Stavo tornando a Napoli dopo due giorni trascorsi alla seconda edizione del ‘festival del libro per la pace e la nonviolenza’ (Roma, 26-28 maggio) e, dovendo ingannare il tempo nell’attesa del treno, ho evitato le sbrilluccicanti gallerie dello shopping per curiosare invece tra gli scaffali della libreria della stazione Termini. Lì mi è fatalmente caduto l’occhio su un volumetto [i] il cui titolo era troppo provocante per resistervi. Si trattava infatti di una vivace traduzione, con testo greco a fronte, di “EIPHNH” (Pace), tra le meno note delle commedie di Aristofane nelle quali ricorre la tematica dell’ostilità di cittadini e contadini, di donne e uomini, alla follia omicida e devastante della guerra.
L’intonazione comico-grottesca delle sue mirabolanti storie non deve ingannarci. La verità incontrovertibile è che già due millenni e mezzo fa il teatro greco affrontava l’assurdità e bestialità della guerra, non solo mettendone in luce gli esiti catastrofici sulle condizioni economiche, sociali e familiari della gente comune, ma anche sferzando impietosamente i volgari interessi di politicanti e mercanti d’armi nel nefasto propagarsi degli eventi bellici.
Aristofane lo faceva a suo tempo e a modo suo, con la satira pungente e le battute oscene tipiche di un genere drammaturgico nato dai culti dionisiaci, in cui la guerra, apportatrice di distruzione e morte (thanatos) era presentata come l’antitesi del godimento amoroso (eros), e della pacifica esistenza di chi produce con fatica e vorrebbe godersi i frutti di quella produzione. Lo schema narrativo delle commedie aristofanee riguardanti la pace è peraltro abbastanza costante, come spiega Albini nella sua introduzione, facendo alcuni esempi.
«Negli Acarnesi, stufo della guerra, Diceopoli manda un uomo-dio a concludergli una pace personale con gli Spartani. Nella Pace, Trigeo sale al cielo su uno scarabeo stercorario per chiedere a Zeus le ragioni del conflitto in corso. Negli Uccelli, Pisetero e Euelpide, disperati per le rissosità e faziosità urbane, fondano una nuova città a mezza strada tra terra e cielo. Nella Lisistrata, sdegnate per il perdurare dello stato di belligeranza, le donne proclamano lo sciopero del sesso…» [ii].
Nella Pace è un contadino attico che compie la sua stravagante ‘missione impossibile’ ascendendo goffamente ad un Olimpo ormai evacuato dalle divinità, dove risiede provvisoriamente solo Ermes. Trigeo, infatti, vuole eroicomicamente riportare sulla terra quella Pace che il gigante Polemos (guerra) aveva recluso in una profonda caverna (allegoria dell’oscurità dell’ignoranza), ostruendone l’ingresso con pesanti massi (gli ostacoli che gli umani frappongono per non far emergere le scomode verità). Ed è proprio Ermes a spiegargli il motivo del sorprendente esodo degli dei olimpici dalla loro abituale residenza.
«Erano furiosi contro i Greci. Nella loro vecchia sede hanno sistemato il Gigante Guerra e lo hanno autorizzato a far di voi quello che gli piaceva. Loro si sono ritirati nei quartieri alti del cielo: non volevano più vedervi combattere e sentire le vostre suppliche […] Perché vi hanno offerto più volte la pace e voi avete sempre preferito menar le mani […] Di conseguenza non so se rivedrete più la Pace […] Il Gigante Guerra l’ha gettata in fondo ad una spelonca […] e poi l’ha sbarrata con un mucchio di pietre. Così non potrete più riprendervi la Pace»[iii].
Un coro di voci invoca il ritorno della Pace…
Lo scambio di battute tra Guerra ed il suo servo Kydoimos (personificazione dell’orrendo frastuono delle battaglie, della confusione e del tumulto, tipici d’ogni scontro armato) offre ad Aristofane l’occasione per puntare il dito contro i generali guerrafondai (l’ateniese Cleone e lo spartano Brasida), i ‘pestelli’ coi quali il gigante vuol “ridurre in polpettone tutte le città” [iv]. Da lì parte il Coro, voce dolente di chi fa appello al comune impegno contro l’incombente minaccia di distruzione.
«Ognuno accorra subito, è in gioco la salvezza / ora o mai più, miei Greci, occorre compattezza /Abbandonate i ranghi e la rossa divisa / risplende una giornata ai generali invisa […] Estrarremo la Pace, la dea che è senza eguali / l’amica delle vigne, usando pale e pali» [v].
L’alternarsi delle battute di Trigeo con quelle del Coro sottolinea quindi la bellezza della pace ritrovata, attaccando “chi fabbricando lance e smerciando scudi desidera la guerra per guadagnare di più” ed invitando perciò gli amanti della pace “a darsi da fare”.
L’inevitabile ed eterna contrapposizione tra chi fabbrica falci e chi produce spade emerge con chiarezza, seppure nel tono comico aristofaneo, così come risulta evidente che l’interesse fraudolento di chi semina zizzania ed alimenta i conflitti bellici sarà sempre antitetico a quello di chi coltiva la terra e produce beni. Ed è sempre Ermes a rivelare che una delle abituali armi di Guerra per seminare la paura è la menzogna, la falsificazione, l’inganno. Infatti: «La città, pallida e atterrita, inghiottiva di gusto tutte le calunnie che le venivano gettate…» [vi].
Quando finalmente Trigeo – grazie alla collaborazione di altri volenterosi – riuscirà a liberare Pace dalla grotta in cui Guerra l’aveva segregata, riportandola sulla Terra, la sua riconquista sarà festeggiata da una folla osannante, che così l’implora:
«….Metti fine / a battaglie e tumulti: avrai il nome / di ‘dea che scioglie gli eserciti’ / Blocca i sottili sospetti, son fonte / di male dicerie reciproche. / Rimescola da capo / noi Greci / in un succo di amicizia, / infondi nelle menti / una più mite intesa…» [vii].
L’alternativa alla guerra psicologica di chi falsifica la realtà, semina sospetti ed eccita gli animi, rinfocolando odi e incomprensioni, allora come ora restano dunque gli sforzi per un’intesa reciproca, la mitezza della nonviolenza e la determinazione a recuperare relazioni pacifiche. Ma non è un caso che l’appellativo che Aristofane assegna alla dea Pace è Lisimaca – colei che scioglie gli eserciti, che ci libera dalle battaglie – ricordandoci anche oggi che non esiste pacifismo che non sia antimilitarismo, cioè opposizione ad un intero sistema di violenza istituzionalizzata e glorificata.
Ebbene, ora come allora – come è emerso dai numerosi incontri nel corso dell’EireneFest – ancora una volta tocca a noi liberare Pace dalla spelonca delle mistificazioni, dei sospetti e degli odi alimentati da chi invece ha interessi a nutrire il gigante Guerra. E, ora come allora, i costruttori di pace (eirenopoiòi) devono fare ricorso – insieme e convintamente – alle basi nonviolente della pace: verità, cooperazione, riconciliazione, rispetto della vita e rifiuto di ogni collaborazione con chi persegue il denaro ed il potere a costo della soppressione delle vite e della devastazione ambientale.
Dopo 2400 anni ormai avremmo dovuto capirlo…
[i] Aristofane, Pace, Introduzione e traduzione di Umberto Albini, note di Fulvio Barberis, Milano, Garzanti, 2002
Fino a poco più di cent’anni fa il sostantivo ‘resilienza’ era poco conosciuto ed utilizzato, per cui era difficile riscontrarne traccia in un discorso o in uno scritto. L’uso frequente, talora impreciso, che se ne fa in questo periodo, viceversa, sta progressivamente affermando il concetto che questa parola – al di là del riferimento ad una ben precisa proprietà fisica di alcuni materiali – attenga ad una qualità, una caratteristica virtuosa, connessa al comportamento umano, come peraltro era già successo con l’analogo, ma ben diverso, concetto di ‘resistenza’.
«La parola appare per la prima volta in italiano nel XVIII sec. col significato generico, non necessariamente legato ad un settore specifico, di capacità dei corpi di rimbalzare, di tornare indietro. L’accezione è legata alla sua origine latina: il verbo latino resilire, composto da re- + salire, ‘saltare’ si usava nel significato di ‘ritornare di colpo’, ‘rimbalzare indietro’, per estensione anche ‘ritirarsi’, ‘contrarsi’ […] Il latino resiliens comincia a circolare nella letteratura scientifica, redatta in latino fino al Seicento, per indicare “sia il rimbalzare di un oggetto, sia alcune caratteristiche interne legate all’elasticità dei corpi, come quella di assorbire l’energia di un urto contraendosi, o di riassumere la forma originaria una volta sottoposto a una deformazione” (L’elasticità di resilienza, accademiadellacrusca.it, 12/12/2014)”…». [i]
Etimologicamente parlando, l’idea centrale è quella di un oggetto (e per estensione anche di un soggetto) che abbia in sé l’elasticità necessaria per non lasciarsi de-formare dagli urti provenienti dall’esterno, riuscendo a reagire ad essi, recuperando così la forma iniziale. Il verbo in transitivo latino salire(la cui forma nominale del supino-participio era saltum) viene tradotto variamente, con: saltare, slanciarsi, balzare, scorrere, pulsare etc. Dalla sua più frequente forma iterativa saltaresono poi derivati (con la consueta variazione vocalica /a/ > /u/ e grazie ai relativi prefissi) un grappolo di verbi ben noti, come ‘esultare’, ‘esaltare’, ‘insultare’, ‘sussultare’ e ‘risultare’. Con lo stesso meccanismo derivativo, peraltro, dalla forma base si è formato il verbo italiano ‘assalire’, ma anche quello spagnolo salir(nel senso di sbucare fuori, uscire).
D’altronde il verbo greco originario allomai(hallomai) aveva lo stesso significato (saltare, sgorgare, scaturire), per cui il senso fondamentale di entrambi è quello di qualcosa/qualcuno che salta fuori, venendo a modificare una situazione statica iniziale. Non è un caso, infatti, che i sacerdoti romani conosciuti come Salii, e prima di loroquelli greci denominati Coribanti, si caratterizzassero proprio per le loro danze orgiastiche e saltellanti, da cui sono forse derivate le nostre ‘tarantelle’, anch’esse dotate infatti di una forte valenza esorcistica e rituale. Lo stesso termine ‘presule’ (oggi applicato ai prelati cattolici) è quindi uno strano ricordo di pratiche pagane, riferendosi al sacerdote più importante, che guidava quelle frenetiche danze.
Questo spiega come mai ad ogni azione violenta ed improvvisa diretta contro qualcuno (si tratti di un assalto fisico oppure di un insulto verbale) corrisponda solitamente dapprima una istintiva reazione emotivo-motoria (il sussulto) e poi un più volontario sforzo per reagire al colpo ricevuto, o con un ulteriore assalto violento oppure recuperando la situazione iniziale, con quella resilienza che ne dovrebbe neutralizzare effetti. La differenza tra ‘resistenza’ e ‘resilienza’ – come si spiega efficacemente in un articolo – è che: «La resistenza è silenziosa, ferma, ostinata sulla propria posizione, dura come sasso, là dove la resilienza è flessibile, adattabile, fantasiosa. La resistenza è dei forti, cose o uomini che siano. La resilienza è solo umana» [ii].
Re-sistere comporta infatti una reazione attiva, oppositiva e pertanto quasi sempre violenta, verso chi ha compiuto un assalto aggressivo, allo scopo di mantenere ad ogni costo la situazione iniziale. La reazione resiliente, invece, esclude un atteggiamento di rigidità (sintetizzata dal bellicoso motto latino “frangar, non flectar”, tradotto con “Mi spezzo ma non mi piego”) e pertanto può prevedere un temporaneo cedimento [iii] che non è una resa, ma una reazione nonviolenta e creativa, spesso ancor più efficace. Sant’Agostino, non a caso, capovolgeva la frase citata esortando i cristiani con le parole “Flectamur facile, ne frangamur”, invitandoli ad esercitare quella flessibilità in cui ritroviamo il ruolo positivo e non passivo della resilienza.
Però stiamo attenti, dal momento che quest’indubbia qualità – a forza di utilizzare questo termine un po’ troppo e non sempre a proposito – non sia trasformata in ciò che non è, mediante un processo di logoramento, logico prima che linguistico, cui peraltro sono già state sottoposte altre parole ‘alternative’.
«Perché questa curiosità etimologico-linguistica? Perché la parola “resilience” è ormai onnipresente in ogni discorso dei manager e degli economisti, e spesso anche negli articoli, negli studi e nelle analisi di economia e finanza, e nel linguaggio della Commissione europea e dei ministri delle Finanze dell’Eurozona […] Ma attenzione: abbiamo già visto che cosa è successo al termine “sostenibilità”, usato in origine nel suo senso di sostenibilità ecologica (non produrre danni irreversibili all’ambiente, tutelarlo nella durata), e passato poi anche a designare un concetto finanziario…» [iv]
Già, perché l’indubbia positività di una reazione diversa da quella aggressiva e violenta subita, fondata quindi sulla flessibilità e la capacità di recupero, rischia purtroppo di essere artatamente confusa con una ‘non-resistenza’, con l’atteggiamento passivo del classico pugile suonato, capace solo di ‘incassare’ bene i colpi. Anche il concetto psicologico di ‘adattamento’ all’ambiente fisico e sociale – di per sé positivo – è stato alla lunga svilito in una tendenza a non reagire, ad accettare passivamente la realtà, accontentandosi dell’esistente.
