Verbi violenti troppo frequenti…

In principio era il preverbo…

In un precedente articolo [i], utilizzando la tabulazione dei dati desunti dal Nuovo Vocabolario di Base della lingua italiana [ii], ho provato a mettere in luce quanto perfino il ‘lessico fondamentale’ (condiviso dall’86% di coloro che la utilizzano) lasci troppo spesso trasparire una realtà socioculturale segnata da un linguaggio militare e bellico. Quella mia ricerca, infatti, evidenziava che tra i 2000 lemmi considerati ‘fondamentali’ (ridotti a 1790 escludendo pronomi, articoli, avverbi, preposizioni etc.) ben 259 vocaboli italiani ricadono nel campo semantico bellico-militare. Ciò significa che il 14,6% di quel totale – cioè una parola su sette – rispecchia atteggiamenti sostanzialmente autoritari e violenti. All’interno di questo preoccupante contesto, inoltre, troviamo parecchi verbi indicanti azioni dirette contro un indistinto universo ‘nemico’, o comunque animate da intenti ostili, se non esplicitamente distruttivi. Per approfondire quest’ultimo aspetto – tenuto conto che quasi 9 italiani su 10 utilizzano un lessico che non solo è estremamente ridotto ma è anche costituito per quasi il 15% da locuzioni aggressive – ho provato ad affrontare questa realtà da un punto di vista specificamente etimologico-semantico.

Ne risulta che parecchi verbi ‘fondamentali’ d’impronta bellicosa devono la loro aggressività anche all’utilizzo di alcuni prefissi preposizionali (o ‘preverbi’), che integrano o modificano il senso di base delle rispettive forme verbali. [iii] Si tratta generalmente di preposizioni latine, spesso congiunte a verbi semanticamente già violenti, cui imprimono una notazione di movimento (AD, DE, EX, IN, RE, SUB) oppure sottolineano che si tratta di azioni di gruppo (CUM), finalizzate a conseguire in tal modo un determinato obiettivo (OB). Ciò premesso, ho analizzato etimologicamente una ventina di verbi composti che mi sembravano tipici d’una comunicazione ostile, eppure utilizzati molto frequentemente dal 14% dell’86% del campione, ossia dal 12,04% degli italiani.

Partendo dal mio precedente database, ho verificato che col prefisso AD– ce ne sono 3 (AFFRONTARE, AMMAZZARE, ATTACCARE). Quelli preceduti da CUM– sono 4 (COMBATTERE, CONDANNARE, CONQUISTARE, COSTRINGERE). Altri 3 iniziano con DE- (DIFENDERE, DISTRUGGERE, DIVIDERE) ed altrettanti con EX– (ELIMINARE, ESCLUDERE, SPAVENTARE).  Il prefisso IN- ricorre in 2 casi (IMPEDIRE, IMPORRE) e OB- è presente in 4 verbi (OBBLIGARE, OCCUPARE, OPPORRE, UCCIDERE). Infine, con RE- ne iniziano 2 (RESISTERE, RISPONDERE) mentre con SUB- ne troviamo solo 1 (SOTTOPORRE).

Ebbene, pur considerando che alcuni elementi di questo campionario possono essere intesi con connotazioni diverse, resta innegabile che il principale ambito semantico di quasi tutti i verbi in questione rimanda ad un rapporto aggressivo e virulento coi loro rispettivi oggetti o referenti. La ricerca sull’etimologia di ciascun preverbio sembrerebbe riportarci ad un mondo primitivo, caratterizzato dai rapporti di forza tipici di chi lotta per la sopravvivenza. Una violenza atavica che però sembra non aver smesso d’improntare il linguaggio attuale e che, quasi sempre in modo inconscio, inevitabilmente finisce col condizionare la nostra comunicazione verbale e le nostre relazioni.

A questo punto passiamo all’osservazione al microscopio etimologico – e quindi più da vicino ed in profondità – di queste 22 forme verbali composte così tanto diffuse, ma di cui forse solo in pochi conoscono il significato originario e le trasformazioni di significato che hanno subito.

La minacciosa forza dei preverbi AD- e CUM-

La preposizione latina AD, utilizzata come prefisso modificante di un verbo o di un sostantivo, suggerisce il movimento verso qualcuno o qualcosa, un avvicinamento, ma talvolta l’inizio di un processo, un rafforzamento, nonché un atteggiamento sia favorevole sia contrario [iv] . Nei tre verbi con questo preverbo, l’indicazione di un moto ostile si unisce al significato già aggressivo dei verbi modificati, rafforzandolo.

  • Nel caso di AFFRONTARE, dalla base latina frontem derivano altri sostantivi e relative forme verbali (affronto, confronto, raffronto…), che indicano azioni di cui il prefisso AD- precisa la direzione e/o destinazione. L’etimo di questa parola sembrerebbe risalire alla radice sanscrita *BHRU, indicante l’arcata sopracciliare e presente anche in vocaboli germanici e slavi. Si esprime pertanto un’azione che ‘prende di faccia’ l’interlocutore, verso il quale il soggetto si dirige direttamente e minacciosamente [v].
  • Anche nel verbo AMMAZZARE il prefisso indica la direzione di un’azione intrapresa con intenzioni ostili, poiché il verbo latino mactare significava già uccidere (vedi sostantivi come ‘mattatoio’ o il verbo spagnolo matar). Anche se all’origine ci fosse invece il sostantivo ‘mazza’, la sostanza non cambierebbe, trattandosi comunque di un grosso bastone usato per colpire qualcosa o qualcuno.
  • In ATTACCAREil prefisso si aggiunge alla radice celto-germanica *TAC, il cui senso era aderire, fermare, agganciare, o anche toccare, partendo da una base latina (v. tangere, tatto…), che ritroviamo anche nel verbo inglese to take (prendere) [vi].

Sebbene il prefisso preposizionale latino CUM- sia di solito adoperato “per esprimere l’idea dell’unione, della compagnia, della condivisione[vii], nei quattro verbi seguenti funge piuttosto da rafforzativo di un’azione, sottolineando che è compiuta da più persone.

  • COMBATTERE, ad esempio, usa questo preverbo (modificato in COM-) per integrare il verbo latino battuere, presente anche in ambito non romanzo (ingl. beat, gael. bith). Probabilmente esso attingeva alla radice sanscrita *PAD (piede), per cui battere significherebbe in origine pestare, calpestare, percuotere col piede [viii] o, più latamente, colpire. Non dimentichiamo poi che da tale verbo derivano anche sostantivi tipicamente militari, come battaglia, batteria, battaglione etc.
  • CONDANNARE ha un significato ampio, non riferibile esclusivamente ad un contesto di scontro o di guerra. Il senso più diffuso, infatti, è quello giudiziario, che designa l’atto di dichiarare qualcuno colpevole, per poi infliggergli una pena (lat. damnum).  Come nel caso precedente, la preposizione sottolinea che si tratta di un’azione collettiva (giuria) o espressa da un giudice a nome della comunità. Peraltro, il senso ostile e violento del verbo appare evidente a prescindere dal motivo della condanna.
  • CONQUISTARE è un verbo meno trasparente dal punto di vista etimologico. Pochi infatti saprebbero risalire ai verbi latine cum-quirere > cum-quidere, a loro volta forme intensive del molto più innocente ed innocuo verbo quaerere (da cui ‘chiedere’) [ix]. Infatti non c’è dubbio che una conquista sia qualcosa di molto più violento di una  semplice ‘richiesta’, sebbene alla voce ‘conquistare’ la Treccani metta al primo posto proprio il significato di “ridurre in proprio dominio con le armi”. In seconda posizione troviamo “acquistare, fare proprio con fatica, con sacrifici, lottando contro difficoltà e ostacoli”, cui seguono le ulteriori accezioni “accattivarsi, guadagnare” e “far innamorare, sedurre[x]. La forza aggressiva del verbo, in questo caso, sembra dipendere dal prefisso, che suggerisce un atto collettivo e dunque più efficace. Si tratterebbe infatti di una ‘richiesta’ assai categorica, molto somigliante – nel linguaggio mafioso del Padrino di Ford Coppola – a “un’offerta che non si può rifiutare”.
  • COSTRINGERE compone lo stesso prefisso col verbo latino stringere, la cui radice *STRAG indicava “…comprimere, tirare a sé con forza […] premere o serrare con forza…” [xi]). Anche in questo verbo emerge l’intento aggressivo dell’azione e si comprende bene il suo significato di “forzare; obbligare qualcuno, con la forza o con altro mezzo, a fare cosa che sia contraria alla volontà o comunque non spontanea[xii].

DE-, EX- e IN- per escludere ed aggredire

Secondo la Treccani, il prefisso preposizionale DE- “… si trova in molte voci di derivazione latina, nelle quali indica ora allontanamento (per es. deviare, deportare), ora abbassamento o movimento dall’alto in basso (per es. degradare, deprimere, declinare), ora privazione (per es. dedurre, detrarre; cfr. anche demente), ora ha valore negativo (per es. decrescere), ora serve soltanto alla formazione di verbi tratti da sostantivi o aggettivi…” [xiii] .  Non c’è dubbio che atti quali allontanare, abbassare, privare e negare non siano riconducibili ad atteggiamenti e comportamenti pacifici e costruttivi. Se poi tre bruschi prefissi si uniscono a verbi già minacciosi, la violenza verbale è servita.

  • DIFENDERE, insieme coi verbi ‘offendere’ ed i sostantivi ‘difesa’ ed ‘offesa’ e relativi aggettivi derivati, è un “…composto di -fendo, nel senso di ‘colpire – urtare’, da una radice comune al ved. Hanti “colpisce[xiv]. Secondo altra fonte, il verbo fendo avrebbe una radice FAD, derivante dal sanscrito bâd-ayami, col significato di “spingere, stringere, pressare[xv]. In entrambi i casi si tratta di azioni violente, di minacce alla sicurezza personale e collettiva da cui sarebbe legittimo proteggersi, anche utilizzando la forza. Non a caso la Treccani indica prioritariamente le seguenti accezioni del verbo ‘difendere’: “1.a proteggere, preservare dal male, dai pericoli, dalle offese […] b. sostenere la causa di qualcuno […] 2. rifl. a) Proteggersi, ripararsi […] contrapporre la propria forza alla violenza del nemico o dell’avversario…” [xvi].  Indubbiamente il ‘diritto alla difesa’ è sancito dalle costituzioni e dalle leggi, in ambito giudiziario come in quello della ‘difesa nazionale’. Il vero problema, però, è che la tradizionale difesa armata e militare ha superato da tempo l’idea della pura e semplice ‘reazione’ ad un’azione aggressiva esterna e si configura sempre più come apparato di aggressione, sia pur col pretesto della ‘dissuasione’ o della ‘prevenzione’ della violenza altrui. La verità, come da tempo affermano i nonviolenti, è che “un’altra difesa è possibile”.
  • DISTRUGGERE, viceversa, è un verbo che è impossibile interpretare in senso positivo. Il dizionario Treccani enumera una serie di significati che lo classificano di fatto tra i più violenti: “distrùggere v. tr. [dal lat. destruĕre, comp. di de- e struĕre «innalzare, costruire»] …1. a. Abbattere, guastare, disfare, per lo più con azione o con mezzi violenti, scomponendo le parti d’un oggetto, dissolvendo, riducendo in rovina, in modo che la cosa sia resa definitivamente inutilizzabile o non ne rimangano talora neppure le tracce […] b. Annientare vite umane […] c. Ridurre al niente […] 2. Usi fig.: a. Rendere inutile […] b. Togliere completamente e definitivamente […] c. Annullare […] d. letter. Consumare a poco a poco, fisicamente o spiritualmente…” [xvii]. Non potrebbe essere diversamente, in quanto ‘distruggere’ utilizza il prefisso de– proprio per annullare il senso positivo del verbo struere (indicante azioni come: accumulare, stratificare, fabbricare, costruire, erigere etc.). Ecco perché è un po’ l’icona di un linguaggio ostruttivo e distruttivo, in quanto radicalmente opposto ad una comunicazione costruttiva, edificante e nonviolenta.
  • DIVIDERE è un verbo prevalentemente di segno negativo, ma dall’etimologia piuttosto incerta. Secondo alcuni il prefisso DISsi unirebbe ad un ipotetico *vido (in umbro vetu = dividerai e sanscrito vihyati = perfora [xviii]. Secondo altre fonti, invece: “il verbo dividere, …. sembra derivare dall’unione tra il prefisso dus-, che poi è diventato dis- e la radice vid- che alcuni ritrovano in vidēre. Quindi, quel ‘dis’ ci darebbe l’idea della separazione (piuttosto che quella di negazione) e ‘vid’ quella di una dimensione interna (in lituano vidus significa proprio centro)[xix]. In ogni caso, le possibili accezioni di tale verbo sono negative e non rimandano affatto ad un contesto relazionale caratterizzabile come costruttivo e privo di violenza.

Il prefisso EX- “…sotto l’aspetto semantico, conserva in una parte dei composti il sign. fondamentale della prep. ex, cioè «da, fuori, via» […] in altri casi indica negazione, privazione […] o mutamento di natura […]; in altri ancora esprime il concetto della pienezza, del compimento, conferendo quindi al verbo valore estensivo o intensivo…” [xx].

  • ELIMINARE ha un significato di base meno truce e violento di quanto appare. In effetti – etimologicamente parlando – significherebbe soltanto: cacciare da casa, lasciar fuori dalla soglia (extra limine) [xxi], dunque “escludere, scartare, far scomparire[xxii]. Si tratta comunque di un’azione di natura ostile, ma solo in tempi moderni il verbo è passato ad indicare una soluzione molto più radicale, cioè: “uccidere, togliere di mezzo, sopprimere, soprattutto un nemico, un avversario, una persona sgradita[xxiii].
  • ESCLUDERE è un un calco semantico di ‘eliminare’, essendo composto dal prefisso ex- (fuori) e claudere (chiudere). Siamo di fronte ad un ulteriore caso di azione espulsiva, che priva qualcuno del diritto di abitare in un luogo e/o di far parte di una comunità. Una sorta di rigetto, che espelle ed emargina una persona o un intero gruppo sociale dal suo contesto abituale, cui si interdice l’ingresso.
  • SPAVENTARE a prima vista non ha relazione col prefisso preverbo EX-, ma in latino era proprio questa preposizione che integrava il verbo pavère, in senso passivo col significato di tremare di paura, aver paura, ma anche, in senso attivo, di “provocare, incutere spavento[xxiv]. Un altro chiaro esempio di violenza, fisica o psicologica, che ricorre al terrore per forzare la volontà altrui e per conseguire i propri scopi.

IN-, RE-, OB- e SUB-: altri quattro preverbi ostili

Stando alla Treccani, “Il prefisso IN- (dal latino in-) può assumere in italiano due diversi valori. Può indicare mancanza, privazione, contrarietà, opposizione in parole derivate dal latino (inutile, insano) o formate modernamente […] Può essere usato per la formazione di verbi parasintetici derivati dal latino (incurvare, incorporare) …” [xxv]. Nei due casi seguenti sembra prevalere il secondo, che dà alla preposizione un valore locativo.

  • IMPEDIRE significa letteralmente “mettere ceppi, impacci ai piedi[xxvi] (dal sostantivo greco pous, podòs), e quindi – in senso metaforico – ‘ostacolare’, ‘opporsi’, ‘contrariare’. Ancora una volta riconosciamo un’azione senz’altro ostile, anche se talvolta questo verbo è usato per indicare l’opposizione ad una minaccia o ad un pericolo, come abbiamo già visto nel caso dell’ambivalente ‘difendere’.
  • IMPORRE, nella sua trasparenza semantica, non è invece equivocabile. Derivato dal latino in-ponere, designa un atto di per sé violento, frutto di arroganza e finalizzato al dominio. Ricorrere ad una ’imposizione’ vuol dire letteralmente: “Porre sopra, indi, fig. prescrivere, comandare[xxvii]. Significa perciò trattare le persone come si era abituati a fare con gli animali, costringendoli con gioghi, selle ed altri pesanti carichi a sotto-porsi ad un padrone senza scrupoli.

Il prefisso OB (“lat. ob- “a, verso, contro, in opposizione, di fronte a, a causa” e con valore rafforzativo[xxviii]) esprime sia un rapporto di causalità, sia un’avversione o un’opposizione, come verifichiamo nei seguenti quattro verbi.

  • OBBLIGARE coniuga ob-, già indicante una contrarietà, con il verbo ligare, che di per sé impone un legame, un vincolo, rendendo questo verbo un sostanziale sinonimo di ‘costringere’ e dello stesso ‘imporre’. È quindi difficile intepretarlo in senso positivo, come richiamo ad un legame etico, poiché l’etimologia ci presenta una costrizione materiale. Infatti, il verbo latino ligare deriva dal greco lygein (piegare, annodare), a sua volta riferito al sostantivo lygos (vimine) e al verbo sanscrito ling-âmi (piego) [xxix].
  • OCCUPARE compone il prefisso OB- (contro) col verbo latino capere (prendere), con assimilazione-raddoppio della ‘c’. Da qui il significato di “impossessarsi, impadronirsi[xxx], ma anche l’accezione bellicosa di “invadere o tenere con la forza delle armi” [xxxi].
  • OPPORRE – come i sostantivi e attributi da esso derivanti – è un altro verbo di sapore marziale. Ma in questo caso il preverbo, che di per sé esprime opposizione, si unisce al più neutro verbo ponere. Da qui il significato attivo e transitivo di “1. Porre contro, per impedire, per fare ostacolo, per contrastare” e riflessivo di “porsi contro, impedire (o cercar d’impedire) che una cosa abbia effetto o consegua i suoi fini[xxxii].
  • UCCIDERE (che latinamente era occidere, da ob prefissato al verbo caedere, cioè tagliare) è il più esplicitamente violento dei verbi esaminati, indicando l’azione definitiva e irrimediabile di togliere la vita. Atto peraltro considerato un crimine (omicidio) quando è compiuto da persone, ma purtroppo esaltato come gesto di valore patriottico quando invece è causato da corpi militari o da agenti cui è stata affidata la pubblica sicurezza, spesso con mandato molto ampio e discrezionale.

Le altre due preposizioni latine usate come prefissi verbali sono RE- (che di solito esprime il ripetersi di un’azione, nello stesso senso o in senso contrario) e SUB- (che in italiano fornisce un’indicazione locativa (‘sotto’), anche in senso metaforico.

  • RESISTERE, ad esempio, vuol dire: “Opporsi a un’azione, contrastandone l’attuazione e impedendone o limitandone gli effetti…” [xxxiii]. Inoltre la parola ‘resistenza’, anche nel linguaggio scientifico della fisica, indica la proprietà meccanica d’un corpo di non subire rottura sotto sforzo. Il prefisso re- in questo caso si è unito al verbo latino sistere (raddoppiamento di stare), col significato di fermare un atto, opponendovi una forza contraria. Eppure la sua collocazione tra i lemmi di sapore bellico e militare è frutto dell’errata – ma purtroppo diffusa – concezione del ‘resistere’ come reazione armata e violenta, mentre da oltre un secolo, ma senza che se sappia quasi nulla, una resistenza disarmata e nonviolenta è risultata più efficace e spesso vincente.
  • RISPONDERE. Apparentemente è un verbo innocuo o quanto meno di significato piuttosto neutro. L’etimologia, in effetti, ci mostra che il prefisso re- (indietro, ma anche di nuovo) va a modificare il verbo latino spondēre, (promettere, impegnarsi) nel senso di “parlare dopo essere stato interrogato, per soddisfare alla domanda fatta[xxxiv], ma anche – più polemicamente – di “replicare…ribattere, controbattere, reagire, contestare, confutare…” [xxxv] . Fatto sta che, si tratti di una partita a carte o di un battibecco fra coniugi, l’atto di ‘rispondere’ finisce spesso col perdere la sua valenza positiva di soddisfazione di una domanda/richiesta, per assumere un connotato più violento, sia pure sul piano verbale. Ci sono però anche casi – come ‘rispondere al fuoco’ o ‘rispondere ad un’aggressione’ – in cui la ‘risposta’ si palesa invece in tutta la sua minacciosa fisicità.
  • SOTTOPORRE, che chiude questa lista di ‘verbi violenti troppo frequenti’, appare univoco ed esplicito nel suo significato. Sub+ponere – il verbo composto latino da cui peraltro deriva anche ‘supporre’ – è infatti trasparente nell’indicare l’atto di porre qualcuno o qualcosa al di sotto, significando dunque: “assoggettare, soggiogare[xxxvi] e anche “a. ridurre sotto il proprio dominio…b. costringere qualcuno ad affrontare, o a subire, qualcosa di spiacevole o di non gradito o voluto[xxxvii].

Decalogo conclusivo sui preverbi violenti

Al termine di questa particolare indagine etimologica mi sembra utile trarne una sintesi in dieci punti, in modo da ricavarne qualche utile conclusione.

  1. Dei 7.500 vocaboli ‘di alta frequenza’ presenti nel citato Nuovo Vocabolario di Base della lingua italiana, quelli classificabili come ‘parole fondamentali’ sono 2.000 e ricoprono l’86% delle occorrenze.
  2. Sottraendo a questi 2.000 lemmi quelli meno significativi (pronomi, congiunzioni, avverbi etc.) il campo si restringe ai 1.768 vocaboli presi in esame come campione per la mia già precedente ricerca, finalizzata a verificare quanti rientrassero in tre ambiti semantici: a) bellico-militare, b) ecologico-ambientale, c) latamente pacifista.
  3. Nel primo settore della mia classificazione ho registrato 259 lemmi (pari al 14,6%) che ritengo espressione d’un linguaggio aggressivo e violento. Questo significa, in pratica, che una parola su sette rientrerebbe in tale allarmante contesto.
  4. All’interno del campione dei 1.768 vocaboli considerati ‘fondamentali’ dal NVdB ho contato 468 verbi, ossia il 26,5%.
  5. Il passo successivo è stato quello di enucleare tra le forme verbali censite quelle con una connotazione bellico-militare o comunque violenta che fossero composte con prefissi preposizionali che ne esaltassero la carica aggressiva. Quelli esaminati sono appunto i 22 verbi ‘ostili’ (quasi il 5% dei 468 ‘fondamentali’) che ho poi analizzato sul piano etimologico-semantico.
  6. I 6 preverbi considerati (AD-, DE-, EX-, IN-, RE-, SUB-), in effetti, hanno modificato in senso negativo le relative forme verbali di base, tra cui 9/22 già ostili di per sé.
  7. La carica semantica negativa dei prefissi, impressa ai verbi che modificano, ne sottolinea pertanto: a) con AD- la direzione; b) con DE- allontanamento, abbassamento o deprivazione; c) con EX- esclusione; d) con IN- privazione o contrarietà; e) con OB- contrarietà; f) con RE- opposizione; g) con SUB- sottomissione.  
  8. Dei verbi esaminati, circa la metà (10/22) manifestano una carica inequivocabilmente violenta ed esplicitamente guerrafondaia: AMMAZZARE, ATTACCARE, COMBATTERE, CONQUISTARE, COSTRINGERE, DISTRUGGERE, ELIMINARE, IMPORRE, OCCUPARE, UCCIDERE.
  9. I restanti 12 preverbi (AFFRONTARE, CONDANNARE, DIFENDERE, DIVIDERE, ESCLUDERE, SPAVENTARE, IMPEDIRE, OBBLIGARE, OPPORRE, RESISTERE, RISPONDERE, SOTTOPORRE) – sia pur in modo meno univoco – esprimono un atteggiamento ostile o manifestano volontà di dominio e di sottomissione:
  10. Concludendo, dalla mia indagine risulta che 1 verbo composto italiano su 20 totali censiti come ‘fondamentali’ esprime avversità, inimicizia, violenza oppure intenti di sottomissione. Per chi auspica un lessico pacifico, nonviolento e non-ostile è un dato preoccupante, da valutare molto seriamente.  


Note

[i] Ermete Ferraro, “Un vocabolario di base ‘fondamentalmente’ violento?” (14.4.23), Ermetespeacebook, https://ermetespeacebook.blog/2023/04/14/un-vocabolario-di-base-fondamentalmente-violento/

[ii] Tullio de Mauro (2016), Nuovo vocabolario di base della lingua italiana. (Cfr. anche il Dizionario Online di Internazionale, https://dizionario.internazionale.it/

[iii]  Fra i vari studi accademici sul valore modificante dei prefissi verbali cfr: Davide Bertocci (2017), ‘Intensive’ verbal prefixes in Archaic Latin –(https://www.academia.edu/37442997/_Intensive_verbal_prefixes_in_Archaic_Latin ); Ursula Lenker (2008), Booster prefixes in Old English – an alternative view of the roots of ME forsoothhttps://www.anglistik.uni-muenchen.de/personen/professoren/lenker/publikationen/2008-booster-prefixes-in-oe.pdf ; Dewell, Robert B. (2015), The Semantics of German Verb Prefixes (Human Cognitive Processing 49), Amsterdam/Philadelphia, John Benjamins.

[iv] Cfr. la presentazione di Agnes Jekl (Univ. di Budapest -2019) dal titolo “Cambiamenti nella funzione del prefisso verbale ad- dal latino classico all’italiano”, https://www.uniud.it/it/ateneo-uniud/ateneo-uniud-organizzazione/altre-strutture/centro-internazionale-plurilinguismo/allegati/ppt-jekl-cambiamenti-nella-funzione-del-prefisso-verbale-ad.pptx

[v]  Cfr. https://www.etimo.it/?term=fronte

[vi]  Cfr. https://etimo.it/?term=attaccare&find=Cerca

[vii]  Cfr. https://dizionari.corriere.it/dizionario_latino/Latino/C/cum_1.shtml

[viii] Cfr. https://etimo.it/?term=battere&find=Cerca

[ix] Cfr. https://etimo.it/?term=conquistare&find=Cerca

[x] https://www.treccani.it/vocabolario/conquistare/

[xi]  https://etimo.it/?term=stringere&find=Cerca

[xii]   https://www.treccani.it/vocabolario/costringere/

[xiii]https://www.treccani.it/vocabolario/de/#:~:text=%E3%80%88d%C3%A9%E3%80%89%20%5Bdal%20lat.,alto%20in%20basso%20(per%20es.

[xiv]  Dante Olivieri (1961), Dizionario Etimologico Italiano, Milano, Ceschina (voce: “difendere”)

[xv]  https://www.etimo.it/?term=difendere&find=Cerca

[xvi]  https://www.treccani.it/vocabolario/difendere/

[xvii]  https://www.treccani.it/vocabolario/distruggere

[xviii] Cfr. Olivieri 1961 (voce: “dividere”)

[xix]https://www.etimoitaliano.it/2015/04/divisione.html#:~:text=Per%20quanto%20riguarda%20la%20questione,che%20alcuni%20ritrovano%20in%20videre.

[xx]  https://www.treccani.it/vocabolario/ex/

[xxi]   https://www.etimo.it/?term=eliminare

[xxii]  https://www.treccani.it/vocabolario/eliminare/

[xxiii]  ibidem

[xxiv]  https://www.treccani.it/vocabolario/spaventare/

[xxv] https://www.treccani.it/enciclopedia/in-prefisso_(La-grammatica-italiana)

[xxvi]  https://www.treccani.it/vocabolario/impedire/ 

[xxvii]  https://www.etimo.it/?term=imporre&find=Cerca

[xxviii]  https://dizionario.internazionale.it/parola/ob-

[xxix] https://www.etimo.it/?term=legare&find=Cerca

[xxx] https://www.etimo.it/?term=occupare&find=Cerca

[xxxi]  https://www.treccani.it/vocabolario/occupare/

[xxxii]  https://www.treccani.it/vocabolario/opporre/

[xxxiii]  https://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/resistere/

[xxxiv] https://www.etimo.it/?term=rispondere&find=Cerca

[xxxv]  https://it.wiktionary.org/wiki/rispondere

[xxxvi]  https://www.etimo.it/?term=sottoporre

[xxxvii]  https://www.treccani.it/vocabolario/sottoporre/


© 2023 Ermete Ferraro

Un vocabolario di base ‘fondamentalmente’ violento?

Vocabolario di base e frequenza nell’uso delle parole.

Nel 2016 Tullio De Mauro aggiornò la sua precedente ricerca sul ‘vocabolario di base della lingua italiana’ (NVdB), individuando le 7.500 parole che costituiscono il nostro ‘lessico quotidiano’, vale a dire il serbatoio linguistico cui la maggioranza degli italiani sembra attingere più frequentemente [i].

«È un elenco di circa 7500 parole selezionate per uso, frequenza e disponibilità e suddivise in tre categorie: 1 – lessico fondamentale (FO, circa 2000 parole ad altissima frequenza usate nell’86% dei discorsi e dei testi; nell’elenco sono formattate in grassetto); 2 – lessico di alto uso (AU, circa 3000 parole di uso frequente che coprono il 6% delle occorrenze; sono formattate come testo normale); 3 – lessico di alta disponibilità (AD, circa 2000 parole usate solo in alcuni contesti ma comprensibili da tutti i parlanti e percepite come aventi una disponibilità pari o perfino superiore alle parole di maggior uso; sono formattate in corsivo)» [ii].

