LAGO PATRIA: UN PREOCCUPANTE…NEO-NATO

        Lago Patria: un preoccupante…neo-NATO

di Ermete Ferraro *

  1. 1.     Contrastare la militarizzazione della Campania

Nel silenzio e nella generale disinformazione, è spuntato un nuovo, enorme, comando militare dellaNATO, nelle vicinanze del Lago Patria, e quindi nella zona litoranea del comune di Giugliano di Napoli. In un drammatico periodo, contrassegnato da una mai risolta   quanto artificiosa ‘emergenza rifiuti’ e da tanti problemi quotidiani per Napoli e la Campania, potrebbe sembrare fuori luogo mettersi a discutere di basi militari e di porti nucleari. Eppure, proprio perché la percezione della serietà di questi problemi da parte dei cittadini resta molto bassa, bisogna evitare che situazioni gravissime di militarizzazione del suolo e delle acque della nostra regione passino del tutto sotto silenzio. Subalternità politica e provincialismo dei media hanno contribuito al permanere d’una generale disinformazione su temi come il rischio nucleare (che minaccia da anni i porti di Napoli e di Castellammare di Stabia) oppure la realizzazione d’un gigantesco comando ‘alleato’ in prossimità del Lago Patria e del litorale giuglianese-domizio. Le poche notizie su questi argomenti, se e quando riescono a raggiungere i cittadini, danno comunque per scontato che si tratta di qualcosa che non riguarda la loro vita ed i loro interessi, ma alte strategie politico-militari sulle quali, in ogni caso, essi non avrebbero modo d’intervenire e di esprimere un’opinione. Ebbene, contro quest’espropriazione del diritto di sapere e di criticare credo che bisogna lanciare una seria campagna di controinformazione, per accrescere la consapevolezza della gente. Bisogna fare in modo che si formi un’opinione pubblica più informata e critica, che non debba  sottostare ai condizionamenti sia del sistema militare – per sua natura portato a classificare tutto come segreto – sia di politici senza scrupoli, faccendieri ed organizzazioni criminali, che vedono in queste operazioni delle appetitose occasioni per far circolare ed intercettare il denaro pubblico. E’ proprio ciò che vuol fare il Comitato Pace, Disarmo e Smilitarizzazione del Territorio – Campania [1], che opera da molti anni come aggregazione di varie organizzazioni impegnate a contrastare il complesso militare-industriale ed a creare mobilitazioni – dal basso e con metodi nonviolenti – contro la logica perversa del militarismo e della guerra. I suoi principali obiettivi operativi, in questi ultimi tre anni, sono stati la lotta per la denuclearizzazione dei porti della regione ed il contrasto alla militarizzazione di sempre nuove aree del territorio.  Il fatto è che vivere in Campania vuol dire trovarsi immersi in una delle aree più militarizzate d’Europa. Cuore della strategia NATO ed USA, la stessa città di Napoli non si è mai liberata dall’occupazione militare dei suoi ex-Liberatori, costretta da decenni ad ospitare una realtà del tutto estranea. Una realtà svincolata dalle vigenti norme urbanistiche, ambientali e sanitarie, sottratta a qualsiasi controllo da parte di chi dovrebbe governare il territorio e, perciò stesso, al di sopra di ogni principio democratico di trasparenza e di sovranità territoriale. Basterebbe questo, a prescindere da altre considerazioni di carattere specificamente politico, perché i cittadini/e della Campania si debbano mobilitare in difesa dei loro diritti, contro l’arroganza di chi spadroneggia a casa loro, in nome di un’equivoca e non richiesta ‘protezione’.  Questo breve contributo (dopo quello sul rischio dei porti nucleari [2], si propone di fare chiarezza sulla vicenda del trasferimento del Comando NATO da Bagnoli al Lago Patria, in nome d’una democratica controinformazione su questioni che ci toccano tutti da vicino, ma anche per creare le premesse di una mobilitazione contro chi – da troppo tempo –  ha sempre più militarizzato suolo, acque e perfino l’etere della nostra Campania.

2. I precedenti (1980-2000)

Già negli anni ’80 definii questa città estranea dentro la nostra città col nome di Nàtoli e poi, da consigliere provinciale, ripresi quest’ironica denominazione in un articolo del 1992, pubblicato sulla rivista ufficiale dell’ente locale. [3] Il guaio è che, da un bel po’ di tempo, a chi amministra Nàtoli il solo territorio di Agnano, Bagnoli, Nisida e Capodichino stava ormai troppo stretto. Il peso dell’AFSOUTH e dei comandi integrati delle operazioni navali NATO-USA, infatti, era diventato eccessivo, passando dalla sola regione meridionale dell’Europa al controllo dei nuovi scenari strategici balcanici, medio-orientali e, più recentemente, arabo-africani. Ecco allora che, nel 1997, l’allora sindaco di Napoli Bassolino non si fece scrupolo di firmare un protocollo d’intesa col comando AFSOUTH, che prevedeva il suo trasferimento in una mega-struttura di 13 piani, da realizzare nel Centro Direzionale di Napoli. Com’è facilmente immaginabile, questo Pentagono partenopeo avrebbe avuto un enorme impatto urbanistico ed ambientale. Sarebbe stato collocato, infatti, nel bel mezzo di un’area cittadina densamente abitata, tra la stazione ferroviaria centrale, l’aeroporto civile e militare di Capodichino e lo stesso Centro Direzionale napoletano. Grazie all’intervento di “ScardiNATO” – un network ecopacifista promosso da Verdarcobaleno, da Rifondazione Comunista e dalla sezione napoletana di Pax Christi – in quell’occasione riuscimmo però ad opporre una dura reazione, accompagnata dall’informazione diretta dei cittadini dei quartieri popolari limitrofi e culminata in un pacifico corteo di protesta. Probabilmente non furono le proteste dei residenti e di quel comitato a far recedere i vertici NATO dalla progettata relocation del Quartier Generale di Bagnoli. Certo è che, in breve tempo, dell’ipotizzata megastruttura da realizzare al C.D.N. non si seppe più nulla. Ma – bisogna ammetterlo – la soddisfazione per l’obiettivo allora raggiunto ha fatto progressivamente venir meno la mobilitazione degli ecopacifisti napoletani che, negli anni successivi, non hanno saputo intervenire adeguatamente sulla scelta di una nuova area in cui trasferire il vecchio Quartier generale alleato. Dopo vari studi, infatti, essa era stata localizzata dalla NATO nel sito ad una ventina di chilometri a nord-ovest di Napoli, nei pressi del Lago Patria, che già ne ospitava una centrale per le telecomunicazioni, non lontano peraltro dalla potente stazione radar di Licola. La decisione su dove spostare la vecchia sede delle truppe alleate del Sud Europa – dal 2004 denominata Comando AJF (Allied Joint Forces) [4] – fu ratificata a Roma nel 2001 da un Protocollo d’Intesa, sottoscritto dall’amm. J. O. Ellis (Com.te in Capo dell’AFSOUTH) e dall’allora Capo di Stato Maggiore della Difesa, gen. M. Arpino.“Per facilitare il progetto – vi si spiega – fu formato il PMO (Ufficio Multi-nazionale per la Gestione del Progetto. Il suo compito era indicare una moderna struttura per monitorare lo stato dell’arte, che avrebbe massimizzato l’efficienza operativa, ma anche fornito l’intera gamma delle attrezzature ricreativo-assistenziali. Per un progetto di così largo ed alto profilo, il supporto della nazione ospitante è essenziale, per cui il Ministero della Difesa italiano ha generosamente provveduto ad una squadra di collegamento specializzata, il ‘Progetto AFSOUTH 2000’. I suoi compiti includono le relazioni – a nome e per conto di AFSOUTH – con le autorità locali, relativamente a svariate questioni, come la pianificazione delle licenze, gli standard nazionali e la fornitura di servizi pubblici. Nel loro insieme, l’AFSOUTH e la squadra italiana formano il JPCO (Ufficio di Coordinamento Congiunto del Progetto” [5].  Un anno dopo, nel marzo 2002, il nuovo Comandante in Capo della struttura alleata consegnò al Vice-Capo di Stato Maggiore italiano, gen. V. Camporini, il progetto completo del nuovo Quartier generale e delle attrezzature annesse. Completata la gara d’appalto internazionale da parte del governo italiano, ad aggiudicarsi il contratto per la realizzazione delle opere civili fu un consorzio temporaneo d’imprese formato dalle società per azioni italiane “Condotte” e “Sirti”.  Il primo gruppo è la storica società cui sono stati affidati i lavori per l’Alta Velocità nei tratti TO-MI e RM-NA, nonché il faraonico progetto “Mose” a Venezia e, come Eurolink, la realizzazione del progettato ponte sullo stretto di Messina. La seconda è una nota azienda che, da decenni, realizza reti per telecomunicazioni, informatica e sicurezza.