Il gandhiano satyagraha[v] c’insegna invece che la resilienza è anch’essa una forma di opposizione al male, di allenamento ad una resistenza alternativa alle avversità, che sbilancia e mette in crisi l’assalitore violento e ci consente di recuperare le forze. Ecco perché ad insulti ed assalti dovremmo addestrarci a reagire in modo opposto, spiazzante e nonviolento. Solo così potremo davvero esultare per un risultato positivo.
I vicoli, si sa, costituiscono una caratteristica tipica non solo di Napoli e di altri borghi del meridione, ma anche di tante città italiane e di parecchie località al di fuori della nostra penisola. Ovviamente in quei casi assumono denominazioni differenti a seconda della rispettiva lingua, dai vocaboli inglesi alley e lane al francese ruelle, dallo spagnolo callejòn al tedesco Gasse, dal greco dromàki al russo perèulok, per non parlare dell’arabo ziquaq o del cinese hutòng. Quasi tutte le parole citate, comunque, alludono a una via piccola e stretta, così come peraltro spiegano il dizionario ‘Treccani’ (“s. m. [lat. vicŭlus, dim. di vicus. – Nel linguaggio corrente, e anche nella toponomastica ufficiale, nome dato a vie urbane di modeste dimensioni, soprattutto in larghezza“) e ‘Garzanti’ (“via molto stretta e di secondaria importanza, in un centro urbano dim. vicoletto, vicolino, pegg. Vicolaccio. Etimologia: ← dal lat. vicŭlu(m), dim. di vīcus; cfr. vico”).
Eppure, etimologicamente parlando, i ‘vicoli’ non nascono come stradine strette e tortuose, ma come veri e propri agglomerati comunitari, con una loro specifica natura sul piano toponomastico, lavorativo o identitario. Infatti i vicoli, come sanno bene i Napolitani [i] , oltre alle consuete intitolazioni a noti personaggi, hanno assunto spesso denominazioni legate talvolta alla provenienza geografica degli abitanti (es. vico Cinesi, Rua Toscana, Rua Catalana, vico Venafro, vico Egiziaca, vico Trinità degli Spagnoli etc.); attestano caratteristiche naturalistiche e geologiche (es. vico Fico, Palma, Pero, Pergole, Rose, Quercia, Limoncello, Melofioccolo, Mortelle, Noce, Nocelle, Tiglio, Olivella, Pignasecca, Marina, Molo vecchio, Ponte, Sedile di Porto, Gravina, Petraio, Grotta vecchia…) oppure richiamano mestieri ed attività che anticamente li caratterizzavano (es. Calzolai, Lammatari, Impagliafiaschi, Scassacocchi, Panettieri, Scoppettieri, Scopari, Chiavettieri, Figurari, Giubbonari, Tarallari, Tessitori, Tinellari, Ventaglieri, ma anche: Forno, Zabatteria, Gabella, Pallonetto, Molino, Spezieria, Vetriera etc.).[ii]
Come si vede, in una prospettiva storica i vicoli sono stati una sorta di villaggi urbani, di aggregazioni comunitarie i cui abitanti si sentivano uniti da legami specifici. Non è certo un caso che nella Napoli antica, i residenti in certe aree della polis greco-romana si riunissero in 12 fratrìe, termine ellenico che rinviava appunto a legami parentali e/o a divisioni sociali di tipo clanistico all’interno della stessa tribù [iii].
Ma da dove derivano la parola ‘vicolo’ e ‘vico’? Certo, chi ha studiato il greco al liceo classico ha maggiori possibilità di scoprire le radici etimologiche di molte parole italiane di uso comune. C’è però un limite a tale conoscenza pregressa, poiché – come capita anche nel latino – la pronuncia dei vocaboli ellenici che ci è stata insegnata si è modificata nel tempo, rendendo così meno evidenti alcune somiglianze. Basti pensare al grafema β, comunemente letto come /b/ sebbene, anche nel greco moderno, si pronunci sempre /v/, oppure al grafema η, usato come se fosse solo una /e/ stretta e non una /i/, ragion per cui lo stesso nome della prima lettera è solitamente letto come ‘béta’ mentre dovrebbe essere pronunciato ‘vìta’. Se aggiungiamo poi che alcuni segni grafici del greco antico sono scomparsi dalla grafia comune di quello ‘classico’, pur essendo avvertiti dai parlanti, si comprende che ci troviamo di fronte ad un altro piccolo ostacolo alla comprensione. È il caso del digamma (dal greco antico δίγαμμον o δίγαμμα (maiuscolo Ϝ, minuscolo ϝ), un grafema usato nella fase più arcaica.
“La lettera rappresentava l’approssimante labiovelare sonora /w/. Il suo nome originale è sconosciuto, ma era verosimilmente chiamata ϝαῦ (/waw/ […] Un esempio è la parola ἄναξ (ànax, “re”) trovata nell’Iliade, che all’origine era probabilmente ϝάναξ (corrispondente al *wànaks, scritto wa-na-ku-su, delle tavolette micenee in lineare B) […] Altre evidenze insieme ad un’analisi filologica dimostrano che οἶνος era in precedenza ϝοῖνος *wòinos (confronta il lat. vinum (pronuncia antica /winom/) e l’ingl. wine)” [iv].
Si comprende allora evidente che da vocaboli greci come οἶκος (òikos > casa) o οἶνος (òinos > vino) appare meno trasparente l’etimologia di quelli italiani se non si tiene conto del ‘digamma’ che li precedeva e della pronuncia /i/ dell’originario dittongo /oi/. Viceversa, nella dizione *wìcos e *wìnos è agevole scorgere l’affinità con le nostre parole ‘vico’ e ‘vino’. Del resto, basta consultare un dizionario etimologico per scoprire che ‘vicolo’ ha una stretta parentela col primo dei due vocaboli greci citati, in quanto il concetto di ‘casa’ (per i popoli antichi ma anche per molti Napolitani di oggi…) si estendeva all’esterno delle mura domestiche, soprattutto nel caso di case popolari di ridotte dimensioni come i ‘bassi’, comprendendo parte dell’ambiente esterno, strada compresa.
“Il greco moderno dice abitualmente spiti per ‘casa’, ma tutta la famiglia di òikos, oikìa, coi suoi derivati e composti, è largamente rappresentata: da notare oikogéneia (famiglia), noikokyra (padrona di casa), voikiàzo (affittare) […] vicus, propriamente ‘villaggio’, da cui poi villa, intesa come dimora extra-cittadina…La radice è poi la stessa dell’italiano ‘vicino’, ‘vicolo’ e derivati…”. [v]
Non è quindi un caso che ‘vico’ non indichi solo una stradina angusta all’interno delle città antiche (si pensi ai vicoletti che discendono direttamente dagli sténopoi della Neapolis greca), ma anche l’elemento toponomastico distintivo di borghi e cittadine (ad es. Vico Equense, Vico pisano, Vico del Gargano etc.). Il vicolo, dunque, era e spesso resta il luogo distintivo del rapporto coi ‘vicini’, una casa allargata a parenti ed amici, coi quali si condivideva, oltre alla condizione socio-economica, un’affinità lavorativa e spesso perfino espressiva (si pensi ai ‘dialetti’ tipici di un ristretto territorio).
Non dobbiamo dimenticare però che dal greco antico οἶκος (pronunciato ‘ìkos’) sono derivati altri importanti vocaboli moderni, con la differenza che il dittongo /oi/ è stato letto latinamente come /e/. Pensiamo solo a parole come ‘economia’ ed ‘ecologia’, spesso contrapposte ma di cui andrebbe invece riscoperta la comune radice. Se infatti la prima è la regola per amministrare e stabilire una regola (nomìa) alla ‘casa’ nel senso ampio prima chiarito, l’eco-logìa ci riporta invece all’ambiente naturale, quella “casa comune” alla cui “cura” ci ha richiamato appassionatamente papa Francesco, a partire dalla sua fondamentale enciclica “Laudato si’ “. [vi] Dalla ricerca di un giusto equilibrio tra esigenze umane ed equilibri ecologici, pertanto, dipende il perseguimento dell’obiettivo di quella “economia ecologica” di cui Kenneth Boulding è stato un capostipite.
“L’economia è un termine antichissimo che indica le norme che regolano quanto avviene in una casa (ecos), in una comunità, sotto forma di scambi di beni e di denaro fra gli abitanti; l’ecologia, una parola inventata appena un secolo e mezzo fa, indica come si svolgono i rapporti fra gli occupanti di una comunità biologica, di un ecosistema, che può andare da un piccolo stagno all’enorme mare, all’intero pianeta Terra. […] Boulding è stato instancabile nel “predicare”, direi, la necessità di un cambiamento nelle regole dell’economia; compatibile con i vincoli ecologici della Terra…”. [vii]
In passato, a proposito delle specificità di Napoli, si è parlato spesso di “economia del vicolo”, alludendo ad un sistema produttivo di sopravvivenza, arcaico e solidaristico, localizzato nella parte più antica e povera della città (il c.d. ‘ventre di Napoli’) e caratterizzato da piccole attività artigianali, di autoproduzione e di scambio, nonché spesso da traffici illeciti o ai limiti della legalità. Ma l’etimologia comune di queste due parole (vicolo ed economia), ci spinge a fare qualche opportuna riflessione.
Senza lasciarsi attrarre da tentazioni folkloristiche e nostalgie passatiste, infatti, uno dei modi per cambiare davvero l’economia, invertendo la tendenza che l’ha resa l’opposto di un atteggiamento e comportamento ecologico, credo sia proprio il recupero della dimensione locale, minore, egualitaria, solidaristica e comunitaria del vivere. Un’esistenza dai modi e dai ritmi più lenti, più profondi e più dolci, come suggeriva Alex Langer [viii] , contrapponendo questa formula a quella olimpica (ma anche economica) sintetizzata nel noto slogan “altius, citius, fortius”.
Non bisogna tornare alla tradizionale (e tautologica) ‘economia del vicolo’, ma sicuramente dobbiamo invertire la rotta e recuperare una visione realmente alternativa, sobria, ecologica e di condivisione, come ci hanno indicato autori come lo statunitense Lester R. Brown [ix], l’indiano Joseph C. Kumarappa [x] ed il nostro Francesco Gesualdi [xi]. La cura della ‘casa comune’ dell’umanità non può prescindere da nuovi rapporti sociali ed economici che le restituiscano una dimensione conviviale, fondata sul bene comune e sul rispetto degli ecosistemi naturali, come ha giustamente sottolineato anche Roberto Mancini [xii].
Solo così l’òikos che abitiamo potrà tornare ospitale (spiti) e accogliente, garantendo un futuro alle prossime generazioni ma anche un presente meno drammatico alla nostra.
[vii] Giorgio Nebbia, Kenneth Boulding, padre dell’economia ambientale, 2010 > http://www.fondazionemicheletti.it/nebbia/sm-3176-kenneth-boulding/ . Fra le ultime opere di K. Boulding v. Towards a New Economics: Critical Essays on Ecology, Distribution, and Other Themes, Edward Elgar, 1992.
“Ma che vogliono questi alpini a Napoli?” – si chiedono loro stessi in un manifesto affisso per le strade della mia città nell’assolato fine settimana ottobrino da 25 gradi. A dire la verità questo apparente sprazzo di autocoscienza è solo una domanda retorica, un banale espediente pubblicitario per attirare l’attenzione dei napolitani che escono sudati da affollati autobus o che s’incolonnano sfastidiati nel solito traffico cittadino. Per risultare più efficaci sul piano comunicativo – si saranno detti in qualche riunione tra ufficiali e media advisors –sarà meglio ricorrere al vernacolo, quel ‘dialetto’ partenopeo che le grandi imprese ormai hanno preso l’abitudine di saccheggiare scorrettamente quanto impunemente, giusto per dare un pizzico folkloristico in più ai loro messaggi.
E infatti nel manifesto che annuncia il loro sorprendente raduno del 15 ottobre 2022 troviamo quel titolone così napolitanizzato: “ma che vonno ‘sti alpini a Napule?”. Non si tratta però del comprensibile interrogativo che nasce dalla consapevolezza dell’assurdità di una sconcertante manifestazione di ‘penne nere alla partenopea’, bensì del pretesto – strumentale ma anche un po’ provocatorio… – per spiegare agli abitanti di questa città trimillenaria come e qualmente il Corpo degli Alpini sia stato fondato, giusto 150 anni fa, nientemeno proprio a Napoli…
“Mo’ t’o cunte je”, si sbilanciano a dirci in un’improbabile forma dialettale, aggiungendo poi in italiano una spiegazione che – come affermano loro stessi… – “è difficile da credere”, con la quale ci rivelano che gli Alpini sono nati a Napoli grazie al Regio Decreto firmato il 15 ottobre 1872 da Vittorio Emanuele II. Undici anni dopo l’altro regio decreto col quale lo stesso monarca sabaudo si autoproclamava ‘re d’Italia’, in seguito all’annessione dell’invaso Regno delle Due Sicilie e dopo un ‘plebiscito’ farsa.