Lo stesso De Mauro precisava che:

«Ciò che abbiamo finora chiamato uso è il prodotto della frequenza assoluta delle occorrenze di una parola in un campione di testi di una lingua, divisi in diverse categorie (testi scolastici, testi letterari, copioni cinematografici o teatrali eccetera), moltiplicata per la sua dispersione, cioè per il numero di categorie di testi in cui la parola occorre. La dispersione, cioè la presenza in più categorie diverse di testi, aiuta a correggere distorsioni che potrebbero aversi guardando solo alla frequenza.…» [iii] .

Da questa risorsa, fondamentale per la conoscenza del nostro patrimonio lessicale d’uso comune, si ricavano non solo interessanti indici statistici di frequenza nell’utilizzo delle parole dell’italiano corrente, ma anche alcune considerazioni sulle tendenze socio-linguistiche in atto. Un ecopacifista come me, ad esempio, andando a curiosare fra i 2.000 lemmi contrassegnati in neretto, in quanto considerati ‘fondamentali’, ha potuto utilizzare questo repertorio per ricercare quanta parte del nostro lessico quotidiano abbia a che fare con determinati contesti logici, quali “guerra e militarismo”, “pace” ed “ecologia”.

La presente ricerca ha richiesto la tabulazione dei 2.000 lemmi fondamentali in un’apposita tabella Excel, in modo da evidenziare – lettera per lettera – quali parole ricadessero in ciascuno di questi tre ambiti, calcolandone poi la rispettiva percentuale sul totale. Dall’insieme dei vocaboli in neretto sono stati esclusi quelli di scarso valore semantico (pronomi personali, aggettivi dimostrativi e possessivi, preposizioni, avverbi, congiunzioni) e pertanto il numero complessivo di quelli presi in esame è sceso a 1.768.

Sebbene le osservazioni seguenti siano frutto di una mia personale elaborazione del database pubblicato su Internazionale, ritengo comunque che possano dare un’idea abbastanza precisa di come il patrimonio linguistico maggiormente condiviso dagli italiani [iv] lasci trasparire determinate tendenze a rappresentare la realtà, alimentando particolari narrazioni. Nell’ambito degli studi di ecolinguistica [v], ad esempio, è molto diffuso l’impiego dei “corpus assisted discourse studies”, ossia dell’analisi linguistica fondata sull’utilizzo e l’elaborazione di repertori lessicali.

«Lo sforzo principale degli studi del discorso assistito da corpus è l’indagine e il confronto delle caratteristiche di particolari tipi di discorso, integrando nell’analisi le tecniche e gli strumenti sviluppati all’interno della linguistica dei corpora. Questi includono la compilazione di corpora specializzati e analisi di elenchi di frequenza di parole e cluster di parole, elenchi di parole chiave comparative e, soprattutto, concordanze […] Gli studi sul discorso assistito da corpus mirano a scoprire significati non ovvi, cioè significati che potrebbero non essere prontamente disponibili per la lettura a occhio nudo. Gran parte di ciò che ha significato nei testi non è aperto all’osservazione diretta […] Usiamo il linguaggio “semi-automaticamente”, nel senso che parlanti e scrittori compiono scelte semi-consce all’interno dei vari complessi sistemi sovrapposti di cui è composto il linguaggio» [vi].

In questo caso, un confronto statistico tra blocchi di parole fondamentali riguardanti determinati contesti può quindi risultare illuminante sul pensiero sottostante alle parole della lingua italiana più frequentemente utilizzate, stimolando considerazioni per nulla banali.

Dati emersi dalla mia ricerca sul NVdB dell’italiano

Ovviamente non tutte le osservazioni che si possono ricavare analizzando il mio database sono significative allo stesso modo. Alcune sono solo curiosità originate dall’evidenziazione di alcuni aspetti, come ad esempio la frequenza di determinate parole all’interno di uno specifico repertorio alfabetico. Ad esempio, non sembra che abbia un particolare significato il fatto che la maggior parte delle parole italiane da me selezionate nel citato ‘lessico fondamentale’ e riguardanti la guerra ed il militarismo inizino con le lettere S (40), R (32) e C (25). Altrettanto vale per l’osservazione che gran parte dei vocaboli ‘pacifici’ comincino per A o P (17), oppure per I ed R (10), o anche che il lessico ambientale si alimenti prevalentemente di parole inizianti con le lettere P (21), S (19) e C (12). Si tratta dunque di semplici constatazioni, anche se l’analisi etimologica delle parole ci porta talvolta ad osservare che fenomeni di natura fonetica, come l’onomatopea, possono aver condizionato il significato di alcuni vocaboli, soprattutto per quanto riguarda la loro radice primaria.

Le osservazioni oggettive che si possono trarre dalla mia ricerca mi sembrano indubbiamente più significative. Infatti, sebbene l’attribuzione di una parola ad un determinato campo semantico (guerra e militarismo – ecologia ed ambiente – pace e nonviolenza) sia frutto di una mia selezione, ciò che si ricava dall’analisi dei dati va al di là di impressioni personali, in quanto ne emerge un quadro abbastanza preciso delle caratteristiche del nostro lessico fondamentale.

Ma esaminiamo prima i risultati da un punto di vista meramente statistico, tenendo conto che l’entità totale di riferimento sono i 1.768 lemmi che ho ricavato dal 2.000 del NVdB (De Mauro 2016), eliminando quelli che – come precisato prima – mi sembravano semanticamente non particolarmente irrilevanti .

  • Nel primo settore della mia classificazione – concernente le parole del vocabolario fondamentale italiano che ricadono nel campo semantico bellico-militare – si ritrovano 259 lemmi, pari al 14,6% del totale.
  • Nel secondo ambito di ricerca – comprendente le parole che fanno riferimento all’ambiente ed all’ecologia – ricadono 124 lemmi, pari al 7,01%.
  • Il terzo campo semantico preso in esame – vocaboli riferibili in modo diretto o indiretto alla pace, alla giustizia e ai diritti – registra infine la presenza di 152 lemmi, corrispondenti all’8,6%.

Già questi soli dati numerici rispecchiano una precisa realtà socioculturale, in cui il lessico di base più comune degli italiani è composto per un settimo da vocaboli appartenenti al linguaggio militare e guerresco, mentre per i ‘linguaggi di pace’ la maggior parte dei parlanti l’italiano dispongono e utilizzano meno di una parola su undici. Inoltre, per quanto riguarda ciò che si riferisce alla natura, agli elementi ambientali ed all’ecologia, il dato sembra ancor più allarmante. Infatti in questo contesto ricade solo il 7% del lessico italiano considerato ‘fondamentale’, vale a dire meno di una parola ogni quattordici.  Sono solo dati statistici, ma è difficile non considerarne il valore ed il significato all’interno di un’analisi del discorso che punti a svelare i condizionamenti esercitati su un vocabolario che, oltre ad essere spesso piuttosto povero e limitato, attribuisce al linguaggio di guerra uno spazio addirittura doppio rispetto a quello riservato a quello riguardante il nostro imprescindibile rapporto con l’ambiente.

Alcune considerazioni in chiave ecopacifista

A questo punto mi sembra opportuno ricordare quanto scriveva l’ecolinguista Arran Stibbe sull’analisi critica del discorso e su ciò che si propone di rivelare.

«a) L’attenzione si concentra su discorsi che hanno (anche potenzialmente) un impatto significativo non solo sul modo in cui le persone trattano le altre, ma anche su come trattano i sistemi ecologici più ampi da cui dipende la vita. B) I discorsi vengono analizzati mostrando come gruppi di caratteristiche linguistiche si uniscono per formare particolari visioni del mondo e ‘codici culturali’… c) I criteri in base ai quali le visioni del mondo sono giudicate derivano da una filosofia ecologica (o ecosofia) esplicita o implicita. Un’ecosofia è informata sia da una comprensione scientifica di come gli organismi (compresi gli esseri umani) dipendono dalle interazioni con altri organismi e da un ambiente fisico per sopravvivere e prosperare, sia da un quadro etico per decidere perché la sopravvivenza e la prosperità sono importanti…»[vii].

Ebbene, dall’elaborazione dei dati della mia indagine emerge un preoccupante quadro verbale – e perciò stesso cognitivo – di quanto il vocabolario usato dall’86% degli italiani aiuti poco lo sviluppo della consapevolezza ecologica e l’impegno per la pace. A quest’ultimo ambito semantico, come già detto, ritroviamo solamente 1/12 del vocabolario di base della lingua italiana. Ciò non significa che tale rapporto sul piano del lessico rispecchi esattamente il nostro livello di coscienza pacifista, che invece la guerra in Ucraina sta paradossalmente facendo maturare. Il vero problema, però, è se si dispone di adeguati strumenti per esprimerlo ossia, per citare un noto libro [viii], se si hanno a sufficienza “le parole per dirlo”.

Viceversa, come ho avuto modo di sottolineare in altri contributi [ix], sembra che si faccia strada sempre più un linguaggio improntato ai sedicenti ‘valori militari’, sia a causa della crescente invadenza delle forze armate nelle istituzioni scolastiche italiane, sia per l’influenza della comunicazione mediatica che diffonde, in modo talvolta subdolo, modalità espressive ispirate a quel mondo.

Nell’impossibilità di pubblicare in questa sede l’intero database generato dalla mia ricerca, vorrei comunque offrire almeno un’idea di ciò che ne è emerso. Ad esempio, tra le parole registrate dal NVdB come quelle usate più frequentemente dagli italiani ritroviamo molti verbi che evocano direttamente la violenza della guerra e la retorica dell’eroismo militare (affrontare, ammazzare, attaccare, avanzare, battere, caricare, circondare, colpire, combattere, conquistare, difendere, distruggere, eliminare, imporre, intervenire, minacciare, morire, obbligare, occupare, opporre, provocare, resistere, ritirare, scoppiare, sottoporre, sparare, spaventare, uccidere etc.). Si tratta di una constatazione che preoccupa, dal momento che, in maggioranza non fanno certo parte del lessico quotidiano nè sembrano facilmente attribuibili ad altri contesti, sia pur in forma traslata.

Un secondo esempio di tale perniciosa tendenza si ricava dall’analisi dei sostantivi italiani più frequentemente usati, tra i quali ritroviamo abbastanza sorprendentemente termini riferibili prevalentemente alle forze armate, quali: arma, attacco, battaglia, capitano, carabiniere, carica, controllo, coraggio, difesa, dovere, eroe, esercito, forza, fronte, fuoco, generale, guerra, impresa, intervento, lotta, militare, missione, nazione, nemico, norma, nucleare, obiettivo, onore, pericolo, piano, pistola, principio, reazione, rischio, rispetto, servizio, sfida, soldato, squadra, strategia, superiore, tensione, trasmissione, ufficiale, valore, zona etc.

Se teniamo conto del fatto che la nuova edizione del lessico di base curata da De Mauro risale al 2016 e che in questi sette anni l’influenza dei militari sul piano socioculturale è molto aumentata, non possiamo non allarmarci per la frequenza di questa particolare terminologia nel linguaggio corrente di 8,6 italiani su 10.

La controprova è data dalla ricorrenza molto più ridotta in esso di termini che esprimano valori di pace, giustizia, tutela dei diritti umani e rifiuto della violenza nelle sue varie forme. Questa tipologia di parole, infatti, ricorre nel vocabolario di base fondamentale in misura estremamente limitata, poiché solo un lemma su dodici sembra ricadere in questo pur ampio campo semantico.

Vi ritroviamo, comunque, parecchi verbi che esprimono atteggiamenti nonviolenti, equi e solidali, come: accettare, accogliere, accompagnare, adottare, affidare, aiutare, appoggiare, apprezzare, comprendere, comunicare, consentire, consigliare, convincere, dedicare, distribuire, fidarsi, garantire, informare, inserire, intendere, interessare, manifestare, migliorare, offrire, ospitare, partecipare, perdonare, permettere, prestare, proporre, realizzare, riconoscere, ringraziare, rispettare, salvare, scegliere, soddisfare, sperare, sviluppare, trasmettere, utilizzare, valutare, visitare etc.

Una lingua di pace, come ho cercato di argomentare nel mio manuale ecopacifista [x], dovrebbe trasmettere concetti ispirati alla nonviolenza ed alla riconciliazione, alla valorizzazione delle diversità ed alla sostenibilità ambientale ed anche alla giustizia sociale ed alla solidarietà. Un lessico ecopacifista, infatti, è quello che sappia comunicare – ed aiutare ad instaurare – una positiva relazione tra gli uomini e tra questi ed il contesto naturale di cui fanno parte. Uno sguardo al settore del vocabolario di base dell’italiano che va in questa direzione ci mostra però un repertorio lessicale ancora troppo limitato, se è vero che soltanto una parola su quattordici comunica interesse per i valori ecologici.

Si tratta prevalentemente di sostantivi che si limitano a cogliere elementi geo-biologici dell’ambiente naturale e antropizzato, ad es.: acqua, albero, animale, atmosfera, bosco, campo, canale, cielo, costa, fiume, fonte, freddo, frutto, giardino, isola, lago, lupo, mare, montagna, natura, neve, paese, parco, pesce, pietra, pioggia, punta, radice, rosa, sera, sereno, sole, spazio, stagione, stella, terra, uccello, uomo, uovo, vento etc.

Si sono individuati anche altri vocaboli con una maggiore pregnanza dal punto di vista ecologico, in quanto lasciano trasparire un atteggiamento positivo verso il ciclo vitale e la ricerca di un’integrazione delle persone col proprio contesto ambientale. Si tratta però solo di pochi verbi (crescere, generare, produrre, raccogliere, rispettare, trasformare, vivere) e di alcuni nomi e aggettivi riferibilipiù esplicitamente a temi ecologici (ambientale, catena, fenomeno, materia, naturale, organismo, pianeta, riproduzione, salute, temperatura, territorio, universo, verde, vita). 

Qualche conclusione da trarre…

Sempre più – e da più parti – comincia a manifestarsi l’esigenza di ripristinare ed accrescere un patrimonio lessicale che nel tempo è andato invece ad impoverirsi, riducendo la capacità delle persone di ‘leggere il mondo’, di comprenderlo e di agire in modo positivo e attivo per salvare ciò che possiede un autentico valore e per cambiare ciò che viceversa è frutto d’ingiustizia e di violenza. Un luninoso esponente di questa visione pragmatica del processo comunicativo e del ruolo dell’educazione in tal senso è stato don Milani, che ai suoi ragazzi della scuola di Barbiana aveva fatto capire che “la parola è la chiave fatata che apre ogni porta” perché “ci fa uguali”.

Ma se è vero che possedere solo 200 parole – come affermava il Priore – significa essere dominati da chi ne conosce 2.000, occorre forse ampliare la riflessione milaniana, andando oltre l’aspetto quantitativo (senza dubbio determinante) per affrontare anche quello qualitativo. Nel caso in esame, le 2.000 parole che il NVdB dell’Italiano ha riconosciuto come ‘fondamentali’ all’interno di quelle più frequentemente utilizzate dagli italiani, infatti, non soltanto costituiscono in ogni caso un misero patrimonio lessicale (anche se supportate dalle altre 3.000 parole del ‘lessico di alto uso), ma vanno analizzate più in profondità, per scoprire quale modello sociale e culturale rispecchiano e, inevitabilmente, contribuiscono a diffondere e perpetuare.

Paulo Freire, nel suo libro “L’educazione come pratica della libertà[xi] proponeva a chi perseguiva l’educazione delle masse popolari un approccio molto particolare incentrato sulla lingua, non solo come indispensabile alfabetizzazione e prima tappa nella liberazione degli ‘oppressi’, ma soprattutto come formazione umana delle persone e veicolo di coscientizzazione sociale. La prima delle cinque fasi del processo di educazione linguistica proposto da Freire era, non a caso, l’individuazione delle parole più usate nel linguaggio comune dei gruppi con cui si voleva operare. La seconda era caratterizzata dall’individuazione delle ‘parole generatrici’ più adeguate a sviluppare in quelle comunità un’autentica consapevolezza di sé, dei propri limiti e dei propri bisogni.

«Le parole generative, le parole fondamentali, di cui Freire va alla ricerca, lette nella mia chiave, altro non sono che il sistema simbolico che organizza i discorsi di quella cultura Quando Freire si propone di alfabetizzare gli abitanti delle favelas […] egli vuole ricostruire il vocabolario di quelle persone, il loro sistema culturale, per costruire un percorso di alfabetizzazione alla loro cultura, […] È necessario avere la coscienza della propria cultura di riferimento per poter pienamente autoprogettarsi, scegliere, decidere, per poter pienamente servirsi della propria cultura, rifletterla, criticarla, modificarla, farla evolvere e con essa far evolvere se stessi…»[xii].

Dall’indagine di cui ho dato conto emerge piuttosto un allarmante livellamento socioculturale verso il basso, che però non sembra affatto casuale né poco significativo. Dalla base lessicale comune e più condivisa dagli italiani, in effetti, sembra emergere un universo di riferimento in cui le parole generatrici di una visione militarista e violenta sono il doppio di quelle che invece ci descrivono nella nostra relazione con l’ambiente. Si tratta di un dato significativo da non sottovalutare ma anzi da tener ben presente quando ci si propone di educare alla pace in senso lato, soprattutto se si persegue un progetto ecopacifista che dia spazio alla coscientizzazione ed alla formazione e non solo all’azione [xiii].


Note

[i] Tullio de Mauro, Nuovo vocabolario di base della lingua italiana, 2016. (Cfr. anche il Dizionario Online di Internazionale, https://dizionario.internazionale.it/

[ii]  Licia, “Le 7500 parole del lessico di base dell’italiano” (29.12.2016), Terminologia etc., https://www.terminologiaetc.it/2016/12/29/vocabolario-base-italiano-demauro/

[iii] Tullio De Mauro, “Il Nuovo vocabolario di base della lingua italiana” (23.12.2016), Internazionale, https://www.internazionale.it/opinione/tullio-de-mauro/2016/12/23/il-nuovo-vocabolario-di-base-della-lingua-italiana

[iv] «Il NVdB si fonda sullo spoglio elettronico (controllato manualmente) di testi lunghi complessivamente 18.843.459 occorrenze raggruppati in sei categorie di estensione approssimativamente equivalente: stampa (quotidiani e settimanali), saggistica (saggi divulgativi, testi e manuali scolastici e universitari), testi letterari (narrativa, poesia), spettacolo (copioni cinematografici, teatro), comunicazione mediata dal computer (chat eccetera), registrazioni di parlato» (T. De Mauro, https://www.internazionale.it/opinione/tullio-de-mauro/2016/12/23/il-nuovo-vocabolario-di-base-della-lingua-italiana )

[v]  Cfr. Ermete Ferraro (2022), Grammatica ecopacifista. Ecolinguistica e linguaggi di pace (Quad. Satyagraha n. 42), Pisa, Centro Gandhi Edizioni

[vi]  “Corpus-assisted discourse studies”, Wikipedia, https://en.wikipedia.org/wiki/Corpus-assisted_discourse_studies (trad. mia)

[vii]  Arran Stibbe (2014), “An Ecolinguistic Approach to Critical Discourse Studies”, in Critical Discourse Studies, 11.1, London, Routledge https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/17405904.2013.845789

[viii]  Cfr. Marie Cardinal (2001), Le parole per dirlo, Milano. Bompiani

[ix]  Oltre al libro già citato (in particolare la IV parte, su “riferimenti e indicazioni per una grammatica ecopacifista”), cfr. anche alcuni miei articoli: Disarmiamo la nostra scuola (2019); Fenomenologia dello strumento militare (2020); Il militarismo eterno (2020); Una lapide al ‘militarismo noto’ (2021) e A rotta di…protocollo (2022), tutti pubblicati sul mio blog ( https://ermetespeacebook.blog/)

[x]  Cfr. Ferraro 2022, in particolare alle pp. 112-118

[xi] Il testo originale “Paulo Freire (1967), Educaçao como pratica da liberdade, Paz e Terra, Rio de Janeiro, è stato così tradotto in italiano nelle edizioni Mondadori (Milano, 1977)

[xii] Ada Manfreda (2017), La parola che emancipa, l’apprendimento che trasforma. Le parole generative di Paulo Freire,  http://siba ese.unisalento.it/index.php/sppe/article/download/18429/15729 , p. 54

[xiii]  Cfr. anche: M.I.R. Italia (a cura del) 2021, La colomba e il ramoscello – Un progetto ecopacifista, Torino, Ed. Gruppo Abele.


© 2023 Ermete Ferraro

Etimostorie #10: ‘vigilare’ – ‘vegliare’

La Domenica delle Palme, ancora una volta, ci ha proposto il racconto di quanto accadde 2023 anni fa a Gerusalemme al rabbi nazareno Yehoshua, passato nel giro di poche ore dalle grida osannanti e festanti alle urla feroci della folla che assediava il pretorio. La cronistoria di quell’inverosimile processo sommario, culminato nella condanna a morte senza una chiara imputazione di colui che fino a poche ore prima era stata ritenuto un profeta ed un guaritore, risulta estremamente realistica ed efficace, pur con alcune varianti stilistiche nei tre evangeli sinottici.

Un passo particolarmente toccante e significativo è quello che narra la dolorosa sensazione di smarrimento, abbandono, delusione e tristezza provata dal Maestro nel giardino degli ulivi, circondato da discepoli stanchi, sfiduciati e quasi incapaci di comprenderne davvero le parole. Ed è proprio quella stanchezza – sia mentale sia fisica – che si era impadronita di loro che li aveva portati ad addormentarsi, anziché vegliare e pregare come invece era stato loro raccomandato.

«Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» [i].

Nel testo originale in greco di questo brano («Οὕτως οὐκ ἰσχύσατε μίαν ὥραν γρηγορῆσαι μετ᾽ ἐμοῦ. γρηγορεῖτε καὶ προσεύχεσθε ἵνα μὴ εἰσέλθητε εἰς πειρασμόν· τὸ μὲν πνεῦμα πρόθυμον ἡ δὲ σὰρξ ἀσθενής» spicca il verbo γρηγορέω (grigoréo), reso in italiano con “vegliare”.  Il Maestro, infatti, aveva chiesto loro di restare svegli e vigilanti, ma essi si erano comunque addormentati, in lingua greca καθεύδοντας, dal verbo καθεύδω (kathèudo).  Il prefisso preposizionale katà (giù, in basso, sotto) evoca il cadere nel sonno (in inglese si dice “to fall asleep”), metafora del conseguente “cadere in tentazione”, da cui Gesù pur li aveva esortati a guardarsi. L’espressione in greco, però, suona un po’ diversa: “μὴ εἰσέλθητε εἰς πειρασμόν” in quanto, più che al ‘cadere’ passivamente, allude al movimento attivo di chi si avvicina, va in direzione di qualcosa o qualcuno, entrando in un certo luogo (éis = in/dentro + érchomai =andare).

Ebbene, se innegabilmente l’opposto di addormentarsi, cedere al sonno, è ‘vegliare’, sarebbe forse utile approfondire quel verbo, che usiamo abitualmente ma di cui non sempre conosciamo il significato originario.  D’altra parte non basta non dormire per ‘vegliare’, come ci suggerisce il verbo parallelo vigilare, identico in latino, che però suggerisce significati aggiunti.

«V. intr. e tr. [dal lat. vigilare, der. di vigil -ĭlis «vigile»] (io vìgilo, ecc.). – 1. intr. (aus. avere) a. letter. Vegliare, stare sveglio […] b. Stare attento, usare molta attenzione perché qualche cosa avvenga nel modo voluto […] 2. tr. Sorvegliare, seguire con attenzione e controllare lo svolgimento di un’azione, il modo di comportarsi di una o più persone, di gruppi o di enti, o anche il funzionamento di impianti e macchinarî, per poter intervenire rapidamente ed efficacemente se necessario…» [ii].

Insomma, non è sufficiente rimanere svegli per essere davvero ‘vigili’, aggettivo che suggerisce un’attenzione specifica verso qualcuno/qualcosa (ad-tendere), una ‘intenzionalità’ (in-tendere) che può essere originata solo da una salda motivazione. Il verbo greco γρηγορέω [iii] suggerisce peraltro un’accezione un po’ differente, che è quella del correre, dell’andare di fretta, ma sostanzialmente quella dell’essere svelti in quanto svegli (aggettivo che rinvia al verbo ἐγείρω = essere sveglio). Insomma, quella raccomandata dal Maestro ai suoi discepoli era una ‘vigilanza’ che non si limitasse a non cedere al sonno (che è comunque un allontanamento dalla realtà), ma li motivasse ad esercitare un’attenzione particolare, soprattutto in un momento critico come quello che avrebbe preceduto la cattura, il processo e la condanna.

Oggi il termine ‘vigile’ continua ad applicarsi a coloro i quali svolgano un ruolo professionale di vigilanza, spesso quando il resto della comunità è da tempo ‘caduta’ nel sonno, per assicurare un controllo sui beni comuni e sulla sicurezza delle persone. Però, mentre dalle nostre strade vanno progressivamente scomparendo i tradizionali ‘vigili urbani’ (termine da tempo sostituito da quello più vago ed anodino di ‘agente di polizia locale’), proliferano viceversa le agenzie di vigilanza privata, diurna e notturna, a salvaguardia dei beni e degli interessi di singoli, condomini, aziende ed esercizi commerciali. In una società dove l’avere domina incontrastato sull’essere, questi parapoliziotti (non a caso chiamati spesso alla spagnola vigilantes) sono quindi chiamati a ‘vegliare’ e ‘sorvegliare’, ma solo per evitare che qualcuno ‘entri nella tentazione’ di portar via i nostri preziosi averi…

Che dire? Se dell’evangelica raccomandazione a “vegliare e pregare” non è rimasto molto, anche al desueto invito alla “vigilanza politica” non si direbbe ormai che siano molti ad aderire, poiché la maggioranza delle persone sembrano anestetizzate dal pensiero unico e tutt’altro che attente a ciò che accade intorno a loro. Ma è proprio per questo che dovremmo finalmente svegliarci dal questo torpore sonnolento, ricordando che, etimologicamente, vigilare e vegliare sono verbi “che dipendono dal verbo vigeo: essere vivo, vigoroso: rad. *vig- [iv].

Vigilare, infatti, è il modo migliore per dimostrare di essere davvero “vivi e vegeti”...

Note


[i]  Mt 26:40-42

[ii]  https://www.treccani.it/vocabolario/vigilare/

[iii]  Cfr. https://el.wiktionary.org/wiki/%CE%B3%CF%81%CE%B7%CE%B3%CE%BF%CF%81%CF%8E

[iv]  Cfr. voce ‘vegliare’, in: D. Olivieri, Dizionario etimologico dell’italiano, Milano, Ceschina 1965

Una sporca guerra. Parlando…in generale

Non è facile ammetterlo, soprattutto per un antimilitarista, ma talvolta le autorità militari hanno fatto e fanno tuttora dichiarazioni molto più sensate e condivisibili di quelle dei politici.  Infatti, contrariamente a quanto affermato nella paradossale quanto sarcastica citazione da Georges Clemenceau, primo ministro francese negli anni ’20 dello scorso secolo (“La guerre! C’est une chose trop grave pour la confier à des militaires[i]), appare in modo sempre più evidente che a giocare pericolosamente, e da dilettanti, con la guerra sono invece proprio i nostri governanti.

Già nel 1961 un potente insegnamento sul pericoloso intreccio tra affari e politica in materia militare ci era venuto da quanto ebbe a dichiarare nel suo discorso di fine mandato il presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower, che ne era stato anche il più autorevole generale: «Nei consigli di governo, dobbiamo guardarci dall’acquisizione di un’influenza ingiustificata, cercata o meno, dal complesso militare-industriale. Il potenziale per il disastroso aumento del potere fuori luogo esiste e persisterà. Non dobbiamo mai lasciare che il peso di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i processi democratici. Non dovremmo dare nulla per scontato. Solo una cittadinanza attenta e ben informata può obbligare a unire adeguatamente l’enorme apparato di difesa industriale e militare con i nostri metodi e obiettivi pacifici, in modo che la sicurezza e la libertà possano prosperare insieme »[ii].

Ma è stata soprattutto la guerra in Ucraina a scatenare una serie di dichiarazioni da parte di vertici militari che contraddicono clamorosamente la vulgata mediatica ed i bellicosi discorsi di molti esponenti politici, grondanti retorica e zeppi di stereotipi. Il primo caso, forse quello più imbarazzante, sono state le spiazzanti dichiarazioni del potente vertice dell’U.S. Army, il gen. Mark Milley. Come rilevava Tommaso De Francesco in un suo editoriale su Il manifesto: «Nell’arco di poco più di tre mesi e per tre volte, il capo di stato maggiore dell’esercito statunitense […] ha ribadito che, a un anno dall’invasione russa, non c’è soluzione militare al conflitto in Ucraina […] Pragmatico e prudente sull’andamento del conflitto e credibilmente più consapevole della reale situazione sul campo di tanti «esperti» che affollano gli scranni tv partecipando, da lontano, alle battaglie, Mark Milley insiste: «Né l’Ucraina né la Russia sono in grado di vincere la guerra che, invece, può solo concludersi ad un tavolo negoziale», perché «se è praticamente impossibile» che la Russia conquisti l’Ucraina, cosa che «non succederà», resta «pure estremamente difficile che le forze di Kiev riescano a cacciare quelle di Mosca dalle loro terre» [iii].

