“IUS SOLIS”

sole4In questi ultimi mesi si è molto parlato e scritto del cosiddetto “ius soli”. La questione per la quale è stata sfoderata questa espressione latina riguarda la possibilità di riconoscere per legge come cittadini a tutti gli effetti i figli di genitori stranieri che siano nati nel nostro Paese. Lo “ius soli” indica infatti l’acquisizione della cittadinanza come conseguenza diretta della nascita in un determinato suolo, in contrapposizione allo “ius sanguinis” , che fa derivare tale condizione dalla nascita da un genitore già cittadino di quel Paese. Ciò a cui mi riferisco nel titolo, però, è ben altro.  Mutuando il latinorum della giurisprudenza, resuscitato dall’attuale dibattito sul diritto di cittadinanza, vorrei parlare invece di strumenti giuridici che sanciscano la scelta dell’energia solare come un passo irreversibile in direzione d’una vera e propria Civiltà del Sole. In tal senso,  “ius solis”  è un’espressione che racchiude due aspetti diversi ma strettamente connessi. Il primo è il “diritto al sole”, cioè il riconoscimento giuridico dell’energia solare come “bene comune” dell’umanità. Ad essa va riconosciuta la possibilità di servirsene appieno come fondamentale fonte ecologica, inesauribile, decentrata e polivalente da cui trarre l’energia di cui ha effettivamente bisogno. La seconda accezione è quella di “diritto del sole”, nel senso della salvaguardia degli equilibri ecologici che assicurano la vita non solo all’uomo ma a tutte le creature, per non trasformare la potenza del Sole – fonte di vita e di biodiversità – in causa di morte.

Essendo uno dei primi firmatari della legge regionale d’iniziativa popolare su “cultura e diffusione dell’energia solare in Campania” da due anni mi sto impegnando, insieme con gli amici e compagni del Comitato Promotore, perché il sogno della “civiltà del sole” si concretizzi in un primo punto fermo, cioè il riconoscimento legislativo del suddetto “ius solis”. E’ stata un’esperienza entusiasmante di cittadinanza attiva e di ecologia sociale, che ha portato all’incredibile risultato della raccolta di quasi 20.000 firme e – dopo un lungo iter procedurale – della approvazione unanime del nostro disegno di legge da parte della Regione Campania, nota per essere una delle istituzioni peggio gestite e più refrattarie al protagonismo dei cittadini. Quest’autentica avventura è stata vissuta dal nostro Comitato nel costante intento di coinvolgere sempre più persone e soggetti collettivi in ciò che sembrava una “mission impossible”, conseguendo quel fondamentale riconoscimento giuridico senza però trascurare l’esigenza di far crescere la coscienza collettiva su tali questioni.

Come già detto e ripetuto in tante occasioni, non si tratta solo di far conoscere e diffondere sempre più una fonte energetica rinnovabile e pulita per sostituirla a quelle fossili esauribili ed inquinanti. L’obiettivo è cambiare radicalmente il rapporto fra cittadini, territorio ed energia, affermando un modello di sviluppo fondato sull’autosufficienza energetica, ecologico, equo e solidale. Lo storico divario tra “economia” ed “ecologia”, grazie alla legge, è azzerato da una concezione globale della società e della produzione come fattori che non confliggono più con l’ambiente naturale, ma ne fanno il proprio ed effettivo presupposto. Lo stesso richiamo alla Civiltà del Sole, oltre ad evocare la visione utopica e comunitaria della “Città del Sole” di Tommaso Campanella, vuol valorizzare tutti gli aspetti culturali di questa rivoluzione ecologica, anche come occasione di apertura interculturale e pacifica agli altri Paesi del bacino del Mediterraneo. Con essi, infatti, andrebbe condivisa una tipologia di sviluppo che usi saggiamente la natura anziché sfruttarla brutalmente, e che lo faccia in modo decentrato, rifuggendo alla logica perversa di concentrazioni e monopoli.