Ebbene, sorvoliamo pure sugli svarioni ortografici che, come al solito, dimostrano scarso rispetto per la lingua napolitana: vonno > vônno, a Napule > a Nnapule, mo’ > mo, t’o > t’ ‘o, cunte > conto, je > io/ i’. Molto più, a dire il vero, ci colpisce la sicumera coloniale di chi non ha mai smesso di considerarci un’esotica appendice di quel Regno, che dovrebbe sentirsi quindi onorata dal privilegio di aver dato i natali a un siffatto blasonato corpo militare.
“Tu qua’ Natale…Pasca e Ppifania!!!T”o vvuo’ mettere ‘ncapo…’int’a cervella che staje malato ancora ‘e fantasia?” avrebbe causticamente esclamato l’unico Principe che Napoli abbia davvero onorato. Il guaio è che nei militari, si sa, il senso dell’ironia non è molto sviluppato. Al punto che al dissacratore Totò gli Alpini hanno dedicato addirittura una statua, prendendo per buona la sua celebre e sarcastica espressione: “Sono un uomo di mondo: ho fatto il militare a Cuneo!”….
Ma questa nostra Napoli – per Statuto ‘Città di Pace’ e protagonista di quattro giornate di lotta civile e popolare in gran parte non armata – non sa che farsene di questa primogenitura pezzotta. Questa nostra Napoli che è lontana 850 chilometri dalle Alpi da cui traggono il loro nome le autocelebranti ‘penne nere’, ma che è ancor più lontana dalla retorica patriottarda e militarista cui loro invece sono tanto affezionate.
I Napolitani non hanno confini montani da difendere e soprattutto non gli si scalda il cuore alla vista di soldati in uniforme che sfilano impettiti e marziali, tanto più in quella piazza del ‘plebiscito’ che ricorda proprio l’annessione militare sabauda. Ecco perché il vero interrogativo, più che “ma che vogliono questi alpini a Napoli?”, sarebbe forse: “ma che vogliono questi alpini da Napoli?”. Soprattutto ora, mentre soffiano allarmanti venti di guerra ed i una difficile fase della nostra storia repubblicana, che vede neofascisti e leghisti spartirsi le cariche istituzionali e di gover, mentre la logica militare pervade la società civile.
E quindi: #alpinianapoli? Ma ci facciano il piacere!
Uscire dagli stereotipi sulla ‘difesa della patria’
In occasione della Giornata Internazionale della Nonviolenza[i] – vorrei andare oltre le frasi di circostanza tipiche di ogni anniversario per affrontare un punto centrale ma spesso trascurato di questa radicale scelta etica e politica: il suo modello alternativo di difesa. Mai come in questi lunghi mesi di guerra in Ucraina abbiamo assistito a ripetitive discussioni mediatiche sul sacrosanto diritto alla difesa di un popolo il cui territorio sia stato invaso militarmente da una soverchiante potenza straniera. Anche nei martellanti ed angoscianti réportages dall’Ucraina (peraltro mai riscontrati in altre circostanze belliche) si è ribadito che non si era minimamente da mettere in discussione la legittimità della difesa armata di quella nazione e, conseguentemente, che l’unica forma di solidarietà possibile da parte degli stati ‘democratici’ doveva essere l’invio di massicci aiuti economici, ma soprattutto militari, a sostegno della sua ‘resistenza’ all’invasore.
Eppure, in questo convulso moltiplicarsi d’interventi sulla una delle guerre in atto, alla scontata retorica nazionalista e militarista di chi esalta il coraggio di quelli che difendono eroicamente la patria dal nemico arrogante e violento ho sentito raramente contrapporre argomentazioni che non si limitassero ad invocare un po’ genericamente la pace o ad evocare interventi diplomatici e/o azioni sovranazionali esterne, di cui purtroppo abbiamo già conosciuto, e verifichiamo tuttora, la scarsa efficacia, la limitata credibilità e la ridotta ‘terzietà’.
Purtroppo, ai pur apprezzabili e condivisibili appelli all’immediata cessazione delle operazioni di guerra, all’armistizio, al ricorso a mediazioni internazionali ed alla solidarietà attiva cogli oppositori a una guerra cinicamente mascherata da ‘operazione militare speciale’, molto raramente sono seguite indicazioni e proposte che prefigurassero una strada davvero alternativa alla difesa militare.
Eppure, a mezzo secolo dalla legge che in Italia riconobbe il diritto all’obiezione di coscienza [ii], non dovrebbero mancare fonti (bibliografiche ed esperienziali) cui attingere per argomentare non soltanto la propria opposizione al militarismo ed il disarmo, ma anche la scelta d’una modalità difensiva non armata civile popolare e nonviolenta [iii]. E non solo per motivazioni di natura etica e/o religiosa, ma perché si è fermamente convinti che una difesa alternativa a quella armata, oltre che moralmente giusta, è realmente praticabile ed efficace.
Il fatto è che più di 30 anni di analisi, studi e proposte anche legislative sulla transizione ad un modello non violento di difesa [iv] sono state spazzate via dalla legge che nel 2004 ha abolito il servizio militare obbligatorio, ma al tempo stesso ha fatalmente azzerato il crescente movimento di obiettori di coscienza alla leva e alla stessa guerra. Quella guerra che la nostra Costituzione repubblicana all’art. 11 “ripudia” inequivocabilmente, pur proclamando all’art. 52 che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Quella guerra che è ‘follia’ ed a cui legittimamente hanno obiettato coloro i quali ritenevano che il dovere di difendere la propria terra e le istituzioni nazionali non coincidesse affatto con l’addestramento a (e la pratica di) una tradizionale difesa armata, bensì con l’impegno civile a salvaguardare comunità e territori, anche e in primo luogo con metodologie operative non militari e non violente.
Per un percorso verso la ‘transizione difensiva’
Nella nota relazione di accompagnamento del disegno di legge per l’istituzione in Italia di un Dipartimento per la Difesa Civile Non Armata e Nonviolenta vengono ricapitolati alcuni di questi compiti nei seguenti: la difesa civile, che – al contrario di quella militare – usa mezzi e strumenti coerenti con le finalità perseguite ha, tra gli obiettivi dichiarati, la difesa della Costituzione e dei diritti civili e sociali in essa enunciati; la predisposizione di piani per la difesa civile non armata e nonviolenta, compresa la formazione della popolazione; le attività di ricerca per la pace, il disarmo, la risoluzione dei conflitti e la conversione a fini civili delle industrie belliche; la prevenzione dei conflitti armati, la mediazione, la riconciliazione, la promozione dei diritti umani, l’educazione alla pace e al dialogo inter-religioso, in particolare nelle aree a rischio di conflitto, in stato di conflitto o di post-conflitto; il contrasto, infine, delle situazioni di degrado sociale, culturale ed ambientale[v].
Ma il travagliato percorso verso l’istituzione di una componente non militare della difesa italiana non è iniziato solo otto anni fa con la presentazione d’una proposta di legge d’iniziativa popolare [vi], ripresa dopo un anno dalla Proposta d’iniziativa parlamentare C 3484 [vii] e rafforzata cinque anni dopo da una ‘petizione costituzionale’ ai Presidenti dei due rami del Parlamento [viii], rimasta finora senza riscontri da parte di una classe politica ottusa e diffidente. In effetti il cammino in quella direzione era già stato preceduto negli anni ’80 da intenso lavoro preliminare, condotto da noti esponenti dei movimenti nonviolenti italiani, in primis da Antonino Drago. Essi – oltre a studiare e diffondere le teorie della Difesa Popolare Nonviolenta (DPN) e le sue esperienze storiche più significative – si sono basati su alcuni pronunciamenti della Corte Costituzionale per sancire il principio che la difesa di cui parla l’art. 52 non è esclusivamente quella armata, per cui lo stato italiano, con un apposito Comitato ministeriale, avrebbe dovuto avviare un percorso normativo di transizione verso la DPN.
La sentenza… affermava che la Costituzione ammette, accanto alla difesa armata, una difesa non armata […] Quindi l’importante novità è che da qualche tempo il concetto di ‘difesa non armata’ è entrato ufficialmente nell’ordinamento giuridico italiano […] Si noti che, a partire dalla sentenza n. 164/85, la Corte Costituzionale ha implicitamente programmato anche il transarmo […] In questa direzione…nel 1998 è stata approvata la legge 230, di riforma dell’obiezione di coscienza e del servizio civile, ora chiamato ‘alternativo’ a quello militare […] 3) l’organizzazione e la programmazione dell’Ufficio Nazionale del Servizio Civile (UNSC) […] 4) tra le competenze dell’UNSC è prevista, all’art. 8, quella di “predisporre, di concerto col Dipartimento per il coordinamento della protezione civile, forme di ricerca e sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta” […] Ma poi lo Stato italiano ha progettato… di sospendere l’obbligo di leva…dal gennaio 2005 […] questa decisione appare una maniera per far scomparire dall’orizzonte i tanti obiettori di coscienza e allo stesso tempo di svuotare il problema politico della nascita istituzionale della difesa non armata [ix].
Il cammino iniziato in Italia nel 1967 col saggio di Capitini sulle “tecniche della Nonviolenza” [x], da 17 anni si è arenato non solo nelle secche di una politica ideologicamente ostile, ma anche per una diffusa ignoranza dei fini e mezzi della DPN e più in generale dei principi e metodi della Nonviolenza, alla quale nessuna istituzione o organizzazione è tuttora in grado di addestrarci.
Da ‘persuasi della Nonviolenza’ a ‘addestrati alla DPN’
È innegabile che una serie di secolari caratteristiche storiche ideologiche e religiose abbiano reso gli italiani meno sensibili ad una cultura e ad un’etica politica di stampo prevalentemente orientale (induista in particolare) e protestante (tipica di alcune denominazioni come valdesi, battisti, quaccheri, etc.). Infatti la tendenza della teologia morale cattolica a teorizzare il principio della ‘guerra giusta’ – sancito e consolidato da secoli di tradizione patristica e di magistero ecclesiale – si è interrotta solo nella seconda metà del XX secolo.
Il papa Giovanni XXIII, per esempio, nella sua enciclica Pacem in Terris mise di fatto in discussione tutti e tre i principi della guerra giusta, affermando che, nell’era degli armamenti atomici, fosse addirittura «alienum a ratione bellum iam aptum esse ad violata iura sarcienda» («estraneo alla ragione [ritenere] che la guerra possa essere uno strumento adatto per rivendicare dei diritti violati». Significativamente, il concilio ecumenico Vaticano II si rifiutò anche solo di parlare di “guerra giusta” nei suoi documenti ufficiali, adottando piuttosto le riflessioni sulla legittima difesa in campo internazionale come unico ambito in cui affrontare il tema della tutela dei diritti dei popoli nell’ambito del bene dell’intera umanità (Gaudium et spes, 77-82)… [xi]
Non è un caso che i profeti della nonviolenza (da Thomas Merton a Giorgio La Pira, da don Lorenzo Milani a don Primo Mazzolari) non abbiano avuto vita facile nella Chiesa Cattolica, che però dal Concilio Vaticano II ha subito una profonda riconversione, testimoniata dal magistero di pontefici come il citato Giovanni XXIII, ma anche Paolo VI, Giovanni Paolo II. Benedetto XVI e l’attuale papa Francesco [xii]. Inoltre va detto che movimenti come la cattolica Pax Christi (1945) o di matrice originariamente protestante come il Movimento Internazionale della Riconciliazione (1952) negli ultimi decenni hanno lodevolmente contribuito a diffondere in Italia una visione etico-spirituale pacifista e nonviolenta, alimentando il movimento per l’obiezione al servizio militare ed alla guerra.
Ciò che invece è mancato – quanto meno da quel 2005 che ha segnato la fine dell’esperienza diffusa e significativa del servizio civile alternativo – è stata la l’opportunità e capacità di progettare, organizzare e gestire la formazione ad un modello alternativo di difesa, facendone conoscere principi e metodi e addestrando i cittadini ad una resistenza non armata civile e popolare. Eppure già negli anni ’60 e ’70 erano stati diffusi alcuni interessanti ‘quaderni della DPN’ che documentavano varie esperienze storiche, nazionali ed internazionali, di difesa non armata. Dal 1994 in poi essi sono stati parzialmente ripresi dal Centro Studi Difesa Civile, che ha pubblicato ulteriori contributi relativi ad esperienze di resistenza non violenta in Italia, in Europa e in altri ambiti geografici. [xiii] Un piccolo contributo ho cercato di darlo anch’io, affrontando le Quattro Giornate di Napoli del 1943 in una prospettiva diversa, né populisticamente oleografica né retoricamente resistenzialista [xiv].