Nel nostro Paese le voci critiche sulle decisioni politiche in materia non sono purtroppo caratteristiche dell’opposizione al governo di destra, ma serpeggiano in modo trasversale e contraddittorio nei due schieramenti. Risulta pertanto ancora più clamoroso che a sbilanciarsi sulle scelte italiane ed europee circa il conflitto armato russo-ucraino siano stati anche in Italia due autorevoli vertici militari, evidentemente consapevoli dei rischi del miope unilateralismo bellicoso dettato dalle scelte NATO ed europee.  A seminare lo scompiglio tra politici e commentatori, infatti, sono state le parole nientedimeno che dell’attuale Capo di Stato Maggiore della Difesa, l’amm. Giuseppe Cavo Dragone, come riferiva il quotidiano Libero in un articolo:  «Mentre gran parte della politica e dei commentatori, in Europa e negli Stati Uniti, sostengono che l’Ucraina “deve vincere” e che il mondo occidentale farà di tutto per sostenerla, i più esperti delle dinamiche boots on the ground di un conflitto affermano l’esatto contrario: ovvero la prudenza avvertendo sui rischi dell’escalation. Tra questi c’è il capo di stato maggiore della Difesa, l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone. “Una soluzione militare non esiste” per la guerra tra Russia e Ucraina, dice a Marco Menduini per la Stampa spiegando che “né gli uni, i russi, riusciranno mai a disarcionare la leadership ucraina; né gli ucraini potranno riuscire a riconquistare tutti i territori che sono stati invasi dalla Russia. Questo è un dato che rimane costante nel tempo”. Di certo, puntualizza l’ammiraglio, “non possiamo permetterci un altro conflitto congelato nel cuore dell’Europa“…» [iv].

Un mese dopo è toccato ad un altro vertice militare gettare pietre nello stagno della politica estera italiana. Il generale Marco Bertolini, già comandante del Comando Operativo Interforze, ha infatti dichiarato senza tanti giri di parole: «Ci stiamo facendo male da soli: così sabotiamo la pace, addio sovranità, intromettendoci in una guerra che non è nostra. Stiamo prendendo sempre più le parti di uno dei due belligeranti, riducendo lo spazio per una trattativa di pace” […] stiamo procedendo su una strada che renderà difficile, se non impossibile, riprendere le fila di una trattativa o recitare ruoli nella partita di pace […] continuiamo a gettare benzina sul fuoco fornendo armi ed energie a un altro Stato impegnato in guerra che rischia di diventare una never ending war» [v].

Ovviamente le motivazioni che hanno spinto sì autorevoli ufficiali stellati e con la greca a pronunciarsi criticamente sull’irresponsabile corsa di troppi nostri rappresentanti politici verso una guerra senza fine (ed anche con falsi fini…) sono ben differenti da quelle del mondo del pacifismo nonviolento. È infatti il fondato timore che la sovranità del nostro Paese sia ormai nelle mani di altri decisori e che – per citare ancora Bertolini – si sottraggano “preziose risorse alla nostra difesa” ad ispirare in primo luogo la caustica polemica di generali ed ammiragli sul ruolo dell’Italia nello scenario internazionale, in nome della “disciplina di alleanza”, ma con pesanti ricadute economiche e sociali negative.  Eppure è difficile non condividere il riferimento di Bertolini «alla grande ipocrisia di questo conflitto del quale ci siamo accorti solo all’ultimo momento, mentre il fuoco ha covato sotto la cenere per almeno otto anni, dal 2014, nella nostra indifferenza» [vi]. Un’ipocrisia che pervade trasversalmente destra e sinistra e che non tiene conto della crescente ostilità chiaramente espressa dalla maggioranza degli Italiani verso questa guerra insensata, devastante e sempre più rischiosa per tutti.

Ciò che resta tragicamente assente dal dibattito pubblico, però, è che da 120 anni un’alternativa difensiva – disarmata, civile, sociale e nonviolenta – esiste ed è vincente nel 52% dei casi. Che “la resistenza civile funziona” – come dice il titolo di una fondamentale ricerca sulla percentuale di successo delle campagne nonviolente confrontate con quelle belliche, nel periodo 1900-2006 [vii] – è quindi un fatto ormai acclarato, ma ancora poco conosciuto. La seconda falsità da contrastare, quindi, è che non esistano alternative alla passività ed alla resa, anche se per il complesso militare-industriale è preferibile che non si sappia in giro…

Note


[i]   Cfr. https://it.wikiquote.org/wiki/Georges_Clemenceau  (La frase citata era stata forse già pronunciata da Talleyrand)

[ii]   Dwight Eisenhower, Discorso di addio, 17.01.1961 (cfr. https://it.alphahistory.com/guerra-fredda/dwight-eisenhowers-discorso-d%27addio-1961/  – https://www.brookings.edu/research/eisenhowers-farewell-addresses-a-speechwriter-remembers/  – https://www.studocu.com/it/document/universita-degli-studi-di-napoli-lorientale/geografia-delle-relazioni-internazionali/eisenhower-traduzione-del-discorso/11740741

[iii] T. Di Francesco, “Generale, dietro la collina…” (19.2.2023), il manifesto, https://ilmanifesto.it/generale-dietro-la-collina

[iv] “Ammiraglio Cavo Dragone, la profezia finale: chi non vincerà la guerra” (25.02.2023), Libero, https://www.liberoquotidiano.it/news/esteri/34995407/ammiraglio-cavo-dragone-profezia-finale-non-vincera-guerra.html

[v] Vincenzo Bisbiglia, “Il generale Bertolini:”Ci stiamo facendo male da soli: così sabotiamo la pace, addio sovranità” (20.03.2023), il Fatto Quotidianohttps://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2023/03/20/il-generale-bertolini-ci-stiamo-facendo-male-da-soli-cosi-sabotiamo-la-pace-addio-sovranita/7102359/

[vi]  Ibidem

[vii] Vedi: Erica Chenoweth & Maria J. Stehan, Why Civil Resistance Works, Columbia Univ. Press, 2011

Etimostorie #9: Resilienza

Fino a poco più di cent’anni fa il sostantivo ‘resilienza’ era poco conosciuto ed utilizzato, per cui era difficile riscontrarne traccia in un discorso o in uno scritto. L’uso frequente, talora impreciso, che se ne fa in questo periodo, viceversa, sta progressivamente affermando il concetto che questa parola – al di là del riferimento ad una ben precisa proprietà fisica di alcuni materiali – attenga ad una qualità, una caratteristica virtuosa, connessa al comportamento umano, come peraltro era già successo con l’analogo, ma ben diverso, concetto di ‘resistenza’.

«La parola appare per la prima volta in italiano nel XVIII sec. col significato generico, non necessariamente legato ad un settore specifico, di capacità dei corpi di rimbalzare, di tornare indietro. L’accezione è legata alla sua origine latina: il verbo latino resilire, composto da re- + salire, ‘saltare’ si usava nel significato di ‘ritornare di colpo’, ‘rimbalzare indietro’, per estensione anche ‘ritirarsi’, ‘contrarsi’ […] Il latino resiliens comincia a circolare nella letteratura scientifica, redatta in latino fino al Seicento, per indicare “sia il rimbalzare di un oggetto, sia alcune caratteristiche interne legate all’elasticità dei corpi, come quella di assorbire l’energia di un urto contraendosi, o di riassumere la forma originaria una volta sottoposto a una deformazione” (L’elasticità di resilienza, accademiadellacrusca.it, 12/12/2014)”…». [i]

Etimologicamente parlando, l’idea centrale è quella di un oggetto (e per estensione anche di un soggetto) che abbia in sé l’elasticità necessaria per non lasciarsi de-formare dagli urti provenienti dall’esterno, riuscendo a reagire ad essi, recuperando così la forma iniziale.  Il verbo in transitivo latino salire(la cui forma nominale del supino-participio era saltum) viene tradotto variamente, con: saltare, slanciarsi, balzare, scorrere, pulsare etc.  Dalla sua più frequente forma iterativa saltare sono poi derivati (con la consueta variazione vocalica /a/ > /u/ e grazie ai relativi prefissi) un grappolo di verbi ben noti, come ‘esultare’, ‘esaltare’, ‘insultare’, ‘sussultare’ e ‘risultare’. Con lo stesso meccanismo derivativo, peraltro, dalla forma base si è formato il verbo italiano ‘assalire’, ma anche quello spagnolo salir (nel senso di sbucare fuori, uscire).

D’altronde il verbo greco originario allomai (hallomai) aveva lo stesso significato (saltare, sgorgare, scaturire), per cui il senso fondamentale di entrambi è quello di qualcosa/qualcuno che salta fuori, venendo a modificare una situazione statica iniziale. Non è un caso, infatti, che i sacerdoti romani conosciuti come Salii, e prima di loroquelli greci denominati Coribanti, si caratterizzassero proprio per le loro danze orgiastiche e saltellanti, da cui sono forse derivate le nostre ‘tarantelle’, anch’esse dotate infatti di una forte valenza esorcistica e rituale. Lo stesso termine ‘presule’ (oggi applicato ai prelati cattolici) è quindi uno strano ricordo di pratiche pagane, riferendosi al sacerdote più importante, che guidava quelle frenetiche danze.

Questo spiega come mai ad ogni azione violenta ed improvvisa diretta contro qualcuno (si tratti di un assalto fisico oppure di un insulto verbale) corrisponda solitamente dapprima una istintiva reazione emotivo-motoria (il sussulto) e poi un più volontario sforzo per reagire al colpo ricevuto, o con un ulteriore assalto violento oppure recuperando la situazione iniziale, con quella resilienza che ne dovrebbe neutralizzare effetti. La differenza tra ‘resistenza’ e ‘resilienza’ – come si spiega efficacemente in un articolo – è che: «La resistenza è silenziosa, ferma, ostinata sulla propria posizione, dura come sasso, là dove la resilienza è flessibile, adattabile, fantasiosa. La resistenza è dei forti, cose o uomini che siano. La resilienza è solo umana» [ii].

Re-sistere comporta infatti una reazione attiva, oppositiva e pertanto quasi sempre violenta, verso chi ha compiuto un assalto aggressivo, allo scopo di mantenere ad ogni costo la situazione iniziale.  La reazione resiliente, invece, esclude un atteggiamento di rigidità (sintetizzata dal bellicoso motto latino “frangar, non flectar”, tradotto con “Mi spezzo ma non mi piego”) e pertanto può prevedere un temporaneo cedimento [iii] che non è una resa, ma una reazione nonviolenta e creativa, spesso ancor più efficace.  Sant’Agostino, non a caso, capovolgeva la frase citata esortando i cristiani con le parole “Flectamur facile, ne frangamur”, invitandoli ad esercitare quella flessibilità in cui ritroviamo il ruolo positivo e non passivo della resilienza.

Però stiamo attenti, dal momento che quest’indubbia qualità – a forza di utilizzare questo termine un po’ troppo e non sempre a proposito – non sia trasformata in ciò che non è, mediante un processo di logoramento, logico prima che linguistico, cui peraltro sono già state sottoposte altre parole ‘alternative’.

«Perché questa curiosità etimologico-linguistica? Perché la parola “resilience” è ormai onnipresente in ogni discorso dei manager e degli economisti, e spesso anche negli articoli, negli studi e nelle analisi di economia e finanza, e nel linguaggio della Commissione europea e dei ministri delle Finanze dell’Eurozona […] Ma attenzione: abbiamo già visto che cosa è successo al termine “sostenibilità”, usato in origine nel suo senso di sostenibilità ecologica (non produrre danni irreversibili all’ambiente, tutelarlo nella durata), e passato poi anche a designare un concetto finanziario…» [iv]

Già, perché l’indubbia positività di una reazione diversa da quella aggressiva e violenta subita, fondata quindi sulla flessibilità e la capacità di recupero, rischia purtroppo di essere artatamente confusa con una ‘non-resistenza’, con l’atteggiamento passivo del classico pugile suonato, capace solo di ‘incassare’ bene i colpi. Anche il concetto psicologico di ‘adattamento’ all’ambiente fisico e sociale – di per sé positivo – è stato alla lunga svilito in una tendenza a non reagire, ad accettare passivamente la realtà, accontentandosi dell’esistente.

Il gandhiano satyagraha [v] c’insegna invece che la resilienza è anch’essa una forma di opposizione al male, di allenamento ad una resistenza alternativa alle avversità, che sbilancia e mette in crisi l’assalitore violento e ci consente di recuperare le forze. Ecco perché ad insulti ed assalti dovremmo addestrarci a reagire in modo opposto, spiazzante e nonviolento. Solo così potremo davvero esultare per un risultato positivo.


[i] Maria Vittoria D’Onghia, “Resilienza, una parola alla moda” (16.10.2020), https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/Resilienza.html#:~:text=L’accezione%20%C3%A8%20legata%20alla,ritirarsi’%2C%20’contrarsi‘.

[ii] Silvia Magnani, “Resistenza e resilienza”, https://www.silviamagnani.it/articoli/resistenza-e-resilienza/#:~:text=La%20resistenza%20%C3%A8%20silenziosa%2C%20ferma,La%20resilienza%20%C3%A8%20solo%20umana.

[iii] Cfr. la mia Etimostoria #6: Ermete Ferraro, “Cedere e suoi derivati”, https://ermetespeacebook.blog/2022/06/21/etimostorie-6-cedere-e-suoi-derivati/

[iv] Lorenzo Consoli, “Attenti alla parola ‘resilienza’ “ (14.06.2020), https://www.eunews.it/2020/06/14/attenti-alla-parola-resilienza/

[v] Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Satyagraha

Una battaglia ecopacifista…a propulsione antinucleare

Oltre 25 anni di mobilitazioni nonviolente per difendere la sicurezza dei cittadini e per denuclearizzare il mare di Napoli

di Ermete Ferraro

1. Un po’ di storia (1996-2010)

La battaglia dei VAS (Verdi Ambiente e Società) per liberare il golfo e la città di Napoli dal pericolo nucleare iniziò addirittura quando il circolo napoletano dell’Associazione non era ancora nato. Infatti, nel maggio del 1996, infatti, i responsabili regionale e cittadino dell’associazione Verdarcobaleno (D’Acunto e Ferraro, che in seguito costituirono VAS Napoli ed il Coordinamento campano) avevano già lanciato l’allarme sul grave rischio per la sicurezza e la salute della popolazione civile derivante dalla presenza di sottomarini nucleari nella base NATO (COMSUBSOUTH) collocata nell’isolotto di Nisida, di fronte a Bagnoli. [1]

In realtà la battaglia per la smilitarizzazione e denuclearizzazione del territorio e del mare di Napoli era cominciata molto prima, agli inizi degli anni ’70, con la mobilitazione del movimento pacifista napoletano, riunito intorno ad Antonino Drago [2], allora docente di storia della fisica alla “Federico II” e leader delle lotte degli obiettori di coscienza antimilitaristi per una difesa civile, sociale e nonviolenta.[3]  È da lì che in buona parte deriva, confluendo nell’azione di VAS in Campania, lo spirito ecopacifista che l’ha contraddistinta, arricchendo l’ecologia sociale, da sempre suo elemento costitutivo, con l’impegno per la difesa del territorio e dei suoi abitanti dalla minaccia nucleare.

Risale al 2001 la prima presa di posizione ufficiale dei VAS napoletani contro l’ingombrante e pericolosa presenza della portaerei nucleare USA Enterprise nel porto di Napoli, ripresa dai media locali [4]. Le proteste pubbliche contro l’indifferenza del Presidente della Regione Campania e del Sindaco di Napoli – responsabili della protezione del territorio e della salute dei cittadini – si sono susseguite negli anni successivi, ma tutti gli appelli dei VAS alle autorità competenti sono stati regolarmente disattesi e anche i media non hanno sempre pubblicizzato la loro denuncia. Solo tre anni dopo, nel 2004, fu ancora una volta un quotidiano di destra a riportare le motivate proteste degli ecopacifisti napoletani contro la minacciosa presenza di fronte al Maschio Angioino di ben due portaerei americane (la Enterprise a febbraio e la Truman a luglio). [5].

Già dal 2001, del resto, il Coordinamento dei circoli campani di VAS aveva promosso l’originale iniziativa denominata “Festa della Biodiversità” (che si è svolta a Napoli per quattro anni), ribadendo anche in quella sede che la cultura della biodiversità, naturale o culturale che sia, passa comunque per un modello di sviluppo alternativo, rispettoso della natura ma anche equo, solidale e pacifico. Ed è proprio in tale ambito che il supplemento speciale alla rivista Verde Ambiente nel 2004 pubblicò l’articolo di Ferraro “Quale ecopacifismo?” [6] In questo saggio, infatti, si chiariva perché questo termine non può essere ridotto ad una semplice somma di due grandi idealità, ma deve piuttosto proporsi come una sintesi organica, da cui scaturisca un modello di sviluppo alternativo, che rifiuti la violenza ed il dominio come propri elementi costitutivi.

Negli anni successivi l’intervento di VAS Campania ha affiancato quello di altre organizzazioni – come la sezione napoletana di Pax Christi [7] e soprattutto il Comitato Pace Disarmo e Smilitarizzazione del Territorio – Campania [8] – nella lotta contro la militarizzazione del territorio regionale e cittadino e per fare del Mediterraneo un mare di pace.[9] Dal 2007 ad oggi si sono susseguite le prese di posizione degli ecopacifisti di VAS contro l’ampliamento del Quartier Generale delle forze aeronavali della US Navy a Napoli-Capodichino (https://www.facebook.com/USNavalForcesEuropeAfrica/), con la collocazione, ancora una volta a Napoli, del nuovo comando militare USA relativo all’intero continente africano (AFRICOM).  Nel febbraio del 2009, infine, VAS ha lanciato ancora una volta un allarme sul rischio nucleare, in relazione allo scontro di due sommergibili nell’Atlantico, riproponendo pubblicamente la denuclearizzazione del porto di Napoli. [10]

Nell’aderire all’allora Coordinamento Campano per il No al Nucleare (C.C.N.N.), infine, VAS ha chiarito ulteriormente lo stretto legame che intercorre tra il c.d. “nucleare civile” e quello militare, facendo esplicito riferimento anche all’emergenza nucleare relativa alla presenza di natanti a propulsione atomica nel golfo di Napoli. [11]

Altra importante azione di VAS su questo terreno è stata, nel dicembre 2010, una richiesta ufficiale al Prefetto di Napoli, finalizzata ad avere accesso al Piano Provinciale di emergenza esterna dell’Area Portuale, relativo all’eventualità d’incidenti a natanti a propulsione nucleare, transitanti o alla fonda nella baia di Napoli. L’istanza, a firma di Guido Pollice, allora Presidente Nazionale di VAS – faceva seguito ad analoga richiesta del suddetto Comitato Pace, Disarmo e Smilitarizzazione – Campania, cui VAS aderiva a livello regionale, e ne ribadiva la legittimità, trattandosi di atti concernenti la sicurezza dei cittadini e la tutela dell’ambiente. Ancora una volta, infatti, VAS insisteva sulla necessità di trasparenza sui piani di emergenza elaborati e sulla verifica della loro effettiva incidenza ed efficacia.[12]

Prevedibilmente, la risposta della Prefettura di Napoli, dopo 15 giorni, fu evasiva e scontata: il richiedente avrebbe dovuto indicare di quali parti del piano provinciale vorrebbe copia, tenendo conto che parte del documento era stato “classificato” come soggetto al segreto militare. Ma la replica di VAS fu netta, affinché fosse chiaro che l’associazione e le altre organizzazioni della rete pacifista campana non si sarebbero fermate fino a quando la popolazione napoletana non avrà ricevuto – come le spetta per legge – un’informazione reale, completa ed esplicita sui rischi previsti e sulle misure di protezione civile previste per fronteggiarle.

2. Il pericolo nucleare sopra e sotto il ‘mare nostrum’

Apr. 2011- Manifestazione del CPDC al Porto di Napoli

Negli ultimi anni la presenza dei natanti a propulsione nucleare nel golfo di Napoli è diventata più discreta. Chi non è giovanissimo ricorda però che l’arrivo di una gigantesca portaerei statunitense nel porto è stata spesso accolta come un grande evento, quasi come un’esibizione. Migliaia di persone, fra cui studenti, facevano allora pazientemente la coda per visitare, stupiti, quelle centrali atomiche galleggianti, con i loro bei bombardieri allineati sopra… Eppure si tratta di una formidabile fabbrica di morte e, soprattutto, di una fonte di gravissimo rischio per la sicurezza e la salute di chi abita in quella città, che dal dopoguerra non si è mai liberata dall’ingombrante “protezione” dei cosiddetti Alleati, che continuano ad “occuparne” da allora il territorio ed il mare. Fra l’altro, come ricorda Alessandro Marescotti, responsabile di Peacelink:

I propulsori nucleari sono sottoposti al decreto legislativo 230/95 [13] relativo ai reattori nucleari in genere; tale normativa (che comporta un obbligo di informazione alle popolazioni e la definizione di un piano di emergenza nucleare) si applica quindi ad esempio a tutti i sottomarini statunitensi i quali sono tutti a propulsione nucleare; per le armi nucleari invece non vi è alcuna normativa che salvaguardi la popolazione e anzi le autorità militari Usa hanno l’ordine di non confermare e non smentire la presenza a bordo di tali armi… [14]

Il paradosso di un Paese che, con ben due referendum democratici, ha bandito il “nucleare civile” ma è costretto, suo malgrado, a convivere con armamenti e natanti nucleari è un evidente prova della follia militarista, di fronte alla quale ogni garanzia di trasparenza democratica risulta inesorabilmente cancellata. Ancor più paradossale è che:

… negli Stati Uniti, per ragioni di sicurezza, le unità militari a propulsione nucleare non sostano e non attraccano nei porti commerciali. E sempre per ragioni di sicurezza le navi commerciali non hanno propulsori nucleari a bordo. Un incidente nucleare può provocare la fuoriuscita di plutonio la cui radioattività perdura per millenni (si dimezza solo dopo 24 mila anni) provocando il cancro (il chimico Enzo Tiezzi ha scritto: “Un chilo di plutonio disperso nell’ambiente rappresenta il potenziale per 18 miliardi di cancro al polmone”). [15]

Eppure a noi italiani, e in particolare agli abitanti delle città di una dozzina di porti (Augusta, Brindisi, Cagliari, Castellammare di Stabia, Gaeta, La Maddalena, La Spezia, Livorno, Napoli, Taranto, Trieste, Venezia) tocca da decenni l’onere di ospitare questi scomodi visitatori, col rischio di trasformare quello che una volta veniva chiamato Mare Nostrum in un potenziale Mare Monstrum. Esagerazioni? Allarmismi dei soliti antimilitaristi? Purtroppo la realtà è più grave di quanto la si possa dipingere, visto che sappiamo bene cosa possiamo aspettarci dalla Protezione Civile in Italia, soprattutto se a mettere i bastoni fra le ruote della sua già discutibile organizzazione territoriale ci sono le forze armate e le secretazioni militari. Ma di che cosa stiamo parlando, quando lamentiamo l’insicurezza dei porti italiani?

Per sicurezza intendiamo l’applicazione di tutti quei sistemi tecnologici in grado di prevenire o rimediare ai possibili problemi che possono insorgere durante il funzionamento del reattore nucleare e che possono provocare gravi ripercussioni sulle persone e sull’ambiente. In campo civile esistono numerosi sistemi di sicurezza e di emergenza obbligatori, però su un sottomarino tutto questo non è fisicamente possibile, per ragioni di spazio e di funzionalità. Di conseguenza ci ritroviamo col paradosso che reattori nucleari che non otterrebbero la licenza in nessuno dei paesi che utilizzano l’energia atomica, circolano invece liberamente nei mari. Inoltre questi sottomarini affrontano condizioni operative pericolose per via del loro impiego militare anche in tempo di pace (esercitazioni, pattugliamento ecc.) che possono comportare altri incidenti (esplosione di siluri, collisioni, urti col fondale) dalle conseguenze catastrofiche per l’impianto nucleare a bordo. [16]

Fantascienza da esaltati antinuclearisti? No di certo, visto che correva l’anno 1968 quando si verificò il primo incidente del genere e, guarda caso, proprio nel porto di Napoli! Si trattava del sottomarino americano Scorpion, coinvolto il 15 aprile di quel fatidico anno in una tempesta, andando ad urtare la poppa contro una chiatta, che affondò. Fu ispezionato nello stesso porto. Esplose poche settimane dopo – il 22 maggio 1968 – nell’Atlantico al largo delle Azzorre, inabissandosi con il propulsore nucleare, due bombe atomiche e 99 uomini di equipaggio. Solo un mese prima lo stesso sottomarino era transitato per il porto di Taranto…  Le poche fonti informative disponibili, visto l’assordante silenzio che avvolge da sempre questi gravissimi eventi, riportano che qualcosa di simile si verificò nel mar Jonio anche sette anni dopo:

La notte del 22 settembre 1975, nello Jonio meridionale, la portaerei americana Kennedy si scontrò con l’incrociatore (sempre americano) Belknap. Scoppiò un incendio che giunse a pochi metri dalle testate nucleari dei missili Terrier e partì uno dei più alti livelli di SOS nucleare, denominato “broken arrow”. Ha commentato l’esperto di questioni militari William Arkin: “Se le fiamme avessero raggiunto i missili le possibilità sarebbero state due: o le testate atomiche sarebbero esplose con effetti facilmente immaginabili, oppure la nave sarebbe affondata a poche miglia dalle coste di Augusta, zona frequentata dai pescherecci italiani, con conseguenze ambientali molto gravi”.  […] Dell’SOS nucleare non si è saputo nulla fino al 1989 quando l’ammiraglio Eugene Carrol diffuse quelle che il Corriere del Giorno ha definito “agghiaccianti rivelazioni”: “Una catastrofe nucleare nello Ionio l’abbiamo sfiorata quattordici anni fa” (prima pagina del 26 maggio 1989) [17].

Uno degli altri casi di cui si abbia notizia risale al luglio del 2000, quando un sottomarino a propulsione nucleare della US Navy subì un’avaria nel porto di La Spezia. L’episodio fu subito coperto dal silenzio stampa, ad eccezione del quotidiano “Il Secolo XIX”.

Nel 2003 la Prefettura di Latina, Protezione Civile, diffuse, a richiesta, estratti del Piano di emergenza esterna relativo alla sosta di unità navali militari a propulsione nucleare nella rada di Gaeta. (Revisione 2001). Questa città, infatti, è stata per decenni base operativa della 6^ Flotta della US Navy e nella sua rada attraccavano anche i sottomarini nucleari, ragion per cui le preoccupazioni dei cittadini e delle associazioni risultavano più che fondate. Secondo il documento (o meglio, le parti che ne sono state diffuse) le misure di sicurezza previste sarebbero in grado di “assicurare la protezione delle popolazioni“. Non era però dello stesso avviso Antonino Drago, docente di storia della fisica all’università di Napoli, che sottolineava invece la scarsa plausibilità scientifica del Piano.

Di fatto, il rapporto si ritaglia una ipotesi tecnologica di tutto di comodo: la fusione del nocciolo del reattore nucleare, senza che ci sia fuoriuscita di sostanze radioattive, se non per la incontinenza parziale della terza protezione (oltre quelle del rivestimento delle barre di combustibile e del pentolone o vessel), in questo caso lo scafo intero del sommergibile nucleare: il rivestimento esterno può avere qualche crepa e allora un po’ di gas potrebbe sfuggire all’esterno. Ma questo può avvenire solo in una primissima fase della fusione del nocciolo e non rappresenta affatto lo “incidente massimo ipotizzabile”, casomai quello quasi minimo. […] Come gli altri piani per le centrali civili, questi piani di emergenza dovevano essere revisionati dopo Chernobyl. Ma si è aspettato a lungo. Alla fine del 2001 il gioco di parole (“ipotesi credibile”) è stato ripetuto senza modifiche. D’altronde le autorità non avevano vie d’uscita: o rifiutare questi reattori nucleari su tutto il territorio nazionale dicendo “No” anche agli USA, o subire le conseguenze di un eventuale incidente con uno straccio di piano di emergenza scritto per nascondere la realtà [18].

Indipendentemente dalla validità scientifica delle ipotesi d’incidente in uno dei porti italiani che ospitano natanti a propulsione nucleare, il vero problema è quello della totale assenza di trasparenza in materia, che fa a pugni con l’esigenza di garantire alle popolazioni locali una corretta informazione sui rischi che corre e su come le autorità a ciò preposte pensano di fronteggiarli.  Eppure su questo il citato decreto legislativo 230/95 era stato esplicito, poiché agli articoli 129 e 130 parlava di “obbligo di informazione” nei confronti della popolazione, che avrebbe pertanto il diritto di essere informata senza neanche farne richiesta, visto che dovrebbe trattarsi di “informazioni…accessibili al pubblico, sia in condizioni normali, sia in fase di preallarme o di emergenza radiologica“.