3. Il progetto del complesso “AFSOUTH 2000”

Il nuovo complesso si estende su una superficie di 330.000 metri quadri e, secondo i suoi progettisti, dovrà fornire servizi integrati ad una comunità ampia, impegnata e multinazionale. Ecco perché, in aggiunta all’enorme stabile del Quartier Generale, sono stati previsti anche un Centro Comunitario e tre edifici per alloggi, riservati specificamente al personale NATO di nazionalità statunitense, britannica ed italiana. Nei sei piani – quattro rialzati e due interrati – che compongono il nuovo Comando, sarà ospitato non solo l’AFSOUTH, ma anche il Comando Navale Alleato del Sud-Europa (NAVSOUTH), quello delle Forze di Attacco e di Supporto nella stessa area operativa (STRIKFORSOUTH), nonché le unità di supporto nazionali. E’ stata progettata infine una grande sala-stampa multimediale. Annessi al nuovo Centro Comunitario, infine, ci saranno attrezzature ricreativo-sociali per il personale, fra cui una piscina, una palestra, un campo da tennis e vari punti vendita. E’ stata prevista, inoltre, un’integrazione al progetto, in modo da realizzare anche la struttura che ospiterà la Scuola Internazionale per i figli del personale alleato, la cui sede attualmente si trova nel complesso JFC di Bagnoli. Quello che fa impressione sono i numeri del nuovo complesso, snocciolati dallo stesso sito del JFC.: 2.100 militari e 350 civili presso il Q.G.; 85 chilometri quadri di spazi pavimentati; 600 chilometri di cablaggio; una rete di ben 2.000 computer; 2.227 spazi per parcheggio; 3 chilometri di recinzione perimetrale; 400 persone alla volta servite dalla mensa internazionale; 3 chilometri quadri designati come ‘area a verde’; un auditorium da 300 posti. Un elemento interessante è l’attenzione per alcuni aspetti ambientali, come un’esposizione solare ottimale, per ridurre lo spreco di elettricità e, allo stesso tempo, un sistema per ombreggiare i locali, allo scopo di limitare l’utilizzo di condizionatori d’aria. Gli stessi parcheggi esterni non sono stati pavimentati per intero, per evitare l’impermeabilizzazione del suolo con un migliore drenaggio delle acque pluviali. Dal sito del noto studio di architettura “M. A. Arnaboldi e Patners” che ha curato la consulenza strutturale del progetto [6], si ricavano altri interessanti dati sulla mega-edificio del nuovo Comando NATO del lago Patria. Il volume di costruito è pari a 282.000 metri cubi, su una superficie globale di oltre 60.000 metri quadri, con 2 piani interrati, 1 piano terreno ed altri 4 piani superiori. Il complesso, realizzato in cemento armato sotto e in ferro per le parti elevate, raggiunge un’altezza di 17,30 metri fuori terra. La progettazione è stata affidata agli architetti Camillo e Alessandro Gubitosi, affiancati dagli ‘strutturisti’ Arnaboldi e Chesi e da uno stuolo di collaboratori. La progettazione degli impianti tecnici è stata affidata alla “Cormio Engineering” di Desenzano sul Garda (BS), specializzata in ambito militare e membro del consorzio COIPA. Da altre fonti si ricavano ulteriori dati conoscitivi sull’edificio della “Afsouth 2000”. Ad esempio, sappiamo che gli uffici operativi del Comando NATO saranno ubicati soprattutto nei due piani interrati – presumibilmente per motivi di sicurezza – mentre i cinque piani fuori terra ospiteranno uffici, servizi, depositi ed altri tipi di locali organizzativi, spalmati su 40.000 metri quadri a piano. Al piano copertura, infine, vi è un’area destinata ad alloggiare gli impianti tecnologici, sistemati nella intercapedine del tetto del complesso. L’intera struttura è sottoposta a una classificazione sismica di 3a categoria ed è, ovviamente, protetta da eventuali attacchi terroristici. Da fonti giornalistiche, poi, emerge che, tra residenti e fruitori esterni del nuovo comando, il bacino sarà molto più ampio, intorno alle 5.000 persone. Sono numeri tali, però, da aver subito destato preoccupazione sul piano della mobilità da e per il complesso “Afsouth2000”.  Un numero enorme, se si pensa alla carenza di infrastrutture e vie di collegamento adeguate, in grado di fronteggiare un esodo così massiccio. La costruzione del quartier generale statunitense, una delle basi più grandi d’Italia, anche più della chiacchierata Vicenza, preoccupa e non poco il sindaco Giovanni Pianese, allarmato per gli effetti che gli insediamenti potrebbero avere su un territorio già di per sé devastato da scempi edilizi. Trasferire oltre 500 nuove famiglie senza garantire i necessari supporti logistici ed infrastrutturali, secondo il sindaco di Giugliano, potrebbe comportare il collasso definitivo della zona litoranea. Per questo l’amministrazione comunale, su indicazione dell’assessorato ai Trasporti delle Regione Campania, ha evidenziato come sia il settore dei trasporti quello che ha la maggiore urgenza di essere rivoluzionato, per fronteggiare in modo adeguato l’arrivo di un numero di persone così alto. Sarà affidato ad un professionista esterno, da scegliere attraverso una specifica procedura, il compito di redigere uno studio di fattibilità di un piano di mobilità, un piano di sicurezza stradale e di un piano traffico per migliorare l’accessibilità al nuovo insediamento. Lo studio andrà ad integrare quello già effettuato dagli esperti dello ‘Studio Pisciotta P. & Co.’ di Napoli, commissionato dagli stessi americani, ritenuto però carente in alcuni suoi punti dall’assessorato ai Trasporti della Regione Campania.[7]

4. Le questioni emergenti con l’apertura del nuovo Comando NATO

Al di là del facile umorismo sui ritardi nella realizzazione di un complesso (che gli stessi militari della NATO sembra abbiano ribattezzato “Afsouth 3000”…) per l’estate del 2012 sembra comunque prevista la fase conclusiva della relocation del Comando alleato da Bagnoli al Lago Patria e per i primi mesi del 2013 è fissata l’apertura ufficiale della struttura. Il progetto ha abbondantemente assorbito il finanziamento di circa 165 milioni di euro da parte della NATO e l’Italia, in quanto paese-membro, ha già sborsato la sua quota. Ma quanto ci costa veramente questo ingombrante trasloco? Il problema tecnico più delicato sembra che sia trasferimento della rete di comunicazioni, mentre sarebbero in ritardo le infrastrutture esterne al Comando, di competenza delle autorità nazionali e locali italiani. Per rendere operativo il Comando, inoltre, c’ è bisogno dell’allacciamento della rete fognaria e bisogna raddoppiare gli assi viari esistenti, rendendoli capace di sopportare un traffico di 1400 auto nelle ore di punta. In particolare, la NATO ha invitato il presidente della Regione Campania Stefano Caldoro, il presidente della giunta provinciale Luigi Cesaro ed il sindaco di Giugliano Giovanni Pianese ad un sopralluogo per accelerare sui lavori esterni. Scriveva Stella Cervasio, sul quotidiano “la Repubblica”, ad aprile dello scorso anno:“ Il T Day si compirà alla fine del 2012. Primo dicembre. Suona apocalittico, è invece il termine entro il quale la Nato si trasferirà nel nuovo quartier generale al Lago Patria in via di completamento. Ieri lo ha reso noto il comandante del Jfc Naples ammiraglio Samuel J. Locklear III, che ha ricevuto il governatore Stefano Caldoro e il presidente della Provincia Luigi Cesaro all’ interno delle strutture in costruzione. Qualche bacchettata agli enti locali non è mancata: le infrastrutture subiscono ritardi e il comando Nato è corso ai ripari. […] Il ritardo effettivamente c’ è, e riguarda proprio le infrastrutture. «Sono disponibili 21 milioni di fondi Fas – ha detto il sindaco di Giugliano, Giovanni Pianese- recuperati per le opere mancanti». Il governatore Caldoro ha proposto la nomina di un commissario che prema sull’ acceleratore, che dovrebbe essere proprio il primo cittadino dell’ area interessata, Pianese. «Siamo già in contatto con il sottosegretario Gianni Letta – ha detto Caldoro – con il quale ci incontreremo a breve». E il presidente della Provincia Cesaro: «Il trasferimento da Bagnoli al Lago Patria avverrà entro giugno del prossimo anno e per quella data dovremo essere al passo con le infrastrutture. La Provincia dovrà migliorare la viabilità e per questo sono previsti 5 milioni di euro, c’ è già uno studio di fattibilità che sarà alla base di un protocollo di intesa fra Presidenza del Consiglio dei ministri, Regione, Provincia, Comune di Giugliano e comando Nato. Un’occasione di crescita da non sottovalutare». [8]                                            Il tempo è passato, i soldi pubblici sono stati stanziati, ma ancora non è chiaro quanto questa colossale operazione venga a costare alla comunità locale, sia in termini strettamente economici, sia per quanto riguarda le questioni di sicurezza e quelle igienico-sanitarie. Comunque, facendo un po’ di conti, se sommiamo ai 165 milioni di euro stanziati dalla NATO (e pagati in quota parte anche dall’Italia) i 21 milioni di fondi FAS per le “infrastrutture” viarie, cui si aggiungerebbero altri 5 milioni erogati dall’Amministrazione Provinciale [9], arriviamo alla somma di oltre 190 milioni di euro (circa 380 miliardi di vecchie lire…), cui ovviamente vanno aggiunte altre voci non dichiarate. Si tratta di una cifra spaventosa, soprattutto se pensiamo si tratta di un comando strategico di un’Alleanza militare da oltre un decennio ormai priva della controparte. Per comprenderne l’entità, del resto, basta pensare che per il recupero del centro storico di Napoli, dichiarato dall’UNESCO “patrimonio dell’umanità”, sono stati stanziati appena 10 milioni di euro, in più annualità…..Si tratta di decisioni difficili da far digerire alla comunità locale. Ecco, allora, che ai cittadini del litorale giuglianese sono state offerte, in cambio del terremoto urbanistico ed ambientale provocato dal nuovo insediamento militare, delle “compensazioni” in termini di finanziamenti per opere infrastrutturali. Si tratta del prezzo da pagare per il ‘disturbo’ arrecato, e non importa se a tirare fuori i soldi sono gli stessi cittadini della Campania e se si tratta di somme molto sostanziose e, com’è ovvio, estremamente appetibili per le organizzazioni camorristiche locali. Leggendo bene le dichiarazioni del sindaco Pianese, veniamo informati che:  “L’accordo Operativo prevede il completamento delle reti fognarie urbane (Lotto 1) ‘collettore via San Nullo’ per un importo di 5,4 milioni di euro; il completamento delle reti fognarie urbane (Lotto 3) ‘collettore via Madonna del Pantano’ per un importo di tre milioni di euro; il completamento delle reti fognarie urbane (Lotto 4) ‘collettore via Grotta dell’Olmo’ per un importo di 3,1 milioni di euro; il completamento delle reti fognarie urbane (Lotto 2) ‘collettore viale dei Pini e interventi di adeguamento funzionale’ per un importo di 3,7 milioni di euro” [10]. La verità è che, come giustamente denunciava un anno fa il collettivo anarchico di Livorno, le spese sono state giustificate in nome della solita storiella, secondo la quale questo genere di strutture militari rappresenterebbero un’importante occasione di sviluppo economico ed occupazionale, e quindi una sorta di ‘investimento sociale’. Non a caso, infatti, si è attinto ai FAS, che servono a finanziare lo sviluppo locale e non certo faraoniche strutture che servono solo ad organizzare meglio le presenti e le future guerre nel sud-est del pianeta.           “Insomma – commentavano ironicamente gli autori dell’articolo – i denari stanziati dalla Regione e dal governo per la base NATO di Giugliano, in quanto sotto la voce “fondi Fas”, passeranno alla storia finanziaria del Paese come spese per lo sviluppo del Mezzogiorno, secondo la regola aurea che impone che al danno debba sempre accompagnarsi la beffa…” [11]

