Speramm ca pur o Napulitan c’a fa…

Su Il Mattino è apparso un divertente e volutamente sgrammaticato editoriale di Francesco Durante dal titolo “Il congiuntivo speriamo che se la cava”. Bersaglio della scherzosa querelle era l’illustre prof. Francesco Sabatini che, sebbene presieda l’ancor più illustre Accademia della Crusca, in un’intervista al Corriere della Sera si era mostrato molto indulgente nei confronti di chi fa disinvoltamente scempio della lingua italiana.

«Al professor Francesco Sabatini gli piace pensare che la lingua italiana non è una cosa immutabile, e che per difenderla non c’è bisogno di fare gli schizzinosi o di farsi pigliare da «psicodrammi» come la solita difesa del congiuntivo, oppure la lotta contro gli anacoluti, i pleonasmi, le frasi segmentate, contro i pronomi «lui» e «lei» usati anche come soggetti e contro lo «gli» polivalente, usato cioè anche per il plurale e il femminile. Ora io speriamo che lo psicodramma non c’è, anche se l’anacoluto ne parlano tutti male, e se è per questo anche il pleonasmo. Lui, però, gli sembra che non è un vero problema, questo. Dopotutto, è il parlato, la lingua viva degli italiani. Che, fin da quando è nata, la innovano di continuo, gli italiani, e giustamente gli pare che va bene così: l’importante è capirsi e comunicare.» [i]

09b73a01350d10bcb43360047446727fQuesta spassosa perorazione della correttezza formale della nostra lingua nazionale nei riguardi dell’insinuazione che difendere le regole grammaticali equivalga a tutelare  “un’invenzione aristocratica che appartiene al passato e fa a cazzotti col presente” [ii], mi ha stimolato un’analoga riflessione sulla triste deriva del Napoletano. Ovviamente per alcuni si tratta solo della normale evoluzione di qualunque espressione linguistica; dell’inevitabile corruzione di una lingua prevalentemente parlata; di ovvie e scontate semplificazioni apportate ad un dialetto che nasce popolare e che del popolo napoletano condivide la spontaneità e lo spirito anarchico. Per carità, tutte osservazioni ispirate dal buon senso e parzialmente fondate. A me sembra, però, che una cosa è il fisiologico processo di trasformazione e semplificazione lessicale e morfo-sintattica che qualunque lingua (nazionale, regionale o locale) subisce col passar del tempo; ben altra cosa, invece, il truce imbastardimento del linguaggio, frutto di meticciamenti non necessari, di spregiudicate volgarizzazioni e di sana e robusta ignoranza.

Nessuno pretende che alla lingua napoletana (o per meglio dire: napolitana) si debba applicare un rigore lessicale e grammaticale di cui perfino l’Italiano sembra ormai fare a meno, con la solita scusa della modernizzazione e della semplificazione. Ci mancherebbe che laddove vien meno anche la paludata tutela da parte dell’Accademia della Crusca noi napoletani dovessimo inventarci un organismo ancor più esigente e severo per proteggere la lingua di Basile e di Di Giacomo, di Russo e di De Filippo. Io e tanti altri napoletanofili come me, del resto, non ci pensiamo proprio a mummificare un’espressione così diretta vivace e spontanea, mettendola “sotto la campana”, come si dice dalle parti nostre, col rischio di soffocarne la naturale vitalità pur di ‘conservarla’. Quel che chiediamo è solo un po’ di semplice – ma indispensabile –  rispetto per una lingua che se lo merita tutto. Parlo di rispetto, non di un’ipocrita deferenza né di conservatorismo parruccone. Solamente di rispetto, parola la cui etimologia latina (re-spicere) rinvia ad un atteggiamento che tiene conto di ciò che ha davanti, che guarda e ri-guarda con attenzione l’oggetto del suo interesse. Il contrario, insomma, d’una modalità trasandata, becera, sciatta ed incapace di pesare le parole, nella convinzione che – come sottolineava anche Durante – in fondo “l’importante è capirsi e comunicare”.

E’ fin troppo ovvio che il primo obiettivo è quello di trasmettere il proprio pensiero agli altri. Se però l’umanità si fosse limitata a perseguire quest’unico fine si sarebbe potuta tranquillamente fermare ad uno stadio evolutivo assai poco sviluppato e, tutto sommato, non è neanche detto che sarebbe risultata indispensabile una comunicazione di tipo verbale. E invece no: il patrimonio di qualsiasi lingua va naturalmente arricchendosi, articolandosi, specializzandosi e perfezionandosi, dal punto di vista della varietà lessicale ma anche della messa a punto delle regole.

Lo so: la stessa parola ‘regola’ suscita in tanti di noi spiacevoli sensazioni. Evoca subito le raccomandazioni dei genitori, il mondo della scuola, le norme da imparare e far proprie e, per ovvio collegamento, la paura di sbagliare, di far brutta figura, di essere ripresi e corretti da chi ne sa più di noi. E’ più facile, allora, ribellarsi sdegnosamente alle regole formali, in nome del vecchio proverbio “Val più la pratica che la grammatica” e di un atteggiamento che rivendica ‘apertura’ ad ogni diversità e novità e guarda sospettosamente ogni norma, intesa come un’inutile costrizione.