Un ottimo contributo ad uscire dalla genericità di una scelta etica non supportata da esperienze reali e da una concreta formazione alla pratica della DPN è stato inoltre il libro di Antonio Lombardi [xv], che illustrava il ‘funzionamento’ di una nonviolenza che puntasse ad essere costruttiva ed efficace, soffermandosi sulle caratteristiche di tale strategia alternativa ma anche sull’effettivo addestramento all’azione diretta e sulla formazione al lavoro su di sé.
Purtroppo – ha sottolineato Antonino Drago – l’impasse italiana, che ha impedito l’avvio d’un servizio civile strettamente connesso alla sperimentazione concreta e diffusa della DPN, è in parte dovuta alle stesse associazioni in cui il servizio civile si è finora prestato, che evidentemente non se la sono sentita di sostenere un modello alternativo di difesa o temono la perdita di finanziamenti statali per il terzo settore.
Un secolo di esperienze nella DPN ne dimostrano l’efficacia
Tra i problemi che in Italia hanno rallentato la diffusione delle informazioni su modelli alternativi di difesa – oltre allo sfilacciarsi dei movimenti nonviolenti ed all’assenza di una consolidata tradizione di ricerca accademica sulla pace – ci sono la scarsa diffusione della letteratura in materia (fruita quasi solo dagli ‘addetti ai lavori’ o comunque da persone già consapevoli) e soprattutto la mancata traduzione di alcune opere fondamentali di autori stranieri. Fatta eccezione per alcuni classici – ad es. i contributi di Gene Sharp [xvi], di Theodor Ebert [xvii] e di Johan Galtung [xviii], sulle cui differenze teoriche si è soffermato Drago) [xix] – scarseggiano infatti testi in italiano utili a tale formazione. Ciò è particolarmente vero se si esce dalle teorizzazioni per affrontare la DPN in modo più empirico, analizzando le esperienze storiche registrate nell’ultimo secolo in vari contesti geografici ed esaminandone la reale funzionalità ed efficacia.
Un interessante libro in tal senso è quello di Sibley – O’Brien, intitolato “After Gandhi”, una rassegna dei casi più significativi, dal Vietnam di Thich Nhat Hahn alla lotta di Martin Luther King e Rosa Parks per i diritti civili dei neri statunitensi; dalla battaglia anti-apartheid di Mandela in Sudafrica ai movimenti insurrezionali in Argentina e Kenya o alla ‘rivoluzione di velluto’ di Havel in Cecoslovacchia. Ma il testo fondamentale per dimostrare quanto efficace e vincente possa essere un modello di difesa civile e nonviolenta rispetto a quella militare (purtroppo non ancora tradotto in italiano) resta l’esaustivo studio di due ricercatrici statunitensi, Erica Chenoweth e Maria J. Stephan “Why Civil Resistance Works” (“Perché la resistenza civile funziona”) [xx]. Un approccio pragmatico e scientifico alla “logica strategica del conflitto nonviolento”, che si avvale dei metodi statistici per provare che la resistenza civile ha avuto spesso la meglio su quella militare ed armata.
Lo studio di Chenoweth e Stephan è la prima analisi che utilizza metodi quantitativi di grandi dimensioni N per confrontare l’impatto dei metodi violenti e nonviolenti nel determinare il cambiamento sociale. Hanno sviluppato un set di dati NAVCO (Nonviolent and Violent Campaigns and Outcomes) che analizza 323 esempi storici di campagne di resistenza civile avvenute in un arco di oltre cento anni […] Chenoweth e Stephan mostrano che i metodi nonviolenti sono più efficaci della lotta armata. Nei casi esaminati, le campagne non violente hanno avuto successo il 53% delle volte, rispetto a un tasso di successo del 26% quando è stata impiegata la violenza. I metodi non violenti hanno avuto lo stesso successo nei regimi democratici e nelle dittature repressive. L’analisi mostra che le forme di lotta non violente hanno maggiori probabilità di produrre cambiamenti sociali e politici che portano a società più libere e democratiche [xxi].
I recenti imbarazzati silenzi – talvolta perfino da parte dei pacifisti – di fronte alle incalzanti e categoriche affermazioni sull’assenza di vere alternative alla resistenza armata di un popolo vittima di un’invasione attestano quanto poco noti siano ancora questi dati di fatto. Non basta infatti parlare genericamente di ‘vie diplomatiche’ o di ‘mezzi pacifici’ se non si è in grado di contrapporre un’alternativa difensiva nonviolenta non solo eticamente preferibile, ma anche pragmaticamente valida ed efficace. Studiarne e farne conoscere i casi storici, come esempio di gandhiano ‘programma costruttivo’, dovrà dunque diventare un impegno prioritario per i movimenti antimilitaristi, no-war e pacifisti che non si accontentino di convincere, ma vogliano anche vincere le loro battaglie nonviolente.
[xiv] Cfr. Ermete FERRARO: (1985) “La Resistenza Napoletana e le Quattro Giornate: un caso storico di difesa civile e nonviolenta”, Verona, Azione Nonviolenta, XXII-10 (pp.15-17; (1986) “Un caso storico di difesa popolare”, Napoli, Il Tetto, XXIII, n. 133/1986 (pp.86-95); (1993) “La resistenza napoletana e le Quattro Giornate: un caso storico di difesa civile e popolare”, in: AA.VV., Una strategia di pace: la difesa civile nonviolenta (pp.89-95), Bologna, Fuori Thema; (1993) “Le trenta giornate di Napoli”, in: AA.VV., La lotta non-armata nella Resistenza, Roma, Centro Studi Difesa Civile (Quaderno n.1)
[xv] Antonio LOMBARDI, Satyagraha – Manuale all’addestramento alla difesa popolare nonviolenta, Bozzano (LU), 2014
[xvi] Gene SHARP, Politica dell’azione nonviolenta, Torino, E.G.A., 1986
[xvii] Theodor EBERT, La difesa popolare nonviolenta. Un’alternativa democratica alla difesa militare, Torino, E.G.A., 1984
[xviii] Johan GALTUNG: Ci sono alternative! – Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1986; Gandhi oggi. Per una Alternativa politica nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1987; Pace con mezzi pacifici, Ediz. Esperia, Milano, 2000
[xx] Anne SIBLEY O’BRIEN & Perry Edmond O’BRIEN with Tharanga YAKUPITIYAGE, After Gandhi – One Hundred Years of Nonviolent Resistance, Watertown, Charlsbridge, 2018 ; Erica CHENOWETH & Maria J. STEPHAN, Why Civil Resistance Works – The Strategic Logic of Nonviolent Conflict, New York, Columbia University Press, 2011 (i dati principali emergenti dal libro di Chenoweth e Stephan sono stati publicati da Antonino DRAGO nel suo libro Le rivoluzioni nonviolente nell’ultimo secolo, Aracne, Roma, 2010) .
Le forze armate tra conformismo atlantico e trasformismo ambientalista
ERMETE FERRARO
Sintesi: Nella prima parte dell’articolo evidenzio il difficile e contradditorio rapporto del sistema militare con un territorio che dovrebbe ‘difendere’ ma che contribuisce largamente ad inquinare e devastare, riprendendo a tal fine le mie analisi nell’ultimo decennio sulla militarizzazione della regione Campania e sul ‘mimetismo’ ambientalista delle forze armate. Nella seconda parte ripercorro gli ultimi vent’anni di contrapposizione tra una crescente consapevolezza del ruolo nocivo dei militari per gli equilibri ecologici ed una diffusa narrazione sulla loro pretesa funzione di ‘difesa’ dell’ambiente, accreditata mediante un superficiale ma progressivo greenwashing delle loro attività istituzionali. La terza parte dell’articolo, infine, è dedicata specificamente ad un approccio ecopacifista, per il quale è molto importante l’analisi ecolinguistica del ‘discorso’ ambientalista dei militari, per demistificarne il trasformismo e denunciarne la strumentalità. Parole-chiave: ecopacifismo, ecolinguistica, analisi critica del discorso, comunicazione
Illustrazione dell’articolo su TIME ( Jan. 15, 2018)
Circondati come siamo dagli echi di stragi, vendette, ostilità e polemiche a tutti i livelli, può sembrare bizzarro che si parli della gentilezza e della sua importanza. Siamo talmente abituati all’aggressività ed alla violenza che risalta dalla realtà quotidiana che essa ci suona come una parola fuori dal tempo, una virtù ormai in desuetudine, un atteggiamento arcaico ed obsoleto.
Il titolo che ho scelto cita infatti l’incipit della nota ‘canzone’ di Guido Guinizzelli, manifesto stilnovista che ci ricorda la perduta gentilezza. Eppure lo spunto per questa mia riflessione è assai più recente, trattandosi di un articolo pubblicato sul numero del 15 gennaio di TIME magazine, il cui titolo augurale è: “One hope for the new year: a kinder culture” [i]. L’argomento sul quale l’autrice, Kristin van Ogtrop, ha voluto richiamare la nostra attenzione – presa prevedibilmente…
Urbanistica, secondo la Treccani, è definibile come: «L’insieme delle misure tecniche, amministrative, economiche finalizzate al controllo e all’organizzazione dell’habitat urbano. Tre sono gli ambiti prevalenti di ricerca teorica e di applicazione pratica dell’u.: le analisi dei fenomeni urbani; la progettazione dello spazio fisico della città; la partecipazione ai processi politici e amministrativi inerenti le trasformazioni urbane». (https://www.treccani.it/enciclopedia/urbanistica/ ). Secondo il dizionario d’Italiano Hoepli, l’urbanistica sarebbe: «Tecnica e arte della costruzione della città, che ha lo scopo di creare, sviluppare, migliorare l’aggregato urbano dal punto di vista estetico e funzionale, in modo da renderlo adeguato alle esigenze degli abitanti e delle loro attività produttive». (https://dizionari.repubblica.it/Italiano/U/urbanistica.html ).
Da queste definizioni emergono due concetti fondamentali: 1) si tratta di una disciplina tecnica, ma che richiede l’analisi interdisciplinare dei fenomeni dell’urbanizzazione pere giungere alla progettazione della città sulla base delle necessità di chi vi abita; 2) nella pianificazione urbanistica si devono contemperare caratteristiche fisiche oggettive (ad esempio quelle geo-morfologiche) con quelle storiche, estetiche e funzionali, tenendo conto pertanto sia dei residenti sia delle esigenze produttive.
In realtà, è bene chiarirlo, le nostre città si sono sviluppate in larga parte al di fuori di un’effettiva progettazione degli spazi e delle funzioni, che sono state piuttosto dettate da elementi economici, culturali e socio-politici, che spesso hanno prevalso su una logica di piano. Napoli è l’esempio lampante di una meravigliosa città il cui sviluppo urbanistico, però, è stato affidato per lunghi secoli a criteri poco razionali ma molto contingenti alle sue travagliate vicende storiche. La nostra città, stretta fra il suo splendido golfo e le colline retrostanti, si è infatti espansa quasi sempre in modo disordinato, stratificandosi come una torta a più piani, in barba alla sua natura sismica e sviluppando una densità abitativa sproporzionata al territorio disponibile.
«Una caratteristica della città di Napoli è la coesistenza delle tracce di epoche e stili diversi, che si avvicendano e si mescolano -a volte su più livelli stratigrafici-, integrandosi come in un mosaico. Attorno al nucleo della città, di impianto greco-romano costituito da decumani e cardini, Napoli si è infatti sviluppata nei secoli inglobando le zone limitrofe, con l’urbanizzazione delle campagne, delle aree paludose orientali e dell’arco collinare a nord-ovest» (http://www.danpiz.net/napoli/architettura/index.htm ).
Strumento per correggere lo sviluppo ‘spontaneo’ d’una città è quello che, non a caso, si chiama ‘Piano Regolatore Generale’ (PRG), benché sia oggettivamente difficile rettificare ‘a posteriori’ storici disequilibri territoriali ed abitativi e le distorsioni funzionali che derivano. Solo negli anni ’60 a Napoli fu insediata una commissione per il PRG, che però vide la luce solo un decennio dopo, nel 1972, preceduto da due varianti, relative alla grande viabilità ed alla realizzazione di un Centro Direzionale nell’ex area industriale orientale. Non passarono neppure dieci anni che l’assetto urbanistico napolitano fu sconvolto dai noti eventi calamitosi (le scosse telluriche del 1980-81), segnando pesantemente il periodo successivo all’attuazione della legge 219/81, in nome di una ‘ricostruzione’ basata su una logica emergenziale, intensificando la tendenza ad un forzato decentramento abitativo, con conseguente ha ‘periferizzazione’ degli strati già marginali della popolazione.
La logica di un ‘piano regolatore generale’ fu poi sconvolta ulteriormente dall’impostazione politica di chi preferì operare per ‘varianti’ allo stesso PRG.
Una volta persa la visione d’insieme, solo recentemente si è cercato di recuperarela dimensione ‘metropolitana’ dell’ex capitale del Mezzogiorno, senza però centrare tutti gli obiettivi di questa visione urbanistica più ampia.