 5. Problematiche e indicazioni operative per una mobilitazione popolare

Le fonti di documentazione su ciò che sta accadendo al Lago Patria – a parte quelle citate e qualche altra notizia generica – dimostrano quanto sia grande la disinformazione dei cittadini ma anche la…distrazione dei movimenti politici, sindacali, ambientalisti e degli stessi pacifisti su questa sconcertante vicenda. Ecco perché bisogna recuperare il tempo perduto e lanciare una campagna d’informazione ed opposizione a quest’ennesima occupazione militare del nostro territorio, che di tutto ha bisogno meno che di nuove basi USA e NATO. Il primo elemento per ogni mobilitazione nonviolenta è, ovviamente, la controinformazione e la crescita della consapevolezza della comunità locale, finora rimasta silenziosa o perfino abbagliata dal miraggio dei possibili investimenti in quell’area.  E’ evidente, a tal proposito, che è già partita invece la campagna di sensibilizzazione e di ‘fraternizzazione’ con la comunità locale, messa opportunamente in atto dalle ‘relazioni pubbliche’ del Comando JFC di Napoli, coinvolgendo anche l’amministrazione comunale e membri della cittadinanza in incontri bilaterali, come riferito dallo stesso sito della NATO [12)  E’ per questo motivo che il Comitato Pace Disarmo e Smilitarizzazione del territorio – Campania  si sta adoperando perché tutte le organizzazioni democratiche presenti in quel territorio s’incontrino e stabiliscano un osservatorio permanente sull’insediamento Afsouth 2000 al Lago Patria. Bisogna studiare il progetto da tutti i punti di vista, verificare le autorizzazioni e licenze rilasciate dall’ente locale, ma anche monitorare chi concretamente sta operando in loco, tenuto conto del fatto che si tratta di un territorio dove da sempre spadroneggia la camorra. Si sta cercando, quindi, di organizzare pubbliche assemblee con i cittadini, per informarli di quello che sta accadendo e delle ricadute negative – ambientali, sanitarie e socio-economiche – di questa faraonica struttura.  Occorre una rinnovata capacità di mobilitazione popolare, oltre che di prese di posizione più chiare da parte di organizzazioni sociali e politiche strutturate – per impedire che tutto si realizzi senza un’opposizione, ferma e responsabile, ad un progetto che non porterà né sviluppo né occupazione, ma solo nuove servitù militari, rischi nucleari e da emissioni elettromagnetiche, con evidenti danni alla comunità locale ed alle stesse attività turistiche del litorale giuglianese-domizio. Si tratta, infatti, di un territorio nel quale si concentrano non solo enormi rischi per la salute e l’ambiente – dovuti alle discariche ufficiali ed abusive ed all’inceneritore che si vuole realizzare – ma anche tre siti militari di grande peso strategico: il centro telecomunicazioni e nuovo comando NATO di Lago Patria, il centro radar di Licola e la base aerea USA di Gricignano di Aversa. Il vero problema, allora, è riuscire a fare una controinformazione efficace, facendo uscire la popolazione locale dal torpore rassegnato, spesso misto all’illusione di trarre qualche vantaggio da una simile, abnorme, situazione. Per conseguire il risultato della mobilitazione di cittadini consapevoli e determinati, bisogna distinguere opportunamente i vari problemi connessi all’apertura del nuovo comando JFC di Lago Patria, per poi mostrarne le varie interconnessioni.

1.      Rischi per la salute > L’area in cui si è deciso di trasferire il quartier generale della NATO per l’Europa Meridionale è una delle più disastrate del nostro Paese – e forse d’Europa – dal punto di vista ambientale e sanitario. Una persona estremamente documentata ed attiva, su questo piano, è Giampiero Angeli, un colonnello dell’Esercito Italiano in pensione, vittima in prima persona di quest’inquinamento ed autore di un libro-denuncia dal significativo titolo “Veleni nelle terre di camorra”. [13] Questo e-book (la cui sintesi è possibile trovare in un video dello stesso autore [14] ) costituisce infatti una fonte molto importante per comprendere quanto e come la malavita organizzata sia riuscita ad intossicare una delle aree più fertili della Campania. Citando fonti ufficiali (SOGIN, APAT, ARPAC e la stessa US Navy…), il col. Angeli riferisce puntigliosamente sulle analisi effettuate da questi enti, che attestano la presenza nel territorio di Castelvolturno e del litorale giuglianese di una quantità incredibile di sostanze tossiche. Sono metalli pesanti (antimonio, arsenico, cobalto, cromo, mercurio etc.), ma anche fluoruri, nitriti, solfati, diossine, furani, fitofarmaci come il DDT, idrocarburi policiclici aromatici e perfino amianto.                                                                           In Campania c’è un problema globale di inquinamento: qui, grazie agli “amici di Casale”, siamo al vertice dell’inquinamento mondiale. […] Nelle zone di Acerra, Regi Lagni e Castelvolturno è documentata la presenza di ogni tipo di inquinante chimico. Le certezze scientifiche ci sono. Gli americani hanno fatto un monitoraggio sull’acqua (in zona sorgono basi Usa, ndr): hanno rilevato solo il tetraclorotoluene nell’acqua. Hanno fatto una relazione sul rischio per la salute e hanno dichiarato questo rischio inaccettabile. E i valori da loro riscontrati sono molto più bassi rispetto a quelli trovati ad Acerra e Castelvolturno…” [15]  Questa situazione, per la sua stessa enormità, può diventare un serio argomento per contestare l’assurdità della scelta di collocare proprio in questa terra di veleni e di camorra un faraonico comando strategico. Esso, infatti, accrescerà l’urbanizzazione del territorio del litorale giuglianese (si parla di 5.000 presenze in più), con tutte le conseguenze negative sull’inquinamento dell’aria, delle acque e dell’etere, dovuto ad enormi antenne che producono elettrosmog. Il fatto che il quartier generale alleato sia stato posizionato in un’area che la stessa NATO ritiene inadeguata ed a serio rischio per la salute, pertanto, può consentire un discorso rivolto sia alla popolazione civile sia a quella militare, in nome della tutela del fondamentale diritto di tutti alla salute.

2.      Rischi per la sicurezza > Probabilmente in nessun’altra parte si registra, a distanza di pochi chilometri, una simile concentrazione d’installazioni militari. Il “triangolo” Gricignano-Lago Patria-Licola, infatti, ha militarizzato in modo intollerabile questa sventurato territorio della Campania. Contiguo all’area Nola-Acerra-Marigliano (che la rivista scientifica “Lancet” definì “il triangolo della morte” ), dominato dalla camorra, sede non solo di discariche abusive di rifiuti di ogni genere ma anche di enormi discariche ufficiali, come quella di “Taverna del re”, il territorio giuglianese è stato designato anche ad ospitare il nuovo inceneritore della Campania. L’assurda tendenza a fronteggiare il dissenso delle popolazioni locali militarizzando i siti di stoccaggio e gli impianti per la c.d. ‘termo-valorizzazione’ dei rifiuti, inoltre, accresce la sensazione di trovarsi in un’area di guerra, dove però gli avversari non sono i camorristi bensì i cittadini che protestano…Non bisogna essere dei ‘profeti di sventura’ per notare che la concentrazione in un’area così ristretta di due impianti per telecomunicazioni e rilevazioni radar, d’una base aeronavale USA e del comando della  NATO per tutto lo scacchiere strategico meridionale accresce enormemente anche i rischi per la sicurezza della comunità locale. Che si tratti di atti di terrorismo oppure di potenziali risposte armate all’accresciuta tensione militare della NATO sui paesi del nord-Africa e del vicino e medio Oriente, sembra difficile negare che l’incredibile vicinanza di simili impianti possa trasformare questa zona in un evidente obiettivo strategico.

3.      Rischi per l’ambiente > Ho già fatto cenno ai rischi sanitari ed ambientali per  l’inquinamento elettromagnetico dovuto alle antenne per telecomunicazioni militari del nuovo comando JFC di Lago Patria, sia preesistenti sia di nuova installazione. Su tale questione il Comitato Pace e Disarmo solleciterà un monitoraggio da parte degli enti competenti ed effettuerà verifiche sulle relative autorizzazioni amministrative e sanitarie. Esistono però anche altre problematiche ambientali, derivanti dalla prevedibile urbanizzazione aggiuntiva, autorizzata o abusiva, intorno all’area del quartier generale della NATO. La realizzazione d’infrastrutture civili a servizio della base militare (fognature e sottoservizi vari), infatti, ha già accresciuto il valori dei terreni ancora abbandonati e di natura paludosa che la circondano, facendo crescere gli appetiti degli speculatori. E’ inutile dire che un aumento notevole della popolazione residente, fra l’altro, accrescerà i già presenti problemi di viabilità, aumentando il tasso d’inquinamento atmosferico, e che la stessa produzione di rifiuti urbani metterà a dura prova la fragile struttura di raccolta, riciclaggio e smaltimento degli stessi.