1. La popolazione che rischia di essere interessata dall’emergenza radiologica viene informata e regolarmente aggiornata sulle misure di protezione sanitaria ad essa applicabili nei vari casi di emergenza prevedibili, nonché sul comportamento da adottare in caso di emergenza radiologica. 2. L’informazione comprende almeno i seguenti elementi: a) natura e caratteristiche della radioattività e suoi effetti sulle persone e sull’ambiente; b) casi di emergenza radiologica presi in considerazione e relative conseguenze per la popolazione e l’ambiente; c) comportamento da adottare in tali eventualità; d) autorità ed enti responsabili degli interventi e misure urgenti previste per informare, avvertire, proteggere e soccorrere la popolazione in caso di emergenza radiologica. 3. Informazioni dettagliate sono rivolte a particolari gruppi di popolazione in relazione alla loro attività, funzione e responsabilità nei riguardi della collettività nonché al ruolo che eventualmente debbano assumere in caso di emergenza [19].

Un ulteriore episodio, denunciato anche da VAS, fu lo scontro di due sommergibili nell’Atlantico, avvenuto nel febbraio 2009, che riproponeva il problema della sicurezza delle popolazioni residenti nelle città sedi di porti in cui è consentito l’accesso di natanti nucleari. Appare dunque più che legittimo chiedersi che cosa succederebbe se dovesse verificarsi qualcosa di simile in un territorio densamente abitato come l’area metropolitana di Napoli. E infatti che cosa accadrebbe in caso d’incidente nucleare se lo è chiesto Angelica Romano, che si è soffermata proprio sulle conseguenze per la popolazione napoletana:

Napoli è una metropoli di oltre 3 milioni di persone, con una densità di 8.567,79 abitanti per kmq, altissima rispetto ad altre città. Come si potrebbe salvare da un pericolo nucleare? […] Per i reattori a basati sul plutonio…vi può essere una dispersione nell’ambiente di questo elemento, caratterizzato da potere cancerogeno e persistenza nell’organismo molto elevati. Naturalmente le conseguenze sull’ecosistema marino e su tutta la catena ecologico- alimentare a esso legata sono incalcolabili [20].

Ma allora che cosa bisognerebbe fare per garantire ai cittadini quanto meno la conoscenza preventiva del rischio che corrono e dei provvedimenti da adottare in caso di malaugurata emergenza nucleare? In ultima analisi, poi, è questo il vero problema oppure bisognerebbe, in modo assai più radicale, impedire l’accesso di qualunque natante a propulsione nucleare nei porti italiani, come peraltro già avviene in paesi come il Giappone, la Nuova Zelanda e perfino nelle principali porti civili degli stessi Stati Uniti d’America?

3. Emergenza nucleare: un Piano che va troppo piano

Dalla normativa vigente in Italia fin dal 1995, con successive modificazioni ed aggiornamenti, scaturisce per le amministrazioni locali l’obbligo di provvedere comunque ad una “informazione preventiva“. Da chi altri, del resto, i cittadini potrebbero avere notizia del rischio di una potenziale “emergenza radiologica” e delle misure predisposte per fronteggiarla? Eppure finora ben poco è trapelato di ciò che tutti pur avrebbero diritto di conoscere, stando alla legge italiana. Per molti anni gruppi e comitati aderenti alla rete associativa Peacelink si erano battuti perché fosse osservata questa prescrizione, ma solo all’inizio del 2000, finalmente, essa riuscì nel proprio intento di controinformazione.

La lunga lotta di PeaceLink per conoscere i piani di emergenza cominciò a febbraio dell’anno 2000 […] A settembre del 2000 la Prefettura di Taranto – dopo l’affondamento di un sottomarino nucleare russo, dopo l’intimazione di PeaceLink ai sensi di legge e alla vigilia di un incandescente consiglio comunale monotematico sul rischio nucleare – ci dette importanti informazioni ufficiali da cui emergeva che la città sarebbe stata evacuata in caso di grave incidente nucleare e di forte dispersione di radioattività. Fu una crepa aperta nel muro del silenzio. Poco dopo il prefetto di Taranto fu trasferito. [21]

Estratti del Piano di emergenza nucleare per il porto di Taranto, infatti, erano ormai consultabili sul sito di Peacelink. In particolare, nella premessa di quel documento era scritto che:

Scopo del presente piano è quello di salvaguardare, mediante l’adozione di idonee misure di sicurezza, l’incolumità delle popolazioni interessate dai pericoli delle radiazioni derivanti da eventuali incidenti ad unità militari a propulsione nucleare.  [22]

Il secondo caso di “disvelamento”, sia pur parziale, dei Piani di emergenza predisposti per i porti soggetti a transito e sosta di natanti nucleari fu quello, già citato, di Gaeta. Anche allora, però, il documento era stato ottenuto solo grazie alla mobilitazione dal basso. In entrambi i casi, comunque, non si capiva come le autorità responsabili pensassero di salvaguardare l’incolumità degli abitanti tacendo proprio su tali possibili emergenze e soprattutto sulla condotta da seguire nel caso di un incidente nucleare.

Nel documento reso noto dalla Prefettura di Taranto si affermava che il piano “verrà posto in atto automaticamente, a cura delle Autorità/Enti” a ciò preposti. Ma di quale improbabile “automatismo” si parlava? La verità è che le autorità in questione sapevano (e tuttora sanno) che non è possibile allertare un’intera popolazione civile senza averle fornito in anticipo uno straccio di “informazione preventiva” di cui, viceversa, ha pieno diritto.

Però, si ribatte, c’è il problema della segretezza da rispettare, quando si tratta di questioni che hanno una valenza militare… Ebbene, è un pretesto inaccettabile, visto che in altri paesi, europei e non, questo genere di piani sono già da anni di pubblico dominio. Eppure chi ci ha governato finora ha continuato ottusamente a trincerarsi dietro i soliti omissis e a classificare dei piani di protezione civile come se fossero documenti top secret, alla faccia dei principi elementari di trasparenza democratica e vanificando ogni tentativo di organizzare efficienti misure di difesa civile. Come osservava Vittorio Moccia a proposito a questa cappa assurda di segretezza, nemica dell’efficienza:

Le procedure d’emergenza del piano prevedono l’allontanamento dell’imbarcazione, su cui si è verificato l’incidente, entro un’ora, per evitare che le radiazioni investano le persone. Ma la ‘contaminazione del suolo’ (mare e fondali) resta comunque inevitabile. Per i cittadini è prevista l’evacuazione dell’area interessata e la loro sistemazione nelle scuole. Inoltre, il questore dovrebbe requisire, per l’assistenza sanitaria, gli alberghi e, per ‘esigenze di trasporto’, gli autobus. […] in pochi minuti dovrebbe essere somministrato a migliaia di bambini e di donne in gravidanza un prodotto per difendere la tiroide dalla nube nucleare…Tale prodotto non è in dotazione a nessuna scuola e la protezione civile ne sarebbe di fatto priva in caso di emergenza. Un’esplosione del reattore nucleare comporterebbe inoltre la dispersione di plutonio, la cui radioattività si dimezza in 24 mila anni. È infine previsto che tutte le informazioni da diramare agli organi d’informazione siano filtrate dall’ufficio stampa della Prefettura [23].

Chiunque viva a Napoli e ne conosca le drammatiche problematiche di vivibilità e di mobilità si rende che un piano d’emergenza, senza un’adeguata pubblicizzazione e preparazione preventiva dei diretti interessati, in una situazione di grave allarme come quella ipotizzata sarebbe destinato a sicuro fallimento. Basti pensare al quotidiano caos dei trasporti ed alla consueta disorganizzazione e scarsa comunicazione reciproca delle varie amministrazioni pubbliche per capire come un’emergenza improvvisa – peraltro del tutto sconosciuta nella sua natura e nelle sue caratteristiche dagli stessi cittadini – avrebbe scarse possibilità di essere gestita adeguatamente e rischierebbe di trasformarsi in una tragedia nella tragedia.

Ma come andavano già allora le cose fuori del nostro Paese?  Sicuramente meglio, anche se dove di queste cose si parlava già da anni non erano comunque state trovate soluzioni che andassero oltre una più efficiente gestione dell’emergenza nelle città che ospitavano nei loro porti natanti a propulsione nucleare. La risposta in termini di misure di protezione, infatti, restava affidata sostanzialmente alle autorità civili e militari, mentre le misure sanitarie – allora come ora – ricordano la vecchia canzone napoletana: “Pìgliate na pastiglia“…

4. Uno sguardo alla situazione di alcuni stati esteri

SPAGNA > Nel 2010 l’organismo competente in materia di protezione civile della Comunità Autonoma Valenciana approvò il “Piano di Emergenza Esterna del Porto di Valencia”, in ottemperanza dell’art. 16 del Real Decreto 1259/1999, relativo al “controllo dei rischi inerenti agli incidenti gravi nei quali siano presenti sostanze pericolose” ed in base al decreto n. 19 del 3.11.2009 del Presidente di quella “Generalitat”. [24] Anche in Spagna si notava reticenza e lentezza burocratica nel passaggio dalla norma nazionale all’attuazione a livello locale, tenuto anche conto dell’autonomia che era stata accordata ad alcuni territori come la regione valenciana o la Catalogna. [25]

FRANCIA > Nel 2010 si svolsero nella città di Toulon le esercitazioni nazionali di sicurezza civile. Il porto militare di Tolone è particolarmente ampio (250 ettari) ed ospita sottomarini nucleari, oltre alla portaerei nucleare francese Charles de Gaulle. Dal 2003 era stata istituita una commissione per l’informazione su questo sito militare, per “rispondere a tutte le domande relative all’impatto delle attività nucleari sulla salute e l’ambiente“. Essa era “composta da rappresentanti dell’amministrazione civile dello Stato, da quelli degli interessi economici e sociali, delle associazioni riconosciute di protezione dell’ambiente e delle collettività locali“. Ad ogni cittadino, in ogni caso, era possibile accedere alle informazioni del sito dedicato al “Piano Particolare d’Intervento (PPI Toulon)”, per cercarvi risposte alle più comuni domande in materia. [26]

REGNO UNITO > Era stato regolarmente aggiornato, dal 2001 al 2010, il “Portland Port Off-Site Reactor Emergency Plan”, il cui testo, completo di allegati e planimetrie, era già consultabile con facilità sul sito dedicato [27], a cura del Consiglio della Contea del Dorset. Il documento era molto chiaro sui rischi ipotizzabili di contaminazione diretta o indiretta del territorio e della sua popolazione, nonché d’inquinamento radioattivo delle acque marine. Seguivano le contromisure applicabili, tenuto conto che il raggio di rischio va da una zona rossa centrale (meno di 1 km) fino ad un anello esterno, compreso tra 1,5 e 10 km. da essa. Ad ogni ipotesi di rischio corrispondeva un intervento, suddiviso in base a 3 livelli, da quello strategico (gold) al tattico (silver) e all’operativo (bronze). Il piano era corredato da alcuni opuscoli divulgativi per i cittadini di Portland, uno dei quali (realizzato nel marzo 2010) affrontava l’emergenza radiologica in caso d’incidente nucleare che si fosse verificata in quel porto. Le indicazioni e raccomandazioni – sintetizzate nel motto: “Go in – Stay in – Tune in” – a dire il vero non sembrano particolarmente tranquillizzanti. Ai cittadini si riservava infatti un ruolo del tutto passivo, invitandoli a restare al chiuso e ad informarsi via radio, mentre la mobilitazione riguardava solo le organizzazioni a ciò preposte.

U.S.A. > La normativa statunitense in materia rinviava all’azione svolta dall’ U.S. National Nuclear Security Administration (NNSA). Secondo questo Ente federale, “la sicurezza ambientale nel funzionamento delle navi a propulsione nucleare degli USA costituirebbe la chiave per la loro accettazione in patria e all’estero“. Grazie a questo rigoroso controllo della radioattività, sempre secondo la NNSA, il programma avrebbe “registrato l’assenza di ogni effetto ambientale negativo derivante dalle operazioni delle navi da guerra statunitensi a propulsione nucleare“. Esse, pertanto, sarebbero state quindi “le benvenute in oltre 150 porti di più di 50 stati e dipendenze, così come nei porti degli Stati Uniti d’America” [28]. Ovviamente queste trionfalistiche dichiarazioni suonavano poco credibili, date le premesse. Per quanto riguardava i piani di emergenza nelle aree portuali interessate dal transito e/o dalla sosta delle U.S.naval nuclear-powered ships, invece, non si avevano notizie. Ciò che si sapeva era che il programma di monitoraggio svolto dal NNS. – in collaborazione con l’EP., l’Agenzia federale di protezione ambientale – consisteva nell’analizzare l’acqua, il sedimento, l’aria ed esemplari marini, allo scopo di verificare che non vi fossero effetti negativi per l’ambiente. Verifiche, inoltre, erano stati previste per il personale militare e civile impegnato nei natanti nucleari americani, cui erano stati garantiti controlli sanitari in base alle normative nazionali sull’esposizione alle radiazioni. Il resto, secondo le amministrazioni USA, appariva solo una questione di possibile allerta contro eventuali minacce terroristiche, la cui competenza era ovviamente dei “servizi di sicurezza”, e pertanto soggetta a segreto militare [29].

CANADA > La situazione del Canada era sottoposta alla normativa federale in materia, di cui si è avuta notizia visitando il sito del ministero canadese della Sanità, in particolare nelle pagine riguardanti il Federal Nuclear Emergency Plan [30]. In particolare, al punto 2.3.2 di questo documento, si affrontava il caso di “un evento che coinvolga navi che visitino il Canada o che transitino lungo le acque canadesi“. Un serio incidente ad un natante a propulsione nucleare era considerato equivalente a quello che potrebbe coinvolgere un impianto nucleare civile, sia pure con effetti meno estesi. In questo piano di emergenza, la Difesa Nazionale del Canada faceva riferimento ad una zona compresa tra 1 e 5 chilometri, ai fini di un’urgente azione protettiva nel territorio che circonda i porti interessati al passaggio di natanti nucleari. Ciò comportava immediate analisi di campioni di sostanze alimentari e di suolo, per procedere alle analisi necessarie ad assicurare la sicurezza della popolazione residente nelle vicinanze. Secondo la normativa canadese, i natanti nucleari avrebbero potuto visitare solo tre porti: uno della Nova Scotia e due della Columbia Britannica. In ogni caso, nessun natante era autorizzato a trasportare quantità significative di sostanze radioattive nei corsi d’acqua canadesi, sebbene non se ne escludesse la possibilità in futuro.

NUOVA ZELANDA > La legislazione neo-zelandese aveva previsto, con legge apposita, la creazione di una Nuclear Free Zone, al fine di “promuovere ed incoraggiare un contributo effettivo da parte della Nuova Zelanda all’essenziale processo di disarmo ed al controllo internazionale degli armamenti“, per citare il preambolo della stessa Legge. Da essa derivava che l’ingresso di natanti nucleari nelle acque neozelandesi era stato sottoposto ad una rigida e restrittiva autorizzazione del governo (art. 9), mentre quello nelle acque interne del Paese era stato del tutto vietato (art. 11) [31].

5. Che cosa si sarebbe dovuto fare?

Maggio 2022 – Blitz di protesta del CPDC davanti al Municipio di Napoli

Un efficace slogan che circolava un po’ di tempo fa tra gli antinuclearisti era: “Meglio attivi che radioattivi!”. Forse dovremmo tornare a questo semplice concetto di naturale e spontanea autodifesa, che nasce dalla consapevolezza che ognuno di noi ha da giocare una parte anche in questioni che sembrerebbero troppo grandi e complicate perché vi si possa svolgere un ruolo effettivo.

Di fronte alla degenerazione verticista ed autoritaria di stati in cui la democrazia sembra ormai ridotta quasi al solo esercizio del diritto di voto (fra l’altro in base a sistemi elettorali a dir poco discutibili, lasciando di fatto chi governa o amministra libero di fare qualsiasi scelta sulla nostra testa) dobbiamo dunque riprenderci quel pezzo di potere che spetta a tutti, cominciando dal diritto sacrosanto di protestare.

“Protestare per sopravvivere” (Protest and Survive), era infatti il titolo di un libro di Edward P. Thompson, che era circolato negli anni ’80. [32]. È questa la prima cosa da fare, se vogliamo cambiare le cose senza aspettare che siano gli altri a risolverci i problemi.  Già negli anni ’60 il più grande teorico italiano della nonviolenza, Aldo Capitini, aveva sottolineato la centralità per un’alternativa politica della diffusione di quel “potere di tutti” (omnicrazia), che fa di ogni cittadino un soggetto attivo e responsabile, realizzando il principio fondamentale di autogestione che Gandhi aveva definito a sua volta col termine indiano swaraj.

Il concetto chiave, purtroppo contraddetto dall’esperienza del nostro Paese, è allora che la “protezione civile” debba diventare sempre più parte di una più complessiva “difesa civile”. E quindi decentrata, autogestita in larga parte dalle comunità locali e capace di mobilitare efficacemente i soggetti direttamente interessati alle possibili emergenze, siano esse climatiche, sismiche, vulcaniche, meteorologiche o nucleari. Già dagli anni ’80, subito dopo il disastroso terremoto in Campania, il movimento pacifista regionale si era organizzato per richiedere dal basso una legge che istituisse una “protezione civile popolare”, coinvolgendo i giovani campani in un servizio civile alternativo a quello militare [33].

L’assurdo fu che quella proposta, avanzata dalla società civile e caldeggiata da alcune forze politiche, fu effettivamente approvata come legge, ma fu subito dopo vanificata. Pur di non attuarne le previsioni, infatti, il governo varò un provvedimento che esonerava dalla prestazione della naja – e quindi anche del servizio civile sostitutivo – tutti i giovani delle aree colpite dal sisma… Ciò che è successo dopo, con l’organizzazione sempre più centralizzata del servizio di protezione civile nazionale, è fin troppo evidente. Questo “corpo” è stato impiegato in emergenze reali e fittizie – come quella dei rifiuti in Campania, dopo ben 15 anni di commissariamento degli enti locali… – espropriando i cittadini ed abituandoli all’idea che la protezione civile fosse un ambito in cui impiegare anche le forze armate, militarizzando e verticalizzando in tal modo una fondamentale risorsa di autogestione del territorio e di difesa civile.

Ebbene, contro il pericolo nucleare – si tratti di centrali elettriche, di natanti a propulsione nucleare oppure di armi atomiche – i cittadini singoli, come le intere comunità locali interessate – hanno quindi il diritto ed il dovere di mobilitarsi per denunciare i rischi cui sono sottoposti e per opporsi a queste scelte perniciose.

Il primo passo, ovviamente, è ottenere il rispetto di quel diritto all’informazione che, almeno sulla carta, dovrebbe essere garantito anche in tali materie. Il secondo è quello di leggere con attenzione i documenti ottenuti dalle autorità competenti, condividendone il testo con tutti gli interessati e cercando di andare oltre il burocratese ed il gergo scientifico che avvolge questo genere di messaggi, forse proprio per impedirne la comprensione ai “non addetti ai lavori”.

Il terzo passo di questo percorso – nel quale sarebbe opportuno coinvolgere persone qualificate ed accedere anche a documentazioni alternative – è quello di demistificare asserzioni date per indiscutibili, in base alle quali si costruiscono le teorie e normative con le quali sono giustificate certe scelte.

Solo così è possibile costruire un credibile movimento di opposizione, che sappia mobilitare sempre più persone, una volta che la controinformazione sia circolata e che a tutti siano chiare le possibili alternative.

La presenza militare nel territorio campano non è inevitabile. Gli esempi d’ iniziative di vario tipo in altre città italiane e in altri paesi del mondo…dimostrano la possibilità di condizionare quella presenza, riuscendo, nei casi più fortunati, a far sloggiare l’inquilino militare. […] Non esistono dunque più alibi che impediscano ai napoletani di essere informati in merito al dettaglio di tali piani. A causa delle continue inadempienze sul tema nucleare… la Commissione Europea ha recentemente deferito l’Italia alla Corte di Giustizia… in quanto non ritiene che il paese abbia applicato efficacemente le norme Euratom in merito alla protezione della popolazione in caso di emergenza radiologica.  [34]

Già nel 2004, nel suo “decalogo per i porti a rischio nucleare, Alessandro Marescotti aveva opportunamente elencato alcune forme di mobilitazione diretta dei cittadini, che converrebbe adottare in questi casi e che riportiamo di seguito.

1) Digiuno cittadino… preparato in precedenza in modo da avere una durata adeguata alla “visita” dell’unità navale nucleare;

2) Comunicati stampa locali: presentazione delle ragioni del digiuno e richiesta di conoscenza del piano di emergenza nucleare; se esso fosse stato diffuso, diffusione della conoscenza del piano con comunicati stampa che evidenzino i rischi e le incongruenze.

3) …Richiesta alle autorità – Prefetto e Sindaco – di esercitazioni cittadine di evacuazione della città (ogni piano prevede l’evacuazione).

4) Diniego per ragioni di sicurezza, […] di attracco …. a unità navali con propulsione nucleare facendo esplicito riferimento alla non conoscenza o all’inadeguatezza del piano di emergenza e alla non effettuazione in precedenza di prove di evacuazione.

5) Trasparenza nucleare: richiesta alle autorità – ai fini della tutela della sicurezza della popolazione – di conoscere se siano presenti a bordo armi nucleari…

6) Comunicati stampa nazionali….

7) Richiesta e studio del piano di emergenza… in virtù del Decreto Legislativo 230/95…

8) Centro di documentazione: accedere agli archivi di www.peacelink.it sezione disarmo per prelevare l’elenco dei porti a rischio nucleare e delle unità navali che comportano questo rischio, inserirvi i piani di emergenza, sviluppare un dossier per ogni porto a rischio nucleare…

9) Conferenza stampa e archivio giornalisti: costruire una propria banca dati dei giornalisti più sensibili da contattare….

10) Costruire eventi nonviolenti che abbiano un impatto visivo e documentarli con le macchine fotografiche digitali; realizzare cartelloni colorati in giallo con il simbolo nero della radioattività e fotografarsi di fronte alle basi navali… [35]

Questi suggerimenti restano tuttora utili e noi di VAS, insieme con le altre realtà confluite nel Comitato Pace Disarmo e Smilitarizzazione del Territorio, abbiamo quindi continuato ad organizzarci, per rendere effettiva la lotta dal basso contro la piovra militarista e nuclearista, in difesa della salute e della sicurezza dei cittadini di Napoli e della Campania. Ma che cosa è successo dopo il 2011, l’anno in cui fu pubblicato il mio documento, finora riportato con qualche piccolo ritocco? [36].

6. Gli anni ’20, tra incidenti e rischi smentiti

Nel secondo decennio del XXI secolo non si sono registrate significative evoluzioni in materia di protezione delle popolazioni civili, per renderle consapevoli del rischio nucleare derivante dall’assurda presenza nelle acque di 12 porti italiani di svariati natanti militari a propulsione nucleare. Sebbene il 2011 – grazie al risultato del secondo referendum abrogativo di provvedimenti che cercavano di consentire nuovamente il nucleare civile – abbia costituito uno spartiacque in materia, non è però aumentata la sensibilità degli italiani in materia di nucleare militare.

Infatti, complice un’informazione inesistente sul rischio ambientale e sanitario derivante dall’esposizione di popolazioni civili al grave inquinamento nucleare nell’eventualità d’incidenti a portaerei e sottomarini militari, anche negli anni ’20 la situazione non ha registrato significativi cambiamenti.

Eppure alla fine del 2010 il Dipartimento della Protezione Civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva già pubblicato su internet un documento che sintetizzava il “Piano Nazionale delle misure protettive contro le emergenze radiologiche”, in cui fra l’altro si ribadiva la necessità di “assicurare l’informazione pubblica sull’evoluzione dell’evento e sui comportamenti da adottare” [37].

Eppure in questo secondo decennio del 2000 – anche se con difficoltà – si era venuti a conoscenza di diversi incidenti a natanti a propulsione nucleare, l’ultimo dei quali (almeno di quelli conosciuti…) ha interessato nel 2021 il sottomarino statunitense USS Connecticut SS 20 che, impattato in una montagna subacquea non segnalata della regione indo-pacifica, si è arenato senza però subire danni al sistema di propulsione nucleare [38].

Già nel 2000 si era avuta notizia dell’incidente occorso al K-141 Kursk, un sottomarino russo a propulsione nucleare della Flotta del Nord. “Secondo l’inchiesta ufficiale, alle 11:28 locali (circa le 09:28 in Italia) qualcosa andò storto: uno dei siluri esplose dando il via a una serie di deflagrazioni a catena che aprirono uno squarcio nella prua. Il sottomarino si adagiò sul fondo del mare a 108 metri di profondità a ca. 135 km dalla base di Severomorsk” [39].

Ma appena tre anni fa, nel 2019, nel mare di Barents si è verificato un nuovo incidente con l’incendio del sottomarino nucleare russo Losharik, a causa del quale sono morti 14 marinai [40]. Dieci anni prima, nel 2009, si erano invece scontrati nell’Atlantico due sottomarini nucleari – l’inglese Vanguard e il francese Le Triomphant – col serio rischio di una fuga radioattiva e di considerevoli perdite umane, oltre che delle testate atomiche dei rispettivi missili [41]. Ancora un anno prima, nel 2008, sul Manifesto si era letto un altro caso.

Navigava da tre mesi nelle acque dell’Oceano pacifico, tra il Giappone, l’isola di Guam e le Hawaii, ma solo ieri si è saputo che lo «Uss Huston», sottomarino americano a propulsione nucleare, lasciava dietro di sé ‘piccole scie’ di materiale radioattivo. Perdite di entità ‘irrilevante’, ha subito minimizzato la marina statunitense, che tuttavia ammette di non essere in grado di quantificarle [42].

Già nel 2000 era toccato al governo italiano smentire l’assenza di reali situazioni di emergenza, in risposta all’interrogazione parlamentare relativa all’incidente al sottomarino nucleare britannico Tireless, che aveva subito un’avaria al largo della Sicilia, con conseguente fuoruscita del liquido di raffreddamento del reattore, ed era stato quindi dirottato a Gibilterra [43].

Si potrebbero citare parecchi altri casi simili, da quello del sottomarino statunitense scontratosi nel 2007 con una petroliera giapponese nel Golfo persico [44] e dell’omologo San Francisco USS 711, incagliatosi due anni prima a circa 420 km a sud dell’isola di Guam, nell’Oceano Pacifico [45], risalendo poi all’episodio dell’Uss Hartford, sottomarino nucleare americano gravemente danneggiato nel 2003 sui fondali dell’isola di Caprera [46] o allo strano caso del sommergibile Usa “catturato” nel 2001 dalle reti d’un peschereccio pugliese a 11 miglia dalla costa di Brindisi [47].

Rappresenterebbero comunque solo parte del problema, dal momento che le autorità militari, italiane e straniere, hanno molto probabilmente taciuto su altri episodi del genere oppure hanno minimizzato le gravità di quelli svelati. Il vero problema, d’altra parte, resta in ogni caso quello dell’informazione preventiva cui hanno diritto i cittadini potenzialmente interessati a tali emergenze, in modo da renderli coscienti dei pericoli derivanti dalla minacciosa presenza nei nostri mari di natanti a propulsione nucleare, soprattutto in periodi di crisi internazionali come quello che stiamo vivendo in Europa da circa un anno.

Non potrà verificarsi infatti un’efficace e diffusa mobilitazione popolare per smilitarizzare e denuclearizzare territori e mari del nostro Paese senza che sia stata fornita alla gente un’adeguata controinformazione per accrescerne la consapevolezza, abilitandola così a lottare per far valere il proprio diritto costituzionale alla sicurezza, alla salute e alla pace.

7. Piani di emergenza in Italia: il caso della Campania

Proprio in tale ottica l’associazione VAS – insieme colle altre realtà coordinate in Campania dal citato Comitato Pace e Disarmo – nel 2011 aveva puntato sull’acquisizione di documentazioni ufficiali, sia per informare i cittadini e renderli consapevoli sia del rischio nucleare che incombe da decenni sui porti civili di Napoli e Castellammare di Stabia, sia per pungolare le autorità che avrebbero dovuto attuare un piano di emergenza obbligatorio per legge, ma paradossalmente secretato e disatteso. Infatti – come già accennato – tra dicembre 2010 e gennaio 2011 VAS – in qualità di associazione nazionale di protezione ambientale – aveva formalmente richiesto alla Prefettura di Napoli copia del “Piano di Emergenza Esterna del Porto di Napoli” (P.E.E.P. Na.), approvato già nel 2006 [48]. Ne aveva però ottenuto solo una parziale documentazione, cioè l’allegato G9 (il “Piano particolareggiato per l’informazione della popolazione”, indicato con l’acronimo P.P.I.P.) [49].