«Tuttavia le pratiche, i progetti e le innovazioni previste, non sono ancora riuscite ad esprimere il loro potenziale di innovazione dentro un quadro pianificatorio stabile, attraverso la costruzione di scenari condivisi. Eppure molte sono le occasioni su cui la città, la sua area metropolitana e la Regione hanno avuto la possibilità di misurarsi» (http://www.affariregionali.it/media/170178/dossier-citt%C3%A0-metropolitana-di-napoli.pdf – pag. 26). Tra i principali nodi da affrontare – a livello metropolitano oltre che urbano – ci sono sicuramente la rete dei trasporti su ferro, le ‘vie del mare’ ed il sistema aeroportuale; la bonifica, rigenerazione ambientale e riqualificazione sociale delle aree industriali dismesse, ad Ovest (Bagnoli) come ad Est (Vigliena – San Giovanni a T. in particolare); la razionalizzazione ed efficientizzazione del ciclo dei rifiuti urbani, diminuendone la mole ed utilizzando modalità di smaltimento ecologiche; la rivalutazione delle periferie urbane, decentrando i servizi e valorizzandone le potenzialità sociali, culturali e ricreativo-sportive.
Per voltare davvero pagina rispetto alle promesse mancate e ad impostazioni rispondenti solo ad esigenze commerciali, turistiche o produttive, insomma, la nuova amministrazione comunale dovrebbe riprendere in mano la pianificazione urbanistica in chiave più sistemica, uscendo dalla logica delle ‘varianti’ e perseguendo obiettivi di sostenibilità ambientale e socio-economica. Le Napoli che convivono dentro l’ex capitale del Sud devono riacquistare dignità ed autonomia, cambiando rotta verso una gestione politico-amministrativa più decentrata e sempre più attenta alla vivibilità, alla socialità ed all’equità. Forse l’urbanistica non basterà per affrontare questa sfida, ma sicuramente rappresenta parte di tale processo.
V COME…VERDE
Verde, etimologicamente parlando, è forma neolatina di viridem, da virere (verdeggiare, essere vigoroso). A sua volta, tale verbo sembra riconnettersi ad un’antica radice indoeuropea (*ghvar > *var), il cui significato rinviava al concetto di ‘splendere’. Anche gli equivalenti nelle lingue di origine germanica (green, grüne, groene, grøn…) potrebbero avere la stessa lontana origine, ma di sicuro risalgono alla radice proto-germanica *ghre, da cui derivano il verbo to grow (crescere) e sostantivi come grass (erba). Ho fatto questa premessa linguistica per rivelare il senso originario di questo aggettivo sostantivato, anche per tentare di liberarlo dalle sovrastrutture che lo hanno incapsulato, ridotto e spesso banalizzato. Viviamo tempi più che mai caratterizzati dal fenomeno del greenwashing, mediante il quale la carica vitale, innata nel vocabolo, è stata costantemente depotenziata, travisata e ridotta a slogan privo di contenuto reale.
Per chi, come me, ha alle spalle una lunga militanza con i Verdi, questa parola evoca riflessioni progetti ed esperienze di quell’appassionante stagione di creatività e d’impegno, ma anche di continuo confronto con altri soggetti dell’arcipelago ecologista e di quello pacifista, nel quale avevo iniziato a muovere i primi passi. Per me, ovviamente, ‘verde’ non è un aggettivo qualunque. Il suo uso improprio, strumentale e talvolta provocatorio mi suscita reazioni allergiche anche oggi, quando ormai ho messo da parte, per svariati motivi, quella precedente stagione ed ho scelto d’impegnarmi in e con un’altra formazione politica. Il fatto è che la politica non può ridursi né a mere ideologie (peraltro sempre più vaghe e sfumate) né tanto meno alla scelta di un determinato ‘colore’, come se si trattasse di un abito da indossare. Io continuo a ritenermi tuttora un ‘verde’ non per la bandiera sotto la quale porto avanti le mie lotte, ma perché continuo a credere fermamente in un’alternativa che coniughi l’ecologismo con l’impegno per la giustizia sociale e con la nonviolenza attiva.
A livello globale, infatti, i Verdi hanno inserito nel loro statuto il riferimento a sei ‘pilastri’ cui dovrebbero sempre ispirarsi (https://globalgreens.org/wp-content/uploads/2021/06/GlobalGreens_Charter_2017.pdf). Si tratta d’importanti principi fondativi (saggezza ecologica, giustizia sociale, democrazia partecipativa, nonviolenza, sostenibilità e rispetto per la diversità) che possono ovviamente essere declinati in modi differenti a livello nazionale, ma che comunque dovrebbero trovare spazio nelle politiche ‘verdi’. Purtroppo – pur rilevando i successi in paesi come la Francia, la Germania e qualche altro paese del nord e dell’est europeo – il progetto di questi partiti sembra soffrire o di una endemica debolezza (il caso dell’Italia è abbastanza evidente) o, viceversa, di una degenerazione tatticista dovuta ai propri successi, e quindi al ruolo di ‘ago della bilancia’ nei rispettivi parlamenti. Sta di fatto, insomma, che la ricorrente tendenza ad usare l’aggettivo ‘verde’ come un comodo passepartout politico – mistificando un progetto politico alternativo e riducendolo a frettolosa e superficiale verniciatura pseudo-ambientalista di contenuti del tutto estranei se non opposti – ne ha ulteriormente banalizzato e volgarizzato il significato originale.
Sentiamo continuamente parlare di politiche ‘verdi’ ed un’altra frequente espressione fa riferimento ad una sedicente‘transizione ecologica’, spacciando meri interventi di ammodernamento tecnologico o provvedimenti di parziale riconversione energetica come un’autentica svolta ecologista. Ma purtroppo il modello di sviluppo perseguito resta sempre lo stesso: antropocentrico, predatorio, capitalista, basato sullo sfruttamento delle risorse naturali e di quelle umane, intimamente violento ed iniquo, e proprio per questo garantito da un complesso militar-industriale sempre più agguerrito. Di fronte a tale stravolgimento neo-linguistico della realtà, ritengo più che mai necessario prendere le distanze sia dal finto ecologismo governativo, sia da un certo ambientalismo annacquato ed ambiguo.
Essere verde rischia di diventare il nuovo brand per piazzare il solito vecchio prodotto di una società dove tutto è diventato merce ed i beni naturali continuano ad essere controllati, detenuti e sfruttati dai soliti noti. Anche a livello di amministrazioni comunali, credo che bisognerebbe stare attenti a non inflazionare un’espressione che andrebbe declinata nel modo giusto e senza giochi di parole. Ogni comune, ad esempio, ha a disposizione un più o meno grande patrimonio di ‘verde’ pubblico nel senso letterale (parchi e giardini, alberature urbane etc.), che va considerato una preziosa risorsa, non un fastidioso problema in più da risolvere. La tentazione di affidare questo patrimonio a terzi (siano imprese private o enti del terzo settore) è recentemente diventata evidente, spingendo molte amministrazioni a delegare ad altri funzioni che le sono proprie, spesso senza una precisa normativa-quadro di riferimento ed adeguate linee-guida di natura scientifica.
Bisogna dunque contrastare questa diffusa tendenza, che accredita fra l’altro come ‘verdi’ soggetti privati che perseguono ben altre finalità, relegando la programmazione ambientale e paesaggistica comunale all’ultimo posto di quella pianificazione urbanistica di cui ho ultimamente parlato. Bisogna smetterla di definire ‘green’ o ‘smart’, inoltre, progetti ed iniziative che non hanno nulla di verde né di particolarmente intelligente e brillante, ma che usano questi termini – talvolta cinicamente – come specchietti per le allodole. Bisogna restituire il suo significato ad un progetto autenticamente ‘verde’, che non riguarda affatto solo chi non ha altri problemi materiali e si può permettere di prendersi cura delle sorti dell’ambiente. E questo per il semplice fatto che l’ambiente non è banalmente il nostro contenitore naturale, ma la nostra ‘casa comune’, qualcosa di cui facciamo parte e che condizioniamo con le nostre scelte, personali collettive ed esplicitamente politiche. Non si tratta soltanto di contrastare il riscaldamento globale incalzante, di difendere specie animali in via di estinzione o di proteggere la preziosa ed indispensabile biodiversità vegetale. Anche la difesa del futuro dei nostri figli è molto importante, ma non può essere l’unico movente.
Dobbiamo far pace con l’ambiente e con gli altri esseri umani, cambiando radicalmente stili di vita e modello di sviluppo. Forse non saranno scelte molto popolari, ma ormai non possiamo più far finta di niente di fronte a guerre e devastazioni ambientali che hanno la stessa origine e che, proprio per questo motivo, vanno contrastate insieme ed in una complessiva ottica ecopacifista. (Vedi: Movimento Internazionale della Riconciliazione, La colomba e il ramoscello. Un progetto ecopacifista, Torino, Ed. Gruppo Abele).
Z COME…ZOOLOGIA
Z: sebbene ci siano 546 parole italiane inizianti con quest’ultima lettera, non è stato facile individuare il termine giusto per concludere questa mia carrellata alfabetica sui temi inerenti ad una visione ecopacifista della politica cittadina. Alla fine ho optato per ‘zoologia’, anche se la definizione della parola ci conduce più che altro alla relativa disciplina scientifica: ”…ramo delle scienze biologiche che studia la vita del mondo animale, in tutte le sue manifestazioni. Si divide in varie sezioni. La sistematica zoologica studia gli animali sotto l’aspetto descrittivo, e li classifica, per quanto possibile, secondo le loro affinità filogenetiche…” (https://www.treccani.it/enciclopedia/zoologia/ ). Io però vorrei restituire al suffisso ‘logìa’ il suo senso originario che, prima di riguardare lo studio sistematico su qualcosa, implica una riflessione su quel tema, un’attenzione verso quell’oggetto. Lo studio del complesso ed affascinante mondo animale, infatti, non avrebbe avuto origine se non ci fosse stato da parte dell’uomo un interesse (nel suo duplice significato) nei suoi confronti, ma forse anche il peccato originale della scarsa consapevolezza di farne parte integrante.
Ovviamente nelle scuole s’insegna che l’uomo appartiene al ‘regno animale’, ma è innegabile che millenni di visione antropocentrica del mondo – anche a causa delle tradizioni religiose che purtroppo l’hanno avallata – abbiano finito col separarci da esso, collocandoci in una posizione estranea e dominante nei suoi confronti. Per gli esseri umani, infatti, gli animali sono stati prima un pericolo da cui difendersi, poi una riserva di cibo di cui nutrirsi, da alcuni secoli oggetto di studio e ricerca e, più recentemente e solo in certi casi particolari, dei ‘compagni’ con cui condividere le loro esistenze. Eppure quella prima, ancestrale, visione non si è mai del tutto spenta, come testimoniano i tanti recenti episodi di diffidenza o vera e propria paura nei riguardi degli animali (orsi, cinghiali, lupi ecc.) che da un po’ violano i confini del territorio che consideriamo ‘nostro’, quasi sempre a causa dei guasti ambientali che gli umani hanno provocato in quello che dovrebbe essere il ‘loro’.
Il secondo aspetto, che vede gli animali solo come prede da catturare a scopi alimentari o comunque utilitaristici (caccia, allevamento ed altre forme di sfruttamento che ne fanno una ‘risorsa’ da cui ricavare il massimo profitto possibile), non è mai stato superato dall’evoluzione umana. Al contrario, quello che in epoche lontane poteva essere considerato utilizzo degli animali per la sopravvivenza umana, ha perso quasi del tutto quella caratteristica per diventare uno sfruttamento sempre maggiore, violento ed irresponsabile d’una componente biologica del Pianeta che non può essere ridotta a cibo, pellicce o materiali da utilizzare massivamente, senza alterare gli equilibri ecologici e distruggere la biodiversità. Inquinamento ambientale, allevamenti intensivi, pesca industriale, eliminazione di specie zoologiche per scopi ‘ricreativi’ o per assurde tradizioni che ne valorizzano solo alcune parti, rappresentano quindi veri e propri atti di ecocidio da parte dell’uomo, oltre a turbare la coscienza etica e religiosa di tanti che continuano a credere nella ‘fratellanza’ tra noi e gli altri animali e nella difesa della ‘integrità’ del Creato.
L’animalismo è definito come “l’atteggiamento e comportamento di chi, per amore verso gli animali, interviene attivamente in loro difesa contro maltrattamenti e in genere comportamenti che procurino loro sofferenze e ne limitino la libertà (per es., la caccia, la vivisezione, l’uccisione per ricavarne la pelliccia, l’impiego nei circhi, ecc.)” (https://www.treccani.it/vocabolario/animalismo/ ). Per fortuna l’animalismo sta diventando sempre più diffuso ed è molto attivo su vari fronti, ma resta innegabile che lo stesso movimento ambientalista stenta tuttora a considerare questa problematica del tutto inerente alle sue finalità. L’animalismo in senso stretto e ideologico, d’altronde, va comunque distinto dalla semplice salvaguardia delle specie animali nel contesto del loro ecosistema, dettata peraltro da normative internazionali e nazionali ben precise, ma anche da un generico rispetto o affezione per il mondo animale, che costituisce una degenerazione ‘sentimentale’ del rapporto tra l’uomo ed alcuni suoi ‘compagni’ animali. La crescita della consapevolezza dell’enorme impatto dello sfruttamento intensivo degli animali sulle emissioni di gas climalteranti e sulle sue allarmanti conseguenze, inoltre, sembra aver finalmente spostato l’obiettivo dalle battaglie di natura puramente etica a quelle specificamente ecologiche.