Concludendo, mi sembra che la somma di queste sole tre gravi problematiche, a prescindere dall’opposizione alla dilagante militarizzazione del territorio ed alla stessa ragion d’essere di un’alleanza militare come la NATO, basti a creare un variegato fronte di mobilitazione dei cittadini di Giugliano. Rivendicare il diritto alla salute, alla sicurezza ed alla tutele dell’ambiente sono questioni che trovano la loro prima fonte nella stessa Costituzione della nostra Repubblica, ma che richiedono una particolare determinazione in un territorio dove nulla è davvero normale.  Le responsabilità dei politici sono enormi e vanno denunciate. E’ però giunto il momento di riscoprire il protagonismo della gente e nuove forme di lotta nonviolenta, coinvolgendo tutti i soggetti che non si rassegnino ad accettare passivamente l’aggressione al territorio e la sua sottrazione alle norme basilari della dialettica democratica.

NOTE:

1. Visita il sito: www.pacedisarmo.it

2. Ermete Ferraro, A propulsione antinucleare, Napoli, 2010 (pubbl. su Pace e Disarmo)

3. Ermete Ferraro, “La provincia di…Nàtoli?” in: La Provincia di Napoli, 1992, XIV-1/3, Napoli, Ann.Prov. di Na.

4. http://www.jfcnaples.nato.int/

5. http://www.jfcnaples.nato.int/page11545845.aspx

6. http://www.arnaboldiepartners.it/NAPOLI/NAPOLI.html

7. A. Mangione, “Lago Patria: nel 2012 l’apertura della base NATO, InterNapoli.it , 19.01.2010 http://www.internapoli.it/articolo.asp?id=17281 – Leggi anche l’articolo sulla recente visita dell’Amm. Bruce W. Clingan (Comandante del JFC) al compound di Lago Patria > http://www.jfcnaples.nato.int/page372603537.aspx

8. Stella Cervasio, “NATO, via al trasferimento da dicembre al Lago Patria”, la Repubblica, Napoli, 2 aprile 2011

9. L. Cesaro, “La nuova base di lago Patria un’opportunità per il territorio”, Ag. Stampa La Provincia di Napoli, 01.04.2011

10. Giugliano, Base Nato: compensazioni ambientali per insediamento militare a Lago Patria” , redazione di Julie News, 02.03.2011

11. “Locklear si fa la base NATO a spese della Regione Campania”, in Collettivo Anarchico Libertario, Livorno, 09.04.2011 (da www.comidad.org)

12. vedi: http://www.jfcnaples.nato.int/page372604617.aspx  

13.http://www.lafeltrinelli.it/products/9788865420942/Veleni_nelle_terre_della_camorra/Giampiero_Angeli.html  

14. http://www.youtube.com/watch?v=ZcyYIOA4eC0

15“Ecco come i Casalesi mi hanno avvelenato”, articolo-intervista a G. Angeli di V. Ceva Grimaldi, pubblicato da “Terra” il 18.02.2010 (http://www.terranews.it/category/tag/giampiero-angeli )

PER LA NOSTRA TERRA, GIORNO DOPO GIORNO.

In occasione della Giornata Mondiale della Terra (22 aprile 2012), si sono moltiplicate le iniziative per fare il punto sull’impatto della nostra distruttiva impronta ecologica sul Pianeta azzurro e per proporre azioni concrete per invertire la rotta. Quest’anno la parola d’ordine è stata: “Mobilitiamo il Pianeta”, per sottolineare sia l’urgenza di questa “conversione ecologica” sia la necessità di coinvolgere al massimo la gente qualunque e di qualsiasi paese in tale ‘mobilitazione’ generale.

Persone che, giustamente, sono arcistufe di costosi ed inconcludenti summit e, più in generale, delle solite passerelle internazionali, che lasciano il tempo che trovano o, peggio, fanno trasparire l’impegno puramente formale dei governi. Al contrario – sottolinea il sito web italiano per l’Earth Day (http://www.giornatamondialedellaterra.it/terra/?p=2542 ) – “…il popolo ambientalista … si sta decisamente orientando verso una sensibilità diffusa, quotidiana e costante” e sempre più persone (si parla di un miliardo…) manifestano l’intenzione di darsi da fare per proteggere la Terra, attraverso tantissime buone azioni dirette oltre che con la pressione democratica su organizzazioni e governi che continuano ad andare nella direzione sbagliata.

La cosa più stupida da dire – ma che troppo spesso sentiamo ripetere proprio da quelli che dovrebbero richiamarci alla responsabilità – è che sarebbe la crisi economica, con la sua impronta recessiva, ad imporci priorità diverse, che pongono ovviamente in secondo piano la questione ambientale. Si tratta di un’affermazione, al tempo stesso, sciocca e maledettamente ipocrita, dal momento che la crisi economica mondiale e locale, frutto d’un modello di sviluppo iniquo quanto devastante, non si cura certo con una sempre maggiore mercificazione di ogni risorsa né attenendosi alle compatibilità di un sistema capitalista sempre più alla deriva.

In un mio precedente articolo, intitolato provocatoriamente “Un ambientalismo senza l’ambiente?” (https://ermeteferraro.wordpress.com/2012/04/01/un-ambientalismo-senza-lambiente/) mi sono già soffermato sull’assurdità di chi, pur ammettendo candidamente l’impatto umano come causa della preoccupante e progressiva modificazione degli ecosistemi terrestri, è giunto ad ipotizzare il superamento del concetto stesso di Natura come un romantico retaggio da sostituire con un rinnovato, fideistico, antropocentrismo. La teoria dell’Antropocene come nuova era geologica è, infatti, un’evidente mistificazione della triste realtà che, purtroppo, è sotto gli occhi di tutti e che ci porterebbe semmai a qualificare la nostra specie con la denominazione di “Homo Insipiens”.

Lo stesso insinuante e ricorrente appello allo “sviluppo sostenibile” ed al rilancio della “green economy” – se decontestualizzato e strumentalizzato – diventa l’ennesima mistificazione della Neolingua corrente. La verità – al di fuori degli arzigogoli retorici di chi parla per ossimori per confonderci le idee – è che la stessa parola sviluppo è stata per troppo tempo manipolata e ridotta erroneamente a sinonimo di crescita o di progresso, connotandola come un processo illimitato, rettilineo  ed a senso unico. Al contrario, proprio in base alla sua stessa etimologia, sviluppare si caratterizza come un’azione a spirale, che libera i soggetti da ciò che li ‘avviluppa’ (cioè li lega, bloccandone la capacità di esprimersi liberamente), facendone così emergere le capacità e valorizzandone le potenzialità.

Non a caso, chi parla di decrescita, come il gruppo italiano che ha promosso la mobilitazione per la Giornata della Terra (http://www.decrescita.com/) vuole richiamarci all’esigenza ed all’urgenza d’invertire il senso della nostra trionfalistica marcia verso la sottomissione totale dell’ambiente terrestre non tanto alle esigenze della specie umana, quanto di una ridotta percentuale di esso (non più del 20%) che vuole controllarne le risorse a danno del restante 80% dell’umanità, oltre che dei già compromessi equilibri ecologici.

Il mio amico e maestro – Antonio D’Acunto – ha dedicato a questa particolare giornata un bellissimo articolo, pubblicato come editoriale sul sito web di V.A.S. (Verdi Ambiente e Società), l’associazione nella quale insieme c’impegniamo da parecchi anni, a Napoli e in Campania (http://www.vasonlus.it/per-la-stampa/gli-editoriali). In questo intervento – impregnato d’una poeticità eccezionale ed improntato ad un laico rispetto per i ‘doni’ della Natura – egli, saggiamente, richiama tutti alla “superiore necessità d’invertire il futuro dell’Umanità, verso il Pianeta della Biodiversità”. Ma attenzione: non si tratta di un appello a cercare un fantascientifico pianeta su cui trasferirci. Al contrario, è un accorato invito a riscoprire l’eccezionale bellezza della nostra vecchia Terra, in tutti gli aspetti che l’urbanizzazione selvaggia sembra aver cancellato dalla nostra sensibilità e perfino dalla nostra percezione sensoriale. La luce di un tramonto, il richiamo stridente delle rondini, perfino gli spaventapasseri nei campi di grano, sono diventati ormai lontani ricordi per chi ha una certa età ed esperienze sconosciute per i ragazzi cresciuti a smart-phone, i-pod e merendine. La stessa vita quotidiana in città è sempre più avvolta da una grigia coltre di cemento asfalto e plastica, per cui si deve far ricorso ad apposite ‘visite didattiche’ per ricordare ai nostri figli che la natura non è il cane di casa ed il prato di erba sintetica del campetto dove giocano a pallone.

“Nelle città tutto si fa per cancellare la Biodiversità; la naturalità naturalmente non esiste ed ogni possibilità di rinaturalizzazione viene immediatamente elusa: i parchi, i giardini, gli stessi viali ed alberature di strade diventano sempre più rari e quei pochi che vi sono, piccoli o grandi che siano, vengono resi sempre più inospitali o anche mortali per ogni forma di vita diversa dall’Uomo. […]Tutto ciò che distrugge la biodiversità è presente e ritenuto frequentemente “fattore di crescita” nel nostro Paese.” (ivi).

