PREGHIERA

"Spirito di Dio, che agli inizi della creazione ti libravi sugli abissi dell’universo, e trasformavi in sorriso di bellezza il grande sbadiglio delle cose, scendi ancora sulla terra e donale il brivido dei cominciamenti. Questo mondo che invecchia, sfioralo con l’ala della tua gloria. Dissipa le rughe. Fascia le ferite che l’egoismo ha tracciato sulla sua pelle. Restituiscile il manto dell’antico splendore, che le nostre violenze le hanno strappato, e riversa sulle carni inaridite anfore di profumo. Permea tutte le cose, e possiedine il cuore. Facci percepire la tua dolente presenza nel gemito delle foreste divelte, nell’urlo dei mari inquinati, nel pianto dei torrenti inariditi, nella viscida desolazione delle spiaggie di bitume. Restituiscici al gaudio dei primordi. Riversati senza misura su tutte le nostre afflizioni. Librati ancora sul nostro vecchio mondo in pericolo. E il deserto, finalmente, ridiventerà giardino, e nel giardino fiorirà l’albero della giustizia, e frutto della giustizia sarà la pace." don Tonino Bello, Missione, p. 115

Ogni anno che trascorre, lo confesso, vivo con crescente distacco e quasi con fastidio l’atmosfera pseudonatalizia filtrata da manifesti, jingles radiofonici e televisivi e ammuina da shopping. Il fatto è che basta guardarsi intorno per accorgersi che un po’ tutto, dall’ambito più prossimo a quello universale, continua purtroppo ad andare "in direzione ostinata e contraria" rispetto a quella ri-nascita e a quella con-versione di cui il Natale non può non essere segno. Quando tutto sembra andare per il verso sbagliato, allora, è forte la tentazione di lasciarsi andare allo sconforto, o quanto meno all’amarezza della delusione di fronte ad un’umanità inguaribilmente malata di meschinità e diffidenza, accecata dall’egoismo e paralizzata dalla propria stessa violenza. Però è una tentazione cui, da Cristiani, non dobbiamo assolutamente cedere, altrimenti tradiremmo la fede, la speranza e la carità di cui dovremmo essere testimoni in questo "mondo". Sta di fatto che due millenni di cristianesimo non sembrano proprio averlo cambiato in meglio, se l’immagine che ne riceviamo, in conclusione di questo duemilanono ‘anno di grazia’, è quella di un pianeta sempre più compromesso, minacciato nei propri equilibri ecologici e dove guerre ed altre sciagure sono il frutto avvelenato di avidità ed ingiustizie sempre più stridenti. Ecco perché le poetiche e profetiche parole di don Tonino Bello rappresentano "anfore di profumo" versato sulle piaghe dolenti di questa umanità che Cristo lo ha lasciato appeso ai crocifissi nei muri ma non lo ha fatto davvero entrare nel proprio cuore. Sono una preghiera autentica e profonda, che ci aiuta a guardare più in alto delle nostre moderne torri di babele e più in là del nostro meschino io. Sono un’invocazione cui, nella nostra presunzione, ci siamo disabituati, che ci aprono ad una prospettiva che non sia fuga dalla realtà o rinuncia all’azione, ma fiduciosa adesione a quello "Spirito di Dio" che è già dentro di noi e può darci la forza di non cedere, di non arrenderci. Dobbiamo sforzarci di riscoprire, nonostante tutto, quel "sorriso di bellezza" che cancella le brutture di un mondo sempre più vecchio e privo di speranza. Dobbiamo lasciarci invadere il cuore dalla "dolente presenza" di quel grande spirito che gli Indiani d’America identificavano con quella natura che noi ‘civilizzati’ abbiamo solo saputo violare, inquinare e trasformare in "viscida desolazione". Scriveva già Tacito, mettendo questa frase in bocca ad un fiero capo "barbaro", che la civiltà dei romani aveva fatto il deserto e poi lo aveva chiamato pace (…solitudinem faciunt et pacem appellant…). E’ lo stesso "deserto" evocato da don Tonino, che, con l’aiuto dello Spirito Santo, siamo però chiamati a trasformare in un giardino, dove l’albero della giustizia saprà dare frutti di pace vera. In questa vigilia di Natale, grazie all’esortazione di questo eccezionale vescovo, sentiamo che la forza per operare un autentico miracolo non dobbiamo cercarla in noi, nella nostra volontà e coerenza, ma nella nostra capacità di chiedere, umilmente, al Padre di diventare – come pregava Francesco d’Assisi – un "istrumento" della Sua volontà e della Sua pace. Amén e buona ri-nascita…!

(c) 2009 Ermete Ferraro

“NEL DESERTO PREPARATE LA VIA AL SIGNORE…” (Is 40,3)

 

ג  ×§×•Ö¹×œ קוֹרֵא–בַּמִּדְבָּר, פַּנּוּ דֶּרֶךְ יְהוָה; יַשְּׁרוּ, בָּעֲרָבָה, מְסִלָּה, לֵאלֹהֵינוּ.