Certo: seguire questa diffusa tendenza offre il non piccolo vantaggio di sentirsi in grado di fare a meno di ogni studio e, al tempo stesso, di provare la sensazione di fare qualcosa di trasgressivo, se non di rivoluzionario. E’ così che una pura e semplice manifestazione d’ignoranza – ad esempio per quanto riguarda le basi fondamentali dell’ortografia e della grammatica d’una lingua – può improvvisamente assurgere a scelta contestativa, a rivendicazione sociale e perfino a ribellione identitaria.

Tale impostazione sta cercando sempre più una legittimazione ufficiale, ad esempio contrabbandando lo stile sgangherato con cui molti giovani cercano di esprimersi per iscritto in Napoletano come se fosse una modalità linguistica alternativa. C’è infatti chi pensa di cavalcare la tigre dell’approssimativa espressione napoletana propria dei graffitari e dei rapper per riproporre un modello giovanilistico ed underground. C’è chi ha dichiarato di volerne ‘sdoganare’ il linguaggio crudo, diretto, ritmico ed ortograficamente ‘ribelle’ per farlo simbolo d’una nuova Napoli, più viva e trasgressiva. Peccato che questa ‘rivoluzionaria’ operazione sia spesso mirata a finalità d’altro genere, che poco c’entrano  sia con la riscossa giovanile sia con la ribellione identitaria.

asino-impazzitoFermo restando che nulla autorizza a cercare comode scorciatoie per aggirare la propria ignoranza dello spessore lessicale e grammaticale del Napoletano, esprimendosi per iscritto con un’ortografia brutta e ridicola, ritengo che il vero problema non sia solo di natura estetica e tanto meno che si tratti di ‘lesa maestà’ nei confronti delle ‘sacre regole’. Per quanto mi riguarda, infatti, non mi sento per niente un conservatore (tranne in materia ambientale…) e le posizioni che ho assunto nei miei quasi 65 anni di vita dimostrano che, quando è necessario, ho saputo essere anche molto trasgressivo.

Il vero problema – come ho avuto modo di spiegare pubblicamente anche ai novatori di “Song ‘e Napl” [iii]non risiede dunque nel fatto che un qualsiasi Napoletano voglia ‘scrivere come parla’, falciando senza pietà le vocali che crede mute (mentre sono solo indistinte) e confezionando messaggi che assomigliano vagamente a codici fiscali. Il risultato di questa pretesa semplificazione può piacere o meno, ma credo che ognuno sia libero di esprimersi come meglio crede e/o sa fare. Ritengo però altrettanto legittima la reazione di disappunto – e in alcuni casi d’indignazione – di chi da decenni sta buttando il sangue – per di più volontariamente – per migliorare la consapevolezza linguistica dei Napoletani e per ridare dignità ad un’espressione linguistica degradata a idioma di serie B o C.  Indignazione, si badi bene, non tanto nei confronti di chi sta involontariamente infierendo su un già malconcio ed imbastardito Napoletano, credendo di attualizzarlo e di renderlo più vivace. Il bersaglio di questa naturale reazione sono piuttosto coloro che, sventolando la bandiera della spontaneità e dell’orgoglio popolare, puntano in effetti ad obiettivi più prosaici e concreti. Temo infatti che si tratti ancora una volta dell’ennesima operazione commerciale per promuovere una falsa immagine di Napoli, un ‘marchio’ certamente diverso da quello stereotipato della pizza e del mandolino, ma non per questo meno negativamente folkloristico.

Il nostro grande antropologo Lombardi Satriani, in ‘Folklore e profitto’  [iv], già alla metà degli anni ’70 aveva denunciato l’insidiosa operazione di mistificazione della cultura popolare, trasformandone la naturale e genuina alterità in una pseudo-alternatività da utilizzare a scopi speculativi.

«La dialettica rilevante, nell’osservazione critica di Lombardi Satriani, tra familiarizzazione e de-familiarizzazione del folklore a uso e consumo di una sua migliore commercializzazione e di una ottimizzazione dei profitti suggerisce un meccanismo fondamentale del marketing dei territori che ancora oggi è al cuore delle riflessioni e degli interventi di progettazione economica istituzionale e privata nei diversi contesti locali. Non è un caso che proprio in quel testo Lombardi Satriani si rifacesse a quella nozione di “folkmarket” che già allora egli estrapolava da studi classici di sociologia dei consumi [Veblen 1899; Le Play 1855] e si chiedeva “se la cultura dei consumi e la cultura folklorica fossero solo zone antitetiche e se il loro rapporto non fosse, oltre che di negazione, di reciproca implicazione” [Lombardi Satriani 1973: 84], ad esempio, per quegli aspetti di uso consapevole da parte dei meccanismi pubblicitari di categorie come genuino, naturale, “pittoresco”, con esplicito riferimento al Gramsci di Letteratura e vita nazionale.»[v]