«Le emissioni di gas serra degli allevamenti intensivi rappresentano il 17% delle emissioni totali dell’Ue, più di quelle di tutte le automobili e i furgoni in circolazione messi insieme. È quanto emerge dalla nostra nuova analisi […] che evidenzia anche come le emissioni annuali degli allevamenti siano aumentate del 6% tra il 2007 e il 2018. Tale aumento, l’equivalente di 39 milioni di tonnellate di CO2, equivale ad aggiungere 8,4 milioni di auto sulle strade europee» (https://www.greenpeace.org/italy/storia/12423/gli-allevamenti-intensivi-in-ue-inquinano-piu-delle-automobili-la-nostra-analisi/ ). A livello globale, ciò che negli USA continuano assurdamente a chiamare “agricoltura animale” rappresenta una delle più devastanti cause di alterazione degli ecosistemi. Oltre ad essere il movente di gran parte del processo di deforestazione del Pianeta, infatti, secondo un’autorevole fonte statunitense gli allevamenti intensivi producono: il 44% delle emissioni di metano, il 55% dell’erosione dei terreni, il 60% dell’inquinamento da ossidi di azoto (e di zolfo) ed il 70% dell’impronta mondiale di fosforo connesso all’alimentazione e circa 1/3 delle cause di perdita di biodiversità. (https://climatenexus.org/climate-issues/food/animal-agricultures-impact-on-climate-change/ ).
Sia la zoofobia sia l’atteggiamento predatorio dell’uomo sugli animali ha comunque un movente culturale, strettamente connesso ad una concezione antropocentrica dura a morire, ma anche a visioni del mondo che ci pongono in cima alla piramide della vita, e quindi in una posizione altezzosamente dominante «…l’animalismo promuove il superamento del cosiddetto specismo, ovvero della concezione secondo la quale la specie umana è superiore a livello ontologico e morale rispetto alle altri specie animali. […] “specismo” è un neologismo che intenderebbe richiamare in altro contesto il significato di termini come “razzismo” o “sessismo”: come questi ultimi significano la discriminazione sulla base della razza o del sesso, fondata sulla presunta superiorità di alcune razze o di un sesso sull’altro» (https://www.provitaefamiglia.it/blog/animalismo-e-antispecismo-cosa-sono#sottotitolo1 ).
Anche nei programmi per le amministrazioni comunali, dunque, non dimentichiamo di ribadire che la difesa dei diritti degli animali non umani va sempre garantita, e non solo a parole. Non basta nominare una figura di ‘garante’ e non è sufficiente riservare nelle città qualche esiguo spazio dedicato ai nostri amici a quattro zampe. Va superata la contraddittoria compiacenza dei comuni verso circhi e giardini zoologici; bisogna vietare fiere e manifestazioni che utilizzino ancora animali vivi a scopi ‘ricreativi’; è indispensabile modificare i menu delle mense scolastiche, introducendo un’alimentazione più sana e sempre meno animale; si devono intensificare i progetti di tutela ambientale nei confronti dei volatili migratori e di tante specie animali ancora presenti in boschi, parchi ed aree verdi urbane; occorre incentivare e proteggere le colonie feline e offrire spazi adeguati per il movimento e la socializzazione dei cani. Insomma, bisogna insegnare, informare ed educare, ma anche agire coerentemente affinché i più giovani si liberino dalla tradizionale visione strumentale e predatoria verso gli animali. Se Aristotele quasi 2400 anni fa parlava già di “uomo e gli altri animali” (άνθρωπος και άλλα ζώα), dovremmo quindi chiederci perché abbiamo smarrito quella saggezza antica e come possiamo recuperarla.
Ricordiamo qui le 3R sintetizzanti il messaggio che gli ambientalisti lanciavano per contrastare un modello di vita e di consumo che è strettamente connesso al modello di sviluppo attuale. Esso infatti soffoca il Pianeta ed impoverisce i più deboli e contro quel modello centinaia di migliaia di giovani sono ancora una volta scesi in piazza per rivendicare un futuro diverso.
Ovviamente è abbastanza facile protestare contro chi inquina e saccheggia il territorio, specula sui beni comuni, avvelena il nostro cibo, appestandoci l’aria e cancellando la biodiversità. Ma in fondo a questa lunga ‘catena ecologica’, non scordiamolo, ci siamo anche noi, con le nostre abitudini, i nostri vizi e, talvolta, con la miopia di chi non riesce a collocare scelte apparentemente personali in un contesto più ampio e complesso, pensando ‘globalmente’.
Ecco perché spesso un teorico ambientalismo s’è infranto contro gli scogli dei comportamenti quotidiani, contraddicendo quelle famose 3R che dovrebbero essere il primo passo per cambiare rotta. Ridurre, riusare e riciclare, infatti, sembrano andar bene solo per gli slogan, ma non sempre coinvolgono il nostro consumistico ‘way of life’, modificando profondamente i nostri comportamenti, prima ancora di spingerci alla mobiltazione contro quello degli altri. ‘Ridurre’ – come ‘risparmiare’ – è diventato un verbo fuori moda, che evoca periodi bui e suscita reazioni allergiche in chi, sotto sotto, resta convinto che avere di più e di meglio sia indispensabile per vivere bene. Il risparmio e la riduzione sembrano evocare una regressione, un atteggiamento meschino che mal si concilia con l’idolatria per il c.d. ‘progresso’.
Riuso, poi, suona ancor più evocativo di un’economia povera, arretrata,quasi di sussistenza, in cui i ragazzi ereditavano gli indumenti dai fratelli e dove non aveva ancora fatto la sua comparsa la logica dell’usa-e-getta. ‘Conservare’ fa pensare al conservatorismo, mentre l’idea stessa di riusare qualcosa (si tratti di bicchieri o di jeans, di piatti o di zainetti) cozza con la nostra sovrastruttura iper-igienista, contrabbandata come prevenzione sanitaria quando tale concetto avrebbe ben altro spessore ed ambito. Il verbo ‘sprecare’ sembra derivare da quello latino *ex-precari, che significava ‘mandare in malora, ma mi sembra più probabile l’etimologia che lo fa dipendere dal germanico *sprecken: spargere, sparpagliare. Buttar via tutto, in effetti, significa cospargere l’ambiente naturale dei nostri rifiuti, mentre riusare va nella direzione opposta, risparmiando l’abuso di materie prime e riducendo i costi ambientali prima ancora di quelli personali.
Ma riciclo, ed il verbo riciclare, sono diventati molto più popolari. Del trinomio ecologista costituiscono l’elemento che ha avuto più successo e diffusione. Non vorrei sembrare maligno ad ipotizzare che ciò sia dovuto al fatto che sul riciclo si può costituire un provvidenziale business, mentre riduzione e risparmio non producono un appetibile guadagno. Sul riuso, viceversa, si sono di recente inaugurate ambigue operazioni commerciali, rimettendo in vendita prodotti poco usati, frutto del consumismo compulsivo di tanti. In tal modo si regala a chi se ne disfa la sensazione di compiere una meritoria azione green, mentre si limita a svuotare depositi ed armadi da fastidiosi prodotti poco o per niente utilizzati, facendo ripartire la festosa giostra degli acquisti… Ovviamente raccogliere in modo intelligente e differenziato i rifiuti urbani è cosa buona e giusta, così come alimentare un settore industriale – quello del riciclo appunto – che risulta sicuramente positivo. Il fatto è che non possiamo riempirci e riempire le nostre case di migliaia di oggetti e prodotti, rispondendo solo alla smania dell’acquisto ed alla ricerca della novità, solo per giungere ad uno smaltimento più virtuoso di ciò che buttiamo come rifiuto.
Molti studi in proposito confermano la ‘bulimia’ consumistica che ci fa vivere circondati da troppe cose e da sempre meno persone, accumulando prodotti inutili di cui facciamo pure fatica a sbarazzarci.
«La conferma è in uno studio americano che stabilisce che in una casa ci sono 300mila oggetti e che un bambino inglese di 10 anni ha in media 238 giocattoli anche se poi finisce per giocare con dieci al massimo dodici. Secondo una compagnia di assicurazioni britannica, durante l’arco della nostra vita passiamo 200 giorni a cercare qualcosa che non troviamo più, mentre 2mila a comprare»(https://www.greenme.it/consumare/riciclo-e-riuso/quanti-oggetti-case/ ). Sprecare materia, fra l’altro, significa sprecare preziosa energia, per cui non dovremmo lasciarci accalappiare da chi ha fatto del greenwashing il grimaldello per continuare a lucrare su uno sviluppo ingiusto, malato e insostenibile.
Governare una città è molto più che amministrare una casa o le proprie risorse, però le scelte di fondo per voltare pagina, a mio avviso, sono sempre e comunque quelle dettate dalla saggezza ecologica delle 3R. Ridurre, riusare e riciclare sono comportamenti virtuosi che una pubblica amministrazione non può solo limitarsi a promuovere nei cittadini, ma che deve adottare ed applicare per prima. Ovviamente ciò è vero quando si riducono gli sprechi, non i servizi essenziali. Ciò vale quando si riutilizzano spazi, edifici ed altre strutture in modo più ‘sociale’ e collettivo e soprattutto se si riciclano solo i rifiuti, non i politici scaduti e forme centralistiche di governo.
S COME… SOLARE
Secondo le canzoni siamo il “paese del sole”. ‘O sole mio è diventato da oltre un secolo il nostro inno internazionale. E Napoli, effettivamente, è una città baciata dal sole, con una radiazione media annuale di 1.589 kWh/m2, superata solo da alcune città delle regioni Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna (http://www.pannellisolari.bologna.it/nuovo-conto-energia/esempi/radiazione-solare-media-giornaliera.html). Eppure…eppure siamo ben lontani dall’aver adeguatamente utilizzato questa invidiabile caratteristica climatologica, che ci rende uno dei posti migliori per attuare un’intensa solarizzazione dei programmi energetici. Eppure – ma purtroppo solo pochi lo sanno, essendo una norma ampiamente boicottata, sottaciuta e disattesa – la Regione Campania è stata la prima (e forse resta la sola) ad aver approvato all’unanimità una proposta di legge d’iniziativa popolare che pone decisamente al primo posto l’energia solare e quella delle altre rinnovabili.
«1. La Regione Campania: a) sceglie il sole come sua primaria fonte di energia per ogni sua attività, civile e produttiva; b) promuove la diffusione dell’energia solare nelle sue diverse forme e tecnologie su tutto il territorio, in armonia con la migliore fruizione e conservazione di esso in rapporto ai bisogni complessivi della popolazione, della piena tutela della biodiversità naturalistica, storica e culturale e della piena compatibilità con l’agricoltura ed il verde nella sua complessiva accezione… ». È questo l’incipit del primo articolo della Legge n. 1/2013 della Regione Campania (http://www.sito.regione.campania.it/leggi_regionali2013/lr01_2013vigente.pdf). Una norma-quadro tuttora vigente, benché emendata e proditoriamente affondata dalla Giunta Regionale allora in carica (Caldoro) e poi colpevolmente ignorata da quelle successive, presiedute da Vincenzo De Luca. Per essere più precisi, il titolo della legge d’iniziativa popolare – sulla quale il Comitato presieduto dal compianto Antonio D’Acunto riuscì a raccogliere quasi 15.000 firme – era: “Cultura e diffusione dell’energia solare in Campania”, proprio per sottolineare che non si trattava solo di adottare provvedimenti finanziari che incentivassero lo sviluppo di nuovi impianti fotovoltaici o comunque alimentati da energie pulite e rinnovabili. L’intento della legge, infatti, era più ampio e profondo: far sapere a tutti che una rivoluzione energetica è auspicabile e concretamente realizzabile, ma anche che quella proposta prevedeva comunque un profondo cambio radicale di paradigma.
Non a caso la “Rete Campana per la Civiltà del Sole e della Biodiversità” – da noi fondata per far conoscere ed attuare la legge – aveva tale impegnativa denominazione. Basta visitare la home page del suo sito web per avere un’idea di quanto ci proponevamo otto anni fa, ispirati dalla visione profetica di D’Acunto ed animati da un coinvolgente entusiasmo per una svolta epocale. Nel ‘decalogo’ che ne riassume le finalità, infatti, si proponevano alcuni fondamentali passaggi: «1) Dalla concentrazione alla capillare diffusione di centri di produzione energetica. 2) Dallo sfruttamento irrazionale dello spazio all’uso dello spazio come risorsa primaria di energia. 3) Dallo sviluppo accentrato ed energivoro alla alternativa del risparmio e delle rinnovabili. 4) Dallo spreco alla razionalizzazione ed ottimizzazione della produzione ed uso dell’energia. 5) Da materiali, tecnologie e sistemi energivori all’uso razionale di acque e suolo, nel rispetto della biodiversità. 6) Dal consumismo alla capacità rigenerativa della materia, alla sinergia ed alla simbiosi. 7) Dalla produzione come sfruttamento ad un’economia ecologica, equa e solidale. 8) Dalla dipendenza economica ed energetica ad una rete comune di scambio reciproco. 9) Dal ricatto dei potentati finanziari e militari alla autonomia di un’economia decentrata. 10) Dall’omologazione e dalla monocultura alla civiltà del sole e della biodiversità» (http://www.laciviltadelsole.org/ ).