Tale documento, rinviando all’art. 129 del D. Lgs. 230/95 che “prevede l’obbligo d’informazione alle popolazioni che possono essere interessate da emergenza radiologica”, specificava che “detta informazione deve essere fornita senza che ne venga fatta richiesta”, precisando inoltre che:

nelle more […] si è ritenuto che la competenza nella divulgazione dell’informazione sarà curata dai Sindaci interessati che, d’intesa con l’Unità di Crisi regionale Sanitaria, nonché delle autorità competenti, provvederanno a predisporre un progetto finalizzato per la popolazione, sulla base delle seguenti linee guida [50].

Non essendo stato fino ad allora attuato nessuno dei provvedimenti d’informazione preventiva previsti da quel Piano, sebbene i vertici dei due comuni fossero stati esplicitamente investiti di tale compito, nell’aprile del 2011 il Circolo locale dell’associazione VAS diffidò formalmente l’allora Sindaco di Napoli ad adempiere quanto previsto dall’all.to G9 al P.E.E.P., provvedendo quindi entro 90 giorni, d’intesa con l’Unità di Crisi regionale Sanitaria e altre autorità competenti, a predisporre un progetto per l’informazione della popolazione.

A distanza di oltre sei mesi da quella diffida, non essendoci stato alcun riscontro positivo (anche dopo che il Comitato Pace e Disarmo Campania (CPDC) aveva organizzato a luglio un’apposita assemblea cui era intervenuto un referente del nuovo Sindaco), VAS ha quindi presentato un esposto alla Procura della Repubblica, ipotizzando che il comportamento omissivo dell’A.C. di Napoli configurasse il reiterarsi di un vero e proprio reato.

Nell’aprile 2011, inoltre, lo stesso CPDC aveva svolto una significativa manifestazione di protesta per denunciare pubblicamente il rischio nucleare, inscenando un blitz ecopacifista alla Stazione Marittima di Napoli, esibendo allarmanti tute bianche e distribuendo volantini, in coincidenza con una cerimonia inaugurale cui erano intervenuti il cardinale arcivescovo, il presidente dell’autorità portuale napoletana, il presidente dell’Unione Industriali, quello della Camera di Commercio di Maddaloni ed il presidente di Terminal di Napoli [51]

Nell’ottobre 2012 – come si sottolineava in un comunicato ripreso dal quotidiano Il Mattino – VAS Napoli è tornato a denunciare l’inerzia colpevole delle autorità preposte, poiché – ancora una volta e in un breve lasso di tempo – si erano di nuovo materializzate nel Porto di Napoli ben due portaerei nucleari.

Dopo la ‘visita’ della portaerei nucleare francese “Charles De Gaulle” – si legge nel comunicato diffuso da Ermete Ferraro – è giunta a Napoli quella statunitense “Enterprise”, nota come immagine-simbolo dei “Top gun”. In entrambi i casi si tratta di enormi centrali nucleari galleggianti, che portano minaccia di morte e spiriti guerrafondai dove sono dirette, ma che provocano anche un giustificato allarme per il rischio atomico connesso alla loro presenza nel mare di città densamente popolate come Napoli, rinforzato purtroppo da episodi di recenti incidenti che hanno riguardato natanti a propulsione nucleare [52].

Ad ulteriore riprova della totale assenza di risposte istituzionali alle legittime proteste antinucleariste, appena un anno dopo, nel novembre del 2013, era ricomparsa nel porto di Napoli la portaerei USS Nimitz, una delle più grandi e micidiali al mondo, suscitando le reazioni indignate di VAS Napoli e del Comitato Pace e Disarmo Campania.  Quest’ultimo, il mese successivo, ha organizzato in Municipio una nuova assemblea pubblica contro la militarizzazione del territorio e la vendita di armi, con interventi di P. Alex Zanotelli, Angelica Romano, Ermete Ferraro, Flavia Lepre, Antonio Lombardi e Giovanni Sarubbi [53].

8. Porto di Napoli denuclearizzato? Ma anche no…

Ottobre 2015 – Conferenza stampa a Palazzo S. Giacomo sulla delibera che ‘denuclearizza’ il porto di Napoli

A questo punto è legittimo chiedersi a quale risultati abbiano portato quelle mobilitazioni ecopacifiste in Campania. Purtroppo dobbiamo ammettere che l’occupazione manu militari del territorio e del mare della nostra regione – della quale mi sono occupato in vari articoli e saggi [54] – è comunque proseguita pressocché indisturbata, senza che dal mondo della politica, della scienza e da parte degli stessi movimenti pacifisti si registrassero significative reazioni.

Viceversa, le pressioni esercitate sull’Amministrazione Comunale di Napoli – nell’assordante silenzio della Prefettura, della Regione e di altre autorità – hanno allora sortito un primo risultato, significativo sebbene insufficiente. Mi riferisco alla clamorosa decisione della Giunta de Magistris di approvare una delibera che, almeno simbolicamente, si opponeva al permanere del grave pericolo derivante dalla presenza nelle acque cittadine di natanti a propulsione nucleare.

Con la D.G. n. 609 del 25.09.2015, infatti, si era dichiarato esplicitamente che portaerei e sottomarini nucleari “costituiscono di per sé un potenziale pericolo anche per le popolazioni che risiedono nella Città Metropolitana di Napoli” e che essa “per l’alta densità demografica non può minimamente essere sottoposta al rischio di una possibile emergenza radiologica”, proclamando ufficialmente il Porto di Napoli “Area Denuclearizzata”, anche in nome della natura statutaria di “Città della Pace” del capoluogo campano [55].

“Questa delibera – ha spiegato il Sindaco di Napoli Luigi de Magistris in conferenza stampa – ha un valore altamente simbolico e politico. L’abbiamo approvata in questi giorni, proprio perché è in programma una grande esercitazione militare nel Golfo di Napoli. La nostra è una città che promuove la pace. Non si tratta solo di una battaglia simbolica e politica, ma anche di difesa del nostro territorio e della salute dei cittadini. Per questo vogliamo dare un segnale forte e chiediamo che anche l’Autorità Portuale si esprima nella stessa direzione. Napoli sarà sempre in prima linea nella costruzione di un’alternativa alle politiche di guerra, nonostante l’Italia sia il primo produttore in Europa di armi. Noi armamenti nucleari nel nostro Porto non ne vogliamo”. [56]

Il fatto che sette anni fa l’amministrazione della terza Città d’Italia si sia pronunciata nettamente su una questione politicamente spinosa è da considerare senz’altro un passo positivo, se non altro perché i media non poterono ignorare quella delibera e quindi ne divulgarono il contenuto innovativo [56]. Il problema è che si trattava sì d’un atto amministrativo d’importante valenza simbolica, però  senza rilevanti effetti pratici in assenza di un’interlocuzione istituzionale successiva con Prefettura, Autorità Portuale e con le stesse autorità militari, sia italiane sia ‘alleate’. Ancor più grave della mancata pressione sui suddetti interlocutori è apparsa poi l’assenza di un reale intervento comunale sul piano della controinformazione circa il rischio nucleare nei riguardi degli abitanti della Città metropolitana di Napoli, che sarebbe stato – e resta tuttora – d’indubbia competenza del Sindaco pro tempore.

In quanta considerazione fosse stata presa la delibera della Giunta de Magistris, del resto, è apparso a tutti con chiarezza solo un anno dopo. Nel giugno 2016, infatti, nelle acque territoriali di Napoli si è nuovamente materializzata un’enorme portaerei nucleare, la USS D. Eisenhower, provocando ancora una volta le reazioni indignate – ma solitarie – degli ecopacifisti [58].

Da allora – sebbene con maggiore discrezione e meno frequentemente – è proseguita indisturbata l’esibizione bellicosa di natanti a propulsione nucleare (e con armamenti atomici a bordo) nelle acque della nostra cosiddetta ‘Città di Pace’, soprattutto in coincidenza con esercitazioni navali congiunte della NATO.

Un caso eclatante è scoppiato quando, nell’aprile 2018, un sottomarino nucleare USA si è posizionato in rada, sollevando la reazione non solo degli antimilitaristi, ma anche del Sindaco de Magistris, che si è rivolto all’allora Comandante della Capitaneria di Porto, contrammiraglio Faraone.

“Ho appreso – scrive il primo cittadino – che lo scorso 20 marzo il sottomarino nucleare statunitense Uss John Warner è approdato nella rada della nostra città. Ho letto anche l’ordinanza n.17/2018 che lei ha emesso per le necessarie e correlate disposizioni di sicurezza e di navigazione. Desidero, a tal proposito, ribadire che il 23 settembre 2015 è stata approvata, su mia iniziativa, la delibera n.609 con la quale è stata dichiarata ‘area denuclearizzata’ il Porto di Napoli […] il primo cittadino chiude la nota a Faraone richiedendo di considerare, “per analoghe situazioni future”, che “la determinazione e la volontà menzionate” nell’atto comunale sono dirette “al non gradimento che navi di tale caratteristiche sostino o transitino nelle acque della nostra città” [59].

Altro episodio clamoroso si è verificato quattro anni dopo, nel maggio 2022, quando è ricomparsa nelle acque di Napoli la gigantesca portaerei USS Harry S. Truman, “attualmente in dispiegamento programmato nell’area di operazioni della sesta flotta in supporto alla sicurezza e alla stabilità marittima, anche allo scopo di rassicurare alleati e partner in Europa e Africa”, secondo la spiegazione entusiastica fornita dal quotidiano Il Mattino [60]. Benché il giornale riferisse infatti che sul lungomare molti napolitani avevano fotografato quella specie di… ‘Truman Show’, in effetti l’ennesimo mostro nucleare galleggiante non rassicurava nessuno, come opportunamente ribadito da Luigi de Magistris, commentando negativamente quella nuova esibizione muscolare della US Navy.

Le portaerei con armi di distruzione di massa non sono gradite, devono rappresentare il passato non il futuro del nostro pianeta. Il nostro mare è di pace, non di guerra” [61].

Un altro giornale riferiva poi che l’ex sindaco ha precisato che la sua era stata una: “Delibera sicuramente simbolica, ma che evidenzia come la sovranità del nostro Paese sia limitata e che siamo subalterni alla NATO” [62].

9. “Meglio attivi che radioattivi…”: ecopacifismo e mobilitazioni popolari

Mag. 2022 – Delegazione in Municipio, guidata da p. Alex Zanotelli

Il mondo dell’informazione, come quelli della scienza e della politica, continuano a mostrare una sorta di reazione allergica verso qualsiasi argomentazione che abbia a che fare con le crescenti contestazioni nei confronti dell’invadenza militarista e dello strisciante bellicismo che negli ultimi anni sta ulteriormente contaminando – e condizionando pesantemente – l’opinione pubblica.

Come ho sottolineato di recente in alcuni articoli su questa risorgente cultura di guerra [63], il pericoloso connubio tra l’arrogante pretesa d’indiscutibili certezze scientifiche e l’autoritarismo di scelte politiche dettate dal complesso militare-industriale sta generando mostri. Ancor più insidiosa è l’ipocrisia di chi pretenderebbe di accreditare le forze armate quasi come un’organizzazione di protezione dell’ambiente, mentre in realtà il sistema militare, in pace prima ancora che in guerra, è uno dei principali fattori di devastazione ambientale, come sottolineavamo in un opuscolo curato nel 2021 dagli Antimilitaristi Campani.

Sono di per sé evidenti gli effetti distruttivi della guerra per gli esseri umani […] Meno conosciuti sono gli effetti devastanti della guerra e degli apparati militari sull’ambiente naturale  e sull’integrità degli ecosistemi […] La devastazione ambientale provocata dalle attività militari interessa anche molti paesi non coinvolti direttamente in attività belliche [tra cui] …la minaccia alla sicurezza e alla salute degli abitanti di città nelle quali si consentono impunemente il transito e l’ormeggio di natanti a propulsione nucleare […] L’ambiente è la vittima dimenticata della guerra e la natura è diventata essa stessa ‘un campo di battaglia’  [64]

La rete degli antimilitaristi campani con quella pubblicazione – nella quale si evidenziava anche la militarizzazione della sanità pubblica e l’irreggimentazione dell’informazione in occasione della pandemia – ha costituito un importante elemento dell’azione di denuncia delle complicità tra complesso militare-industriale e classe politica e della vergognosa subalternità del nostro Paese agli interessi degli Stati Uniti e alle bellicose strategie della NATO. Le stesse che consentono tuttora ai natanti a propulsione nucleare di approdare trionfalmente nel mare antistante popolose città italiane come Napoli, ma anche Cagliari, La Spezia, Taranto o Trieste, minacciandone la sicurezza, la salute e la pace.

Il 2021 è stato un anno importante anche perché il Movimento Internazionale della Riconciliazione (MIR Italia) ha pubblicato un testo fondamentale per il rilancio di queste battaglie. Infatti il libro “La colomba e il ramoscello ha come sottotitolo “un progetto ecopacifista” proprio per sottolineare che l’approccio che lo caratterizza è una visione più ampia, in cui pacifismo ed ecologismo finalmente si integrino in una proposta unitaria. Partendo dalla premessa che la crisi ambientale non può essere letta separatamente dall’accresciuta conflittualità internazionale, in quanto l’origine di entrambi va ricercata in quel modello di sviluppo energivoro iniquo e violento che consuma risorse per le guerre e scatena guerre per le risorse, il contributo del MIR è dunque uno stimolo a costruire, insieme, un’alternativa nonviolenta, antimilitarista ed ecopacifista.

Il sistema militare…per le sue gigantesche dimensioni, è fonte di pesanti conseguenze ambientali, connesse all’incredibile voracità di risorse e beni comuni […] La più grave impronta ambientale del sistema militare è comunque imputabile al devastante impatto delle operazioni belliche sul deterioramento climatico globale […] Ne deriva, sottolinea Elena Camino, che: “La ‘riservatezza’ sulle questioni militari…ha contribuito a tenere il pubblico all’oscuro dei grandissimi problemi che il moderno ‘approccio militare’ ai conflitti pone non solo alle comunità umane, ma agli equilibri (sempre più instabili) dell’ecosistema Terra [65]

Il quarto capitolo del libro, nel quale erano confluiti alcuni miei contributi precedenti [66], è dedicato appunto alla “prospettiva ecopacifista”, della quale si individuano sia le premesse teoriche (nonviolenza attiva, ecologia sociale, antimilitarismo, difesa civile…), sia le possibili strategie e le proposte prioritarie sul piano operativo, tra cui le vertenze contro il nucleare civile e militare assumono un’indubbia priorità ed evidenza.

Esistono questioni sulle quali si potrebbe da subito cercare la convergenza operativa delle organizzazioni ecologiste e di quelle pacifiste […] Tra le battaglie da menzionare c’è anche quella contro la presenza di natanti a propulsione nucleare in alcuni porti del nostro paese. Un altro terreno potrebbe essere il rischio ambientale [e sanitario] connesso all’inquinamento elettromagnetico generato da mostruosi apparati radar e per le telecomunicazioni, massicciamente presenti in basi e aeroporti militari e collocati in aree densamente urbanizzate [67].

Si tratta spesso di lotte nate sul territorio, all’interno delle comunità interessate ad operazioni di notevole impatto ambientale che suscitano un ovvio e prevedibile allarme, come appunto nel caso dell’installazione di formidabili impianti per telecomunicazioni militari a Niscemi, in Sicilia, contro cui si sono mobilitati a lungo i comitati NO MUOS’ [68]. Ma, come sempre, contro di esse si frappone non solo la consueta barriera della segretezza militare, ma anche la complicità di fonti ‘scientifiche’ abituate ad assecondare il potere con la loro pretesa autorevolezza.

La parola d’ordine, in questi casi, è negare tutto, banalizzando o ridicolizzando le lotte popolari come sollevazioni frutto solo d’ignoranza scientifica o di malafede politica. Si tratti di OGM, inquinamento elettromagnetico o rischio nucleare, insomma, le risposte istituzionali sono sempre state improntate alla pervicace negazione di qualsiasi pericolo, pretendendo che siano i contestatori a provare le loro accuse, quando viceversa essi invocano proprio l’applicazione del ‘principio di precauzione’, non a caso sempre più osteggiato o diluito nei suoi effetti da molti legislatori, anche a livello comunitario.  

 Il p. di p. è stato originariamente proposto per difendere l’ambiente, ma oggi sta diventando sempre più usato ogni qualvolta la pubblica opinione è preoccupata a causa dell’uso di nuove tecnologie. Le novità introdotte dal p. di p. sono, in primo luogo, il passaggio dell’onere della prova dalle autorità pubbliche ai proponenti le nuove attività; in secondo luogo, l’azione cautelativa che deve essere intrapresa prima di conseguire la certezza scientifica sulla correlazione tra causa ed effetto [69].

Ecco perché sulle battaglie ecopacifiste – come quella sulla denuncia del rischio per la popolazione civile derivante dai ‘porti nuclearizzati’ – cala spesso il silenzio, alimentato dalla connivenza dell’informazione ‘ufficiale’ e dall’atteggiamento sprezzante di una ‘Scienza’ troppo spesso asservita alle compatibilità politico-economiche dei decisori, da cui dipende per i finanziamenti.

10. Scienziati per la pace e comitati ecopacifisti

Presentazione del libro del MIR “La colomba e il ramoscello”, con Anna Savarese, Ermete Ferraro, Pio Russo Krauss e p. Alex Zanotelli (2022)

Per fortuna non sono mancati, anche nel caso del rischio nucleare nei nostri porti, alcuni autorevoli interventi scientifici che avvalorano le denunce degli attivisti ambientalisti e pacifisti. Ho precedentemente citato le osservazioni critiche di Antonino Drago, già docente di fisica alla Federico II di Napoli, [70], cui vanno ad aggiungersi quelle di Massimo Zucchetti, docente di Impianti nucleari al Politecnico di Torino e di Gianni Mattioli, già ordinario di Fisica alla Sapienza di Roma, sintetizzate in un articolo del 2013, in conclusione del quale leggiamo:

Per tutti gli approdi nucleari devono essere predisposti gli opportuni piani di emergenza esterna che obbligatoriamente devono essere comunicati alla popolazione. Al momento invece in Italia non è possibile per i cittadini essere informati (in violazione dell’articolo 129 del Decreto legislativo 230/1995) perché questi piani vengono classificati come “segreti”. Laddove i piani sono stati predisposti (con grande ritardo) come nel caso di Trieste, si scopre con stupore (sono occorsi anni per realizzarli) l’inconsistenza degli stessi: in caso di emergenza reale è davvero angosciante pensare che la vita di decine di migliaia di persone dipenderebbe da questi pezzi di carta contenenti disposizioni inattuabili. E proprio per la continuità di questi atteggiamenti antidemocratici posti in essere a danno della collettività e in aperta violazione della legislazione comunitaria, l’Italia è stata deferita nel giugno del 2006 alla Corte di Giustizia Europea [71].

Ed è stato proprio il professor Massimo Zucchetti che, in una dettagliata relazione, ha ribadito le cause ostative ad un’efficace prevenzione del rischio nucleare in relazione a natanti di natura militare, consistenti nel regime di segretezza che di per sé si oppone alla necessaria trasparenza dei controlli, così come la loro presenza in aree marine prospicienti città e metropoli, difficilmente proteggibili dalle perniciose conseguenze di seri incidenti nucleari

Nel caso di reattori nucleari a bordo di unità navali militari, molte di queste informazioni mancano o sono insufficienti. Quanto sarebbe necessario acquisire, conoscere, ispezionare ed accertare si scontra molto spesso con il segreto militare. Molte delle informazioni che sarebbe necessario ottenere da parte dell’autorità di controllo o di sicurezza mancano, sono inottenibili, oppure vengono trasmesse mediante comunicazioni da parte della Marina Militare o addirittura della US Navy, con una modalità di autocertificazione […] inaccettabile nel caso dell’analisi di sicurezza di un impianto nucleare […] La presenza…sul territorio di reattori nucleari necessita di una zona intorno ad essi nella quale non vi sia presenza di popolazione civile […] mentre è anche richiesta, in una fascia esteriore più ampia, una scarsa densità di popolazione. Ciò è necessario per ridurre le dosi collettive in caso di rilasci radioattivi, sia di routine che incidentali […] Normalmente, la fascia di rispetto ha raggio di 1000 metri e vi sono requisiti di scarsa densità di popolazione per un raggio di 10 km almeno intorno all’impianto. Nel caso di reattori nucleari a bordo di unità navali militari, questi requisiti non possono venire rispettati, dato che molti dei porti si trovano in aree metropolitane densamente popolate. I punti di attracco e di fonda delle imbarcazioni militari sono, in alcuni casi, posti a distanze minime dall’abitato. Anche qui, in ogni caso, l’effettiva ubicazione di questi reattori non è determinabile, in quanto i punti suddetti sono coperti ancora una volta da segreto militare. [72]

A questo punto, l’unica conclusione possibile – come ribadiva Zucchetti – è che dovrebbero essere interdetti sempre e comunque transito e sosta di portaerei e sottomarini nucleari nelle acque prospicienti i porti delle città italiane. Evidenza scientifica che va al di là di ogni pur legittima posizione di principio, fondata sul ripudio delle attività militari e di guerra e/o sulla protezione dell’ambiente naturale e urbano da ulteriori e gravi fonti di inquinamento.

Purtroppo la realtà fattuale sembra andare in ben altra direzione, soprattutto a causa della ribadita subalternità politica ed economica del nostro Paese nei confronti degli Stati Uniti e delle strategie di quella ‘Alleanza Atlantica’ che da decenni grava come un giogo insopprimibile sulla nostra indipendenza. Bisogna osservare comunque che l’auspicata “Difesa Europea”, lungi dall’infrangere quella dipendenza, andrebbe semmai a sovrapporsi ad essa, in quanto obbedisce alle stesse logiche perverse del complesso militare-industriale, come si rilevava in un documentato opuscolo pubblicato dall’ENAAT nel 2021.

L’industria degli armamenti e della sicurezza ha svolto un ruolo chiave nella creazione, nello sviluppo e nell’importanza delle politiche militari e di sicurezza dell’UE. La militarizzazione dell’UE è stata aiutata dall’uso estensivo da parte dell’industria di think tank, lobbisti e cosiddetti “esperti” legati al settore della sicurezza, mentre è stata accolta favorevolmente dalle politiche dei funzionari delle istituzioni europee e degli Stati membri. Questo processo dimostra che l’UE è impegnata nei preparativi bellici a livello politico, industriale e materiale, preparandosi a qualsiasi forma di conflitto futuro. L’UE sta contribuendo ad aumentare sostanzialmente la spesa militare e ad intensificare la corsa agli armamenti globale, uno sviluppo che minaccia di sospendere l’apparente sostegno dell’UE alla costruzione di una pace alternativa e alla lotta contro cause profonde dei conflitti. [73]

Per comprendere quanto poco sia cambiato il quadro relativo a questa problematica, basti pensare che nell’ultimo anno – il 2022 appena concluso – a Napoli si sono verificati, a distanza di soli sei mesi, altri due episodi di minacciosa presenza di natanti nucleari nelle acque interne del golfo di Napoli, per di più in un preoccupante clima di guerra. Il 10 maggio, infatti, i quotidiani hanno dato notizia della presenza e sosta della prima gigantesca portaerei statunitense.

La portaerei americana Uss Harry S. Truman è arrivata nel Golfo di Napoli e l’opinione pubblica si divide: mentre centinaia di napoletani si accalcano sul lungomare per fotografare il gigante dei mari, fortezza armata fiore all’occhiello della Marina a stelle e strisce, altrettanti utenti su Twitter criticano le manovre nei mari italiani. Poche settimane fa, per l’esattezza il 23 aprile, la stessa Truman, gioiello classe Nimitz aveva fatto una tappa nel porto di Trieste. “Sosta tecnica operativa”, era stata la motivazione ufficiale dopo un periodo di due mesi di esercitazioni nel Basso Adriatico e nello Jonio con l’aviazione militare greca. Il tutto però avveniva mentre l’escalation della guerra in Ucraina stava iniziando a mostrare la vera entità del conflitto. Non più locale, ma potenzialmente mondiale. Con l’Italia, dunque, di nuovo a ricoprire un ruolo-chiave al confine tra Europa occidentale ed orientale, e nel cuore del Mediterraneo. [74]

Ovviamente è scattata la reazione del Comitato Pace e Disarmo Campania, che lo stesso giorno haimprovvisato un blitz in di protesta davanti al Municipio di Napoli, diramando un comunicato stampa dopo il mancato accoglimento della richiesta di incontro con Sindaco Manfredi:

…per protestare contro la presenza da stamane nel porto di Napoli della portaerei statunitense a propulsione nucleare U.S.S.Truman che – come si evince dall’Ordinanza n. 40/2022 della Capitaneria – vi stazionerà fino al prossimo 16 maggio, determinando fra l’altro il divieto di transito e sosta da parte di qualsiasi altra nave, nel raggio di 1300 metri […] Padre Alex Zanotelli, a nome dei manifestanti, ha chiesto un incontro col sindaco Manfredi, per ricordargli che quella delibera è tuttora in vigore e che – come responsabile della salute e sicurezza della cittadinanza – è tenuto a informarla ed a sollecitare l’attuazione del relativo Piano di Emergenza, assurdamente ancora secretato. […] il portavoce del Sindaco è poi sceso ad incontrare la delegazione del Comitato, che gli ha esposto i motivi per i quali l’A.C. dovrebbe intervenire, per far rispettare la delibera citata, ma soprattutto per informare i Napoletani del grave rischio sanitario e ambientale derivante dall’impropria presenza in rada di natanti nucleari, soprattutto in un periodo così delicato e drammatico [75].

Non si è fatto attendere poi il commento dell’ex Sindaco, che – nel silenzio dell’attuale primo cittadino sulla vicenda – ha dichiarato a sua volta:

Non ci piegammo al razzismo di Stato di guerra e aprimmo i porti, per ubbidire alla Costituzione di fronte alle illegalità del potere – prosegue l’ex sindaco di Napoli – La nostra città è oggi aperta alle sorelle e ai fratelli ucraini, come a tutte le persone che hanno bisogno di aiuto e pace. Nello statuto della città di Napoli inserimmo in maniera indelebile: ‘città di pace’. Le portaerei con armi di distruzione di massa non sono gradite, devono rappresentare il passato non il futuro del nostro pianeta. Il nostro mare è di pace, non di guerra”, ha concluso de Magistris [76].

Anche un articolo dell’Huffington Post ha sottolineato che, in questa circostanza, “De Luca e Manfredi si tengono a distanza” [77], frase interpretabile in vario modo sia in riferimento alla loro assenza al ricevimento ufficiale della US Navy, sia in relazione al loro imbarazzato silenzio su una situazione che, dopo 25 anni di battaglie politiche e perfino legali, sembra tuttora che non interessi ai vertici della Città Metropolitana e della Regione più densamente popolate.

11. Il panorama internazionale dell’informazione

Maggio 2021 – Attivisti protestano a Tromsø contro sottomarino nucleare

In questi ultimi due anni l’opposizione ecopacifista all’ingombrante e pericolosa presenza nei porti civili di natanti nucleari sembra però aver contagiato anche altre realtà di movimento, a livello internazionale ma anche in Italia.

In Australia, ad esempio, nel 2021 l’autorevole organizzazione Friends of the Earth – Amici della Terra ha fatto appello alle comunità ed ai sindacati “nelle città portuali e nei cantieri navali australiani ad auto-dichiararsi ‘zone libere dal nucleare’ e a porre ‘divieti verdi’ alla manutenzione, alla costruzione e a qualsiasi industria marittima relativa alle navi a propulsione nucleare” [78].

Negli stessi USA, diverse metropoli costiere hanno continuato ad opporsi alla presenza nei loro porti di natanti a propulsione nucleare ed appena un anno fa (il 9 dicembre 2021) “Il Consiglio Comunale di New York City ha adottato un provvedimento legislativo che invita a disinvestire dalle armi nucleari, istituisce un comitato responsabile della programmazione e delle politiche relative allo status di New York come zona priva di armi nucleari e invita il governo degli Stati Uniti aderire al Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW)” [79].

Nel Regno Unito non si registrano particolari mobilitazioni, ma è stato pubblicizzato il “piano di emergenza radiologica per il porto di Southampton” [80], un aggiornamento per il triennio 2020-2023 che però non va oltre i soliti banali consigli da seguire in caso di pericolo di esposizione alle radiazioni ionizzanti in seguito ad un incidente nucleare.

In Norvegia, a maggio 2021 si è registrata la vivace protesta di attivisti della città di Tromsø, nel cui porto aveva attraccato il sottomarino nucleare USS New Mexico, visita giudicata “non benvenuta” per cui “diversi politici locali e numerosi cittadini hanno protestato contro il sottomarino e la decisione del governo norvegese di consentire l’attracco di natanti a propulsione nucleare” [81].

La Spagna, già da parecchi anni interessata da proteste di comitati civici e ambientalisti contro i natanti nucleari, ha recentemente registrato un nuovo episodio riguardante la sicurezza di Gibilterra, dove nel settembre 2022 è attraccato il sottomarino statunitense USS Florida, appena cinque mesi dopo un analogo episodio che riguardava l’omologo USS Georgia.