 Penso però che i Napoletani – dopo secoli di dominazioni e parecchie spregiudicate strumentalizzazioni – siano già naturalmente vaccinati contro tali tentativi e quindi attenti e non farsi infinocchiare da chi lusinga l’orgoglio napoletano solo per piazzare prodotti commerciali o per appiccicare a Napoli un ‘marchio’ qualsiasi, pur di venderla meglio sul mercato turistico. I giovani che provano ad esprimersi napoletanamente anche per iscritto – come nel caso di chi compone testi per canzoni o rappresentazioni teatrali – hanno forse solo bisogno di leggere di più e meglio la letteratura napoletana e d’imparare alcune semplici regolette ortografiche. Chi li incoraggia a sbagliare, coccolandoli e fornendo loro pretestuosi argomenti per continuare a volgarizzare e rendere brutto, illeggibile e talvolta ridicolo il Napoletano, non li sta certo aiutando né tanto meno liberando da inesistenti persecuzioni puristiche. Chi addirittura pretende di accendere in loro l’orgoglio del linguaggio sgrammaticato e scorretto – per citare una nota locuzione popolare – temo che stia solo cercando di trasformare degli incolpevoli ‘ciucci’ in ‘ciucci presuntuosi’.[vi]

NapulenguaNon credo proprio che l’articolato e vivace universo giovanile della nostra città –   quello sottoproletario come quello movimentista ed underground –  sia davvero intenzionato a mettere il proprio spontaneismo espressivo al servizio d’una simile speculazione. In caso contrario, dovrei solo concludere, usando paradossalmente anch’io il pittoresco idioma napolese, che: “ A lavà a cap o ciucc s perd l’acqua e o sapon “ .

N O T E —————————————————-

[i] Francesco Durante, “Il congiuntivo speriamo che se la cava”, Il Mattino (13.12.2016) > http://www.ilmattino.it/primopiano/cronaca/il_congiuntivo_speriamo_che_se_la_cava-2136925.html

[ii] Ibidem

[iii] Visita la pagina FB: https://www.facebook.com/songenaploriginal/?ref=ts&fref=ts ed il sito web: http://sito.omninapoli.com/

[iv] Luigi  M. Lombardi Satriani,  Folklore e profitto. Tecniche di distruzione di una cultura, Firenze, Guaraldi, 1973

[v] Letizia Bindi, “Rileggendo Folklore e profitto. Patrimoni immateriali, mercati e turismo”,  EtnoAntropologia, Vol. 2 (2014) > http://rivisteclueb.it/riviste/index.php/etnoantropologia/article/view/97/142

[vi] Raffaele Bracale, “Ciuccio e presuntuoso” (2012) > http://lellobrak.blogspot.it/2012/06/ciuccio-e-prosuntuosolo-si-dice.html

———————————

© 2016  Ermete Ferraro (http://ermetespeacebook.com )

Un’impronta digitale sulla scuola?

 

  1. Un piano… che va avanti veloce

impronta-digitaleE’ probabile che non siano tante le cose che noi insegnanti di lungo corso abbiamo capito della nuova scuola voluta dalla riforma, autodefinitasi ‘buona’ col tacito sottinteso che quella precedente andasse cestinata, in quanto antiquata e, in qualche modo, ‘cattiva’.  Tra le poche cose capite, però, c’è senz’altro il concetto (o meglio l’assioma) secondo il quale l’obiettivo principe da perseguire è la c.d. ‘scuola digitale’. Non c’è infatti Collegio dei docenti – ad Enna come a Rovereto o a Nuoro – nel corso del quale, in modo diretto o indiretto, non sia affiorata questa conclamata priorità, intorno alla quale il MIUR sta da tempo costruendo quasi un codice etico, concretizzatosi recentemente nel PNSD, cioè il “Piano Nazionale Scuola Digitale .

 «Questo non è un libro di buone intenzioni. Il Piano Nazionale Scuola Digitale è lo strumento con cui il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca attua una parte strategica de “La Buona Scuola” (Legge 107/2015). Per ripensare la didattica, gli ambienti di apprendimento, le competenze degli studenti, la formazione dei docenti, il Piano fissa priorità e azioni, stabilisce investimenti, assegna risorse, crea opportunità per collaborazioni istituzionali tra Ministero, Regioni, ed enti locali, promuove un’alleanza per l’innovazione della scuola. Soprattutto, il Piano ambisce a generare una trasformazione culturale che – partendo dalla scuola – raggiunga tutte le famiglie, nei centri maggiormente urbanizzati così come nelle periferie più isolate. La buona scuola digitale esiste già, in tutta Italia. Ma lo Stato deve adesso fare in modo che questo patrimonio diventi sempre più diffuso e ordinario. Per far sì che nessuno studente resti indietro. Per far sì che, nell’era digitale, la scuola diventi il più potente moltiplicatore di domanda di innovazione e cambiamento del Paese.»  [i]