Come ho cercato di sintetizzare in una relazione presentata al convegno organizzato dal Comitato nel marzo 2012 presso l’Università “Parthenope” di Napoli, gli aspetti qualificanti della proposta di legge popolare – oggi finalmente sanciti dall’approvazione della Legge Regionale della Campania n. 1/2013 – si possono sintetizzare nei seguenti cinque punti:

  1. Col primo concetto-chiave – quello della promozione  del territorio come risorsa – la Legge esprime  un’opzione profondamente ecologica,  ponendo le fonti energetiche rinnovabili ed inesauribili come motore per  uno sviluppo locale, sostenibile e diffuso.
  2. Il  perseguimento d’un modello energetico liberato da logiche monopolistiche e  da intermediazioni commerciali comporta la fuoriuscita da una visione mercificata dell’energia, che  diventa così immediatamente disponibile e non più soggetta a ricatti  economico-politici da parte di concentrazioni monopolistiche e di grandi potenze.
  3. Il  terzo elemento qualificante della proposta legislativa è la promozione di una ‘tecnologia ecosostenibile’, che indirizzi gli sforzi dei  ricercatori nella direzione di una resa sempre maggiore degli impianti che utilizzano l’energia del sole. Ciò comporta anche un deciso cambiamento di rotta nella scelta delle priorità che guidano il mondo della ricerca scientifica e tecnologica, condizionato dalle scelte a priori dei committenti, pubblici e/o privati.
  4. Un altro elemento caratterizzante della proposta sottoscritta da tanti      cittadini campani, sintetizzabile come ‘risparmio energetico’, sottolinea la necessità di ridurre il costo  delle risorse energetiche a valle (per i consumatori) ma anche a monte (per i produttori). Ciò comporta risorse aggiuntive da investire per una nuova e qualificata occupazione e per l’eco-sostenibilità degli stessi modelli di produzione e di consumo.
  5. L’ultimo aspetto qualificante della Legge è il profondo legame tra una opzione  energetica centrata sul Sole e le altre fonti energetiche rinnovabili ad esso collegate e la salvaguardia di quella Biodiversità che dal Sole è originata e che assicura la solidarietà e la “comunione” tra l’umanità e la natura nel suo complesso, uscendo così da un miope antropocentrismo.

Ebbene, se la Civiltà del Sole si fonda su principi così importanti e fondamentali per la sopravvivenza stessa dell’Uomo è evidente che non saranno gli sconcertanti voltafaccia di  istituzioni schizofreniche ad arrestare il cammino verso di essa. Certo, sconcerta che quella che è stata recentemente definita “la legge più bella”  sia stata dapprima approvata unanimemente da tre commissioni e dall’aula consiliare della Regione Campania e poi pretestuosamente mutilata di alcuni articoli da parte dello stesso Consiglio regionale, in sede di legge finanziaria. Sconcerta non di meno che uno degli ultimi atti del governo Monti è stato quello d’impugnare la legge regionale della Campania davanti alla Corte Costituzionale, accampando motivazioni assai discutibili. In entrambi i casi si tratta di scandalosi esempi di arroganza istituzionale, a tutela degli interessi, più o meno puliti, delle lobbies e dei clan che non hanno mai smesso di usare lo stato e gli enti territoriali per governare di fatto un territorio cui si erano già imposti con altri mezzi.

L’unico risultato di questi pesanti interventi è stato quello di mettere ancor più in evidenza il conflitto fra chi vorrebbe continuare a sfruttare le risorse naturali, infischiandosene delle gravi conseguenze che ciò comporta per le future generazioni e per l’ambiente nel complesso e chi, invece, propone un’alternativa globale, utilizzando energie pulite e rinnovabili per uno sviluppo duraturo e più giusto.  L’impugnativa di alcuni articoli da parte del Governo e l’incredibile autolesionismo della Regione Campania non fermeranno il circolo virtuoso innescato dalla battaglia per la Legge popolare. Si tratta peraltro di un processo articolato e di non breve durata, che richiede la partecipazione di tutti/e e passa per la diffusione della cultura del Solare prima ancora che degli impianti solari.