Questo versetto di Isaia, ripreso a proposito della predicazione di Giovanni il Battezzatore nella seconda domenica d’Avvento (Lc 3, 1-6), ci costringe ad interrogarci sul ruolo dei Cristiani come “profeti” Ad essi, infatti, è stata affidata la missione non solo di annunciare il regno di Dio ad alta voce (vedi l’espressione ebraica: KAL-KORA’ ), ma anche di preparare fattivamente la radicale trasformazione dell’esistente, esemplificata da alcune operazioni: predisporre una strada nel deserto, colmare le valli, spianare montagne e colline, appianare il terreno accidentato e scosceso.

Luca ha riportato in modo diverso la citazione d’Isaia, riferendosi a Giovanni come “voce di uno che grida nel deserto…” (“vox clamantis in deserto…”), ingenerando qualche equivoco interpretativo. Non si tratta dunque di un’esortazione a lanciare il proprio invito a vuoto, strillando nel silenzio e nella solitudine del deserto, ma d’un appello a trasformare quel deserto in un luogo praticabile e percorribile, al tempo stesso la strada di Dio (DEREK YHWH) e verso il nostro Dio (LE-ELOHINU).  Il fatto è che il Suo regno non può essere solo pre-annunciato dalle parole del pro-phetes (chi pre-dice), poiché nell’annuncio è insito l’inizio di un cambiamento.  Anche la parola che in lingua ebraica designa il profeta (NAVIY) è connessa al verbo NAVA’ e significa: effondere, annunziare, comunicare. E’ evidente, però, che la figura vetero-testamentaria del profeta ci mostra qualcosa di più di quella di un semplice “portavoce” della divinità, in quanto egli ha sempre rappresentato una vera e propria svolta nella storia del popolo cui è stato inviato.

Due millenni fa Giovanni uscì dal deserto per anticipare la venuta del Figlio di Dio, percorrendo tutta la regione del Giordano e “predicando un battesimo di conversione”. Che tale cambiamento dovesse risultare sostanziale e radicale appariva chiaro già dal suo invito, rivolto alle folle che andavano a farsi battezzare da lui, a compiere “opere degne della conversione”, dal momento che si avvicinava per loro il giudizio e che “ogni albero che non porta buon frutto sarà tagliato e buttato nel fuoco” (cfr. Lc 3, 7-8).

Oggi come allora, non serve a nulla esorcizzare questo richiamo esibendo le proprie credenziali, come facevano gli Israeliti, che tentavano di rassicurarsi da soli ripetendosi “Abbiamo Abramo per padre”, oppure come facciamo noi Cristiani quando vogliamo auto-convincerci che basta far parte di una chiesa per salvarci l’anima.  Il profeta, infatti, non può essere scambiato per un semplice messaggero né per un ispettore mandato a verificare le nostre referenze o la validità del nostro biglietto per la vita eterna. Il profeta è chi sente dentro di sé la spinta pressante a diffondere la parola di Dio e a prepararne l’attuazione, hic et nunc, mediante una conversione vera, senza se e senza ma, le cui “opere” diventino di per sé testimonianza del regno di Dio, in quanto realizzazione della sua volontà.

La Chiesa ci ha insegnato che ciascuno di noi ha ricevuto fin dal battesimo il carisma, cioè la grazia, di diventare re, sacerdote e profeta, ma mi sembra evidente che non siamo riusciti a prendere sul serio quest’affermazione. Il fatto è che troppo spesso restiamo radicati nella convinzione che, semmai, il ruolo che potrebbe riguardarci è quello di chi governa/amministra gli altri, mentre le funzioni sacerdotale e profetica riguarderebbero pochi individui speciali (e quindi diversi), che abbiano ricevuto una particolare “vocazione” ad occuparsi di questioni religiose.

Ne consegue che una fede del genere non ha prodotto quei “buoni frutti” che il Signore si aspetta da ciascuno di noi e che, duemila anni dopo, non solo i deserti sono rimasti tali, ma la nostra esistenza sembra affetta da un ulteriore processo di “desertificazione”, che ha inaridito ancor più le coscienze e accresciuto quelle disparità che avremmo già dovuto far sparire dalla faccia della terra.

E’ legge di natura – e per i credenti di Dio – che le montagne vengano erose e le valli colmate dai sedimenti delle alture. Noi uomini, viceversa, dopo tanto tempo e in barba al nostro preteso progresso, siamo riusciti solo ad aumentare le disparità economiche e sociali ed a compromettere seriamente gli equilibri ecologici del Pianeta, poiché abbiamo scambiato arrogantemente il mandato divino a custodire il creato ed a provvedere ai nostri simili con un’autorizzazione a dominare dispoticamente la natura e i nostri simili.

Viviamo allora questo periodo di Avvento come un’occasione per riflettere su tutti i nostri errori – personali e sociali – e per provare a mettere in pratica un’autentica “conversione”. Non si tratta solo di operare un netto cambiamento di prospettiva e di mentalità, come suggerisce la parola greca “metànoia”, bensì di una vera rivoluzione interiore che deve produrre concreti frutti di pace e di giustizia, di servizio e di misericordia, di speranza e di fiducia.

Insomma, è arrivato davvero il momento di essere, tutti, re sacerdoti e profeti di un Regno che non è di questa terra ma che in questa terra abbiamo il dovere di rendere visibile e tangibile.