Effettivamente non si tratta di un puro e semplice ‘libro di buone intenzioni’, visto che ormai nelle scuole italiane  ormai si parla quasi solo della loro irrinunciabile ‘digitalizzazione’, senza la quale sembrerebbero aprirsi scenari di decadenza e di oscurantismo medievale.  Per citare il titolo del programma televisivo centrato sul talento del M° Stefano Bollani, pare che anche al MIUR siano convinti che “l’importante è avere un piano”. Ecco perché questa “parte strategica de ‘La Buona Scuola’ “ è diventata nientemeno che un progetto di “trasformazione culturale” del nostro Paese, per adattarlo a quella ‘era digitale’ che c’impone “innovazione e cambiamento”.  Insomma,  non soltanto come al solito ‘ce lo chiede l’Europa’, ma addirittura in questo caso sarebbe addirittura in gioco l’evoluzione stessa della nostra civiltà.

Di fronte a sì altisonante appello è difficile opporre dubbi o resistenze senza rischiare di essere considerati dei passatisti inguaribili, conservatori e nemici del nuovo che avanza. Prova ne è il fatto che ben poche voci critiche – o quanto meno scettiche – sono giunte dal mondo dei docenti, dei sindacati, della cultura e della stessa politica. [ii] Eppure si sono registrate alcune qualificate voci fuori dal coro –  o meglio, dell’ assordante silenzio – sul Piano ministeriale che vuol imprimere sulla scuola italiana una netta… impronta digitale.  Ad esempio quella del prof. Roberto Casati, filosofo del linguaggio e ricercatore presso il C.N.R.S. di Parigi, autore del libro “Contro il colonialismo digitale” [iii] , il quale si è appellato ad un sano ‘principio di precauzione’ nei confronti di questa ‘epocale’ svolta nella didattica.

«Non sono contrario alle tecnologia nella scuola, ma sono contro la logica di sostituzione che oggi sembra prevalere.  Il mio è un invito alla prudenza: strumenti low tech devono continuare a coesistere con i nuovi, valutando a che cosa possano meglio servire gli uni e gli altri. […] Ma se la pedagogia deve essere innovata, si parta prima da lì, e solo dopo dagli strumenti. Invece vedo prevalere la logica di “dare un tablet a ogni studente, poi si vedrà.[…] E’ sbagliato pensare che il tablet sia un po’ come «un coltellino svizzero, uno strumento che permette di fare tutto».[iv]

  1. Insidie e contraddizioni nella digitalizzazione della scuola

scuola-digitale-4Perfino fra i fautori della scuola digitale, del resto, sembrano affiorare perplessità sulla serietà ed affidabilità di questo genere di Piano, se non altro dal punto di vista della sua reale attuazione. Mentre gli investimenti su tale capitolo già in base a quello precedente sono stati rilevanti, del tutto ‘virtuale’ , invece, sembrerebbe l’effettiva ricaduta sulla didattica di tale innovazione tecnologica, come sottolineava già due anni fa Ettore Guarnaccia:

«Un programma [il PNSD]che assomiglia moltissimo nei contenuti al precedente progetto “Scuola Digitale” presentato dal MIUR nel 2007 e in parte attuato dal 2009 ad oggi. In esso si parla già di riduzioni dei costi editoriali per le famiglie, di diffusione delle connessioni a banda larga, di dotazione di dispositivi informatici per la didattica e di formazione dei docenti. Nell’ambito di questo progetto sono state installate oltre 70.000 LIM (Lavagne interattive multimediali) negli istituti scolastici della penisola (circa l’82% del totale) ed è stata erogata la necessaria formazione ai pochissimi docenti selezionati di ciascuna scuola. Da allora l’80% delle LIM giace inutilizzata, mentre il nuovo programma ministeriale ritiene che le LIM siano “troppo pesanti” da utilizzare per la didattica…» [v] 

Difficile dare torto ad un autorevole esperto di ‘information technology, information security e risk management’ come lui, soprattutto di fronte alla situazione effettiva di tante scuole dove l’acquisto massiccio delle lavagne interattive si è rivelato prioritario rispetto all’obiettivo di un loro effettivo ed innovativo utilizzo, grazie ad un’adeguata formazione dei docenti. Adesso si parla apertamente della loro obsolescenza (mi riferisco ovviamente alle LIM…) e la nuova priorità sembra essere diventata, appunto, quella di dotare tutti gli alunni del proprio tablet,  miracolosa soluzione a tutti i problemi di apprendimento …  Peccato che una discreta parte di queste criticità nel profitto scolastico (come la perdita progressiva della memoria, la tendenza alla distrazione, il calo dell’attenzione agli stimoli che non siano visivi e cinetici) sia forse da attribuire proprio alle massicce dosi di digitalizzazione cui sono già sottoposti i millennials. Molti genitori, a quanto pare, non sembrano affatto preoccupati dal fatto che i loro bambini e ragazzi vivano praticamente in simbiosi con i loro onnipresenti aggeggi tecnologici, in pratica trasformando gli smartphone  in un’appendice delle loro estremità superiori e le cuffiette in prolungamenti delle loro orecchie.