In queste parole di Antonio D’Acunto mi sembra di risentire gli echi della malinconia agrodolce di cui erano pervase, già 40 anni fa, le pagine del “Marcovaldo” d’Italo Calvino, una nota raccolta di novelle non a caso sottotitolata “le stagioni della città”, dalla quale ho tratto questa citazione:

“Papà” dissero i bambini, “le mucche sono come i tram? Fanno le fermate? Dov’è il capolinea delle mucche?” “Niente a che fare coi tram” spiegò Marcovaldo, “vanno in montagna.” “Si mettono gli sci?” chiese Pietruccio. “Vanno al pascolo a mangiare l’erba.” “E non gli fanno la multa se sciupano i prati?”

L’articolo di D’Acunto è un entusiastico inno alla biodiversità che gli esseri umani, invece, stanno stoltamente cercando da decenni di cancellare. Lo fanno appiattendo e semplificando la complessità biologica naturale o sostituendosi alla stessa natura nella ‘creazione’ di nuove specie vegetali ed animali, ma sempre con la presuntuosa ybris  di chi, come l’omino della pubblicità della banca, ha deciso di costruire l’ambiente intorno a sé, a proprio uso e consumo.

“C’era una volta un litorale, una duna meravigliosa…”: è questo l’elegiaco ricordo di qualcosa che gli uomini stanno facendo scomparire a poco a poco, convinti che la loro missione è la colonizzazione ed urbanizzazione di ogni residuo spazio naturale “…spianando, livellando, igienizzando e confortizzando gli.”inospitali” spazi della macchia che la Natura aveva costruito…”. (ivi)

E’ per questa ragione che celebrare la “Giornata della Terra” è sicuramente cosa buona e giusta, ma ancor di più lo sarebbe un impegno continuativo, assiduo e costruttivo, per difendere davvero il nostro Pianeta da quest’incalzante minaccia alla sua stessa sopravvivenza. Non si tratta di essere i soliti, apocalittici, ‘profeti di sventura’. Se non si cambia rotta – ciascuno in prima persona e tutti insieme per costringere chi ci governa – non ci aspetta il trionfo dell’Antropocene, ma il disastro annunciato dell’Ecuméne.

Bisogna stare attenti, però, a non puntare solo sulla responsabilità dei singoli o, in alternativa, su quella esclusiva di chi ha il potere di decidere per tutti. L’ambientalismo minimalista dei soli ‘piccoli gesti’ può risultare negativo quanto quello che combatte solo le “strutture”, offrendo comodi alibi alle nostre scelte quotidiane che invece avallano il ‘sistema’. C’è bisogno di protagonismo individuale e familiare, in materia ambientale, ma anche di coinvolgimento dei corpi intermedi delle società, cioè le comunità locali, i gruppi organizzati, le organizzazioni.  Non a caso, in altri tempi, persone come me hanno sostenuto la necessità che un soggetto politico ecologista praticasse necessariamente anche un’autentica ecologia della politica. Purtroppo, come sappiamo, è prevalsa la stridente sfasatura tra prospettive e presente, tra teoria e prassi, e siamo tristemente giunti al punto in cui la teoria è del tutto scomparsa, lasciando campo libero al pragmatismo utilitarista e spregiudicato.

Ecco, allora, che intanto – nel silenzio assordante dei media – nella sola Africa ben 60 milioni di ettari di terra coltivabile sono già stati accaparrati da investitori stranieri. Ed è proprio in Africa ed in America del Sud che si trovano, in base ad una stima, l’80% delle risorse mondiali di terreni agricoli. Secondo la “International Land Coalition” , sarebbero addirittura 200 i milioni gli ettari di terra coltivabile che sono stati resi oggetto di negoziazione, per la loro vendita o affitto, per finalità agricole o bioenergetiche. Questi dati, tratti dal numero di febbraio 2012 del mensile missionario “Comboni-Fem” sul triste fenomeno del “land grabbing” (vedi: http://www.combonifem.it/articolo.aspx?t=M&a=4709#), sono però assai poco conosciuti e dimostrano la colpevole disattenzione di tanti organi informativi, anche ‘progressisti’, su queste tematiche.

Il fatto è che, prescindendo dalla coscienza ambientalista laica di alcuni individui come D’Acunto, c’è sempre più bisogno di un’etica della responsabilità ambientale da parte dei credenti.  Il nostro positivismo razionalista – come ha dichiarato Benedetto XVI nel suo discorso dello scorso dicembre al Bundestag tedesco – “assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. […] Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra, ed imparare ad usare tutto questo nel modo giusto”. (cit. in mio post di dicembre 2011: https://ermeteferraro.wordpress.com/2011/12/26/edifici-in-cemento-ma-senza-finestre/ .  Ecco, spalanchiamo le finestre e riscopriamo la bellezza e la perfezione di un pianeta di cui dovremmo essere solo attenti amministratori e custodi, non sprezzanti padroni. E facciamolo in modo che questa ‘giornata della Terra’ duri molto più di una giornata…

© Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

 

Digressione

Premetto che ho un’abitudine che ritengo positiva: evito di sentenziare, parlando o scrivendo, su cose che non conosco a sufficienza e che non ho approfondito. Per uno come me, che di problemi connessi alla pace ed alla nonviolenza si occupa dai lontani anni ’70, è difficile, però, non prendere posizione su una questione scottante come quella riguardante l’opposizione al regime siriano e le prospettive d’un intervento militare esterno, che tanti continuano ad evocare come ‘la’ soluzione.

Eppure non è facile assumere una decisione, quando si è costretti a farlo all’interno della capziosa scelta obbligata tra democrazia e pace, sulla quale lo stesso movimento pacifista italiano, già non molto in salute, recentemente sembra essersi spaccato in due tronconi.

Mi viene in mente Ulisse e la sua mitica ed ingegnosa sfida alle sirene, che avrebbero voluto farlo naufragare attirandolo tra Scilla (“colei che dilania”) e Cariddi  (“colei che risucchia). Lo scaltro Odisseo se la cavò facendosi legare e turare le orecchie, in modo da riuscire a guardare in faccia le due mostruose creature, resistendo però alle loro tentazioni.

Nel mio piccolo, anch’io allo stesso modo non vorrei farmi trascinare in un’assurda scelta fra la Scilla di un intervento armato e la Cariddi di una neutralità che scivoli nella complicità col regime di Assad.  Mi sembra infatti abbastanza evidente che la questione siriana, come viene posta dalla maggioranza dei media, sia l’ennesima dimostrazione del solito, subdolo, armamentario di propaganda bellicista travestita da reazione internazionale ad un regime sanguinario. Proprio su questo particolare aspetto mi sono recentemente soffermato in due articoli sulle “Psy-Ops” che il complesso militare-industriale organizza da sempre, utilizzando le sofisticate armi della guerra psicologica e reclutando insospettabili alleati perfino in campo opposto (1).

Sono peraltro convinto che simili tecniche non siano estranee neppure alla propaganda dei pacifisti a senso unico, sempre pronti ad additare i complotti interventisti dell’imperialismo dei petrodollari, ma troppo reticenti sulle feroci dittature cui le rispettive popolazioni tentano di opporsi, spesso in modo diretto e nonviolento. Ecco perché un po’ tutti, come Ulisse, per non farci ammaliare dalle sirene delle contrapposte propagande, dobbiamo demistificare le loro campagne mediatiche, evitando di cadere nella trappola di chi utilizza una sorta di ricatto psicologico per farci propendere per una o per l’altra soluzione. Scegliere tra due mezze verità, infatti, significa accettare comunque almeno una mezza menzogna. Ma per chi crede che la Nonviolenza sia “la forza della verità” (il gandhiano satyagraha) questa non è certo la soluzione giusta.

Fra la dilaniante Scilla di una pelosa solidarietà coi ribelli, che puntualmente culmina in un’illegittima e violenta aggressione armata allo ‘stato canaglia’ di turno, e la risucchiante Cariddi di un antimperialismo    ‘a prescindere’, che finisce però col legittimare le peggiori dittature, sono convinto che esista una terza possibilità. L’alternativa sia all’interessato interventismo militare sia al colpevole disimpegno negazionista va cercata in ciò che, da decenni, i pacifisti hanno chiamato ‘difesa popolare nonviolenta’, intendendo con questa formula la resistenza civile non armata e sociale di un’intera popolazione al proprio regime dittatoriale, così come ad un’occupazione militare straniera. Il vero problema è che il dibattito avviato positivamente in Italia sulla difesa popolare nonviolenta (DPN) e sulle tante esperienze storiche di resistenza popolare e dal basso a regimi ed occupazioni, alla fine degli anni ’90, si è purtroppo arenato nelle secche di un’incostituzionale controriforma governativa, sulla quale nessuna forza politica ha mai detto una parola. L’abolizione del servizio di leva, infatti, ha scardinato l’ipotesi pazientemente costruita di una componente strettamente civile e nonviolenta delle difesa italiana, facendo sparire in un sol colpo sia gli obiettori di coscienza sia l’ipotesi d’un servizio civile finalizzato alla DPN. In questo quadro – ottimamente sintetizzato in un articolo di Antonino Drago pubblicato anche sul sito di Peacelink (2),  non c’è da meravigliarsi se il dibattito su questa reale alternativa alla difesa ed alla resistenza armata si è progressivamente spento tra gli stessi pacifisti, restando invece confinato al livello teorico di una “ricerca sulla pace” esclusivamente accademica. Lo stesso termine “nonviolenza” ha da troppo tempo cominciato a perdere la sua valenza alternativa, riducendosi ad una semplice etichetta politicamente neutra o, nei casi peggiori, diventando imbarazzante copertura per discutibili istituzioni internazionali, spesso foraggiate da fondazioni, multinazionali e perfino ministeri della difesa.  Mentre i veri nonviolenti perdevano tempo prezioso a disquisire sulla soluzione migliore, dibattendo ad esempio tra “difesa sociale” e “difesa nonviolenta”, una spregiudicata cricca d’intellettuali si è di fatto appropriata questo termine, non più come idea rivoluzionaria e globale, bensì come denominazione di comodo, che offrisse una sponda “pacifista” alle strategie interventiste dei governi “alleati”. A tal proposito, è quanto meno sconcertando scoprire che due delle più autorevoli istituzioni americane intitolate alla nonviolenza – l’Albert Einstein Istitution, il cui leader è Gene Sharp, e l’International Center for Nonviolent Conflict (ICNC), guidata dal finanziere miliardario Peter Ackerman, sono regolarmente finanziate dalle maggiore Corporations, da Fondazioni come la Ford se non, direttamente, da istituzioni patriottiche legate al Pentagono. (3) 

E’ fin troppo evidente il rischio che questo ambiguo sostegno di ambienti finanziari e militaristi alla strategia nonviolenta finisca con lo screditare del tutto le proposte di simili istituzioni, anche quando – come nel caso del guru nonviolento Gene Sharp – esse restino comunque ancorate al rifiuto della resistenza armata e degli interventi militari stranieri. (4)  Questa, però, non è una buona ragione per rinunciare alla ricerca di una strategia davvero popolare, sociale e nonviolenta per sostenere l’insurrezione dei Siriani contro il regime di Assad, pur escludendo categoricamente ogni implicazione in un nuovo, assurdo, intervento bellico in Siria.