Verdemar-Ecologistas en Acción ha chiesto che il sottomarino attualmente attraccato a Gibilterra, l’USS Florida, “se ne vada e smetta di mettere a rischio nucleare lo Stretto di Gibilterra”. Inoltre, ha ricordato che non è la prima volta che questa nave approda sullo Scoglio […] In una nota, gli ecologisti hanno invitato le navi da crociera attraccate davanti a questa “bomba galleggiante”, a lasciare il porto di Gibilterra “per il rischio che si comporta trovarsi accanto a un manufatto di queste caratteristiche” […] Verdemar calcola che, dal 2001, sono transitati per Gibilterra più di cento sottomarini a propulsione nucleare [82].

Per quanto riguarda la Grecia, è del 2019 l’interessante dossier “Navi nucleari e ambiente”, curato da Konstantinos I. Delimbasis, che si concludeva con un allarme sul poco noto rischio ambientale relativo ai relitti di sottomarini nucleari.

Ma al di là delle armi nucleari, l’eredità della Guerra Fredda si annida, in una forma ben più insidiosa, negli scafi dei sottomarini in decomposizione sui moli della Russia nordoccidentale, nei cimiteri dei reattori di Hanford, Washington, e nel Golfo di Sheda, nel Mare di Kara, nelle tombe liquide dei sottomarini nucleari andati perduti e in tutti i mari del mondo dove un tempo operavano o operano sottomarini e navi a propulsione nucleare. [83]

In Brasile, più che l’opposizione antinuclearista, a frapporsi alla costruzione di sottomarini nucleari sembra che siano il clima bellico di questo periodo e i dubbi sul necessario avanzamento tecnologico in materia, per cui quel progetto… rischierebbe di naufragare.

Nel caso del Brasile, lo strumento deterrente più desiderato è il sottomarino a propulsione nucleare. Il problema è che questo progetto affronta dei rischi e potrebbe fallire. Gli ostacoli esistevano prima. Con la guerra, sono diventati più grandi […] Il sottomarino a propulsione nucleare convenzionale Álvaro Alberto (SCPN) è il fiore all’occhiello di Prosub, un programma multimiliardario ad alto impatto lanciato nel 2008 […] Ma nel caso del sottomarino nucleare, l’instabilità delle risorse si unisce alla sfida tecnologica di sviluppare un reattore che si adatti perfettamente – e in sicurezza – all’interno della nave, sottoposta ad alta pressione e turbolenze di ogni tipo. E l’industria brasiliana, come rivelò all’epoca l’ammiraglio Olsen, non è in grado di fornire queste tecnologie critiche [84].

In Giappone, anche recentemente si sono registrate proteste ecologiste contro il rischio derivante dalla presenza nel porto di Yokosuka di altre portaerei nucleari USA, come riferito da una fonte locale:

Fermare l’homeport di Yokosuka per le portaerei a propulsione nucleare – Estensione dell’ormeggio della base n. 12 di Yokosuka della Marina degli Stati Uniti, interruzione del piano di manutenzione. Per raggiungere questo obiettivo, tutti noi conosceremo i fatti, pensiamo ai problemi causati dall’homeport di Yokosuka della portaerei a propulsione nucleare, al piano di estensione e manutenzione dell’attracco n. 12, nonché ai problemi causati dal portaerei come l’inquinamento acustico.・Discutere attivamente e mirare a diffondere tra i cittadini. Le navi nucleari sono centrali nucleari galleggianti e, poiché si muovono sul mare, sono ancora più pericolose delle centrali nucleari ! ( https://cvn.jpn.org/ )

Come si vede, pur tenendo conto che ciò che è riscontrabile sui media è ovviamente solo la punta dell’iceberg rispetto all’effettiva consistenza del problema, si registra un po’ dovunque l’opposizione non solo al riarmo atomico, ma anche alla presenza di navi militari a propulsione nucleare nei porti civili. Purtroppo al coro delle proteste ecopacifiste mancano alcune voci autorevoli, fra cui quelle delle principali organizzazioni ambientaliste italiane e della stessa Greenpeace, sul cui sito internazionale non compare nessuna iniziativa specificamente diretta alla denuncia del rischio nei porti nuclearizzati [85].

Eppure si tratta di una questione destinata a sempre nuovi sviluppi e che quindi dovrebbe preoccupare molto di più l’opinione pubblica, sia pur poco informata. Viceversa, a parte la documentazione fornita da PeaceLink sulle pagine del suo sito dedicate specificamente al disarmo [86], sul rischio ambientale da ‘nucleare militare’ si discute troppo poco. Una lodevole eccezione sono gli articoli di Antonio Mazzeo, che è più volte tornato sull’argomento, sottolineando l’assurdità di una minaccia alla pace e alla sicurezza di cui tuttora pochi sono informati.

I dati statistici sugli incidenti a reattori nucleari navali sono inquietanti: negli ultimi quarant’anni si sono avute ben oltre un centinaio di emergenze radiologiche a unità di Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna e Francia. “Ricerche in corso dimostrano la correlazione fra la presenza di sommergibili a propulsione nucleare e la concentrazione di elementi radioattivi alfa-emettitori in matrici biologiche marine […] Ancora oggi però alcuni dei porti “nuclearizzati” sono sprovvisti di specifici piani di emergenza oppure essi risultano secretati. Quando si è avuto accesso ai piani, sono state segnalate numerose e poco rassicuranti disparità nelle soluzioni adottate [87].

12. Rilanciare le vertenze ecopacifiste, con la controinformazione e l’opposizione popolare

Il rilancio delle mobilitazioni ecopacifiste, in Italia, è diventato un obiettivo perseguito in particolare dall’associazione nazionale di protezione ambientale Verdi Ambiente e Società (VAS) e dal Movimento Internazionale della Riconciliazione (MIR Italia), che recentemente hanno aperto il dibattito sul tema con contributi propri, ma anche stimolando altre realtà ecologiste e pacifiste ad unirsi e collaborare anche su questo terreno.

Ho già citato l’articolo del 2004, il saggio del 2011 ed il “Manuale” del 2014 che VAS ha pubblicizzato proprio per confrontarsi con altri soggetti dell’arcipelago ecopacifista italiano, fra cui Green Cross Italia e Legambiente. Va sottolineato poi che il circolo metropolitano VAS di Napoli è sempre stato in prima linea su queste problematiche e che la rivista bimestrale dell’Associazione, grazie al suo impegno, ha riconosciuto recentemente uno spazio particolare alle vertenze ecopacifiste, ospitandovi una rubrica specifica [88].

Per quanto riguarda il MIR Italia, lo spirito di nonviolenza attiva che anima dal 1952 la sezione italiana dell’International Fellowship of Reconciliation – IFOR ha ispirato da sempre le battaglie pacifiste contro il nucleare civile e militare, grazie soprattutto ai fondamentali ed autorevoli contributi di Antonino Drago e di Giuliana Martirani. Oltre alla pubblicazione da parte del Gruppo Abele di Torino nel 2021 del citato libro del MIR La colomba e il ramoscello- Un progetto ecopacifista [89], l’anno seguente, il Centro Gandhi di Pisa è stato l’editore del ‘manuale’ di Ermete Ferraro, intitolato Grammatica ecopacifista – Ecolinguistica e linguaggi di pace [90].

In questo libro… confluiscono riflessioni e proposte già presentate negli anni passati, ma anche approfondimenti e ricerche più recenti, come quella sul ruolo della ricerca ecolinguistica nel processo di coscientizzazione sul rapporto fra ecologismo e pacifismo, ma anche nella diffusione di un modo di comunicare non più antropocentrico ed attento alla tutela della diversità culturale [91].

Un positivo elemento di novità, in quest’ultimo anno, è stato l’accresciuto interesse di un’organizzazione come Pax Christi Italia nei confronti della paradossale situazione politica che vorrebbe i porti italiani sempre più chiusi alle operazioni umanitarie per soccorrere i migranti (che fuggono spesso proprio da devastazioni ambientali e micidiali conflitti armati), nel mentre restano del tutto aperti ai traffici marittimi finalizzati all’esportazione di armamenti anche in teatri di guerra ed al transito ed alla sosta di pericolosi natanti a propulsione nucleare, peraltro spesso con armamenti atomici a bordo. Lo scorso novembre 2022, infatti, nell’ambito dell’iniziativa “Fari di Pace”, Pax Christi ha organizzato a Napoli una manifestazione al Porto, che aveva tra gli obiettivi proprio quella della sicurezza dei cittadini nei riguardi della presenza di natanti nucleari.

Si deve all’impegno di Pax Christi Napoli l’evento dello scorso 19 novembre con la marcia dal porto verso il centro storico della città, con arrivo nella cattedrale dove il vescovo Battaglia ha espresso una forte condivisione dell’istanza dell’iniziativa racchiudibile nello slogan “porti aperti ai migranti e chiusi alle armi” […] Di solito… le marce della pace scontano il pregiudizio di essere retoriche e generiche. Quella di Napoli come quella di Genova del 2 aprile sono state, invece, molto precise nel chiedere il mancato transito di carichi di armi a Genova e il divieto di attracco nel porto di Napoli di navi e sommergibili nucleari o che trasportano armi nucleari [92].

Tocca adesso ai vari soggetti coordinati dal Comitato Pace e Disarmo Campania – cui, fra gli altri, aderiscono le sedi napolitane di VAS, del MIR e della stessa Pax Christi – rilanciare con forza la vertenza ecopacifista per la denuclearizzazione del porto, da subito, per la pubblicizzazione del Piano di Emergenza nucleare di cui finora la cittadinanza della terza metropoli italiana è stata colpevolmente tenuta all’oscuro.

Un’insopportabile reticenza e resistenza istituzionale di cui è stata fornita un’ulteriore prova – a pochi giorni dalla manifestazione pubblica promossa da Pax Christi e dagli autorevoli appelli per il disarmo lanciati dall’arcivescovo Battaglia, da don Renato Sacco e da P. Alex Zanotelli [93] – con l’approdo a Napoli di un secondo natante nucleare, salutato quasi festosamente da certa stampa.

La portaerei statunitense George H.W. Bush, con a bordo l’equipaggio del Carrier Strike Group 10, è arrivata nel Golfo di Napoli per una sosta programmata in porto ieri, lunedì 28 novembre. «La visita rappresenta un’importante opportunità per le relazioni tra Italia e Stati Uniti d’America, con una centralità per la città di Napoli», dichiara il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi. «L’esperienza del soggiorno dei marinai, in questo periodo in cui Napoli ha molto da offrire in termini culturali a quanti la visitano per la prima volta – aggiunge Manfredi – sarà certamente di grande interesse e particolarmente attrattiva per il numeroso equipaggio del Csg George H.W. Bush [94].

Il principale interlocutore delle proteste e proposte degli attivisti ecopacifisti, quindi, sarà nel 2023 proprio il primo cittadino del capoluogo partenopeo, che incredibilmente si era detto particolarmente soddisfatto dell’arrivo della portaerei americana, visto come occasione per cementare le relazioni tra Stati Uniti e Italia, e addirittura “per rafforzare ulteriormente i rapporti tra i due paesi e lavorare insieme in nome dei valori condivisi di pace e sicurezza” [95].  Nel nuovo anno, dunque, continua la battaglia antimilitarista e nonviolenta “a propulsione antinucleare” che gli attivisti locali stanno portando avanti ormai da 25 anni, senza ‘se’ e senza ‘ma’.

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 NOTE

[1] “Pericolo nucleare a Nisida – Sottomarini nucleari nelle acque dell’isola” – ROMA/Giornale di Napoli, 20.05.’96 e “Sottomarini a Nisida” (com. stampa di E. Ferraro) – ROMA/Giornale di Napoli, 22.05.’96

[2]  http://it.wikipedia.org/wiki/Antonino_Drago_%28pacifista%29   

[3] Antonino Drago, Difesa popolare nonviolenta, Torino, E.G.A., 2006. Vedi anche: Ermete Ferraro, “La resistenza napoletana e le Quattro Giornate: un caso storico di difesa civile e popolare”, in: AA.VV., Una strategia di pace: la difesa civile nonviolenta (pp.89-95), Bologna: FuoriTHEMA, 1993

[4] “I VAS: rischio nucleare. Via la portaerei ‘Enterprise’!”, Il Mattino, 06.06.’01; “Rischio nucleare nel porto di Napoli”, La Verità, 06.06.’01; “Emergenza nucleare nel golfo. L’Enterprise adesso fa paura”, Cronache di Napoli, 06.06.’01; “Via le portaerei nucleari”, Roma/Giornale di Napoli, 28.06.’01

[5] “Rischio nucleare: la portaerei lascia oggi il golfo di Napoli. Gli ambientalisti contro l’Enterprise “, Roma/Giornale di Napoli, 12.02.’04; “I VAS chiedono che venga allontanata la portaerei ‘Truman’ dal porto di Napoli”, Roma/Giornale di Napoli, 06.07.’04

[6] Ermete Ferraro, “Quale ecopacifismo? Ecologia, conservazionismo, ecologismo e ambientalismo” in: “Biodiversità a Napoli”, supplemento a Verde Ambiente, Roma, E.V.A. (XX, 2, marzo-aprile 2004), pp. 21-27

[7] Cfr. http://www.paxchristinapoli.it  

[8] Cfr. http://www.pacedisarmo.org/pacedisarmo/articles/art_2073.html   Nel 2008 il Comitato Pace Disarmo e Smilitarizzazione del Territorio – Campania ha pubblicato un testo fondamentale su queste tematiche: Napoli chiama Vicenza – Disarmare i territori, costruire la pace (a cura di Angelica Romano), quaderno Satyagraha n. 14,  Pisa, Centro Gandhi Edizioni, 2008,  http://www.peacelink.it/libri/index.php?id=12 )

[9] Ermete Ferraro, “Il signornò degli ecopacifisti, www.vasonline.it  (marzo 2007); idem, “Una scomoda verità”, www.vasonline.it  (ago.2007); idem, “Una mobilitazione ecopacifista per togliere le basi alla guerra”,  http://napoli.indymedia.org  (marzo 2009)

[10] Ermete Ferraro, “La protesta dei VAS Napoli: porto, via le navi nucleari”, Il Napoli (26 nov. 2007); Idem, “AFRICOM: un altro migliaio di militari USA…”, www.proletaria.it  (dic. 2008); Idem,”No Africom!” commento postato da E.F, www.napoli.indymedia.com  (dic. 2008); Idem, “AFRICOM: la posizione dei VAS” www.retecivicanapoli.org  (mar. 2008); Idem e A. D’Acunto,”Oscuro scontro di 2 sommergibili nucleari, francese ed inglese, nell’Atlantico: un drammatico allarme per Napoli ed il suo Golfo”, http://www.pacedisarmo.org/pacedisarmo/articles/art_2449.html (feb. 2009); Idem, “Porti nuclearizzati? No grazie!”, http://napoli.indymedia.org:8383/node/7447  (feb. 2009); mag. 2010 > “Base US Navy di Napoli: chiuderà?”, www.vasonlus.it  (mag. 2009).

[11] Visita: http://www.laciviltadelsole.org  e http://www.facebook.com/?ref=home#!/group.php?gid=62693432041  – Su nucleare e pace visita anche il sito web di Antonio D’Acunto (http://www.terraacquaariafuoco.it ).

[12] Ermete Ferraro, “Sicurezza nucleare nel porto di Napoli”, http://napoli.indymedia.org/node/14391  (7 dic.2010)

[13] http://www.salute.gov.it/ipocm/resources/documenti/D_lgs_230-95.pdf

[14] Alessandro Marescotti, Decalogo per i porti a rischio nucleare, 5.5.2004, https://www.peacelink.it/disarmo/a/4769.html

[15] ibidem

[16] http://www.progettohumus.it/nucleare.php?name=porti

[17] “Il rischio nucleare nei porti italiani…” cit.  http://www.peacelink.it/tematiche/disarmo/porti.shtml

[18] 9 Agosto 2003 > Rita Bittarelli > Gaeta. Piano di emergenza nucleare. Antonino Drago: «Documento senza alcuna validità scientifica, pieno di “credenze” e di strafalcioni» http://www.peacelink.it/disarmo/docs/80.pdf

[19] D. Lgs. 230/95 cit. – art. 130

[20] Angelica Romano, “Rischio nucleare”, in Napoli chiama Vicenza, cit., p. 29

[21] ANSA 2005-06-10  http://www.tarantosociale.org/tarantosociale/a/11592.html

[22] http://www.peacelink.it/disarmo/docs/80.pdf  (in particolare pp. 14-17)

[23] Vittorio Moccia, “Che si può fare?”, in Napoli chiama Vicenza cit., pp.120-121

[24] http://www.iustel.com/v2/diario_del_derecho/noticia.asp?ref_iustel=1046576

[25] http://www.bcn.es/bombers/es/quisom_funcions.html

[26]  http://www.ppitoulon.net/index.html – Il piano attuale, pubblicato sul sito della Prefécture du Var, è invece consultabile all’indirizzo https://www.var.gouv.fr/IMG/pdf/PPI_20FEV_version_portail_internet_cle58e482.pdf

[27] http://www.dorsetforyou.com/media.jsp?mediaid=146764&filetype=pdf

[28] http://nnsa.energy.gov/ourmission/poweringnavy#hq

[29] Jonathan Medalia, Terrorist Nuclear Attacks on Seaports: Threat and Response, CRS reports for Congress, Jan. 2005, http://www.fas.org/irp/crs/RS21293.pdf

[30] http://www.hc-sc.gc.ca/hc-ps/pubs/ed-ud/fnep-pfun-1/plan-planification-eng.php#waters

[31] Cfr. Andreas Reitzig, New Zealand’s Ban on Nuclear Propelled Ships Revisited, Auckland Univ., 2005  http://www.kuratrading.com/PDF/NuclearBan.pdf

[32] Edward P. Thompson, Protestare per sopravvivere, Napoli, Pironti, 1982

[33] Cfr. Ermete Ferraro e Luigi Bucci, “Servizio civile e protezione popolare”, in: Il Tetto, XVIII, N. 103 – Napoli, gen.-feb. 1981 (pp. 39-48)

[34] V. Moccia, “Che si può fare?”, cit., p. 119-123

[35] A. Marescotti, Decalogo per i porti a rischio nucleare, cit.

[36] Ermete Ferraro, A propulsione antinucleare – 15 anni di lotte ecopacifiste di VAS per la sicurezza dei cittadini e la denuclearizzazione del Golfo di Napoli, Napoli, VAS, 2011, https://www.pacedisarmo.org/pacedisarmo/articles/art_7655.html

[37] Dip. Protezione Civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Piano Nazionale delle misure protettive contro le emergenze radiologiche, a c. dott. Sergio Mancioppi e ing. Valeria Palmieri, 01.12.2010, https://www.isprambiente.gov.it/contentfiles/00007500/7554-piano-nazionale-dr.-mancioppi.pdf

[38] “Incidente del sottomarino nucleare USA, ecco con cosa si era scontrato”, Notizie Scientifiche.it,02.11.21, https://notiziescientifiche.it/incidente-del-sottomarino-nucleare-usa-ecco-con-cosa-si-era-scontrato/. Cfr. anche: https://www.panorama.it/Tecnologia/difesa-aerospazio/collisione-pacifico-sommergibile-nucleare-usa-coinnecticut

[39] http://www.rainews.it/archivio-rainews/media/15-anni-fa-la-tragedia-del-sottomarino-Kursk-2f3b2dee-664a-4c83-be58-7ab7943db14b.html

[40] https://www.rainews.it/archivio-rainews/articoli/sommergibile-russia-incendio-marinai-morti-a69d6c0b-ebac-43f7-86b8-ca9bcf4b85ac.html – Cfr. anche F. Iannuzzelli, “Fuoco a bordo del sottomarino nucleare segreto Losharik” (04.7.2019), https://www.peacelink.it/disarmo/a/46654.html

[41] “Collisione fra sottomarini nucleari” (16.02.2009), La Repubblica, http://www.repubblica.it/2009/02/sezioni/esteri/collisione-sottomarini/collisione-sottomarini/collisione-sottomarini.html

[42] Junko Terao, “Sottomarino Usa accende la battaglia antinucleare” (03.08.2008), fonte: il Manifesto, https://www.peacelink.it/disarmo/a/26988.html

[43] “L’incidente al sottomarino a propulsione nucleare Tireless. La risposta del ministro Martino” (30.11.2004), https://www.peacelink.it/disarmo/a/15091.html

[44] https://www.peacelink.it/disarmo/a/19940.html

[45] https://www.peacelink.it/disarmo/a/8510.html

[46] Corriere della Sera 17/11/03, https://www.peacelink.it/disarmo/a/2342.html

[47] il Manifesto (20.07.2001), https://www.peacelink.it/disarmo/a/1314.html

[48] Prefettura di Napoli – Prot. Civile, Piano di Emergenza Esterna per la sosta di unità navali a propulsione nucleare nei Porti di Napoli e C.mare di Stabia porto  (2006),  http://www.prefettura.it/FILES/AllegatiPag/1221/PEE_NAVI_NUCLEARI_2006.pdf

[49] Piano Particolareggiato per l’Informazione della Popolazione (Linee guida) – All. G9 al PEEPNa,  https://www.peacelink.it/disarmo/docs/3724.pdf

[50] ivi, p. 2

[51] In data 06.04.2011 sono apparsi articoli su: la Repubblica, ROMA- Giornale di Napoli e Napoli Village. Cfr. anchela galleria fotografica sulla manifestazione in https://www.pacedisarmo.org/pacedisarmo/indices/index_95.html  Cfr. anche https://contropiano.org/news/ambiente-news/2011/06/12/napoli-arriva-la-portaerei-nucleare-usa-g-bush-e-non-dovrebbe-01894

[52] Il Mattino, 21.10.2012.  Cfr. http://www.vascampania.net/archivio-notizie-2.html

[53] Leggi resoconto su I fatti di Napoli (12.12.2013), http://www.ifattidinapoli.it/articolo.php?id=56ebc9d04cdf6959208b6884

[54] Cfr. in proposito i seguenti articoli, pubblicati nel tempo sul mio blog: (2012) https://ermetespeacebook.blog/2012/07/17/prove-tecniche-di-buon-vici-nato/https://ermetespeacebook.blog/2012/09/03/far-waste-ovvero-anche-la-nato-produce-munnezza/ ; https://ermetespeacebook.blog/2012/09/03/far-waste-ovvero-anche-la-nato-produce-munnezza/ ; (2015) https://ermetespeacebook.blog/2015/07/28/nato-per-combattere/ ; (2021) https://ermetespeacebook.blog/2021/12/31/giugliano-provincia-di-natoli /  ; (2022) https://ermetespeacebook.blog/2022/02/18/born-to-kill-nato-per-uccidere/

[55] Cfr. testo della D.G. n. 609/2015 con oggetto “Dichiarazione di ‘Area Denuclearizzata’ del Porto di Napoli”, https://www.comune.napoli.it/flex/FixedPages/IT/Delibere.php/L/IT

[56] “Il Porto di Napoli dichiarato area denuclearizzata: ‘Noi città di pace’ ”, https://www.napolitoday.it/politica/porto-napoli-area-denuclearizzata.html

[57]  Cfr. gli articoli apparsi allora sui quotidiani locali: https://napoli.repubblica.it/cronaca/2015/10/01/foto/napoli_il_sindaco_dichiara_il_porto_area_denuclearizzata_tweet_contro_il_governo-124081266/1/ ; https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/15_settembre_30/porto-diventa-zona-denuclearizzata-giunta-comune-approva-delibera-51a44c68-6761-11e5-88dc-bbf708990735.shtml?refresh_ce-cp ; https://www.teleischia.com/20036/denuclearizzato-il-porto-di-napoli-vittoria-degli-ecopacifisti/

[58] “Basta nucleare nel Porto di Napoli”, Contropiano (20.06.2016), https://contropiano.org/regionali/campania/2016/06/20/basta-nucleare-nel-porto-napoli-080632

[59] “Sottomarino nucleare Usa in rada. De Magistris: ‘Il porto di Napoli è un’area denuclearizzata’.”, Ag. St. DIRE (16.04.2018), https://www.dire.it/16-04-2018/193111-sottomarino-nucleare-usa-in-rada-de-magistris-il-porto-di-napoli-e-unarea-denuclearizzata/  Cfr. anche https://www.stylo24.it/de-magistris-contrario-sommergibile-porto-napoli/

[60] “Napoli, la portaerei Truman arriva nel Golfo: folla sul lungomare per fotografarla”, IL MATTINO (10.05.2022), https://www.ilmattino.it/napoli/cronaca/portaerei_truman_golfo_di_napoli_oggi_le_ultime-6680261.html?refresh_ce

[61] ibidem

[62] “Portaerei nel porto di Napoli, de Magistris: “La nostra è una città di pace”, Napoli Today (10.05.2022), https://www.napolitoday.it/cronaca/portaerei-truman-proteste.html

[63] Cfr., tra gli altri, alcuni miei saggi pubblicati sul sito di academia.ed : https://www.academia.edu/37811619/Credere_rinverdire_e_combatterehttps://www.academia.edu/42327562/Presidiare_lemergenza_Ermete_Ferrarohttps://www.academia.edu/43188396/FENOMENOLOGIA_DELLO_STRUMENTO_MILITARE_Esercito_italianohttps://www.academia.edu/44126545/IL_MILITARISMO_ETERNO_Ermete_Ferrarohttps://www.academia.edu/71001713/CAMALEONTI_CON_LE_STELLETTE_Le_forze_armate_tra_conformismo_atlantico_e_trasformismo_ambientalista 

[64] Antimilitaristi Campani (a cura di), Fermiamo la guerra, Napoli 2021, scaricabile da: https://coordinamenta.noblogs.org/files/2021/03/Opuscolo-Antimilitaristi-Campani.pdf  Cfr. anche l’articolo che ne sintetizza il contenuto: “Fermiamo la guerra, una ricerca del Comitato antimilitaristi campani”, Mosaico di Pace (27.08.2021), https://www.mosaicodipace.it/index.php/rubriche-e-iniziative/rubriche/approfondimenti/documenti/2517-fermiamo-la-guerra-una-ricerca-del-comitato-antimilitaristi-campani e quello apparso (14.03.2021) sul sito di PeaceLink https://www.peacelink.it/pace/a/48361.html

[65] Movimento Internazionale della Riconciliazione, La colomba e il ramoscello – Un progetto ecopacifista, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2021, pp.58-61.