Quando si tratta di tempo davanti allo schermo per i ragazzi, meno è più. E’ quello che l’Accademia Americana di Pediatria ha sostenuto per anni, avvertendo che esporre dei bambini ad ogni genere di piattaforma digitale, dalla TV-spazzatura alle applicazioni educative, potrebbe condurre ad uno sviluppo ritardato o stentato del linguaggio e ad più povere abilità di lettura. [..] Adesso, tuttavia, l’A.A.P. sta cambiando impostazione. Mentre le vecchie linee-guida offrivano dei limiti ben precisi – ad esempio, nessun tempo-schermo di qualsiasi genere prima dei 2 anni d’età – quelle nuove, emanate il 21 ottobre, sono molto più sfumate…” [vi] 

La scuola, con le sue sorpassate richieste di attenzione e di ascolto, costituiva finora l’ultimo baluardo contro la formidabile (in senso etimologico) modificazione genetica della specie umana. Ecco perché qualcuno in alto ha pensato che andava modificata l’essenza stessa della scuola, che è fatta di relazioni personali, di apprendimento basato prevalentemente su scambi verbali, d’interessi spesso non spendibili professionalmente o comunque sul piano economico. Evidentemente anche a parecchi genitori le cinque-sei ore trascorse in aula dai loro piccoli, lontani dai loro irrinunciabili apparecchietti mediatici, devono essere sembrate una sorta di deprivazione sensoriale, di astinenza forzata, di spreco di tempo più utilmente spendibile in videogiochi, pettegolezzi in chat e video a gogo.  Si è realizzata così – soprattutto negli ambienti altoborghesi – una santa alleanza fra genitori e vertici della pubblica istruzione, tesa a rivendicare l’utilizzo generalizzato nella scuola dei tablet e, ovviamente,  minor rigore nell’interdizione dei cellulari e delle loro infinite apps.

  1. I rischi socio-educativi di un’educazione digitalizzata

digischoolPochi, anche tra i docenti, sembrano aver preso coscienza che l’accelerazione impressa dal MIUR alla ‘digitalizzazione’ della scuola italiana nasconde molte insidie proprio sul piano formativo, oltre che su quello sociale e politico.  Un attento critico di questo processo è  invece il prof. Adolfo Scotto di Luzio, docente di storia delle istituzioni scolastiche all’Università di Bergamo, autore di un libro che ci apre gli occhi proprio su “i rischi della scuola 2.0” [vii].

«Uno scritto a tesi, che prende di petto la politica di digitalizzazione dell’istruzione seguita dal Governo partendo da un assunto: che quando funzionano le scuole è, essenzialmente, perché ci sono professori in gamba e che la tecnologia, se non è ben utilizzata, può essere dannosa e fonte di diseguaglianze. Sullo sfondo, ma neanche troppo, vi è l’idea che ci sia in ballo un colossale raggiro; che le grandi imprese tecnologiche, insomma, abbiano creato una domanda per i loro prodotti diffondendo il mito della “buona istruzione”. E questo senza che sia mai stata testata l’effettività della scelta tecnologica e con il pericolo di creare una “dipendenza” economica in quelle scuole che si avviano su una strada – quella dei Tablet e delle LIM – che è senza ritorno. […] C’è un altro punto che lo studioso…pone in rilievo, ed è la mistica della qualificazione intellettuale legata all’uso della tecnologia ed il suo incamminarsi verso un “modello educativo a bassa intensità intellettuale”, direttamente funzionale al modello economico. Un punto d’arrivo molto distante, quindi, da quella che secondo l’autore è la vera finalità dell’istruzione: “dotare l’individuo di un linguaggio culturale che gli permetta di stare in maniera competente nella sfera pubblica”.» [viii]

Il dubbio, insomma, è che l’istruzione pubblica sottoposta alla c.d. rivoluzione digitale  sia invece figlia della controrivoluzione di chi mira solo a formare generazioni di giovani omologati nel pensiero e nel linguaggio, che seguano passivamente la corrente dominante senza porsi imbarazzanti domande sul modello di sviluppo e di società che viene loro presentato come indiscutibile e, naturalmente, ‘smart’. [ix]   Qualcuno forse eccepirà che è un dubbio esagerato, una dietrologia da sessantottini  ‘apocalittici’ che non vogliono integrarsi.  Eppure penso che finché ci saranno cittadini che avranno la capacità di dubitare di ciò che il ‘sistema’ racconta loro, le cose andranno sicuramente meglio.  D’altronde gli scettici nei confronti della sedicente “scuola 2.0”  non sono pochi, come si può vedere scorrendo le pagine dell’analisi critica di Neil Selwin – docente alla facoltà di Educazione della London University – sul tema del rapporto che intercorre fra ”tecnologia digitale e privatizzazione della scuola”:

