicata specificamente ad un approccio ecopacifista, per il quale è molto importante l’analisi ecolinguistica del ‘discorso’ ambientalista dei militari, per demistificarne il trasformismo e denunciarne la strumentalità.
Parole-chiave: ecopacifismo, ecolinguistica, analisi critica del discorso, comunicazione

Il saggio può essere letto e scaricato dal sito ACADEMIA.EDU al seguente indirizzo: https://www.academia.edu/71001713/CAMALEONTI_CON_LE_STELLETTE_Le_forze_armate_tra_conformismo_atlantico_e_trasformismo_ambientalista