[66] Cfr. Ermete Ferraro, L’ulivo e il Girasole – Manuale per un progetto di coordinamento delle iniziative ecopacifiste di VAS, Napoli, VAS aps, 2014, https://issuu.com/ermeteferraro/docs/manuale_ecopacifismo_vas_2_83d43f9735930d

[67] MIR, La colomba e il ramoscello, cit., p. 88

[68] Cfr. il sito ufficiale del Coordinamento dei comitati NO MUOS, che da anni lotta contro l’installazione e la messa in funzione delle antenne USA a Niscemi (Sicilia) ed in particolare la pagina https://www.nomuos.info/cose-il-muos/. V. anche il libro che ne ripercorre la battaglia: T. Adam, Un anno di lotte, Villaggio Maori, 2014, anche in versione e-book: https://www.lafeltrinelli.it/no-muos-anno-di-lotte-ebook-adam-t/e/9788898119240

[69] “Precauzione, principio di”, di Maurizio Iaccarino, Enciclopedia Italiana – VII Appendice (2007), Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/principio-di-precauzione_%28Enciclopedia-Italiana%29/

[70] Antonino Drago. “Documento senza alcuna validità scientifica, pieno di “credenze” e di strafalcioni”, in Rita Bittarelli, “Gaeta. Piano di emergenza nucleare” (29.08.2003), Latina, Parvapolis, http://www.parvapolis.it/a-16534/cronaca/gaeta-piano-di-emergenza-nucleare-antonino-drago-documento-senza-alcuna-validitscientifica-pieno-di-credenze-e-di-strafalcioni/

[71] Cfr. Gianni Lannes, “Italia: mari e porti a stelle e strisce” (18/08/2013), Arianna Editrice, https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=45930

[72] Massimo Zucchetti, Sosta di unità navali militari a propulsione nucleare nei porti italiani: dall’esame dei Piani di emergenza esterna una semplice conclusione (s.d.), https://www.peacelink.it/disarmo/docs/877.pdf

[73] ENAAT – Rosa Luxemburg Stiftung, A Militarised Union – Understanding and confronting the militarization of rhe European Union, Brussels, 2021, p.79 (La versione online, anche in italiano, è scaricabile da: https://www.rosalux.eu/en/article/1981.a-militarised-union.html 

[74] “Truman, la portaerei nucleare Usa è a Napoli. Sospetti e accuse: “Colonia Italia, cosa significa” (10.05.2022), Libero quotidiano, https://www.liberoquotidiano.it/video/italia/31534229/truman-portaerei-nucleare-americana-napoli-sospetti-italia-colonia-nato.html Vedi anche il servizio di Rai News: https://www.rainews.it/video/2022/05/le-immagini-della-portaerei-americana-truman-nel-golfo-di-napoli-74314cec-fa58-4771-a317-f075000e111d.htm e l’articolo https://napoli.repubblica.it/cronaca/2022/05/10/news/la_portaerei_truman_giunta_nel_golfo_di_napoli-348919874/

[75] Cfr. comunicato stampa CPDC del 10.05.2022, https://www.pacedisarmo.org/pacedisarmo/articles/art_12961.html – Un video della manifestazione, cui ha partecipato anche Ferraro a nome di VAS e MIR Napoli, è su: https://www.larena.it//media/video/la-portaerei-usa-truman-a-napoli-sit-in-del-apos-comitato-pace-e-disarmo-apos-1.9402170 . Dell’iniziativa del CPDC ha riferito anche Sky Tg24: https://tg24.sky.it/napoli/2022/05/10/portaerei-uss-truman-napoli           

[76] “Al porto di Napoli la Truman, portaerei militare degli Stati Uniti”, nell’art. cit. di Sky Tg24

[77] F. Olivo, “La portaerei Truman nel golfo di Napoli, con tanto di cerimonia. De Luca e Manfredi si tengono a distanza” (12.05.2022), Huffington Post, https://www.huffingtonpost.it/politica/2022/05/12/news/diventa_un_caso_la_portaerei_truman_nel_golfo_di_napoli_de_luca_e_manfredi_assenti_al_ricevimento-9379374/

[78] “Nuclear subs: bad for people, planet & peace” (16.09.2021), https://www.foe.org.au/nuclearsubs_bad_for_people_planet_peace . Sulla programmazione della presenza di natanti nucleari in Australia cfr. l’opuscolo Nuclear powered warships visit planning: https://www.arpansa.gov.au/research/radiation-emergency-preparedness-and-response/visits-by-nuclear-powered-warships

[79] “New York City joins ICAN Cities Appeal” (10.12.2021), ICAN, https://www.icanw.org/new_york_city_joins_ican_cities_appeal

[80] Radiation emergency in the Port of Southampton – Information for people living in the 5km Outline Planning Zone (Nov. 2020- Nov. 2023), https://www.southampton.gov.uk/media/jprpcfrw/130-1-emergency-planning-resident-finalx_tcm63-434545.pdf

[81] Stefan Leimer, “Update: US nuclear submarine docks near Tromsø” (06.05.2021), Polar Journal, https://polarjournal.ch/en/2021/05/06/nuclear-submarines-near-tromsoe-in-the-future/ Cfr. anche: https://worldbeyondwar-org.translate.goog/sv/activists-in-norway-protest-proposed-docking-of-nuclear-submarines-in-tromso/? _x_tr_sl=sv&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it&_x_tr_pto=sc

[82] Alonso Palacios, “El submarino nuclear USS Florida, una fortaleza con misiles Tomahawk, atraca en Gibraltar” (30.09.2022), El Debate, https://www.eldebate.com/espana/defensa/20220930/submarino-uss-florida-fortaleza-nuclear-misiles-crucero-atraca-gibraltar_63192.html

[83] Konstantinos I. Delimbasis, Ο πόλεμος της σιωπήςΠυρηνοκίνητα σκάφη & περιβάλλον (La guerra del silenzio – “Navi nucleari e ambiente” – 22.06.2019), AMBIENTE ED ENERGIA, https://www.e-telescope.gr/science/environment/nuclear-submarines-environment

[84] Roberto Maltchik – O Globo ,“Construção de submarino nuclear da Marinha Brasileira corre risco de naufragar” (12.03.2022), https://www.naval.com.br/blog/2022/03/12/construcao-de-submarino-nuclear-da-marinha-brasileira-corre-risco-de-naufragar/

[85] Cfr. il sito web di Greenpeace Int’l: https://www.greenpeace.org/international/

[86] L’ultimo articolo in proposito sul sito di PeaceLink è stato: Gianmarco Catalano, “Due sottomarini nucleari presenti all’esercitazione Dynamic Manta. Rischio atomico e mancata informazione dei cittadini” (25.02.2022), https://www.peacelink.it/disarmo/a/49007.html

[87] Antonio Mazzeo, “Porti ed aeroporti italiani ad alto rischio nucleare”, in: La contaminazione cancerogena dell’apparato militare in Italia (2018), Academia.edu, https://www.academia.edu/41543128/La_contaminazione_cancerogena_dellapparato_militare_in_Italia  

[88] Oltre agli articoli apparsi su fino al 2021 Verde Ambiente” negli scorsi anni (a cura di Giorgio Nebbia, Guido Pollice, Antonio D’Acunto ed Ermete Ferraro) sulla nuova edizione della rivista Ermete Ferraro cura la rubrica: “Cara…pace – Riflessioni ecopacifiste” > https://www.verdiambientesocieta.it/la-nostra-rivista/?fbclid=IwAR2r_YgAtp-naNAEgidB7hbeK4NmzdqfQllj9DRkAKmj0K06iH2A5ljkOBE

[89] Cfr. anche l’articolo di G. Mancuso: https://www.pressenza.com/it/2021/11/un-progetto-ecopacifista-presentazione-del-libro-la-colomba-e-il-ramoscello/

[90] Ermete Ferraro, Grammatica ecopacifista – Ecolinguistica e linguaggi di Pace, Pisa, Centro Gandhi Edizioni, 2022

[91] Ivi, p. 23-24

[92] Carlo Cefaloni, “Napoli, un faro di pace che non si spegne” (22.11.2022), Roma, Città Nuova, https://www.cittanuova.it/napoli-un-faro-pace-non-si-spegne/?ms=003&se=005

[93] Cfr. https://www.vitawebtv.it/fari-di-pace-a-napoli-le-guerre-scoppiano-perche-ci-sono-strutture-mezzi-e-strumenti-che-le-rendono-possibili/ ,  https://www.vitawebtv.it/fari-di-pace-a-napoli-le-guerre-scoppiano-perche-ci-sono-strutture-mezzi-e-strumenti-che-le-rendono-possibili/   e https://www.ilmattino.it/cultura/periferie/fari_di_pace_la_marcia_di_pax_christi_da_savona_ad_altamura_fa_tappa_napoli-7060750.html

[94] “La portaerei George Bush è arrivata nel Golfo di Napoli: «Importante opportunità per la relazione tra Italia ed America»” (29.11.2022), Il Mattino, https://www.ilmattino.it/napoli/cronaca/portaerei_bush_statiunitid_america_napoli_golfo-7082713.html?refresh_ce [95] Federico Garau,” A Napoli arriva la portaerei nucleare H.W. Bush, ecco perché (29.11.2022), Il Giornale, https://www.ilgiornale.it/news/cronaca-locale/napoli-arriva-portaerei-nucleare-hw-bush-ecco-perch-2090324.html Anche in questa circostanza VAS e MIR Napoli hanno protestato con un comunicato stampa: https://www.pacedisarmo.org/pacedisarmo/articles/art_12965.html

© 2023 Ermete Ferraro

Lingue regionali: liberate ma…sotto tutela

Un dotto convegno di linguisti e dialettologi

Che Napoli sia diventata il ‘palcoscenico’ per un convegno con la partecipazione di una decina di autorevoli docenti universitari, venuti da tutta l’Italia per confrontarsi sul tema della salvaguardia dei patrimoni linguistici regionali nelle diverse sfaccettature locali, è senza dubbio cosa buona e giusta. E in effetti è stato proprio un palcoscenico, quello dello storico Teatro Nuovo di Montecalvario, ad ospitare la due-giorni promossa dal Comitato scientifico per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano, operante dal 2020 in seno al Consiglio Regionale della Campania [i]. Su quella ribalta si sono affrontate questioni importanti, prima con qualificate relazioni accademiche e poi con un panel allargato ad un’esponente di quel Consiglio Regionale e ad un rappresentante degli enti locali. Era ora, d’altronde, che sulla tutela e valorizzazione delle espressioni linguistiche dei vari territori si accendessero i riflettori dell’opinione pubblica e dei media, facendo uscire questo dibattito dall’ambito esclusivamente universitario.

Il problema, semmai, è che i faretti del Teatro Nuovo – proseguo nella metafora – si sono accesi ancora una volta solo sugli studiosi, lasciando al buio (e non solo metaforicamente) il pubblico cui questi si rivolgevano. Un pubblico, in gran parte giovanile, che ha seguito in religioso silenzio gli interventi, non si sa quanto coinvolto dai sottili distinguo circa la bontà o meno di iniziative che, pur riguardanti coloro che ancora parlano le lingue locali e talvolta si arrischiano a scriverle, non li vedono affatto protagonisti del processo.

Eppure, oltre ad aprire un reale dialogo coi potenziali fruitori dei progetti di tutela e rivitalizzazione delle espressioni linguistiche locali, sarebbe stata l’occasione più opportuna per avviare un reale confronto con quelli che, volontaristicamente ed investendoci tempo e risorse personali, da più di 20 anni svolgono a Napoli corsi formativi, fanno ricerche, pubblicano contributi, promuovono iniziative culturali e si battono per ridare al Napolitano – come ad altre espressioni dialettali della Campania – la dignità di oggetto di studio e d’insegnamento.

Purtroppo tutto ciò non è accaduto e, ancora una volta, il mondo accademico ha dato l’impressione di voler ribadire il proprio ruolo, preoccupandosi di erigere autorevoli steccati nei riguardi di siffatte iniziative di base, considerate spontaneistiche ed ingenue se non deleterie, nonché di difendere la propria esclusiva relazione con le istituzioni politico-amministrative, stimolate ad investire risorse finanziarie nelle ricerche ‘scientifiche’.

Sotto i riflettori del Teatro Nuovo si sono alternati interventi autorevoli ed interessanti su cosa meriterebbe di essere ‘salvaguardato’ e sui soggetti e le modalità più idonee a tutelare il patrimonio linguistico delle regioni italiane. Da larga parte di essi – in particolare da alcuni docenti della Campania – è però apparsa in modo palese la diffidenza nei confronti dei ‘profani’ e del dilettantismo ingenuo negli interventi di formazione linguistica svolti in ambito extra-accademico, ed ancor di più verso una loro possibile, ma a quanto pare deprecabile, deriva socio-politica ‘identitaria’.

Il ruolo della linguistica, è stato ribadito più volte, sarebbe infatti quello di studiare oggettivamente i fenomeni, col necessario distacco dell’osservatore non partecipante, privilegiando un metodo descrittivo più che un approccio normativo. La lingua, si è detto, è qualcosa di vivo ed in evoluzione e i processi di cambiamento non sono arginabili. Il che è vero, se ci si riferisce ai mutamenti linguistici fisiologici nel tempo e nello spazio, ma suona quasi un pretesto laddove la naturale evoluzione di alcune lingue locali è stata condizionata dalle spinte di un centralismo autoritario e classista e da atteggiamenti conseguentemente repressivi o anche di autocensura. Decenni di studi storici e sociolinguistici rischiano così di essere sopravanzati da un’impostazione che manifesta tuttora dubbi sull’equazione tra la subalternità socio-economica e quella culturale, soprattutto nel caso del Mezzogiorno d’Italia, cercando di esorcizzare ogni forma di conflittualità tra lingua nazionale ed espressioni linguistiche identitarie territoriali, in nome di una sospetta ‘pax linguistica’, che contraddice l’affermazione dell’assenza di un vero conflitto.

Da qui il martellante ritornello sull’inesistenza di qualsivoglia connotazione spregiativa nell’utilizzo del termine ‘dialetto’, peraltro in contraddizione con gli interventi di alcuni studiosi che di tale ‘dialettofobia’ hanno viceversa portato attestazioni anche recenti. Da qui anche la pretesa di stabilire ‘ex cathedra’ chi sarebbe qualificato ad insegnare cosa e, soprattutto, dove quando e perché.  Alle risposte offerte da questa sorta di 5W dell’insegnamento dei dialetti nelle scuole, infatti, sono stati dedicati vari interventi del Convegno, esprimendo rispettabili ed autorevoli pareri, ma senza aver aperto preventivamente un confronto con quei soggetti che di tale controversa materia si occupano comunque già da molti anni.

Se sia opportuna o no una simbolica ‘ora di dialetto’ nelle realtà scolastiche, oppure se ci si debba occupare delle espressioni locali solo sul piano della condivisione delle tradizioni popolari (e quindi su un piano più folkloristico che di studio e apprendimento), sono questioni legittime. Meno legittimo mi sembra invece l’atteggiamento un po’ supponente di chi mostra di aver già deciso ciò che va bene o va scartato, indirizzando unilateralmente l’operato dei comitati cui le amministrazioni regionali si sono affidate.

Non a caso, già nella conferenza stampa di presentazione del Convegno – tenuta nella sede regionale – si era affermato che il suo compito era quello di “…definire gli ambiti linguistici, geografici e culturali del patrimonio linguistico napoletano, individuare modalità per la valorizzazione di un patrimonio linguistico e delineare le possibili iniziative per veicolare conoscenze adeguate sulla storia linguistica italiana e sulla variegata articolazione dell’area regionale campana[ii].  Una terminologia che già nei verbi usati (definire, individuare, delineare) tradiva la volontà di frapporre precisi paletti, delimitando preventivamente il terreno di tale sperimentazione.

Sul sito della Federico II si legge che: “…il Convegno proporrà tra l’altro una riflessione su come nella scuola italiana del XXI secolo possa delinearsi – senza antagonismi con la lingua italiana – uno spazio per il dialetto, con una consapevole attenzione verso le manifestazioni culturali e artistiche legate ai patrimoni linguistici locali” [iii].  Ma, più che una riflessione sul ‘come’ salvaguardare i patrimoni linguistici delle nostre regioni, dal convegno sembra essere scaturita una vera e propria ricetta, anticipando le ‘linee guida’ che il Comitato sembrerebbe voler dare non solo al suo operato, ma anche alle realtà informali che agiscono sul campo. Ad esempio privilegiando palesemente l’attenzione verso le manifestazioni artistico-culturali più ‘popolari’ ma mostrando diffidenza nei confronti dello studio scolastico delle caratteristiche lessico-grammaticali e fonetico-ortografiche dei vari dialetti, attività considerata forse foriera di spiacevoli ‘antagonismi’ con la lingua italiana… Oppure insistendo nell’affermazione che le legislazioni regionali in materia tendono a privilegiare le espressioni linguistiche delle principali metropoli (si tratti di Venezia come di Napoli, di Roma come di Palermo), ipotizzando quindi sedicenti lingue regionali o addirittura elaborando linguaggi artificialmente standardizzati. Tendenze che, pur presenti in alcune normative in vigore, non nascono tanto dagli orientamenti di chi opera sul terreno, quanto dai condizionamenti politici degli organi legislativi.

Il caso della Campania: una legge mutilata

È successo ovviamente anche nel caso della Legge regionale della Campania n. 14/2019 (vedi testo), frutto d’un difficile compromesso tra la proposta avanzata dai Verdi (che io stesso ero stato incaricato di articolare) e quella presentata dalla Destra. La risposta a molte delle obiezioni e perplessità espresse nel corso del Convegno sta proprio in questa ambiguità di fondo, che ha di fatto tradito alcune istanze presenti nella prima proposta. Già nel titolo, ad esempio, si notano le differenze. Quella partorita 3 anni e mezzo fa dal Consiglio Regionale della Campania (il cui organismo attuatore è proprio il Comitato Scientifico organizzatore del Convegno) annuncia sbrigativamente “Salvaguardia e valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano”, laddove il progetto originario parlava più latamente di “Norme per lo studio, la tutela e la valorizzazione della Lingua Napoletana, dei Dialetti e delle Tradizioni Popolari della Campania”. 

Le differenze proseguono all’articolo 1, laddove tra le finalità nel testo vigente leggiamo che: “2. La Regione Campania valorizza il suo patrimonio culturale, promuove e favorisce la conservazione e l’uso sociale dei beni culturali linguistici, etnomusicali e delle tradizioni popolari, con particolare riguardo alla salvaguardia e valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano”. Da questo articolo, pur citando la Dichiarazione Universale dell’UNESCO sulla diversità linguistica, è sparito invece l’iniziale riferimento alla Carta Europea delle Lingue Regionali, approvata nel 1992 dal Consiglio d’Europa, che è molto più chiara sulla finalità di facilitarne l’uso orale e scritto “agevolandone lo studio e l’insegnamento”.  Conseguentemente, è stato cassato anche l’art. 3 del progetto di legge originario, dove si prevedeva esplicitamente che “la Regione Campania tutela e valorizza il patrimonio storico-culturale e letterario connesso alla lingua napoletana anche mediante il suo insegnamento – e la conoscenza degli altri idiomi della Campania – nelle scuole di ogni ordine e grado”. Nella legge in vigore, conseguentemente, è rimasto solo un generico riferimento ad “iniziative rivolte alla popolazione scolastica”.

Le premesse della proposta di legge, pertanto, erano molto più articolate di quanto emerge dal testo poi approvato, riferendosi al principio – democratico ed ecolinguistico – del rispetto della diversità linguistica in tutte le sue manifestazioni, senza affatto ipotizzare la preminenza di un idioma su un altro.  Appare allora un po’ pretestuosa l’osservazione di chi – in un articolo sul quotidiano Il Mattino – ha scritto : “…si pensa che tutti i dialetti siano, individualmente e nel loro insieme, testimoni di storia e di una tradizione linguistica ricca proprio perché variegata? Oppure si pensa che la salvaguardia debba riguardare solo alcuni dialetti proclamati unici o migliori?” [iv]   Domanda retorica che prelude alla successiva obiezione: “Si parla spesso di introdurre i dialetti nella scuola. In questo campo più che mai sono indispensabili obiettivi chiari: qualcuno crede che la scuola, con didattica normativa, dovrebbe impartire agli scolari la capacità di usare fluentemente il dialetto? Oppure si vuole insegnare solo la grafia di un dialetto a scolari che in futuro vorranno scrivere poesie, canzoni o altre opere? In entrambe le prospettive (tra loro diverse), bisognerebbe precisare quale dialetto scegliere tra i tanti di una regione…”. [v]

Il punto centrale della contestazione portata avanti da alcuni esponenti del mondo accademico (e sintetizzata in quell’articolo) riguarda le finalità stesse di un eventuale insegnamento dei dialetti nelle scuole, manifestando un atteggiamento sospettoso verso ipotetici obiettivi di contrapposizione di essi alla lingua comune e ufficiale.

Molti, se si considera ciò che si legge in giro e in rete, credono che tutti i dialetti abbiano subito torti gravissimi e volontari a causa della diffusione dell’italiano, tanto che a volte l’idea di salvaguardia sembra abbinata a un senso di rivalsa […] Anche nella didattica, con insegnanti che abbiano padronanza della materia, si potrà in ogni luogo prevedere, in rapporto all’età dei discenti, un’attenzione verso il dialetto […] ma senza esaltazioni e senza l’idea che qualcuno abbia messo in atto oppressioni o deprivazioni a danno di altri”. [vi]

Ecco il punto: esorcizzare ogni potenziale intenzione di ‘rivalsa’ sembrerebbe più importante che promuovere lingue locali che hanno subito viceversa un’innegabile riduzione a parlate ‘volgari’, da confinare semmai in ambito familiare perché inadatte ad esprimere contenuti ‘alti’. La decisa negazione di ogni forma di “oppressioni o deprivazioni” cozza inoltre contro decenni di studi sociolinguistici che hanno messo in evidenza quanto la marginalità socio-economica della gente del Sud comportasse anche la deprivazione delle loro specifiche espressioni linguistiche. Non si tratta di perseguire ‘rivalse’ o di una sorta di revanscismo culturale o politico, ma della legittima affermazione della pari dignità di tutte le espressioni linguistiche, evitando che quelle più marginalizzate vengano ridotte a manifestazioni folkloristiche minoritarie su cui fare solo ricerche. La rivitalizzazione delle lingue locali è quindi manifestazione d’identità culturali particolari che non si contrappongono necessariamente a quella nazionale, ma restituiscono dignità e diritti a chi per troppo tempo ha subito la marginalizzazione di un processo unitario di stampo coloniale. Come ho già scritto in proposito: “Tutelare il diritto delle minoranze etnolinguistiche si è rivelato più agevole che salvaguardare e garantire un futuro a lingue considerate ‘minoritaie’ o ‘regionali’, che non rischiano l’estinzione bensì l’accantonamento, lo snaturamento e la corruzione sul piano lessicale, grammaticale ed ortografico” (E.Ferraro, Grammatica ecopacifista, Pisa, Centro Gandhi Edizioni, 2022, p. 92).

Il paradosso, semmai, è che la rivendicazione di un’autonomia linguistica vera e propria – sul modello delle battaglie per la rivitalizzazione del catalano, del provenzale o dello scozzese – non proviene affatto dalle regioni meridionali che più hanno sofferto il peso della subalternità socio-economica e culturale, bensì da quelle ricche e forti del Nord, come la Lombardia e il Veneto. A noi del Sud basterebbe che le lingue locali delle nostre genti non fossero più mortificate, consentendo di recuperare e valorizzare espressioni idiomatiche e culturali del tutto originali. Uno dei modi per marginalizzare i cosiddetti dialetti è stata la loro riduzione a strumenti utili solo per la comunicazione familiare, o anche in ambiti esterni ma limitati come il teatro popolare, la poesia vernacolare o le canzoni.  L’insistenza – ancora una volta – sull’opportunità di confinarne lo studio esclusivamente nel recinto “delle tradizioni e (del)la storia (nomi di luogo, usi gastronomici, etimologie, letteratura, altri usi artistici[vii] mi sembra quindi che confermi il diffuso pregiudizio sulla loro inadeguatezza in altri ambiti comunicativi (ad es. giornali ed altri media, ma anche produzioni in prosa o ricerche di altro genere).

L’autoreferenzialità di un mondo accademico che dialoga con se stesso, ignorando il confronto con chi, sul terreno concreto, da decenni si sta battendo per ridare dignità agli idiomi locali, non è un segnale positivo di apertura al dialogo. Nel caso della Campania, la banalizzazione della proposta di legge iniziale per renderla utile solo ad elargire finanziamenti a manifestazioni folkloristiche ed a ricerche accademiche, è stato un altro segnale negativo. Fatto sta che chi si spende ogni giorno per difendere e promuovere il Napolitano ed altre espressioni linguistiche campane continuerà a farlo sempre e comunque. Malgrado che da questo convegno sia emersa la preoccupazione, più che di salvaguardare queste lingue, di porre la loro promozione  sotto l’autorevole ‘tutela’ degli esperti…


Note

[i]  https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/convegno-salvaguardare-un-patrimonio-linguistico/31069 . Su finalità, composizione e attività del Comit. cfr. https://cr.campania.it/comvalnap/

[ii] https://www.lapilli.eu/3.0/agenda/4069-salvaguardare-e-valorizzare-il-patrimonio-linguistico-napoletano-idee-fatti-e-prospettive

[iii] https://www.unina.it/-/34934236-salvaguardare-un-patrimonio-linguistico

[iv] Nicola De Blasi, Dialetti, ecco le iniziative per il patrimonio linguistico napoletano: difendiamo i dialetti (anche) dalle fake news, IL MATTINO, 13/12/2022

[v] Ibidem

[vi] Ibidem

[vii] Ibidem

© 2022 Ermete Ferraro

MIR 70: PACE, FORZA, GIOIA

IL CONVEGNO

Celebrare il settantesimo compleanno della propria organizzazione è un momento di festa, ma al tempo stesso di ricordi e di bilanci.  Il 3 dicembre noi del M.I.R. (Movimento Internazionale della Riconciliazione) abbiamo scelto Casalecchio di Reno (BO) per festeggiare questa ricorrenza, accolti dal Sindaco Massimo Bosso e da Maurizio Sgarzi, della ‘Casa per la Pace’. Abbiamo celebrato l’anniversario con un occhio al passato ma anche con lo sguardo rivolto al futuro che cerchiamo di costruire giorno dopo giorno.

Ritrovarci insieme, compagni di viaggio ed amici di una volta, è stata un’occasione unica per riprendere il filo di un discorso talvolta interrotto, sottraendoci al rischio che l’attivismo legato all’attualità abbia la meglio sulla riflessione e sulla visione d’insieme. L’articolazione stessa del convegno, del resto, rispecchiava la volontà di sistematizzare un impegno che dura da decenni alla luce di un progetto complessivo ed integrato.

Il primo tema (“Stile di vita, campagne ed esperienze di nonviolenza attiva”) era finalizzato proprio alla ricerca della nostra motivazione di fondo, che colloca il M.I.R. nell’ambito dei movimenti per la pace in cui l’etica si incarna nei gandhiani “esperimenti con la nonviolenza”. La seconda sessione (“spiritualità, ecumenismo, riconciliazione”) intendeva esplicitare ulteriormente tale dimensione, nell’ottica del dialogo interreligioso per la pace. Infine si è deciso di affrontare la dimensione culturale e formativa, con un confronto a più voci su “ecopacifismo, educazione alla nonviolenza e informazione di pace”.

Provo a sintetizzare questa intensa giornata di discussione utilizzando simbolicamente i tre elementi di un saluto augurale abituale tra i nonviolenti, “pace forza gioia”, manifestazione d’una visione costruttiva dell’alternativa ad un modello di società che viceversa nega questo trinomio, improntato com’è al perseguimento del predominio attraverso la violenza ed a costo di perdite e distruzioni.

PACE

Questa fondamentale parola è stata declinata in tutte le sue dimensioni, da quelle inerenti scelte personali (come l’obiezione di coscienza al servizio militare ed alle spese militari) a quelle su un piano più strutturale e politico (come le campagne per il disarmo, la smilitarizzazione e la costruzione di una difesa alternativa, quindi disarmata civile e nonviolenta). Alle testimonianze d’una lunga stagione di lotte pacifiste (portate in varia forma da Giancarla Codrignani, Antonino Drago, Claudio Pozzi, Beppe Marasso, Giuliana Martirani, Alfredo Mori, Pasquale Iannamorelli, Eleonora Sollazzo ed Etta Ragusa) si è intrecciata la narrazione delle attuali campagne antimilitariste e nonviolente, quasi sempre portate avanti in una logica di rete. Dei loro sviluppi hanno parlato esponenti di spicco dell’attuale movimento pacifista (da Sergio Bassoli della Rete Italiana Pace e Disarmo ad Angela Dogliotti del Centro Studi ‘Sereno Regis’, da Mao Valpiana del Movimento Nonviolento a Pierangelo Monti del Movimento Internazionale della Riconciliazione, Zaira Zafarana, dell’International Fellowship of Reconciliation e Laila Simoncelli della Comunità Papa Giovanni XXIII). Le campagne nazionali e internazionali riguardanti il disarmo nucleare, l’istituzione di un ‘Ministero della Pace’, il rilancio di una forma nuova di obiezione fiscale e la proposta parlamentare su “un’altra difesa possibile”, del resto, non sono altro che la formulazione di aspetti d’un indispensabile ‘programma costruttivo’. Un progetto che il M.I.R ha arricchito ponendo l’accento sulla dimensione ecopacifista e sull’impegno non solo per educare alla e per la pace, ma anche per contrastare la preoccupante invadenza della cultura militarista e bellicista nelle nostre istituzioni educative e formative.

Non sono mancati i richiami, anche critici, al recupero di una nonviolenza più integrale, capace di affrontare più direttamente tematiche storiche – come quella della salute, della sicurezza e dello stile di vita – recentemente un po’ oscurate o considerate opzioni più personali che politiche. Viceversa, la dimensione spirituale e quella relativa a modelli di sviluppo alternativi, frugali, in-nocenti e comunitari, restano centrali per gli aderenti ad un movimento come il M.I.R., che li hanno nel proprio DNA.

Per averne conferma basta rileggere l’articolo 2 del suo Statuto, dove si afferma che Il M.I.R. è «…un movimento a base spirituale composto da persone che sono impegnate nella nonviolenza attiva intesa come stile di vita, come mezzo di riconciliazione nella verità e di conversione personale, come mezzo di trasformazione sociale, politica, economica, nel rispetto della fede dei suoi membri”. La stessa nonviolenza è intesa “come mezzo per costruire la pace frutto della riconciliazione, nella consapevolezza che guerre e conflitti sono causati dall’ingiustizia e da discriminazioni razziali, etniche, ideologiche, religiose, economiche, di sesso, e che il depauperamento dell’ambiente è anche la conseguenza di un errato ed ingiusto sfruttamento delle risorse naturali”. I pilastri dell’alternativa nonviolenta, quindi, restano “la riconciliazione e la solidarietà nella vita personale e sociale, a liberare l’uomo da tutti quei condizionamenti culturali, politici, militari, economici che lo confondono e lo opprimono..