Le parole-chiave di questa radicale transizione ecologista e sociale, quindi,erano e restano: diffusione, fruizione, decentramento, ottimizzazione, rispetto della biodiversità, sinergia, solidarietà, scambio, autonomia: tutti elementi della più ampia ‘civiltà del sole’. L’esatto opposto d’una visione capitalista dell’approvvigionamento e distribuzione dell’energia, improntata viceversa a: concentrazione, sfruttamento, consumismo, spreco, insostenibilità ambientale, dipendenza ed omologazione. Ecco perché questa legge, oltre dimostrare che la volontà dei cittadini può trasformarsi in atti normativi, avrebbe voluto diventare anche uno strumento di programmazione dal basso e di attivazione dei comuni nella pianificazione delle proprie esigenze e risorse disponibili. All’art. 11 della L.R. 1/2013, infatti, era previsto che: «Tutti i comuni della Campania si dotano, entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, dei Piani energetici solari, di seguito denominati Pesc. I Pesc definiscono gli obiettivi di copertura di fabbisogno energetico da fonte solare che sono fissati dai singoli comuni […] in armonia con la piena tutela dei valori architettonici, archeologici, storici e culturali…».
Purtroppo, nonostante gli sforzi per coinvolgere l’ANCI ed un convegno a Sorrento, le amministrazioni comunali non si sono affatto mobilitate in tale direzione, anche in seguito all’inerzia della Regione, che non ha mai emanato il regolamento attuativo della legge. Lo stesso Comune di Napoli – sebbene Luigi De Magistris in varie circostanze si fosse dichiarato fieramente primo firmatario della legge – non ha esercitato un’adeguata pressione affinché una norma così innovativa fosse attuata. Proprio per questo motivo, visto che spesso si parla a sproposito di ‘transizione ecologica’, bisogna ribadire che perché ci sia un ‘passaggio’ bisogna avere chiaro l’obiettivo cui si tende. Bisogna chiarire che una ‘transizione ecologica’ che parla solo di auto elettriche senza toccare il piano energetico e ridiscutere i consumi energetici è soltanto una mistificazione. Bisogna allora ripartire dalla ‘legge D’Acunto’, nella Città Metropolitana ma più in generale a livello regionale, per capovolgere l’attuale modello energivoro consumistico accentratore ed inquinante per passare ad una ‘Civiltà del Sole’ in cui l’energia diventi finalmente un bene comune da non sprecare e da condividere in modo sempre più orizzontale, decentrato ed ecologico.
T COME…TERZO SETTORE
Trovare definizioni del c.d. ‘Terzo Settore’ non è difficile. Basta una ricerca su Internet per incontrarne diverse, quasi tutte abbastanza simili nell’impostazione. «C’è un sistema sociale ed economico che si affianca alle istituzioni pubbliche e al mercato e che interagisce con entrambi per l’interesse delle comunità. Condivide con il “primo” e il “secondo” settore alcuni elementi: come il mercato, è composto da enti privati. Come le istituzioni pubbliche, svolge attività di interesse generale. Questi aspetti si rimescolano, dando vita ad un nuovo originale soggetto». (https://www.cantiereterzosettore.it/cose-il-terzo-settore/ ). Un’altra definizione ci spiega che il termine è impiegato, da un punto di vista sociologico: «…per indicare pratiche e soggetti organizzativi di natura privata ma volti alla produzione di beni e servizi a valenza pubblica o collettiva. […] L’approccio economico sottolinea la partecipazione alla determinazione del benessere collettivo distinta da quella offerta dal Mercato essendo priva di fini lucrativi…» (https://it.wikipedia.org/wiki/Terzo_settore).
Appartengono al T.S. organizzazioni non-governative senza scopo di lucro che, pur essendo di natura privata, svolgano attività e/o servizi rivolte all’interesse generale, avendo come fine il benessere collettivo. Come conferma anche un’altra fonte: «Si definisce “terzo” dal momento che costituisce un altro ordine o classe rispetto alla sfera dello Stato e della pubblica amministrazione (primo settore) e a quella del mercato e delle imprese (secondo settore). Vi fanno parte gli enti che operano principalmente con finalità civiche o utilità sociale, e non per scopo di lucro» (https://www.informazionefiscale.it/Cos-e-il-terzo-settore-definizione-significato). Insomma, a fare la differenza ci sarebbero solo due elementi: il primo è che in tale ambito rientrano privati che perseguano l’utilità sociale; il secondo è che non devono trarre alcun ‘lucro’, guadagni o vantaggi, dalle loro attività.
Tanto premesso, in Italia la riforma degli Enti del Terzo Settore (ETS) li ha distinti in sette diverse tipologie, ciascuna con la propria specialità, che vanno dalle ODV (organizzazioni di volontariato) alle APS (associazioni di promozione sociale); dagli EF (enti filantropici) alle (IS) imprese sociali, cooperative e non. Come si vede, siamo di fronte ad una gamma molto ampia, che il Codice del Terzo Settore (https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:2017-07-03;117!vig= ) ha voluto stabilire e regolamentare, ma nelle cui maglie normative è piuttosto facile che le premesse ‘no profit’ si perdano per strada, lasciando spazio ad organizzazioni piuttosto ibride e non sempre trasparenti. Tenendo conto del fatto che gli enti locali – nell’impossibilità di gestire in proprio servizi ed attività di natura collettiva e pubblica – ricorrono sempre più alle prestazioni degli ETS, è abbastanza evidente che bisogna stare molto attenti a non aprire la strada a convenzioni anomale, che legittimino situazioni ambigue ed allarghino la sfera del lavoro ‘grigio’, se non proprio nero.
Quando a sinistra, negli anni ’70-’80, si discuteva dell’apporto dell’associazionismo sociale e delle organizzazioni ‘di base’ alla riforma dei servizi alla collettività – da quelli sociali a quelli sanitari, da quelli educativi a quelli più ampiamente culturali – si ribadiva costantemente che la funzione di attività volontarie e progettualità ‘dal basso’ non sarebbe mai dovuta diventare ‘sostitutiva’, mera supplenza alle carenze istituzionali, bensì incentivazione e promozione di quegli stessi servizi e sperimentazione metodologica, coinvolgendone gli utenti in un innovativo meccanismo di partecipazione, controllo ed autogestione popolare. Quel patrimonio di esperienze e di studi, purtroppo, sembra essersi quasi del tutto perso, in favore d’una visione opportunistica degli ETS, che da una parte fa comodo alle istituzioni per coprire le proprie deficienze, dall’altra torna utile a chi cerca solo di assicurarsi convenzioni ed affidamenti, grazie alla sempre più frequente esternalizzazione dei servizi pubblici.
Il dibattito sul ruolo delle organizzazioni volontarie o comunque non-lucrative nella gestione di tanti servizi essenziali a livello comunale (dagli asili nido ai programmi di animazione socioculturale per minori ed adolescenti; dall’integrazione di singoli e nuclei immigrati ai consultori in difesa dei diritti delle donne; dalle attività socio-ricreative per anziani alle iniziative per il recupero della dispersione scolastica e la devianza minorile) si è purtroppo interrotto da parecchi anni. Non si discute più su chi può fare cosa e tanto meno su ‘come’ lo si fa, mentre partiti, sindacati ed altre forze politiche sembrano concentrati su ben altri obiettivi e situazioni. Le amministrazioni comunali susseguitesi a Napoli, ad esempio, hanno smesso da troppo tempo di utilizzare la ricerca sociale per definire i bisogni e per trovare risposte adeguate – oltre che funzionali – ad essi. Basta visitare lo stesso sito (https://www.comune.napoli.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/5278) per accorgersi delle carenze istituzionali.
Èda un decennio che non si aggiorna il ‘profilo di comunità della città’, fermo al 2012, con la conseguenza che i quattro successivi ‘Piani Sociali di Zona’, licenziati dal Comune di Napoli con cadenza triennale, non sembrano avere più il necessario supporto di ricerca, basato su quel fondamentale sistema d’indicatori sociosanitari integrati (https://www.comune.napoli.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/19559),.
«La definizione del Profilo di Comunità fa parte di un percorso di programmazione partecipata che vede, nella raccolta di dati quantitativi, solo una fase di un processo più ampio di valutazione ed analisi dei bisogni, delle problematiche e dei punti di forza delle comunità. I territori condividono in modo critico l’elaborazione del Profilo, […] contribuendo a indicare problematiche e bisogni specifici del territorio, la necessità di nuovi indicatori […] offrendo interpretazioni e valutazioni sui dati raccolti» (p. 5278 cit.).
Non si può programmare burocraticamente, senza partecipazione popolare e sulla base di dati che non rispecchiano più le singole realtà territoriali. Le Municipalità avrebbero dovuto agevolare un processo di ricerca non solo accademica, ma gli ‘uffici di piano municipale’ sono rimasti un’indicazione inapplicata. Ecco perché il ricorso a soggetti esterni, del c.d Terzo Settore, rischia di essere privo di basi conoscitive e metodologiche adeguate, alimentando situazioni molto discutibili, quali quelle verificatesi con l’affidamento a privati di importanti servizi di manutenzione e cura di beni comuni, come ad esempio i parchi pubblici. Soprattutto in ambito sociale, infine, bisogna riprendere il filo della pianificazione partecipata e coordinata, contrastando una pericolosa deriva assistenzialistica che rende gli utenti fruitori passivi anziché protagonisti attivi.
Ospitalità: una delle caratteristiche salienti della napolitanità appena trattata, frutto di secoli di spontanea (ma spesso anche forzata) apertura a genti diverse, nuove lingue e culture differenti. In effetti, il sostantivo ‘ospite’ da cui deriva il nome astratto, ha un’origine controversa anche perché, con una certa ambivalenza semantica, si riferisce sia a chi ospita sia a chi è ospitato. «L’etimologia del termine latino hospes risulta spesso incerta nei più comuni dizionari della lingua italiana e, se vengono date delle spiegazioni, esse risultano parziali e non rispondono pienamente alla nostra domanda. Ad esempio, il Devoto-Oli 2012 e il Sabatini-Coletti 2008 fanno risalire la voce a un più antico *hostipotis, composto da hŏstis ‘straniero’ e pŏtis ‘signore, padrone’, cioè ‘signore dello straniero’, ma non dicono niente di più. Il Vocabolario Treccani scrive sinteticamente che il termine ha “tutti e due i significati fondamentali, in quanto la parola alludeva soprattutto ai reciproci doveri dell’ospitalità”, in accordo con il Dir Dizionario italiano ragionato (D’Anna, 1988)». L’hostis latino, prima di diventare il ‘nemico’, era semplicemente lo straniero, ma attualmente la connotazione ‘ostile’ della parola sembra purtroppo essere quella prevalente, a causa d’un perverso intreccio di diffidenza e paura, alimentate ad arte da chi ha fatto della xenofobìa la propria bandiera politica.
In quasi 3.000 anni, del resto, i Napolitani sono stati sicuramente ospitali verso gli stranieri, ma è pur vero che spesso hanno dovuto subire la presenza indesiderata, imposta con la forza delle armi, di ‘ospiti’ autoinvitatisi senza chiedere il permesso al ‘padrone di casa’… La proverbiale pazienza e tolleranza del popolo napolitano è stato quindi un elemento tipico della sua mentalità aperta e disponibile al confronto, ma anche il risultato di secoli di colonizzazioni, invasioni e domini, cui si è forzosamente ‘adattato’, piegandosi per non spezzarsi ma cercando comunque di mantenere una propria autonomia. La variegata identità dei Napolitani, quindi, è per certi versi un tratto distintivo unico, per altri il risultato di una civiltà multietnica e di un tradizionale meticciamento socio-culturale. Oggi gli ‘ospiti’ della Città metropolitana di Napoli rappresentano il 4,2% della sua popolazione, percentuale sicuramente sottostimata, dal momento che i dati ufficiali non rispecchiano la realtà dell’immigrazione clandestina. Secondo i dati ISTAT, dal 2003 al 2021 gli ‘stranieri’ si sono più che triplicati (da meno di 40.000 a 128.000), con una prevalenza maschile nella fascia 30-50 anni e femminile oltre quella soglia. Circa il 17% degli stranieri residenti censiti/e sono ancora molto giovani (0-19 anni), ma la fascia d’età prevalente è quella compresa tra 40 e 44 anni (12,2%).