«Molnar (2015) identifica tre tipi di ‘commercialismo’ nelle scuole: il processo di vendita di istruzione, il processo di vendita alla istruzione ed il processo di vendita nelle istituzioni educative. Come hanno illustrato gli esempi appena forniti in questo capitolo, le tecnologie digitali sono implicate in tutti e tre gli aspetti. […] Come sarà argomentato, nonostante le loro apparenti diversità questi attori [del processo di digitalizzazione] possono essere visti come se stessero perseguendo degli obiettivi latamente simili, basati su due specifiche versioni del fare scuola digitale – una che cerca di trasformare pratiche e processi educativi lungo linee socio-costruttiviste e l’altra che cerca di mantenere forme educative tradizionali e strutture di potere.[…] Soprattutto, molti di questi attori esercitano una considerevole influenza sull’agenda della tecnologia scolastica, ben oltre i livelli che ci si potrebbe aspettare in altre aree dell’istruzione.» [x]

Un altro docente dell’Università di Bergamo, Marco Lazzari, ci aiuta ad analizzare il complesso mondo della cultura digitale come orientamento delle politiche educative, soffermandosi sui rischi per gli adolescenti di una massiccia dose di Internet in assenza di un’adeguata formazione del loro spirito critico e delle loro competenze civiche e sociali. La diffusione della ‘alfabetizzazione digitale’  propugnata dal PNSD , infatti, è insufficiente se si riduce a semplice disseminazione dei rudimenti tecnici dell’informatica, come dimostrava un’indagine svolta a Bergamo nel 2012.

« Come da sempre sosteniamo, un approccio riduzionistico che punti a sviluppare le abilità digitali non porta lontano [Lazzari, 2013]: le agenzie educative devono accompagnare la promozione dell’abilità d’uso degli strumenti informatici negli adolescenti a quella della conoscenza del mondo dei media e allo sviluppo del senso critico nei confronti dell’informazione che circola in Rete. Tutto ciò deve essere supportato olisticamente dalla cura per le competenze trasversali di interazione sociale (compresa l’educazione all’affettività), di comunicazione efficace e di risoluzione dei conflitti, e dall’attenzione allo sviluppo dell’intelligenza emotiva dei ragazzi. V’è da chiedersi se la scuola italiana sia consapevole di tutto ciò e sia pronta a lavorare per costruire competenze coordinate digitali, etiche e sociali.» [xi]

  1. Rischi per la salute di una scuola massicciamente digitalizzata

wifi-a-scuolaUn ultimo aspetto che merita attenzione è quello connesso a rischi sanitari per gli ambienti scolastici che siano sottoposti ad una digitalizzazione intensiva e sconsiderata. Anche in questo caso si corre il rischio di fare la parte dei gufi che ostacolano l’innovazione tecnologica, dei profeti di sventura che sanno solo creare allarme di fronte ad un modello progressista di scuola.  La verità è che di certi argomenti è davvero difficile parlare, in quanto si nuota controcorrente e si toccano interessi consolidati forti  e diffusi.  Di ‘inquinamento elettromagnetico’  [xii] , peraltro, si parla ormai da molti anni, ma le voci di chi mette in discussione la sicurezza della tecnologia che fa uso di onde elettromagnetiche (in particolare quella della telefonia mobile e delle reti informatiche) sono state ovviamente sommerse da chi cavalca questo lucroso affare oltre che, naturalmente, dalle potenti multinazionali che producono a getto continuo smartphone  e I-Pad.  A partire dal 2013, l’allarme elettrosmog ha cominciato a diffondersi anche nel mondo della scuola, dove la febbre del Wi-Fi impazza proprio grazie ai due Piani (2007 e 2015) lanciati dal MIUR.

«Ora il wireless colonizza anche le scuole, poiché dal 2011 si sta dando corso, con l’avvio delle forniture, al protocollo1 siglato nel 2008 dagli allora ministri Brunetta e Gelmini per una «scuola digitale» e per dotare anche tutti gli istituti scolastici di reti di connessione senza fili.[…] È d’obbligo chiedersi, vista la letteratura scientifica ormai prodotta sull’argomento, se sia stato osservato il principio di precauzione. È opportuno permettere che anche a scuola, per ore e ore, i bambini fin dalla più tenera età siano esposti a campi elettromagnetici che, come dimostrano gli studi, rischiano di provocare danni alla salute? Si può legittimamente affermare che no, non è opportuno. Eppure sono in tanti a non conoscere ancora bene i rischi connessi all’utilizzo di queste tecnologie.[…] L’allarme è stato lanciato nel 2011 anche dal Consiglio d’Europa, e ripreso dall’Inail, che afferma come «telefonini e dispositivi wi-fi dovrebbero essere proibiti nelle scuole per i potenziali rischi per la salute dei bambini». Secondo il rapporto del Consiglio d’Europa, queste tecnologie costituiscono un potenziale pericolo per la salute umana e il loro uso andrebbe limitato: gli stati membri dovrebbero adottare limiti alle esposizioni alle radiazioni emesse dai dispositivi, allertando gli utenti con avvisi sulla pericolosità simili a quelli dei pacchetti di sigarette.» [xiii]

Più di recente, è giunta notizia del caso di una scuola di Merano (in provincia di Bolzano), dove gli alunni hanno fatto una ricerca ‘sul campo’ (un esperimento sulla nocività delle onde elettromagnetiche sulla crescita di alcune piante), seguita da una rilevazione dell’elettromagnetismo presente nel loro edificio scolastico.

