
“Ma che vogliono questi alpini a Napoli?” – si chiedono loro stessi in un manifesto affisso per le strade della mia città nell’assolato fine settimana ottobrino da 25 gradi. A dire la verità questo apparente sprazzo di autocoscienza è solo una domanda retorica, un banale espediente pubblicitario per attirare l’attenzione dei napolitani che escono sudati da affollati autobus o che s’incolonnano sfastidiati nel solito traffico cittadino. Per risultare più efficaci sul piano comunicativo – si saranno detti in qualche riunione tra ufficiali e media advisors –sarà meglio ricorrere al vernacolo, quel ‘dialetto’ partenopeo che le grandi imprese ormai hanno preso l’abitudine di saccheggiare scorrettamente quanto impunemente, giusto per dare un pizzico folkloristico in più ai loro messaggi.
E infatti nel manifesto che annuncia il loro sorprendente raduno del 15 ottobre 2022 troviamo quel titolone così napolitanizzato: “ma che vonno ‘sti alpini a Napule?”. Non si tratta però del comprensibile interrogativo che nasce dalla consapevolezza dell’assurdità di una sconcertante manifestazione di ‘penne nere alla partenopea’, bensì del pretesto – strumentale ma anche un po’ provocatorio… – per spiegare agli abitanti di questa città trimillenaria come e qualmente il Corpo degli Alpini sia stato fondato, giusto 150 anni fa, nientemeno proprio a Napoli…
“Mo’ t’o cunte je”, si sbilanciano a dirci in un’improbabile forma dialettale, aggiungendo poi in italiano una spiegazione che – come affermano loro stessi… – “è difficile da credere”, con la quale ci rivelano che gli Alpini sono nati a Napoli grazie al Regio Decreto firmato il 15 ottobre 1872 da Vittorio Emanuele II. Undici anni dopo l’altro regio decreto col quale lo stesso monarca sabaudo si autoproclamava ‘re d’Italia’, in seguito all’annessione dell’invaso Regno delle Due Sicilie e dopo un ‘plebiscito’ farsa.
Ebbene, sorvoliamo pure sugli svarioni ortografici che, come al solito, dimostrano scarso rispetto per la lingua napolitana: vonno > vônno, a Napule > a Nnapule, mo’ > mo, t’o > t’ ‘o, cunte > conto, je > io/ i’. Molto più, a dire il vero, ci colpisce la sicumera coloniale di chi non ha mai smesso di considerarci un’esotica appendice di quel Regno, che dovrebbe sentirsi quindi onorata dal privilegio di aver dato i natali a un siffatto blasonato corpo militare.
“Tu qua’ Natale…Pasca e Ppifania!!! T”o vvuo’ mettere ‘ncapo…’int’a cervella che staje malato ancora ‘e fantasia?” avrebbe causticamente esclamato l’unico Principe che Napoli abbia davvero onorato. Il guaio è che nei militari, si sa, il senso dell’ironia non è molto sviluppato. Al punto che al dissacratore Totò gli Alpini hanno dedicato addirittura una statua, prendendo per buona la sua celebre e sarcastica espressione: “Sono un uomo di mondo: ho fatto il militare a Cuneo!”….

Ma questa nostra Napoli – per Statuto ‘Città di Pace’ e protagonista di quattro giornate di lotta civile e popolare in gran parte non armata – non sa che farsene di questa primogenitura pezzotta. Questa nostra Napoli che è lontana 850 chilometri dalle Alpi da cui traggono il loro nome le autocelebranti ‘penne nere’, ma che è ancor più lontana dalla retorica patriottarda e militarista cui loro invece sono tanto affezionate.
I Napolitani non hanno confini montani da difendere e soprattutto non gli si scalda il cuore alla vista di soldati in uniforme che sfilano impettiti e marziali, tanto più in quella piazza del ‘plebiscito’ che ricorda proprio l’annessione militare sabauda. Ecco perché il vero interrogativo, più che “ma che vogliono questi alpini a Napoli?”, sarebbe forse: “ma che vogliono questi alpini da Napoli?”. Soprattutto ora, mentre soffiano allarmanti venti di guerra ed i una difficile fase della nostra storia repubblicana, che vede neofascisti e leghisti spartirsi le cariche istituzionali e di gover, mentre la logica militare pervade la società civile.
E quindi: #alpinianapoli? Ma ci facciano il piacere!