Un’utile scheda, curata da Davide Berruti per “Unimondo” può aiutarci a riconoscere le caratteristiche di un’autentica alternativa alla difesa armata, ciò che la rende “difensiva”, “popolare” e “nonviolenta”.  Contrariamente a quanto vorrebbe farci credere una retorica propaganda neo-risorgimentale e ‘partigiana’  (che in Italia sembra accomunare in modo preoccupante la destra ‘liberale’ a quello che resta della sinistra parlamentare, contagiando perfino alcuni pacifisti nostrani), la verità è che un intervento esterno in Siria non agevolerebbe per nulla il “movimento di liberazione” in atto in quel paese, ma innescherebbe reazioni ‘a catena’ ancor più preoccupanti ed imprevedibili.

“Diversamente da quanto accade oggi, quando in presenza di guerre che l’Occidente combatte quasi esclusivamente in territorio straniero, la “difesa” dei diritti umani e della democrazia appare un concetto non sempre distinto dagli interessi di tipo economico o politico. Ecco dunque che la prima condizione che si deve verificare affinché si possa parlare di DPN è che si tratti inequivocabilmente di azioni di “difesa”. D’altra parte la forza di mobilitazione nei casi di intervento all’estero è senz’altro minore e sempre più spesso i sistemi di reclutamento sono basati su incentivi di tipo economico e/o a campagne di sensibilizzazione di tipo nazionalistico e retorico. Questo contraddice con il secondo elemento fondamentale della DPN, ovvero il fatto che sia “popolare” oltre che civile, nel senso che viene avvertita come un impegno condiviso da tutti. Questa è la diretta conseguenza del primo termine “la difesa”: un evento così drammaticamente importante che non può essere delegato ad una struttura esterna (tanto meno privata come nel caso di eserciti di mercenari o “agenzie private di sicurezza”) ma deve essere assunta dall’intera popolazione come impegno primario e fondamentale. Solo su queste basi teoriche il risultato sarà una difesa “efficace” in quanto diffusa, radicata, ampia e completa…” (5)

Ecco perché sono convinto che un intervento straniero nel conflitto siriano, per di più armato e sponsorizzato da chi ha fin troppo evidenti interessi in quello scenario, non potrebbe in nessun modo configurarsi come sostegno all’autentica resistenza nonviolenta di quella popolazione e ad una nuova ‘primavera araba’. Si configurerebbe infatti come un oggettivo appoggio all’ala più militarista ed islamista di quel movimento, seguendo lo sciagurato copione già troppo spesso messo in scena in quel contesto geo-strategico.

E’ altrettanto chiaro, d’altra parte, che non è più sufficiente prendersela col complotto imperialista guidato dagli USA, con la complicità degli stati arabi fidati e dei soliti ‘falchi’ europei. Smascherare le strategie palesi ed occulte di chi vuole l’ennesima guerra è un passaggio necessario, ma non può esaurire la proposta di chi si oppone ad essa ma non vuol chiudere gli occhi di fronte alla dura repressione che si è abbattuta sugli oppositori al regime di Assad.

Ha fatto bene Jean-Marie Muller – un altro ‘maestro’ della Nonviolenza – a dichiarare, nel luglio del 2011:

 “ L’ingerenza politica s’impone. L’urgenza è ripensare l’azione della comunità internazionale in materia di prevenzione e gestione dei conflitti e di sperimentare i metodi dell’intervento civile e nonviolento, aprendo uno spazio politico in cui possano esprimersi le iniziative di pace delle società civili…” (6)

Il guaio è che, in questi mesi, dall’insurrezione inizialmente disarmata e spontanea di tanti Siriani si è passati alla rappresentanza ufficiale del movimento da parte d’un autoproclamato “Esercito di Liberazione della Siria”, sempre più armato ed eterodiretto dai ‘soliti noti’, che non esitano ad utilizzare le armi della guerra psicologica per accrescere la tensione in quell’area e l’allarme degli stati vicini. Resoconti da quel Paese, benché parziali se non palesemente manovrati dai servizi segreti, sono puntualmente e supinamente ripresi dai media nostrani, che puntano sull’emotività per legittimare immancabili “interventi  militari umanitari”.

Solidarizzare con la legittima reazione alla lunga e pesante dittatura baathista, però, non deve impedirci di notare che quest’ennesima ‘primavera araba’ – al di là del palese sostegno occidentale – sta sviluppando ancora una volta preoccupanti spiriti islamisti, aprendo scenari che hanno poco a che vedere con la “democrazia” di cui si fanno interessate paladine le potenze occidentali.

Ha ragione, allora, ad indignarsi Johan Galtung – un altro dei ‘padri’ storici della terza via nonviolenta – quando in un recente articolo ha dichiarato:

“Siamo tutti disperati nell’assistere alle orribili uccisioni, alla sofferenza di chi è privato di tutto, dell’intero popolo. Ma che fare?Potrebbe essere che l’ONU, e i governi in generale, abbiano la tendenza a ripetere sempre lo stesso errore di mettere il carro davanti ai buoi? La formula che usano generalmente è:[1] Liberarsi del n° 1 come responsabile chiave, usando sanzioni; quindi [2] Cessate-il-fuoco, appellandosi alle parti, o intervenendo, imponendo; [3] Negoziato fra tutte le parti legittime; e quindi [4] Una soluzione politica quale compromesso fra le varie posizioni…”  (7)

L’ONU si ostina a seguire sempre lo stesso copione ma, per il celebre peace researcher, sarebbe opportuno invertire quella sequenza, partendo dall’ultimo punto (la soluzione politica), per poi giungere all’armistizio, seguito dall’uscita di scena di Assad. Ma poi, argomenta Galtung, chi ha detto che di soluzione ce n’è solo una? Moltiplichiamo il dialogo tra la popolazione siriana, promuovendolo con l’utilizzo di “facilitatori” dell’ONU, di veri esperti in mediazione popolare, e la forza della creatività avrà la meglio. Ciò che bisogna assolutamente evitare, però, è che si continui a cercare una soluzione con le braccia cariche di armi, alimentando odi e scontri quotidiani. Una soluzione si può sempre trovare ma, ammonisce Galtung:

Non con la violenza. Chiunque vinca sarà profondamente inviso agli altri, in una casa e una regione così profondamente divisa contro se stessa. Non con sanzioni, indipendentemente da quanto profonde e ampie, con la partecipazione di Russia e Cina. È come punire una persona con microbi e il suo sistema immunitario che sta lottando all’interno perché ha la febbre. Più il paziente è debole, più è contagioso. Quel che viene in mente è una soluzione svizzera. Una Siria, federale, con autonomie locali, addirittura a livello di villaggio, con sunniti, sciiti e curdi che intrattengano rapporti con i propri affini attraverso i confini. Un peacekeeping internazionale, anche per proteggere le minoranze. E non-allineata, il che esclude basi straniere e flussi di armi, ma non esclude affatto un arbitraggio obbligatorio per le Alture del Golan (e l’assetto post-giugno 1967 in generale), con lo status di membro ONU in gioco per Israele.” (8)

In un suo articolo su“Waging Nonviolence” Erik Stoner – giornalista e blogger nonviolento, membro del direttivo statunitense della War Resisters’ League – si è soffermato sulla “disciplina nonviolenta come chiave per il successo della rivolta in Siria”. In questo contesto, Stoner cita i risultati di una ricerca americana che, dopo aver analizzato 100 campagne nonviolente dal 1900 al 2006, è giunta alla conclusione che la presenza di un’ala armata di un movimento non accresca le possibilità di riuscita di una rivolta, come dimostra una tabella, da cui si evince che l’assenza di violenza in una campagna porta al 60% le probabilità della sua riuscita, contro il 46% dell’ipotesi contraria.

“ Questo non dovrebbe sorprendere, perché non solo i movimenti nonviolenti che hanno un braccio armato  riducono la probabilità di defezioni dalle forze armate, ma essi, storicamente, riducono anche la partecipazione popolare alla lotta, che è invece la chiave del successo per le campagne nonviolente.“ (9)

Purtroppo, in Italia, la ricerca sulle alternative nonviolente risulta del tutto inadeguata alla necessità di propagare i principi e le tecniche della Nonviolenza in un contesto purtroppo caratterizzato ancora da una diffusa ignoranza in materia o, peggio, da un uso strumentale di questo termine. Ancor più inadeguata, però, appare la capacità, da parte dei movimenti nonviolenti sopravvissuti, di aggiornare le proprie analisi e strategie ad un contesto in continuo cambiamento, collegandosi opportunamente alle grandi organizzazioni pacifiste ed antimilitariste internazionali. Ovviamente il rischio è che istituzionalizzare troppo la ricerca sulla pace e sulla risoluzione nonviolenta dei conflitti possa attirare, come negli Stati Uniti, le interessate attenzioni di chi ha bisogno di una sponda nei movimenti alternativi, per cui non esita a finanziare tali istituzioni e non certo per filantropia.