« La classe, munita di strumenti appositi, ha mappato tutto l’edificio, scoprendo che era pervaso da segnali elettromagnetici fino ad un livello massimo di 3.000 microwatt per metro quadro. Hanno saputo dalla preside che servivano all’organizzazione della comunicazione con il personale non docente, per gestire la presenza dei ragazzi nella mensa o rispondere alle varie necessità logistiche all’interno della scuola. Il plesso è completamente cablato, dunque non serve ad ogni costo un sistema di comunicazione senza fili. Così, è stata inoltrata una richiesta al Comune di Merano per ottenere la disattivazione dei ripetitori distribuiti all’interno della scuola. Il personale ha abbandonato i cordless e ricominciato ad utilizzare i normali telefoni interni. Una volte ripetute le misurazioni, sono stati ottenuti risultati sorprendenti: da 3 mila microwatt si era scesi ad appena 5. Il mentre il governo italiano cerca di alzare le soglie per facilitare la comunicazione 4G e promuove il Wi-Fi nelle scuole, nonostante una lettera firmata da 70 scienziati che chiede di evitare uno tsunami di onde elettromagnetiche nei luoghi di vita quotidiana.» [xiv]

Va tenuta presente, infine, la presenza contemporanea e concomitante negli istituti scolastici di centinaia di cellulari e smartphone, le cui emissioni elettromagnetiche  – secondo un articolo pubblicato recentemente  – sarebbero addirittura 10 volte superiori a quelle prodotte da un access point della rete wireless scolastica. [xv]  Il risultato è una spaventosa sommatoria di onde elettromagnetiche, che minaccia la sicurezza e la salute degli studenti dei docenti e di tutto il personale della scuola, in nome del trionfo della ‘scuola digitale’ ma, soprattutto, di una visione aridamente tecnicista e produttivista dell’educazione. Ecco perché le raccomandazioni che ci giungono dal Ministero dell’Istruzione vanno accolte con molta prudenza e con quel necessario spirito critico che può evitare un accodamento passivo a tesi che meritano una più ampia ed approfondita discussione.

«La visione di Educazione nell’era digitale che abbiamo descritto nel Capitolo 1 è il cuore del Piano Nazionale Scuola Digitale: un percorso condiviso di innovazione culturale, organizzativa, sociale e istituzionale che vuole dare nuova energia, nuove connessioni, nuove capacità alla scuola italiana. In questa visione, il “digitale” è strumento abilitante, connettore e volano di cambiamento.» [xvi]

Questo è quanto si scrive nel PMSD,  ma ritengo che dovremmo evitare di dare per scontato che tale percorso sia effettivamente ‘condiviso’  , per cui chiediamoci se siamo davvero tutti d’accordo sul fatto che il vero e solo ‘volano di cambiamento’ della scuola sia la sua digitalizzazione.  Se non altro per evitare che questa pesante impronta digitale s’imprima acriticamente anche sul modello educativo della nostra scuola.

NOTE————————————————

[i] MIUR, Piano Nazionale Scuola Digitale , p. 140 > http://www.istruzione.it/scuola_digitale/allegati/Materiali/pnsd-layout-30.10-WEB.pdf

[ii]  Per avere una panoramica delle posizioni critiche, a livello internazionale, cfr. l’ampia rassegna di Otto Peters (Against the Tide – Critics of Digitalization, Oldemburg, Bis Verlag, 2013, scaricabile anche come pdf all’indirizzo: https://www.uni-oldenburg.de/fileadmin/user_upload/c3l/master/mde/download/asfvolume15_ebook.pdf

[iii]  Roberto Casati, Contro il colonialismo digitale, Bari, Laterza, 2013 > http://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858107317

[iv] R. Casati, cit. nell’articolo: “Cl@sse 2.0? No, grazie. – Gli scettici del digitale” , Corriere della Sera, 28.01.2014 > http://www.corriere.it/scuola/14_gennaio_27/scuola-digitale-perche-nocorriere-web-nazionale-57f24f4c-8807-11e3-bbc9-00f424b3d399.shtml  .