FORZA

Questa seconda parola-chiave, giustamente contrapposta a ‘violenza’, trasmette una visione positiva e costruttiva della vita, fondata sull’impegno, il coraggio, la perseveranza e la testimonianza personale. È infatti il secondo elemento dell’augurio che il M.I.R. con questo convegno fa a se stesso e ai suoi compagni di viaggio, dopo 70 anni di lotte per predicare e praticare la nonviolenza attiva, contrastando ingiustizie, discriminazioni, conflitti armati e minacce alla stessa sopravvivenza dell’uomo sul pianeta.

Se è vero che ‘forte’ è chi: “…può sopportare facilmente un grave sforzo, che può resistere alle fatiche materiali e morali, che sa vincere le difficoltà” (Treccani) e se aggettivi sinonimi di ‘forte’ sono “energico…vigoroso…tenace…resistente” (Hoepli – le Repubblica), è evidente che tale ‘forza’ implica non solo la capacità di resistere alle avversità, ma anche l’espressione d’una volontà e di un’energia in positivo. La radice sanscrita del nome (*dhaŗta) ha a che fare col valore della ‘fermezza’, e quindi della perseveranza e della costanza nel perseguire i propri valori ideali.

È ciò che è emerso dalla seconda tavola rotonda, nella quale rappresentanti di espressioni religiose di cui il M.I.R. è debitore (come il pastore Alessandro Esposito dei Valdesi, Evan Welkin dei Quaccheri e don Renato Sacco della cattolica Pax Christi) si sono confrontati sulla spiritualità di pace con un imam islamico, col contributo da remoto anche di un grande vescovo come mons. Luigi Bettazzi, di Enrico Peyretti e di Paolo Candelari, già presidente del movimento, cui si è aggiunto il messaggio augurale del card. Zuppi, arcivescovo di Bologna e Presidente della C.E.I.

La ‘fortezza’ – inserita tradizionalmente dai cattolici tra i doni dello Spirito Santo – è la virtù che non soltanto “assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene” (Catechismo Chiesa Cattolica, 1808) ma è l’energia che “…possa sollevare il nostro cuore e comunicare nuova forza ed entusiasmo alla nostra vita” (Papa Francesco, Udienza Generale del 14 maggio 2014). Ecco perché augurarci reciprocamente ‘forza’ vuol dire auspicare uno spirito sia di pazienza e resilienza, sia di perseveranza tenace nell’impegno personale e collettivo. La forza è inoltre ciò che anima la difesa alternativa, che rifiuta la violenza ed utilizza la mediazione e la ricerca di soluzioni creative che trascendano quelle distruttive che perpetuano il dualismo perverso vincitori/vinti. La forza, insomma, è la qualità di chi si propone di resistere e di procedere “in direzione ostinata e contraria”, anche quando tutto intorno spingerebbe ad arrendersi, a cedere all’omologazione, ad accettare fatalmente l’inevitabilità del male.

«Come notava Edmund Burke: “La sola cosa necessaria affinché il male trionfi è che gli uomini buoni non facciano nulla”. La fortezza è capacità di opporre una barriera alle forze distruttive; senza di essa diventa impossibile attuare la giustizia e la vita civile, ma anche le scelte ordinarie, che comportano non di rado sacrifici […] “di questa virtù c’è bisogno là dove si deve resistere a minacce, si devono superare le paure, si devono affrontare la noia, il tedio, il disgusto dell’esistenza quotidiana per riuscire a mettere in atto il bene» (G. Cucci, La fortezza, una virtù esigente, 2021 https://www.laciviltacattolica.it/articolo/la-fortezza-una-virtu-esigente/).

È quella stessa ‘forza’ che ci permette di rialzarci dopo sconfitte e delusioni, ma anche di abbandonare la rigidità delle nostre certezze esclusive, aprendoci ad un dialogo con altre visioni, religiose e laiche, in modo da affrontare insieme e con maggiore energia il cammino comune verso obiettivi condivisi. Progetti come quelli relativi alle battaglie ecopacifiste, l’educazione alla nonviolenza e la controinformazione per la pace, ad esempio, richiedono infatti sinergie ampie, come testimoniato dagli interventi alla terza tavola rotonda. Luciano Benini, Carla Biavati, Claudio Carrara, Giovanni Ciavarella ed Ermete Ferraro, tutti esponenti del M.I.R., stanno già operando in rete con altre organizzazioni, per allargare l’area degli interventi e per diffondere una cultura di pace che si ponga come un’alternativa forte e credibile. Anche Pressenza, la rete informativa nonviolenta rappresentata da Olivier Turquet, è un esempio di come esperienze e proposte possano raggiungere e contagiare sempre più persone, contrastando narrazioni violente e totalizzanti con la forza della nonviolenza attiva.

GIOIA

Il terzo elemento del trinomio augurale alla cui luce ho riletto questo nostro convegno si colloca in un campo semantico che va oltre ragionamenti e discorsi, toccando l’aspetto emozionale che non può mancare in un’azione nonviolenta che parli alla testa ma anche al cuore. L’etimologia di ‘gioia’ è piuttosto controversa, in quanto alcuni la fanno risalire al latino plurale gaudia, mentre altri scorgono somiglianze con joca , termini che evocano entrambi piacere, allegrezza ed esultanza.

Del resto non è certo un caso che uno dei più noti documenti conciliari – quello relativo al rapporto della Chiesa col mondo attuale – inizi con le parole “gaudium et spes”, sottolineando che la gioia non può essere godimento che chiude gli occhi su un presente poco piacevole, bensì apertura anche emotiva alla speranza di un domani migliore, da costruire giorno dopo giorno.

C’è anche chi ha rilevato che ‘gioia’ richiamerebbe la radice sanscrita *gai *gajati, che vuol dire cantare. Nell’Antico Testamento sono varie le parole che indicano questo sentimento, fra cui שִׂמְחָה (simha), riferendosi spesso ad un’esultanza espressa anche con la voce. Nel Nuovo Testamento emerge invece il sostantivo greco χαρά (harà), connesso al verbo χαίρω ed al relativo saluto-augurio.

Il convegno per i 70 anni del M.I.R., pertanto, non poteva che concludersi con una piacevole appendice musicale, un concerto di “musica e parole di pace” con Paolo Predieri ed il Gruppo Jamin-à (Gianni Penazzi, Roberto Bartoli, Marcela Baros e Linda Bernard) col quale i partecipanti si sono salutati, nella convinzione che “L’inganno è nel cuore di chi trama il male, ma per chi nutre propositi di pace c’è gioia” (Prov 12:20). La gioia che derivava dall’incontro, dalla condivisione e dal confronto ma anche dal piacere di riprendere, insieme e un po’ più consapevoli, il cammino sulla strada della ricerca, dell’educazione e dell’azione per la pace.


© 2022 Ermete Ferraro

Disastri ambientali vs spese militari

“Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,
delle loro lance faranno falci;
una nazione non alzerà più la spada
contro un’altra nazione,
non impareranno più l’arte della guerra.” (Isaia, 2:4)

Torrenti di fango e fiumi di denaro

Il drammatico disastro ambientale registrato a Casamicciola d’Ischia, oltre che ampiamente ‘annunciato’ e prevedibile, è purtroppo l’ennesima prova di una sciagurata visione della spesa pubblica, che assurdamente privilegia ciò che distrugge gli ecosistemi rispetto a ciò che dovrebbe invece proteggerli, sanarli e promuoverli.

Non sono affermazioni ‘ideologiche’ ma semplice constatazione d’un allarmante quanto innegabile dato di fatto. Al netto delle reiterate e sacrosante proteste degli ambientalisti per il saccheggio del territorio, le speculazioni edilizie incrementate dai soliti condoni e l’assenza di una vera pianificazione urbanistica, è evidente che le priorità dei governi succedutisi in questi ultimi decenni non hanno premiato coi giusti investimenti la  prevenzione ed il risanamento del territorio, bensì accresciuto ulteriormente l’impatto antropico sugli ecosistemi, mascherandolo da incentivi allo sviluppo economico.

«Le risorse finanziarie stanziate dallo Stato per la spesa primaria per la protezione dell’ambiente e l’uso e gestione delle risorse naturali secondo il Disegno di legge di Bilancio ammontano a circa 6 miliardi di euro nel 2021 (cfr. Tavola 1 in Appendice), pari allo 0,9% della spesa primaria complessiva del bilancio dello Stato. Le stesse registrano una flessione nel 2022 e nel 2023 (0,8% della spesa primaria complessiva del bilancio dello Stato)[i]

Secondo la stessa fonte, negli anni 2022 e 2023 tale spesa ambientale continua ad essere finalizzata in primo luogo alla “protezione e risanamento del suolo, delle acque del sottosuolo e di superficie” e alla “ricerca e sviluppo per la protezione dell’ambiente”, rispettivamente in misura del 38,0% e del 37,1%. Però si deduce dai dati che per questi due inderogabili impegni di uno stato civile l’Italia investe poco più di 4 miliardi e mezzo, a fronte di un impegno finanziario per la difesa armata quasi 7 volte superiore. Anche in questo caso non si tratta di illazioni personali, ma di dati ufficiali.

«Le spese finali del Ministero della difesa autorizzate dalla legge di bilancio per il 2022 sono pari a 25.956,1 milioni di euro, in termini di competenza, e rappresentano circa il 3 per cento delle spese finali del bilancio dello Stato […] Le spese autorizzate dalle varie leggi di bilancio dal 2016 in poi registrano un trend in crescita in termini assoluti, con un picco nel 2022, anno in cui le spese finali del Ministero della Difesa si avvicinano ai 26 miliardi di euro» [ii].

A scriverlo nero su bianco era l’Ufficio Studi della Camera dei Deputati, che peraltro pubblicava una tabella da cui si evinceva inoltre che la spesa per la ‘Difesa’ passerà da una percentuale sul bilancio generale del 3,3% nel 2022 al 3,4 previsto per il 2024. Si precisava inoltre che tali spese sono state incrementate nel corrente anno per quanto concerne quelle in conto capitale (22,3%), rispetto a quelle ‘correnti’ [iii]. Va precisato poi che la ‘struttura di previsione della Difesa’ è stata articolata su tre ‘missioni’, fra le quali quella denominata ‘Difesa e sicurezza del territorio’ assorbe addirittura il 93% del totale previsto (oltre 24 milioni). Da notare che di questa ingente massa di risorse la gran parte è stata destinata all’Arma dei Carabinieri, che da sola si è aggiudicata il 28,1% degli stanziamenti, a fronte del 9,3 della Marina o dell11,9 dell’Aeronautica.

’Missionari’ con elmetto e mimetica…

Ma se ai dati precedenti si aggiungono un miliardo e 397 milioni di euro – stanziati per il 2022 sul bilancio del Ministero dell’Economia e Finanze (MISE) – per le ‘missioni internazionali’ [iv] si arriva già ad un totale di 27miliardi e 353,6 milioni. Però lo stesso documento ricorda infine che a carico dello stesso MISE vanno attribuiti altri stanziamenti di competenza della Difesa, ed in particolare 4 capitoli che, riferendosi al programma 5 “Promozione e attuazione di politiche di sviluppo, competitività e innovazione di responsabilità sociale di impresa e movimento cooperativo”, finanziano in effetti l’ammodernamento della flotta navale ed alcuni programmi per il settore aeronautico militare (Eurofighter, Tornado, elicotteri ecc.) e per l’esercito (elicotteri, blindo Centauro ecc.).

«Il contributo complessivo di questi capitoli per il 2022– tutti relativi a spese di investimento – supera i 3 miliardi di euro, e si tratta di un importo rilevante, considerato che il totale delle spese in conto capitale del Ministero della Difesa assomma a 5,8 miliardi di euro. Si segnala, in merito, che una parte dei principali programmi di approvvigionamento dei sistemi d’arma gestiti dalla Difesa grava sullo stato di previsione del MISE, che gestisce i contributi destinati alle imprese nazionali coinvolte in questi programmi» [v]

Basta fare due conti e siamo già arrivati ad una spesa militare complessiva che supera i 30 miliardi di euro (pari a 82 milioni al giorno).  Perfino una fonte molto vicina al mondo dei militari, pur limitandosi alle cifre ufficiali spettanti al Min. Dif., ha riconosciuto senza problemi che: “per ciò che riguarda il Bilancio del Ministero della Difesa nel suo complesso, la dotazione finanziaria per il 2022 è pari a 25.956,1 milioni di euro; con un aumento 1.372,9 milioni rispetto ai 24.583,2 dello scorso anno. Praticamente, tutte le voci che la compongono risultano in crescita […] Non si ricorda nulla del genere nella storia recente…» [vi].

Per un progetto ecopacifista

Ebbene, pur volendo tralasciare il discorso di fondo dei movimenti pacifisti e antimilitaristi sulla necessità di arrestare questo fiume di denaro speso per alimentare il complesso militare-industriale e le guerre che produce, riconvertendolo per finalità civili e sociali e per il risanamento ambientale come proposto ad esempio dalla Campagna nazionale ‘Sbilanciamoci’ [vii], credo che qualche considerazione generale vada comunque fatta, se non altro da semplici cittadini italiani prima ancora che da attivisti nonviolenti.

  • Alimentare il vorace sistema militare italiano con una spesa totale di 30 miliardi di euro vuol dire spendere oltre 82 milioni al giorno per una ‘difesa’ esclusivamente armata e militarizzata, impermeabile alle normative e largamente aperta ad interventi di dubbia costituzionalità in ambito NATO e fuori del territorio nazionale.
  • Ad esempio, gli stessi 80 milioni (non per un giorno ma per l’intero anno) sono stati stanziati agli enti del terzo settore – per fronteggiare l’emergenza Covid 19. [viii]
  • Meno ancora di quegli 80 milioni (precisamente 77,468) sono stati previsti nel bilancio preventivo del Comune di Napoli – in tutto il 2023 – per il comparto denominato ‘Istruzione e diritto allo studio’ [ix].
  • Tenendo conto che il costo medio della costruzione di un ospedale oscilla tra 200 e 600 milioni di euro [x] , per realizzarli occorrerebbero quindi da 3 a 8 giorni di spesa per la ‘difesa’.
  • Considerando che uno dei preziosi escavatori che abbiamo visto impegnati per fronteggiare l’emergenza alluvionale di Casamicciola può costare circa 20.000 euro, è facile dedurre che con il costo di un solo blindato ‘Lince’ (quasi 1, 2 milioni di euro) se ne potrebbero acquistare ben 60, indubbiamente molto più utili e funzionali.

Non voglio insistere su questo raffronto perché credo sia già chiaro che il tragico dissesto idrogeologico e gli altri gravi problemi ambientali del nostro Paese non hanno bisogno di dichiarazioni ipocrite né di opportunistiche proposte di collaborazione da parte delle strutture militari, ma di scelte chiare per una loro urgente riconversione. Non è infatti la protezione civile a dover fruire di mezzi e risorse umane della Difesa, bensì quest’ultima a dare spazio ad una componente civile, popolare e disarmata.

«Il sistema militare rappresenta in sé una minaccia all’ambiente anche quando non è ‘operativo’. È infatti evidente che il suo enorme impatto sulle risorse energetiche, sulle condizioni dell’aria dell’acqua e del suolo, sulla sicurezza e sulla salute delle comunità locali, che di fatto va a occupare, sottraendosi ad ogni controllo e al rispetto dei vincoli normativi vigenti» [xi].

Lo scrivevamo lo scorso anno noi del M.I.R., tratteggiando il nostro progetto ecopacifista, lo riconfermiamo tanto più oggi.  Lo facciamo non solo di fronte all’intollerabile devastazione ambientale provocata dalla/e guerra/e ma, nel piccolo,  anche al disastro che ha colpito ancora l’isola d’Ischia, risultato dello sfruttamento irresponsabile delle sue eccezionali risorse ambientali ma anche della responsabilità di chi continua a spendere denaro pubblico per un sistema di distruzione e di morte, sottraendo peraltro denaro indispensabile per proteggere e promuovere la vita, umana e naturale e per evitare la catastrofe ecologica.

NOTE


[i]  https://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Attivit–i/Bilancio_di_previsione/Ecobilancio/2021/Ecobilancio-dello-Stato-2021.pdf

[ii] https://www.camera.it/temiap/documentazione/temi/pdf/1255062.pdf?_1669488043663

[iii] Ibidem

[iv] Ibidem

[v] Ibidem

[vi]  https://www.analisidifesa.it/2022/02/il-bilancio-della-difesa-2022/#:~:text=Per%20ci%C3%B2%20che%20riguarda%20il,24.583%2C2%20dello%20scorso%20anno.

[vii] Cfr. https://sbilanciamoci.info/la-legge-di-bilancio-alternativa-della-campagna-sbilanciamoci/

[viii] Cfr. https://www.cantiereterzosettore.it/80-milioni-di-euro-agli-enti-del-terzo-settore-per-lemergenza-covid-19/

[ix] Cfr. Comune di Napoli, Bilancio Previsione 2022-24 https://www.comune.napoli.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/45473

[x] Cfr. https://www.cuneodice.it/attualita/cuneo-e-valli/il-costo-di-un-nuovo-ospedale-dai-180-ai-200-milioni-di-euro_15597.html  e https://baiadellaconoscenza.com/dati/argomento/read/230658-quanti-soldi-servono-per-costruire-un-ospedale

[xi] Movimento Internazionale della Riconciliazione, La colomba e il ramoscello. Un progetto ecopacifista, Torino, Ed. Gruppo Abele, 2021, p.55

© 2022 Ermete Ferraro

Etimostorie #8: VICO, VICOLO

 

I vicoli, si sa, costituiscono una caratteristica tipica non solo di Napoli e di altri borghi del meridione, ma anche di tante città italiane e di parecchie località al di fuori della nostra penisola. Ovviamente in quei casi assumono denominazioni differenti a seconda della rispettiva lingua, dai vocaboli inglesi alley e lane al francese ruelle, dallo spagnolo callejòn al tedesco Gasse, dal greco dromàki al russo perèulok, per non parlare dell’arabo ziquaq o del cinese hutòng. Quasi tutte le parole citate, comunque, alludono a una via piccola e stretta, così come peraltro spiegano il dizionario ‘Treccani’ (“s. m. [lat. vicŭlus, dim. di vicus. – Nel linguaggio corrente, e anche nella toponomastica ufficiale, nome dato a vie urbane di modeste dimensioni, soprattutto in larghezza“) e ‘Garzanti’ (“via molto stretta e di secondaria importanza, in un centro urbano dim. vicoletto, vicolino, pegg. Vicolaccio. Etimologia: ← dal lat. vicŭlu(m), dim. di vīcus; cfr. vico”).

Eppure, etimologicamente parlando, i ‘vicoli’ non nascono come stradine strette e tortuose, ma come veri e propri agglomerati comunitari, con una loro specifica natura sul piano toponomastico, lavorativo o identitario. Infatti i vicoli, come sanno bene i Napolitani [i] , oltre alle consuete intitolazioni a noti personaggi, hanno assunto spesso denominazioni legate talvolta alla provenienza geografica degli abitanti (es. vico Cinesi, Rua Toscana, Rua Catalana, vico Venafro, vico Egiziaca, vico Trinità degli Spagnoli etc.); attestano caratteristiche naturalistiche e geologiche (es. vico Fico, Palma, Pero, Pergole, Rose, Quercia, Limoncello, Melofioccolo, Mortelle, Noce, Nocelle, Tiglio, Olivella, Pignasecca, Marina, Molo vecchio, Ponte, Sedile di Porto, Gravina, Petraio, Grotta vecchia…) oppure richiamano mestieri ed attività che anticamente li caratterizzavano (es. Calzolai, Lammatari, Impagliafiaschi, Scassacocchi, Panettieri, Scoppettieri, Scopari, Chiavettieri, Figurari, Giubbonari, Tarallari, Tessitori, Tinellari, Ventaglieri, ma anche: Forno, Zabatteria, Gabella, Pallonetto, Molino, Spezieria, Vetriera etc.).[ii]  

Come si vede, in una prospettiva storica i vicoli sono stati una sorta di villaggi urbani, di aggregazioni comunitarie i cui abitanti si sentivano uniti da legami specifici. Non è certo un caso che nella Napoli antica, i residenti in certe aree della polis greco-romana si riunissero in 12 fratrìe, termine ellenico che rinviava appunto a legami parentali e/o a divisioni sociali di tipo clanistico all’interno della stessa tribù [iii].

Ma da dove derivano la parola ‘vicolo’ e ‘vico’? Certo, chi ha studiato il greco al liceo classico ha maggiori possibilità di scoprire le radici etimologiche di molte parole italiane di uso comune. C’è però un limite a tale conoscenza pregressa, poiché – come capita anche nel latino – la pronuncia dei vocaboli ellenici che ci è stata insegnata si è modificata nel tempo, rendendo così meno evidenti alcune somiglianze. Basti pensare al grafema β, comunemente letto come /b/ sebbene, anche nel greco moderno, si pronunci sempre /v/, oppure al grafema η, usato come se fosse solo una /e/ stretta e non una /i/, ragion per cui lo stesso nome della prima lettera è solitamente letto come ‘béta’ mentre dovrebbe essere pronunciato ‘vìta’.  Se aggiungiamo poi che alcuni segni grafici del greco antico sono scomparsi dalla grafia comune di quello ‘classico’, pur essendo avvertiti dai parlanti, si comprende che ci troviamo di fronte ad un altro piccolo ostacolo alla comprensione. È il caso del digamma (dal greco antico δίγαμμον o δίγαμμα (maiuscolo Ϝ, minuscolo ϝ), un grafema usato nella fase più arcaica.

La lettera rappresentava l’approssimante labiovelare sonora /w/. Il suo nome originale è sconosciuto, ma era verosimilmente chiamata ϝαῦ (/waw/ […] Un esempio è la parola ἄναξ (ànax, “re”) trovata nell’Iliade, che all’origine era probabilmente ϝάναξ (corrispondente al *wànaks, scritto wa-na-ku-su, delle tavolette micenee in lineare B) […] Altre evidenze insieme ad un’analisi filologica dimostrano che οἶνος era in precedenza ϝοῖνος *wòinos (confronta il lat. vinum (pronuncia antica /winom/) e l’ingl. wine)” [iv].

Si comprende allora evidente che da vocaboli greci come οἶκος (òikos > casa) o οἶνος (òinos > vino) appare meno trasparente l’etimologia di quelli italiani se non si tiene conto del ‘digamma’ che li precedeva e della pronuncia /i/ dell’originario dittongo /oi/. Viceversa, nella dizione *wìcos e *wìnos è agevole scorgere l’affinità con le nostre parole ‘vico’ e ‘vino’. Del resto, basta consultare un dizionario etimologico per scoprire che ‘vicolo’ ha una stretta parentela col primo dei due vocaboli greci citati, in quanto il concetto di ‘casa’ (per i popoli antichi ma anche per molti Napolitani di oggi…) si estendeva all’esterno delle mura domestiche, soprattutto nel caso di case popolari di ridotte dimensioni come i ‘bassi’, comprendendo parte dell’ambiente esterno, strada compresa.

“Il greco moderno dice abitualmente spiti per ‘casa’, ma tutta la famiglia di òikos, oikìa, coi suoi derivati e composti, è largamente rappresentata: da notare oikogéneia (famiglia), noikokyra (padrona di casa), voikiàzo (affittare) […] vicus, propriamente ‘villaggio’, da cui poi villa, intesa come dimora extra-cittadina…La radice è poi la stessa dell’italiano ‘vicino’, ‘vicolo’ e derivati…”. [v]  

Non è quindi un caso che ‘vico’ non indichi solo una stradina angusta all’interno delle città antiche (si pensi ai vicoletti che discendono direttamente dagli sténopoi della Neapolis greca), ma anche l’elemento toponomastico distintivo di borghi e cittadine (ad es. Vico Equense, Vico pisano, Vico del Gargano etc.). Il vicolo, dunque, era e spesso resta il luogo distintivo del rapporto coi ‘vicini’, una casa allargata a parenti ed amici, coi quali si condivideva, oltre alla condizione socio-economica, un’affinità lavorativa e spesso perfino espressiva (si pensi ai ‘dialetti’ tipici di un ristretto territorio). 

Non dobbiamo dimenticare però che dal greco antico οἶκος (pronunciato ‘ìkos’) sono derivati altri importanti vocaboli moderni, con la differenza che il dittongo /oi/ è stato letto latinamente come /e/. Pensiamo solo a parole come ‘economia’ ed ‘ecologia’, spesso contrapposte ma di cui andrebbe invece riscoperta la comune radice. Se infatti la prima è la regola per amministrare e stabilire una regola (nomìa) alla ‘casa’ nel senso ampio prima chiarito, l’eco-logìa ci riporta invece all’ambiente naturale, quella “casa comune” alla cui “cura” ci ha richiamato appassionatamente papa Francesco, a partire dalla sua fondamentale enciclica “Laudato si’ “. [vi]  Dalla ricerca di un giusto equilibrio tra esigenze umane ed equilibri ecologici, pertanto, dipende il perseguimento dell’obiettivo di quella “economia ecologica” di cui Kenneth Boulding è stato un capostipite. 

“L’economia è un termine antichissimo che indica le norme che regolano quanto avviene in una casa (ecos), in una comunità, sotto forma di scambi di beni e di denaro fra gli abitanti; l’ecologia, una parola inventata appena un secolo e mezzo fa, indica come si svolgono i rapporti fra gli occupanti di una comunità biologica, di un ecosistema, che può andare da un piccolo stagno all’enorme mare, all’intero pianeta Terra. […] Boulding è stato instancabile nel “predicare”, direi, la necessità di un cambiamento nelle regole dell’economia; compatibile con i vincoli ecologici della Terra…”. [vii]

In passato, a proposito delle specificità di Napoli, si è parlato spesso di “economia del vicolo”, alludendo ad un sistema produttivo di sopravvivenza, arcaico e solidaristico, localizzato nella parte più antica e povera della città (il c.d. ‘ventre di Napoli’) e caratterizzato da piccole attività artigianali, di autoproduzione e di scambio, nonché spesso da traffici illeciti o ai limiti della legalità. Ma l’etimologia comune di queste due parole (vicolo ed economia), ci spinge a fare qualche opportuna riflessione.

Senza lasciarsi attrarre da tentazioni folkloristiche e nostalgie passatiste, infatti, uno dei modi per cambiare davvero l’economia, invertendo la tendenza che l’ha resa l’opposto di un atteggiamento e comportamento ecologico, credo sia proprio il recupero della dimensione locale, minore, egualitaria, solidaristica e comunitaria del vivere. Un’esistenza dai modi e dai ritmi più lenti, più profondi e più dolci, come suggeriva Alex Langer [viii] , contrapponendo questa formula a quella olimpica (ma anche economica) sintetizzata nel noto slogan “altius, citius, fortius”.

Non bisogna tornare alla tradizionale (e tautologica) ‘economia del vicolo’, ma sicuramente dobbiamo invertire la rotta e recuperare una visione realmente alternativa, sobria, ecologica e di condivisione, come ci hanno indicato autori come lo statunitense Lester R. Brown [ix], l’indiano Joseph C. Kumarappa [x] ed il nostro Francesco Gesualdi [xi]. La cura della ‘casa comune’ dell’umanità non può prescindere da nuovi rapporti sociali ed economici che le restituiscano una dimensione conviviale, fondata sul bene comune e sul rispetto degli ecosistemi naturali, come ha giustamente sottolineato anche Roberto Mancini [xii].

Solo così l’òikos che abitiamo potrà tornare ospitale (spiti) e accogliente, garantendo un futuro alle prossime generazioni ma anche un presente meno drammatico alla nostra.


[i]   https://it.wikipedia.org/wiki/Fratria ed anche https://cosedinapoli.com/culture/__trashed/ Cfr. https://cosedinapoli.com/culture/vie-vicoli-e-vicoletti/

[ii]   Cfr. Stradario_del_Comune_di_Napoli_ordinato_per_Toponimi_aggiornato_al_2_12_2019.pdf

[iii]  https://cosedinapoli.com/culture/vie-vicoli-e-vicoletti/     

[iv]  https://it.wikipedia.org/wiki/Digamma

[v]  https://www.corsi.univr.it/documenti/OccorrenzaIns/matdid/matdid735966.pdf

[vi]  Cfr. https://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html   e  https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2018-05/papa-francesco-enciclica-laudato-si-ecologia-creato.html

[vii]  Giorgio Nebbia, Kenneth Boulding, padre dell’economia ambientale, 2010 > http://www.fondazionemicheletti.it/nebbia/sm-3176-kenneth-boulding/  . Fra le ultime opere di K. Boulding v. Towards a New Economics: Critical Essays on Ecology, Distribution, and Other Themes, Edward Elgar, 1992.

[viii]  Vedi  https://www.alexanderlanger.org/it/1044/4506

[ix]  Cfr. Eco-economy, Una nuova economia per la Terra, Roma, Editori Riuniti, 2002

[x]  Cfr. Economia di condivisione. Come uscire dalla crisi mondiale, Pisa, Centro Gandhi Edizioni, 2011

[xi]  Cfr.  Sobrietà. Dallo spreco di pochi ai diritti di tutti, Milano, Feltrinelli, 2010

[xii]  Cfr. Trasformare l’economia. Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche, Milano. Franco Angeli, 2014

© 2022 Ermete Ferraro