Quello che assolutamente va evitato è che il già debole movimento pacifista italiano continui scioccamente a frammentarsi, lasciandosi costringere alla scelta tra la Scilla d’una solidarietà che diventi intervento armato, e la Cariddi della dietrologia antiamericana, da cui scaturisca la negazione della dittatura e del diritto stesso dei siriani ad autodeterminarsi. Ecco perché, per quanto mi riguarda, non firmerò alcun appello o documento che non faccia chiarezza sulla questione siriana nel senso che ho cercato d’illustrare finora, sottovalutando la forza della nonviolenza come alternativa sia a nuove ed assurde avventure militari “umanitarie”, sia ad una grave mancanza di solidarietà verso il popolo siriano, su cui si sta esercitando la violenza contrapposta e devastante del regime di Assad e dei suoi oppositori armati e foraggiati dall’estero.

Concludo con una nota più lieve, ricordando un mio articolo sul blog risalente a ben due anni e mezzo fa, intitolato “Cos’‘e pazze!” (10)  nel quale parlavo di un episodio originale e significativo, avvenuto ad Emasa (l’attuale città siriana di Homs) nel 64 a.C. e tuttora ricordato e celebrato dalla tradizionale “Festa dei Pazzi”. Quando questa bella città, vicina a Palmira, stava per essere occupata dalle legioni romane guidate da Pompeo, il locale consiglio escogitò una curiosa soluzione. I cittadini di Emesa avrebbero dovuto fingersi tutti pazzi, comportandosi in modo stravagante e perfino rivoltante, allo scopo di far sentire profondamente a disagio i conquistatori stranieri. La trovata fu messa in atto con grande fantasia e partecipazione popolare, diventando di fatto un ingegnosa manifestazione di resistenza civile e disarmata all’arroganza dell’imperialismo romano. Purtroppo servì solo a ritardarne la conquista dell’impero seleucide e della stessa città di Emasa/Homs, ma costituì un precedente storico davvero molto significativo.

La vera sfida della “pazzia” nonviolenta, oggi come allora, s’ispira alla creatività piuttosto che alla distruttività, alla fantasia delle menti libere anziché alla violenza di chi sa solo ripetere i propri tragici errori.

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  1. E. Ferraro (2012), Quando la guerra si fa con le parole  > https://ermeteferraro.wordpress.com/2012/02/04/psy-ops-quando-la-guerra-si-fa-con-le-parole/ ) e Idem (2012), Quando la pace si fa con le parole  > https://ermeteferraro.wordpress.com/2012/02/11/peacedu-vs-psyops-quando-la-pace-si-fa-con-le-parole/
  2. A. Drago (2005), L’ingresso della Difesa Popolare Nonviolenta (DPN) nella legislazione italiana  > http://www.peacelink.it/disarmo/a/13056.html
  3. Cfr. quattro articoli di S. Bramhall, pubblicati a Marzo 2012 sul suo sito The Most Revolutionary Act , il primo dei quali s’intitola: “Perché la CIA finanzia l’addestramento alla nonviolenza?” > http://stuartbramhall.aegauthorblogs.com/2012/03/10/iwhy-the-cia-funds-nonviolence-training/ .
  4. Leggi e vedi l’intervista a Gene Sharp del 5.2.2012 di Channel 4 > http://www.channel4.com/news/gene-sharp-people-power-is-syriasweapon
  5. D. Berruti, Difesa Popolare Nonviolenta (scheda) > http://www.unimondo.org/Guide/Guerra-e-Pace/Difesa-popolare-nonviolenta/(desc)/show). Vedi anche, in inglese, l’interessante scheda pubblicata sul sito di ‘Nonviolence International’, un network statunitense di realtà nonviolente, fondato dal palestinese M. Awad > http://www.nonviolenceinternational.net/seasia/whatis/book.php?style=pfv
  6. J.M. Muller (2011), Quand le vent de la liberté souffle sur la Syrie > http://nonviolence.fr/spip.php?article578&var_recherche=Syrie
  7. J. Galtung (2012), Syria > http://www.transcend.org/tms/2012/03/syria > traduz ital. in > http://serenoregis.org/2012/03/siria-johan-galtung/.
  8. Ibidem
  9. E. Stoner (2011), Nonviolent discipline key to success in Syria > http://wagingnonviolence.org/2011/11/nonviolent-discipline-key-to-success-in-syria/#more-13471
  10. E. Ferraro (2009), Cos’’e pazze! > https://ermeteferraro.wordpress.com/2009/10/04/cose-pazze/

© 2012 Ermete Ferraro > https://ermeteferraro.wordpress.com

NOI E LA SIRIA: tra Scilla e Cariddi

UN AMBIENTALISMO SENZA L’AMBIENTE ?

Ammetto di essere rimasto piuttosto colpito da un articolo di Bryan Walsh (editorialista di TIME e redattore del blog tematico “Ecocentric”) pubblicato sul numero del 12 marzo scorso di quella nota rivista. Visto il titolo (“Nature is Over” ovvero “La Natura à finita”), di per sé eloquente, m’incuriosiva capire anche in che modo l’analisi della questione ambientale si collocasse fra le “10 idee che vi stanno cambiando la vita”, cui era dedicato quel numero e la relativa copertina di TIME. http://www.time.com/time/magazine/europe/0,9263,901120312,00.html

Si trattava d’una originale rassegna delle novità che stanno incidendo profondamente sul nostro modo di vivere, modificando la percezione stessa che abbiamo della realtà. Si va dalla ‘normalità’ del vivere da soli alla tendenza a vivere con la testa nella ‘nuvola’ informatica; dalla conciliazione della privacy con la vita pubblica alle ricerche sul cibo che dura per sempre; dalla religione senza chiese alla ‘black irony’…

Ebbene, in mezzo a questi eterogenei “segni dei tempi” è inserito l’articolo in questione che, già nel titolo, lascia trasparire la nuova concezione dell’ecologia di cui l’autore sembra farsi profeta, partendo proprio da una spietata analisi di quanto l’umanità abbia già, drammaticamente quanto rapidamente, cambiato il volto  del nostro pianeta.

Nessun ecologista, in effetti, può accusare Bryan Walsh di reticenza nel declinare i fenomeni che stanno lasciando una profonda ed irreversibile impronta antropica sulla Terra. Direi anzi che la sua pur breve analisi risulta ampiamente significativa e non lo colloca certo fra i  ‘negazionisti’ della tragedia ambientale e delle responsabilità del genere umano, di cui viceversa si mostra perfettamente consapevole. In poche ma citabili righe, infatti, egli ci ricorda che: “Per una specie esistente per meno dell’1% dei 4 miliardi e mezzo di storia della Terra, l’homo sapiens ha certamente impresso il proprio marchio sul posto. Gli umani hanno un impatto diretto su oltre tre quarti del suolo terrestre libero da ghiacci. Circa il 90% dell’attività degli impianti mondiali risiede ora in ecosistemi dove le persone giocano un ruolo significativo. Abbiamo estirpato le foreste originarie da gran parte del Nord America e dell’Europa ed abbiamo aiutato la spinta verso l’estinzione di decine di migliaia di specie. Perfino nei vasti oceani, tra le poche aree del pianeta disabitate dagli umani, è stata avvertita la nostra presenza, a causa dell’eccessiva pesca e dell’inquinamento marino. Attraverso i fertilizzanti artificiali – che hanno drammaticamente accresciuto la produzione alimentare e, con essa, la popolazione umana – abbiamo trasformato ingenti quantità di azoto da gas inerte nella nostra atmosfera in principio attivo nel nostro suolo, il cui deflusso ha creato enormi zone acquatiche morte nelle aree costiere. E tutta l’anidride carbonica che emettono gli oltre 7 miliardi di esseri umani sulla Terra sta rapidamente cambiando il clima e sta alterando la natura stessa del pianeta”.

Dopo questa spietata requisitoria sul devastante impatto umano sull’ambiente naturale ci saremmo aspettati una sonora predica ecologista ma, come sospettavo, l’articolo assume improvvisamente una piega ben diversa. La nuova strategia delle potenze economico-politiche che decidono le scelte economiche mondiali, a quanto pare, non è più (o quanto meno non è più solamente… ) quella di negare spudoratamente ogni responsabilità del cosiddetto ‘sviluppo umano’ nella distruzione degli ecosistemi. Ormai da qualche tempo, infatti, l’orwelliana Neolingua ci sta abituando ad un’operazione psicologico-comunicativa più sottile ed insidiosa. Basta smontare le contestazioni dei soliti “protestanti” modificando il senso stesso delle parole e rimodellando i concetti a proprio uso e consumo. Che si tratti di spedizioni belliche che diventano “missioni umanitarie” oppure dell’azzeramento delle garanzie dei lavoratori spacciato per “lotta alla precarietà”, il Newspeak di chi decide sulle nostre teste – forte della complicità dei media e della pigrizia mentale di troppi che hanno rinunciato a pensare colla propria testa – appare costantemente improntato alla mistificazione, al travisamento delle idee, al capovolgimento del senso delle parole fondamentali.

Tra la “pars destruens” iniziale dell’articolo e quella finale, da cui scaturisce la proposta di giungere ad un nuovo ambientalismo…senza l’ambiente, non può mancare ovviamente una significativa parte centrale. Se è vero che, per colpa dell’uomo, “la natura è finita” – come recita drasticamente il titolo dell’articolo – l’autore non può non cercare gli spunti più opportuni per presentarci e motivare la sua ‘scoperta’.  Premesso che alcuni scienziati ritengono che abbiamo già abbandonato l’era geologica denominata Olocene, entrando nell’Antropocene  o età dell’uomo – argomenta Walsh – è evidente che occorre rivedere il nostro modo di affrontare il rapporto uomo-natura. Ecco allora che riporta questa lapidaria quanto allarmante citazione del premio Nobel Paul Crutzen: “Non si tratta più di noi contro la ‘Natura’. Piuttosto, siamo noi che decidiamo che cosa la natura è e che cosa sarà.”