[v]  Ettore Guarnaccia, La buona scuola: connessione e digitalizzazione, ma la sicurezza?, (26.09.2014) > http://www.ettoreguarnaccia.com/archives/3108

[vi]  Markham Heid, “Inside the new standards for kids and screen time”,  TIME , Nov. 7, 2016, p. 15 (trad. mia)

[vii] Aldo Scotto di Luzio, Senza Educazione. I rischi della scuola 2.0,  Bologna, il Mulino, 2015 >    https://www.ibs.it/senza-educazione-rischi-della-scuola-libro-adolfo-scotto-di-luzio/e/9788815260284#

[viii]  Recensione di Gian Paolo Manzella al libro di A. Scotto di Luzio > https://gianpaolomanzella.com/2015/12/02/i-rischi-della-scuola-2-0-nel-libro-di-scotto-di-luzio/

[ix] Cfr. il mio articolo precedente sul blog: https://ermetespeacebook.com/2016/10/16/dagli-smarties-alle-smart-cities/

[x]  Neil Selwin, Schools and Schooling in the Digital Age. A Critical Analysis, Routledge, 2010, p. 79 (trad. mia)  > https://www.amazon.com/Schools-Schooling-Digital-Age-Foundations/dp/0415589304

[xi] Marco Lazzari, Adolescenti ed uso di Internet: la competenza digitale non basta > Università di Udine, 2016 http://didamatica2016.uniud.it/proceedings/dati/articoli/paper_79.pdf

[xii] Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Inquinamento_elettromagnetico

[xiii] Cfr. “Wi -Fi a scuola: allarme elettrosmog”, Terra Nuova.it (30.01.2013) > http://www.terranuova.it/Il-Mensile/Wi-Fi-a-scuola-allarme-elettrosmog

[xiv]  “In Alto Adige una scuola azzera l’elettrosmog”, Rinnovabili.it, 16.07.2016 > http://www.rinnovabili.it/ambiente/alto-adige-scuola-elettrosmog-333/

[xv] Aldo Domenico Ficara, “Il maggiore inquinamento elettromagnetico nelle scuole deriva dagli smartpghone”, Tecnica della Scuola (17.10.2016) > http://www.tecnicadellascuola.it/tecnica-della-scuola/item/24572-il-maggiore-inquinamento-elettromagnetico-nelle-scuole-arriva-dagli-smartphone.html

[xvi]  MIUR, Piano Nazionale Scuola Digitale, cit. , p. 26

——————————————–

© 2016 Ermete Ferraro ( https://ermetespeacebook.com/ )

EDUCAZIONE LINGUISTICA NONVIOLENTA

A distanza di 25 anni da quando ho scritto "GRAMMATICA DI PACE: OTTO TESI PER UNA EDUCAZIONE LINGUISTICA NONVIOLENTA" (Torino, Satyagraha, 1984), mi sono accorto che ben poco si è mosso su questo terreno in questo lungo periodo. Quasi un quarto di secolo dopo quella mia modesta proposta, infatti, parecchia acqua è comunque passata sotto i ponti della conoscenza delle questioni relative all’educazione alla pace e della diffusione – nella scuola e fuori – di progetti formativi che andassero in quella direzione. Non altrettanto è successo, invece, nel caso di proposte che – come la mia o quella di Gino Stefani per l’educazione musicale – cercavano di uscire dalla genericità di un’educazione alla pace troppo centrata sui macro-conflitti, puntando ad offrire a docenti ed animatori degli strumenti concreti per abituare i ragazzi ad un dialogo autentico e costruttivo, che nascesse soprattutto da una comunicazione onesta, empatica e nonviolenta.
Per riprendere il filo di quella mia ipotesi di "GRAMMATICA DI PACE", con due decenni in più di esperienza didattica sulle spalle, mi è sembrato che fosse il caso di tornare a parlare di questi aspetti, relativamente ad una "educazione linguistica" che, a sua volta, da troppo tempo si è ridotta al puro e semplice insegnamento dell’ Italiano e, per di più, in chiave sempre più normativa e tradizionale.
Eppure credo che non sfugga a nessuno che insegnare la comunicazione linguistica va molto oltre l’addestramento dei più piccoli all’uso corretto e variato della propria lingua. Il fatto stesso che essa sia anche il veicolo per studiare tutte le altre discipline, e quindi per comprendere e far proprio il mondo della conoscenza più in generale, pone infatti l’educazione linguistica (E.L.) su un piano oggettivamente diverso, lasciando a chi l’insegna una responsabilità che va molto oltre i risultati strettamente didattici.
Ecco perché ho pensato che valesse la pena di rispolverare il mio vecchio contributo e di cominciare nuovamente a parlarne nella scuola, insieme con altre due qualificate proposte come quella di M. R.Rosemberg sulla "COMUNICAZIONE NONVIOLENTA" (1998) e quella di J. Liss sulla "COMUNICAZIONE ECOLOGICA" (1992).
Ho iniziato il mio giro da una scuola media del Vomero (il quartiere collinare di Napoli) dove proprio oggi ho incontrato due terze classi, alle quali ho parlato di queste tre ipotesi di lavoro per educarci ad una lingua che sappia costruire ponti di dialogo e non muri di separazione. Per questa occasione ho predisposto una sintetica presentazione in "power point" che, introdotta da un "brainstorm" e conclusa da un confronto diretto coi ragazzi/e, mi ha permesso di riprendere un discorso che, mai come adesso, mi sembra importante ed urgente. Per visionare le ‘slides’ della presentazione, basta visitare il mio sito: http://www.ermeteferraro.it e cliccare sul link relativo alla notizia riportata nella homepage.
© 2010 Ermete Ferraro