La stragrande maggioranza si è stabilita a Napoli (quasi 60.000 su 128.000) ed in Campania la top ten delle nazionalità ci parla di percentuali che giungono al 16-17% degli Ucraini e dei Romeni, passando per Marocchini e Srilankesi (rispettivamente 8% e 7%), Cinesi (5%), Bengalesi e Polacchi (ambedue al 4%), Indiani Nigeriani e Bulgari (al 3%). Vanno poi considerati – come scrivevo già nell’articolo alla voce ‘homeless’ – che nella nostra città risiedono anche 3.000 persone nomadi, che convivono in condizioni penose nei 10 campi più o meno abusivi o si sono sparpagliati in vari quartieri. Ebbene, verso questi 150.000 non-napolitani (che costituiscono quindi oltre u sesto della popolazione) la Città ha sempre mostrato disponibilità ed accoglienza. Ma questa lodevole disposizione mentale non può supplire ai limiti organizzativi ed alle carenze istituzionali, perché accogliere gli stranieri non significa banalmente limitarsi ad aprir loro le porte. Se dopo la loro entrata essi non trovano mezzi e strumenti che garantiscano una vita civile e sicura, infatti, sarebbe difficile parlare di autentica ‘ospitalità’, che comporta invece risorse strutturali, servizi essenziali e, in primo luogo, opportunità lavorative.
Per diventare città davvero pacifica giusta e solidale, Napoli dovrebbe non solo contrastare decisamente ogni forma di xenofobia e razzismo latenti o indotti, ma anche pianificare una vera rete di accoglienza, sostegno, regolarizzazione, formazione ed occupazione di questa significativa fetta dei suoi abitanti. Sappiamo bene che molti progetti in tal senso sono stati promossi da organizzazioni di volontariato, da agenzie e gruppi ecclesiali e da ONG nazionali, offrendo una risposta parziale ma molto importante a tale esigenza. Però l’amministrazione comunale e quella metropolitana non possono più limitarsi a coordinare questi sforzi spontanei, senza impegnarsi in modo efficiente e continuativo sul fronte di un’accoglienza che sia cordiale e fraterna, ma anche efficiente. Dovremmo diventare un po’ tutti ‘ospiti’ di una casa comune, come Papa Francesco ci ha invitato a fare anche nei confronti del Pianeta, di cui dovremmo smettere di considerarci i ‘padroni di casa’.
L’ospite in Grecia (xenos) era considerato sacro ed anche le civiltà orientali hanno tradizionalmente considerato lo straniero un soggetto da accogliere e proteggere. L’etica ebraica cristiana ed islamica (tre religioni non a caso simboleggiate dalla ‘tenda di Abramo’) sono infatti pervase da uno spirito di accoglienza nei confronti di chi viene da lontano ed anche un noto proverbio indù suona “Athiti Devo Bhava”, confermando il concetto che “l’ospite è Dio”. Ma a noi basterebbe che i migranti fossero sempre considerati esseri umani come noi, non classificati solo come un problema o, peggio ancora, come un ostacolo al nostro benessere o ‘invasori’ contro cui erigere muri e da cui difenderci. L’antica e saggia civiltà di Napoli ci conferma che accoglienza ed integrazione sono le strade giuste per affrontare la sfida di sempre nuove migrazioni, che guerre e catastrofi naturali accentuano, mettendo in luce l’insostenibilità globale di un modello ingiusto violento ed antiecologico di sviluppo, che va superato.
P COME…PACE
Per chi, come me, è da sempre impegnato sul terreno dell’antimilitarismo e nella diffusione della teoria e pratica della nonviolenza, la lettera P suggerisce ovviamente la parola Pace. Vocabolo abusato, talvolta frainteso, spesso deformato dall’orwelliano ‘bispensiero’ che ne mistifica, se non capovolge, il senso. A partire dalla persistente banalizzazione secondo cui la pace sarebbe l’opposto della guerra, il discorso su di essa è frequentemente viziato anche da superficialità e luoghi comuni, che ne ribadiscono una visione intimistica e moralistica, come se si trattasse di un mero sentimento o di una generica predisposizione mentale. Eppure sul concetto di ‘pace’ sono stati scritti interi trattati, saggi e manuali; da decenni esistono corsi accademici di studi sulla pace; intorno al movimento per la pace si sono raccolte decine di milioni di attivisti a livello internazionale e, in Italia, le lotte per l’obiezione di coscienza e quelle contro il pericolo nucleare e la corsa agli armamenti hanno mobilitato tantissime persone.
Mentre sono stati in molti a protestare contro rischi di guerre e derive militari, molto più lenta e difficoltosa è stataperòun’effettiva presa di coscienza delle alternative ai conflitti armati, attraverso la diplomazia e l’intervento dei corpi civili di pace ma soprattutto un progetto che realizzi un modello di difesa civile popolare e nonviolenta, o quanto meno percorsi di transarmo, come si era già cominciato a fare negli anni ’90. Oggi, 21 settembre, nel mondo si celebra la Giornata Internazionale della Pace. Ma per non restare ancorati a versioni edulcorate ed oleografiche di questo fondamentale pilastro della convivenza civile c’è bisogno di uscire dal generico e dal vago, d’incentivare la Ricerca sulla Pace (non solo in senso accademico) e di promuovere a tutti i livelli, particolarmente nelle scuole, itinerari interdisciplinari di Educazione alla Pace.
Preliminarmente va chiarito questo concetto solo in apparenza univoco, nelle lingue neolatine ed in inglese riconducibile alla radice indoeuropea *pag, indicante un ‘patto’, un trattato che sancisce l’accordo dopo la guerra ma che, paradossalmente, spesso pone le basi per il prossimo conflitto armato. La radice germanica *fridu evoca piuttosto il concetto di protezione/tranquillità e sentimenti come amore/amicizia, evidenti nell’ inglese friend. L’universo concettuale legato alla radice semitica *slm (presente nell’ebraico shalôm come nell’arabo salām), si divarica invece tra l’indicazione d’uno stato di buona salute, prosperità e benessere ed un senso più specifico di pace e riconciliazione. Anche la radice sanscrita del termine indiano shanti ha una sfumatura più che altro di ‘pace interiore’ e benessere spirituale, tanto che Gandhi preferì parlare di ahimsa (nonviolenza) per denominare la sua alternativa di lotta per far trionfare la giustizia e la verità (satyagraha).
Certo la vera pace non esclude la dimensione personale, interiore e spirituale, ma non può limitarsi né ad una visione pattistica, legalistica e diplomatica della risoluzione dei conflitti, né può essere identificata col pacifismo passivo rinunciatario e rassegnato di chi cerca in fondo solo la propria tranquillità, rifuggendo ogni contrapposizione per non subirne danno. La pace è un concetto complesso, che racchiude la sintesi di tre fondamentali aspetti: il disarmo, la difesa dei diritti e la ricerca di un autentico sviluppo umano. Essere pacifisti solo impegnandosi a salvaguardare i diritti umani e civili è importante ma non sufficiente, così come non basta lottare giustamente contro gli armamenti e le spese militari, se manca un ‘programma costruttivo’ che proponga e costruisca dal basso un modello alternativo di difesa e l’opposizione ad ogni forma di militarizzazione della società, della cultura e dell’educazione. Scambiare la ‘paciosità’ col pacifismo è sicuramente grave, ma mi sembra ancor più grave che qualcuno, nel XXI secolo, confonda ancora due termini (e quindi due concetti) come ‘inerme’ (disarmato) ed ‘inerte’ (disimpegnato, passivo, non reattivo).
Napoli, ricordavo in un precedente articolo, è ufficialmente ‘Città di Pace’. Una delle pagine più belle della sua storia recente sono state quelle ‘Quattro Giornate’ che hanno mobilitato creativamente contro la feroce repressione nazista non solo volontari armati, ma soprattutto uomini e donne del popolo ed intellettuali, studenti universitari e scugnizzi, artigiani ed anziani professori. Una resistenza popolare e largamente non violenta che ha sconfitto l’armata più potente, liberando la città senza eserciti e senza condottieri. Eppure la nostra città ha dovuto subire – e subisce ancora dopo 70 anni – l’affronto dell’occupazione ‘manu militari’ di coloro che si sono dichiarati nostri ’liberatori’ e che oggi controllano gli equilibri politici e strategici del Sud-Europa e dell’Africa dalle loro arroganti e bellicose postazioni di comando (quella NATO di Lago Patria e quella aeronavale della VI flotta, con base a Capodichino). Non mi piace la ‘paciosità’ di chi preferisce chiudere gli occhi ed affidarsi ciecamente a coloro che da decenni dichiarano impudentemente di tutelare la sicurezza e la pace, utilizzando cacciabombardieri, missili, portaerei e sommergibili nucleari, ma anche armi non convenzionali ed una vasta gamma di psy-ops , ossia la guerra psicologica.
Una ‘Città di Pace’, dunque, dovrebbe compiere gesti fattivi e concreti per affermare la propria scelta, dall’adesione alla campagna affinché l’Italia firmi il trattato per l’abolizione delle armi nucleari ad un vero piano di ‘denuclarizzazione’ del proprio porto e di controinformazione dei cittadini; dall’eliminazione delle tante servitù militari alla riconversione civile delle caserme; dalla rinuncia all’utilizzo improprio dei militari dell’esercito in funzione di agenti di pubblica sicurezza all’opposizione nei confronti dell’infiltrazione delle forze armate negli istituti scolastici, a scopi promozionali o peggio di reclutamento. Purtroppo Napoli è ancora molto lontana da questo livello di attivazione, ma ci sono tutte le condizioni perché la nostra città diventi un modello di alternativa civile e popolare, in cui pace faccia rima con giustizia e solidarietà.
Q COME…QUARTIERI
Quartiere era chiamata ciascuna delle quattro parti in cui era suddiviso il territorio delle città medievali, anche se in alcune erano presenti ambiti diversi, come i terzieri ed i sestieri. La distinzione in quattro zone aveva un’origine ancor più antica, risalendo all’intersezione nelle poleis greche delle plateiai con gli stenopoi, che i Romani denominarono decumani e cardi. A Napoli, però, più che di quartieri si è preferito parlare di ‘rioni’ (deformazione delle regiones in cui le città erano suddivise in epoca augustea), indicando con questo termine una comunità di riferimento, l’appartenenza ad un preciso contesto socio-culturale. Già la Neapolis greca era stata suddivisa in nove ‘fratrìe’, protette dalle rispettive divinità tutelari. Nel XIII secolo, gli Angioini suddivisero la città in sei ‘sedili’ (o ‘seggi’) in base al territorio sul quale esercitavano funzioni amministrative e consultive, cui fu aggiunto il ‘seggio di Popolo’, rappresentato non da aristocratici ma dai ceti borghesi.
Napoli, quindi, ha una millenaria esperienza di suddivisione interna, con sfumature ora più comunitarie ora più gestionali, e per secoli i Napolitani si sono identificati affettivamente col proprio rione di appartenenza, al punto da differenziare le parlate locali ed individuare specifici santi protettori. Individualismo e familismo, d’altra parte, hanno spesso prevalso sul loro spirito collettivo e civico. Quando nel 1779, Ferdinando IV di Borbone suddivise la città in 12 quartieri presieduti da un giudice della Gran Corte, essi rispecchiavano ancora i tradizionali rioni, con le rispettive parrocchie o sedi conventuali: San Ferdinando, Monte Calvario, San Giuseppe, San Giovanni Maggiore, San Lorenzo, San Carlo all’Arena, Avvocata e Stella (con ovvio riferimento alla Madonna… La stessa paroichìa greca indicava un rapporto di vicinato ma anche un legame comunitario, non solo religioso.
L’ampliamento di Napoli portò a 30 il numero dei suoi quartieri, includendo i ‘borghi’ ad essa esterni (Vomero, Arenella, Fuorigrotta, Chiaiano, Pianura, Piscinola etc.), ed aree industriali periferiche (San Giovanni a Teduccio, San Pietro a Patierno, Poggioreale etc.). Dal 1980 al 2006 i 30 quartieri furono accorpati in 21 Circoscrizioni e, successivamente, in 10 Municipalità, quelle per cui andremo a votare per rinnovarne Presidenti e Consigli. Le 9 fratrìe, i 7 sedili, i 12 e poi 30 quartieri, le 21 circoscrizioni e le attuali 10 municipalità sono stati tentativi di redistribuire il potere civico, dando la parola a chi vive su un certo territorio e ne conosce risorse e problemi. Eppure siamo molto lontani dall’aver realizzato quel decentramento di cui mi ero già occupato nell’articolo alla lettera ‘D’, i cui limiti sono evidenti. Ma l’errore – al di là di scelte politiche sbagliate – è stato considerare quelle suddivisioni una questione burocratica, prima che amministrativa.
Ma decentrare non vuol dire soltanto delegare alcune competenze gestionali. Bisogna anche recuperare l’identità perduta dei vecchi quartieri, invertendo la tendenza all’omologazione culturale e sociale ed alla gentrificazione che ne ha imborghesito la natura, marginalizzando le periferie. C’è bisogno di maggiore partecipazione, di cittadinanza attiva, di elementi di autogestione sociale, di centri culturali e comunitari, del protagonismo dei giovani ma anche del recupero di saperi tradizionali, delle botteghe artigianali e di una rete commerciale di base. Bisogna, insomma, cambiare davvero direzione, perché una Napoli diversa è possibile ma bisogna costruirla dal basso. Non si devono neppure sottovalutare le possibilità offerte da una democrazia rappresentativa che – si tratti del Comune o delle sue Municipalità – deve ripristinare la sua caratteristica collegiale e consiliare ed interfacciarsi più correttamente e direttamente coi cittadini/e.