Bastano poche parole ed ecco che la Natura con la enne maiuscola, vagamente evocativa d’una mente creatrice e di una legge trascendente, è degradata ad una realtà che non ha più nulla di assoluto e stabile, ragion per cui l’Uomo può continuare indisturbato la sua opera per trasformarla a proprio uso e consumo.

Ma questa sminuita ‘natura’, quasi del tutto sottoposta all’antropocentrica dominazione umana, secondo il giornalista ed il suo nume ispiratore non avrebbe più alcun bisogno d’essere “preservata”. L’Antropocene esige un drastico cambiamento per l’ambientalismo –  argomenta Walsh – per cui possiamo ormai buttare in soffitta la vecchia concezione “conservatrice” dell’ecologismo classico, che percepiva le persone come una minaccia all’ambiente naturale.

La sua sconcertante conclusione è la seguente:  “La realtà è che nell’Antropocene non c’è semplicemente posto per la natura, almeno quella che abbiamo conosciuto e celebrato – un qualcosa di separato dagli esseri umani, un qualcosa di originario. Non c’è nessun ritorno al Giardino edenico, ammesso che sia mai esistito. Per gli ambientalisti, ciò significherà cambiare le strategie, trovare metodi di conservazione che siano più favorevoli alla gente e che consentano alla realtà naturale di coesistere con lo sviluppo umano. Ciò significa, se non proprio abbracciare l’influenza umana sul pianeta, quanto meno accettarla.”

A che diavolo serve buttare un sacco di denaro per preservare gli ultimi esemplari d’ipotetici “ecosistemi naturali” – si chiede retoricamente Walsh – quando abbiamo la prova che la natura stessa, se e quando vuole, dimostra tutta la sua “resilienza”, cioè l’incredibile capacità di recuperare da sola i propri equilibri?  L’esempio citato è, ovviamente, quello della parziale auto-riparazione della fascia di ozono ‘bucata’ all’Antartide dalle nostre spensierate emissioni di CFC ma, naturalmente, si omette di precisare che una qualche influenza in questo fenomeno positivo avranno pur avuto le normative che, ormai da decenni, hanno vietato l’utilizzo di queste inutili e dannose sostanze gassose.

Il teorema dell’ambientalismo senza ambiente, a questo punto, è quasi del tutto enunciato, utilizzando in modo specioso proprio una delle argomentazioni degli ambientalisti, o almeno di quelli che da tempo escludono un ecologismo fondamentalista e biocentrico, riconoscendo il giusto valore all’uomo non come centro dell’universo, ma come parte importante di una globalità biologica. Il fatto che egli si sia autodefinito “sapiens”, però, non significa affatto che la sua mente pensante e la sua attitudine ad adattare a sé l’ambiente circostante  gli diano il diritto di modellare la Terra a propria immagine e somiglianza.

Essere contrari alla “deep ecology” di chi venera una Natura che prescinde dall’uomo, d’altra parte, non vuol dire ripiombare nel tradizionale antropocentrismo di chi ha sempre cercato ogni pretesto – compresa una lettura superficiale delle Sacre Scritture – per teorizzare il dominio assoluto dell’Uomo sulla natura.

La caratteristica “sistemica” degli ambienti terrestri e la stessa legge della biodiversità ci parlano di armonia, di equilibrio, d’integrazione in una realtà naturale in cui gli esseri umani possono e devono svolgere il ruolo che spetta a chi ha la consapevolezza, e quindi la responsabilità, di una preziosa integrità da salvaguardare.

Come credente, infatti, sono convinto che sia questo il compito di chi è stato posto come “custode” del creato e non come sfruttatore di un bene comune che deve amministrare saggiamente. Ma anche nella prospettiva di un semplice ambientalista , che rifugge da ogni integralismo e non ritiene affatto che l’umanità debba essere nemica della natura o sua vittima passiva, sono preoccupato per la deriva ideologica cui stiamo assistendo,  di cui l’articolo citato mi sembra un’evidente dimostrazione.

Alla prima parte (la denuncia) ed alla seconda (la teoria), segue infatti la “pars construens”, cioè l’ipotesi    d’un ambientalismo completamente nuovo. Per regolare l’Antropocene – argomenta mellifluo Walsh – c’è bisogno di molto più di provvedimenti che mettano al bando determinate sostanze o attività inquinanti. Ed aggiunge, con un sibilo degno dell’antico ‘tentatore’ dei nostri progenitori: “Significa anche promuovere proprio quel tipo di tecnologie cui gli ambientalisti si sono spesso opposti, dall’energia nucleare […] ai cereali geneticamente modificati, che ci possono consentire di coltivare più sostanze alimentari in meno terreno, preservando spazio prezioso per l’ambiente naturale…”

Qui la mistificazione del Bispensiero e della Neolingua – entrambi profetizzati oltre mezzo secolo fa dal grande Orwell – raggiunge il suo vertice. Per diventare dei neo-ambientalisti – secondo l’editorialista del TIME – dovremmo infatti operare una profonda “conversione”, rinnegando gli spiriti scompostamente antinuclearisti ed anti-OGM del vetero-ecologismo ed abbracciando fiduciosamente il modello di sviluppo che il dio-Mercato ci sta offrendo generosamente…  Le coltivazioni  geneticamente modificate lasciano più spazio alla natura e le centrali nucleari, sebbene un po’ rischiose, sono la massima fonte energetica priva di emissioni carboniche. Privilegiare le città – prosegue insinuante Walsh – è una scelta ottimale, perché il modello di convivenza urbano, secondo lui, è “…la sistemazione più sostenibile ed efficiente del pianeta”  

Per non parlare poi delle emissioni di gas-serra, che i neo-ambientalisti sono invitati a combattere in modo quanto meno originale, cioè ricorrendo alla geo-ingegneria, e quindi impiegando sistemi come nuvole artificiali o altre diavolerie tecnologiche, capaci di ridurre direttamente la temperatura globale….

La lirica chiusa dell’articolo – ribaltando opportunisticamente il concetto dell’Uomo-giardiniere del pianeta col richiamo ad un concetto capovolto di “responsabilità” – è il degno coronamento di questo esemplare saggio di manipolazione mediatica delle nostre menti:

“Siamo stati felici per l’esistenza di molte delle nostre specie, benedetti dal clima gradevolmente caldo dell’Olocene, abili a disseminare i nostri crescenti numeri lungo un pianeta apparentemente senza limiti.  Ma quel tempo è passato, rimpiazzato dall’incertezza dell’Antropocene, che i geologi decidano o meno di chiamarlo formalmente così. Saremo noi a decidere se gli esseri umani continueranno a prosperare o a bruciare, sottomettendo il pianeta lungo il percorso. Può essere una realtà infelice, perché non c’è nessuna garanzia che l’Antropocene – affollato da miliardi di esseri umani – sarà favorevole alla vita come lo erano stati i 12.000 anni precedenti. “Noi siamo dei – scrive l’ambientalista e futurista Stewart Brand – e dobbiamo ottenerne il bene”

A quanto pare, essere dei buoni ambientalisti, oggi, significa saper scommettere coraggiosamente sulle capacità dell’uomo, accettando il rischio di un ambiente quasi del tutto antropizzato e molto lontano da una ‘naturalità’ velata di nostalgico romanticismo.

In questa modificazione genetica del significato stesso di ambientalismo un ruolo non secondario ha giocato l’uso ambiguo del concetto di ‘sostenibilità’, intesa come un astratto richiamo non tanto alla capacità della Terra di resistere all’impronta devastante di uno sviluppo senza limiti, bensì alla capacità dell’uomo di creare uno sviluppo il più possibile durevole e meno dannoso alla sua esistenza.

Come ha recentemente scritto l’amico Antonio D’Acunto: “La questione centrale che dobbiamo porci è quella di cancellare i termini sostenibile,  sostenibilità, sviluppo sostenibile dal vocabolario delle Associazioni ambientaliste, […] a meno che naturalmente non viene specificata, ma  non lo si fa mai e come lo si potrebbe quando si propone l’esatto opposto,  che la  sola sostenibilità, oggettivamente e scientificamente possibile,  è quella di processi ed attività umana che avvengono secondo la morale del Pianeta ovvero  le leggi della Natura.” (La sciagurata farsa del governo italiano per Rio+20”, marzo 2012).

E’ proprio in nome di una presunta “sostenibilità”, del resto, che il nostro governo “tecnico” sta cercando subdolamente di riportare a galla scelte che i cittadini italiani hanno già condannato, come le centrali nucleari e le coltivazioni OGM, giungendo ad ipotizzare pesanti tagli alle energie rinnovabili per rilanciare l’assurda idea di trivellazioni petrolifere in aree di notevole pregio ambientale del nostro Paese.

Far finta di non accorgersi di questa diffusa strategia di mistificazione e di capovolgimento dei principi dello stesso ambientalismo, a questo punto, non è più possibile. L’idea stessa di Antropocene rispecchia solo la fantasia malsana di chi – per coprire gli sporchi interessi di chi sfrutta e inquina – finge di non sapere che l’uomo è parte di un equilibrio ecologico senza il quale ed al di fuori del quale, semplicemente, egli non esisterebbe affatto.

Sì, ha ragione Walsh quando dice che è passato il tempo in cui l’umanità si vedeva contrapposta alla natura, ma solo nel senso che l’unico vero nemico dell’uomo è l’uomo stesso e la sua arrogante presunzione di perseguire uno sviluppo illimitato quanto irresponsabile.

© 2012 Ermete Ferraro – https://ermeteferraro.wordpress.com