La recente nascita di un nuovo soggetto associativo – la Rete Campana per la Civiltà del Sole e della Biodiversità – intende per l’appunto rispondere a quest’esigenza, allargando la base di coloro che vogliono impegnarsi in direzione di quella Civiltà del Sole da cui prende titolo anche il sito web del movimento. La visione utopica dei suoi promotori, coniugata con la concretezza di chi è consapevole delle resistenze da affrontare e crede nella forza del lavoro comune e dal basso, fa sperare che lo ”ius solis” non resterà un bel principio, ma si trasformerà in una concreta realtà, armonizzando il diritto del sole con quello al sole. Concludo con una calzante citazione dalla “Città del Sole” di Campanella:

“Nulla creatura adorano di latria, altro che Dio, e pero a lui serveno solo sotto l’insegna del sole, ch’è insegna e volto di Dio, da cui viene la luce e ‘l calore ed ogni altra cosa. […] Se questi, che seguon solo la legge della natura, sono tanto vicini al cristianesimo, che nulla cosa aggiunge alla legge naturale si non i sacramenti, io cavo argumento di questa relazione che la vera legge è la cristiana, e che, tolti gli abusi, sarà signora del mondo”.

SMATERIALIZZIAMO I PROF ?

registro digitale5Quando si sentiva parlare di “smaterializzazione”, almeno fino a poco tempo fa, l’associazione mentale immediata era con quei film di fantascienza nei quali alieni ripugnanti usavano la pistola spaziale per disintegrare i malcapitati terrestri che gli venivano a tiro. Di “materializzazione” e “smaterializzazione” si parla anche nei romanzi e film su Harry Potter ed il suo Wizarding World , ma fin qui, tutto sommato, ci poteva ancora andare bene.

Il guaio è che ne ha cominciato a parlare anche quei signori che ci governano e, soprattutto, lo hanno fatto con la supponenza che nasce dal pericoloso mix di arroganza – tipica di chi decide dall’alto – e d’ignoranza della materia su cui si pretende di decidere per tutti. La smaterializzazione di cui da qualche tempo si stanno occupando (loro preferiscono chiamarla “dematerializzazione”) rientra nel discorso generale della c.d. “semplificazione” delle procedure burocratiche. In realtà è solo un altro mantra del politichese, che dovrebbe suonare come sinonimo di efficienza e facilità di accesso ai dati, ma che spesso si è rivelato una fregatura per gli utenti dei servizi pubblici, spiazzati da procedure sconosciute e da tecnologie informatiche ancora poco generalizzabili, soprattutto in una società sempre più anziana.

Sono reduce da un incontro pomeridiano presso la mia scuola, dove un’ottantina d’insegnanti sono stati stivati in un’aula (suddividendoli in due turni, proprio a causa di problemi di connessione alla Rete nell’aula magna…) per seguire un corso accelerato di conoscenza e gestione del c.d. “registro elettronico”. Trattasi dell’ultima trovata del MIUR che, rifacendosi ad una poco chiara normativa di ordine finanziario relativa alla spending review, ha deciso di eliminare i registri cartacei entro il prossimo anno scolastico, sostituendoli con una procedura informatizzata. Certo, a prima vista potrebbe sembrare una saggia decisione, una soluzione pratica e funzionale, finalizzata ad una  maggiore trasparenza e funzionalità delle istituzioni scolastiche.  Del resto -fossero convinti o no – a tale diktat (supportato, a quanto pare, solo dalla circolare ministeriale n° 1682 del 3 ottobre 2012) la maggioranza dei collegi dei docenti sembra essersi uniformata senza “se” e senza “ma”, con supina ed impotente rassegnazione.

Eppure è bastata una sola sessione di “formazione” al nuovo miracoloso strumento elettronico per offuscare non solo l’entusiasmo di chi pensava di essere finalmente entrato nell’universo della scuola moderna, ma anche l’incredibile capacità di adattamento del vecchio docente, assuefatto ad incredibili cambiamenti di rotta e, come i carabinieri, “uso a obbedir tacendo e tacendo morir”..

Personalmente, pur impiegando da molto tempo le tecnologie più moderne nel mio lavoro d’insegnante (dalla lavagna interattiva multimediale ad un mio sito web scolastico interattivo), io non mi ritrovo né nella categoria degli entusiasti delle novità “a prescindere” (direbbe Totò), né tanto meno in quella di chi si lascia trascinare passivamente dalla corrente, senza osservazioni e senza resistenza, quando è il caso.  Non sono quindi né favorevole né contrario per principio al processo d’informatizzazione dell’insegnamento – che presenta spesso innegabili vantaggi – ma non sono neanche disposto a considerare ogni innovazione come un ovvio miglioramento, soprattutto se, anziché semplificare la didattica, la banalizza e la standardizza.

Ho letto su “la Repubblica” un ottimo contributo su questo delicato tema, a firma di Mariapia Veladiano . La scrittrice e giornalista – insegnante per vent’anni ed attualmente preside – nel suo articolo “Perché il registro elettronico è un’illusione educativa, affronta con acume e con la giusta ironia un’innovazione che non può essere ridotta ad una falsa scelta fra efficienza e burocrazia nel mondo della scuola, ma richiede maggior spirito critico sulle conseguenze più profonde sul modo di fare scuola e di far interagire docenti, alunni e genitori.

“La domanda non è se funziona o non funziona. Alla fine certo che sì. Dopo aver trovato le risorse per acquistare o affittare i notebook per tutte le aule di tutte le scuole del regno e per pagare i contratti alle aziende incaricate di risolvere i pluriquotidiani problemi tecnici e di garantire assistenza continua, dopo aver formato tutti gli insegnanti, governato le rivolte per lo stress iniziale da voti scomparsi e da password smarrita, blindato il sistema contro allievi-piccoli-hackerinformatici, alla fine funziona…” . osserva, pungente, la scrittrice-preside.

Lei, infatti, conosce troppo bene la realtà della nostra scuola per non prefigurarsi le mille disfunzioni di un sistema dove si pretenderebbe di sostituire i vecchi registri “cartacei”con moderni notebook e tablet, ma dove le poche cose finora dematerializzate sono gli statini paga degli insegnanti e la carta igienica nei bagni… Ma l’aspetto più importante che la Veladiano coglie di quest’ennesima novità piovuta sulla scuola italiana è la sua capacità di disintegrare i rapporti umani al suo interno, sostituendo la relazione diretta docenti-alunni e genitori-docenti con istantanei ed anodini report sulla posta elettronica o sulla messaggeria telefonica.

“Dove il registro elettronico c’è da un po’, capita che i genitori non si facciano più vedere ai colloqui con i docenti o alle riunioni della Consulta, basta il voto letto sul video, la media la sanno fare da sé. Come se la valutazione fosse cosa di numeri: niente storia di una conquista da raccontare e condividere, niente alleanza educativa da concordare. La scuola in numeri: quattro-cinque-sei. Oppure i genitori a scuola ci vanno, ma vanno a fine quadrimestre e a fine anno, a contestare il voto in pagella, perché non rispetta la media dei voti monitorata per mesi online. Come se il processo di apprendimento e crescita potesse diventare un numero appunto.”

In realtà, più che una scuola aperta e disponibile“online”, si direbbe che chi ci governa voglia una scuola “allineata”, dove le procedure didattiche – e non solo quelle burocratiche – diventino sempre più standardizzate e verificabili. E questo non per una migliore trasparenza dell’istituzione in sé, quanto per attivare meccanismi selettivi, di tipo competitivo-produttivistico.

Però trasformare il dialogo educativo in un’informazione che aggiorni solo su voti ed assenze, a mio giudizio, è un peccato ancor più grave perfino di quello di mandare perfidamente allo sbaraglio insegnanti ultrasessantenni, costringendoli a gestire in diretta le loro classi da una tastiera, di fronte a centinaia di smaliziati  “nativi informatici” che hanno quasi mezzo secolo meno di loro.

Giustamente, l’articolo della Veladiano sottolinea che queste procedure rischiano di avvalorare un “vuoto tremendo”, un vuoto soprattutto di fiducia, che nasce dal non doversi più guardare in faccia nel dirsi le cose, tanto ormai c’è il computer che fa la spia ai genitori e toglie loro anche il disturbo e l’imbarazzo di sentirsi raccontare dagli insegnanti come vanno i loro beneamati figlioli.

Credo che abbia profondamente ragione quando scrive che “…Più avanza il possibile della tecnologia, più bisogna custodire la materialità delle relazioni. La relazione educativa è incontro. Incontrarsi è un argine all’idea che tutto possa esaurirsi nella virtualità di un rapporto online”.  Il vero pericolo, anche secondo me, non è che larga parte dei docenti saranno prevedibilmente colti da crisi di panico o attacchi isterici di fronte a password che non fanno passare o registrazioni di dati che si rivelino poi non ben salvati o hackerati da frotte di ragazzini smanettoni. Il rischio, più grave e concreto, è che si assesti un’altra mazzata alla relazione educativa, già messa alla prova dall’invalsizzazione degli apprendimenti e dalla tendenza a trasformare i docenti in anonimi operatori scolastici etero-diretti, la cui autonomia si è ridotta quasi soltanto alla scelta dei giorni di recupero delle festività soppresse.

Il rapporto insegnanti-alunni è qualcosa di molto più spirituale e al tempo stesso più materiale di una valutazione numerica degli apprendimenti e delle competenze. E’ fatto di sguardi, silenzi, talvolta di urli e sfuriate, ma molto spesso di sorrisi e liberatorie risate collettive. Qualcosa, insomma, che non si poteva racchiudere e sintetizzare con dei numerini scritti sulle pagine quadrettate dei registri cartacei, ma che tanto meno può essere trasmesso online, digitando voti, assenze ed assegni su un computerino, magari in diretta, alla fine di una vivace lezione.

Le programmazioni didattico-educative – già da tempo orientate verso una standardizzazione dei contenuti e dei tempi di svolgimento – rischiano di diventare sempre più quel comodo “copia e incolla” che il formatore suggeriva blandamente al suo uditorio di terrorizzati docenti da formare. Sostituire la libertà d’insegnamento, la fantasia progettuale del singolo docente ed il rispetto dei tempi della classe e dei suoi componenti con procedure “copia-e-incolla” mi sembra un rischio abbastanza evidente. Sopprimere il confronto e la discussione collettiva dei consigli di classe con procedure banalmente aritmetiche e statistiche, come spesso già succede in sede di scrutini intermedi e finali, è un altro rischio di banalizzazione ed uniformità pseudo-scientifica della scuola delle crocette sui quiz e delle lezioni precotte proiettate sulle lavagne “interattive”. Tutto ciò, naturalmente, sperando che i computer di classe siano nel frattempo stati forniti, che la connessione ci sia e che la presentazione audiovisiva non disturbi troppo gli alunni, impegnati magari a fare disegnini sui diari oppure a smanettare, veloci e furtivi, sui loro smartphone

La verità è che non abbiamo bisogno di una scuola più “virtuale”  bensì più “virtuosa”. Una scuola capace di educare i ragazzi/e ai valori, al senso del limite, alla libertà “di” piuttosto che alla libertà “da”.  Non sarà certamente quello che la Veladiano chiama il “computer che denuncia” che semplificherà e renderà più trasparenti le relazioni all’interno della scuola. Se perderemo anche la capacità di guardarci negli occhi e di affrontare direttamente i problemi che essa inevitabilmente produce, non illudiamoci che spariranno anche i conflitti e che le cose andranno meglio. Saranno solo riusciti a smaterializzare gli insegnanti, sostituendoli con la scuola robotizzata di alcuni racconti di fantascienza.

Non dimentichiamo, però, che in quei racconti perfino i robot, qualche volta, si ribellano. Forse è meglio che noi lo facciamo adesso, prima che sia troppo tardi.

© 2013 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )