RESPONSABILITA’ VS RASSEGNAZIONE (1)

imagesE’ da un po’ che mi sento poco stimolato a scrivere qualcosa. Eppure gli argomenti e gli spunti non mancano, come sa bene chi voglia dare almeno un’occhiata ai quotidiani e non sia del tutto “out” rispetto ad una serie di fatti di cronaca, politica e non, che i media ci sbattono in faccia. Quello che sembra essere sopravvenuto, nel mio caso, non è disinteresse per ciò che sta capitando, semmai una specie di saturazione, stanchezza e fastidio per una realtà che avverto sempre più lontana ed ostica. Una sorta di rigetto verso il miscuglio di malignità e d’imbecillità che sembra caratterizzare il nostro tempo, dal quale il futuro sembra essere stato bandito e la responsabilità cancellata.
Lo so, è una valutazione pesante. Ma il fatto di essere in prima persona coinvolto ed impegnato in ambienti e situazioni molto diverse – la scuola, l’ambientalismo, il lavoro sociale quello nell’ambito della chiesa – se non mi consente impossibili generalizzazioni, mi permette di guardarmi attorno in modo più ampio, ovviamente all’interno del tormentato contesto territoriale ed umano nel quale mi tocca di vivere.
E’ questa, infatti, la prima domanda che sorge spontanea, e non credo solo nella mia testa: è mai possibile che in questo bene/maledetto pizzo della Terra si siano concentrate tutte le contraddizioni, le inefficienze e le malefatte dell’umana specie, vanificando di fatto condizioni ambientali e risorse umane che potrebbero essere considerate ideali? Sui nostri capi pende forse qualche arcana e remota maledizione, visto che tutto sembra andare per il verso contrario, a dispetto di premesse favorevoli?
Ovviamente la situazione è molto più complessa di ciò che appare e certi problemi sono chiaramente sintomo di mali molto più ampi, diffusi e generalizzati. Allo stesso modo, alla faccia del catastrofismo che trasuda dalle cronache, è innegabile l’esistenza d’una realtà alternativa: attiva, laboriosa e combattiva, fatta di tante persone “toste”, che non hanno nessuna intenzione di mollare e che persistono nel loro quotidiano impegno, anche se pochi sembrano accorgersene e se nessuno le gratifica di un qualsiasi riconoscimento.
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RESPONSABILITA’ VS RASSEGNAZIONE (2)

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Sta di fatto, comunque, che svegliarsi ogni giorno in una città come Napoli e dover uscire la mattina per andare a fare (o cercare…) il proprio lavoro è molto più stressante e frustrante di quanto accadrebbe in altri posti dove ogni cosa non costituisce un problema e non si è costretti a cominciare sempre daccapo…
Non mi riferisco a questioni pesantemente strutturali come la disoccupazione endemica, una pervasiva criminalità organizzata oppure la struttura urbanistica asfittica di una città saccheggiata e depredata. Non sto pensando neppure ai terribili rischi sismici e vulcanici che, anche di recente, qualcuno ha voluto sbattere sul muso di troppi distratti ed incoscienti abitanti di un territorio di cui non riescono a diventare davvero cittadini, abituati come sono ad esorcizzare tutti i rischi – dalle catastrofi c.d. naturali agli incidenti sul lavoro – facendo ricorso a rituali scaramantici e rispolverando un fatalismo atavico.
Mi riferisco piuttosto alle quotidiane piaghe che affliggono il corpo di Napoli: il traffico convulso ed irrazionale, l’abusivismo a tutti i livelli, il pressappochismo colpevole di troppi tecnici ed amministratori pubblici, la dispersione scolastica, il caos degli ospedali e le mille altre facce di una precarietà esistenziale assurta a regola di vita ed accompagnata da una generalizzata fuga dalla responsabilità e dal rigore morale.
Eppure non è che manchino stimoli positivi ed appelli autorevoli, a partire da quelli della Chiesa e di tante istituzioni e realtà associative che si spendono quotidianamente per invertire questa tendenza e per prefigurare scenari diversi per le nostre comunità. Fatto sta che esortazioni ed ipotesi alternative non sono sempre accompagnate da azioni continuative e, al tempo stesso, capaci di coinvolgere sempre più persone in un processo di cambiamento che tutti sembrano ritenere necessario, ma non per questo riesce a diventare una prospettiva credibile e concreta.
Che fare allora? Non esistono certo formule né ricette valide e sicure, ma penso sia evidente che il primo elemento sul quale occorre far leva è il richiamo alla dignità, personale e collettiva, di chi non si sia rassegnato definitivamente a tale situazione. E’ un po’ come quando un insegnante deve darsi una strategia educativo-didattica per affrontare i sempre più frequenti casi in cui alunni/e provino un autentico rifiuto della scuola, per le sue regole, per le sue proposte e per i suoi valori.
E’ inutile ricorrere a prediche, minacce o lusinghe: il contrasto è troppo marcato ma, d’altra parte, non è possibile che la scuola rinunci al suo compito formativo o, peggio, si rassegni ad inseguire la realtà, magari ricorrendo a segnali ambivalenti. Il primo passo non può essere che quello della disponibilità e dell’apertura alle esigenze di questi minori ed al loro disagio. Ma poi bisogna trovare il modo per riattivare le loro risorse personali ed il senso di autostima di ciascuno/a, proprio perché la dignità è la base per un comportamento più autonomo e responsabile, e nel contempo meno condizionato da un ambiente sfavorevole e malsano.
Allo stesso modo, probabilmente, bisognerebbe affrontare le problematiche della nostra città, cominciando a restituire ai suoi abitanti la dignità di cittadini che contano, che sono interpellati prima di decidere, che non debbano sentirsi né blanditi né minacciati, ma autenticamente serviti da chi si è proposto per rappresentarli ed amministrarli. Ecco perché la responsabilità personale ed il senso della comunità restano obiettivi irrinunciabili per un uscire dalla palude della rassegnazione e recuperare la speranza in un futuro possibile.

© 2010 ERMETE FERRARO

‘MMACÁRE E…UÁJE !

 
In un paio di post precedenti (“Santi subito?” dell’1.11.2009 e “Vieni avanti Chrétien!” del 3.2.2008) mi è già capitato di soffermarmi sulle “beatitudini” come carta d’identità di chi abbia deciso di seguire Gesù Cristo lungo la difficile via di un annuncio di salvezza che rivoluziona totalmente le nostre certezze e la nostra stessa logica abituale.
La verità è che, anche duemila anni dopo, quella “buona notizia” non finisce di sconvolgerci, capovolgendo le nostre priorità e mettendo drammaticamente in crisi quei valori da cui stentiamo a distaccarci, pur quando siamo posti di fronte alla loro evidente inconciliabilità con quelli evangelici.
Il c.d. ‘discorso della pianura’ nel Vangelo secondo Luca – riproposto in questa IV domenica di tempo ordinario dell’anno C – risulta significativamente differente dal testo parallelo di Matteo, in quanto si rivolge ad una comunità di pagani convertiti e non di giudei osservanti. Ma, al di là delle diversità evidenti (quattro beatitudini anziché nove ed alcune significative sfumature lessicali, come quella che contrappone realisticamente i “poveri” a quei “poveri in spirito” che richiamavano gli “anawìm” veterotestamentari…), è impossibile non notare che l’intento marcatamente più ‘sociale’ di Luca è posto in risalto anche dalle quattro invettive in parallelo alle corrispondenti beatitudini.
Curiosamente, per un orecchio attento alle assonanze con le espressioni della lingua napoletana, ai “ ‘mmacàre” (“makàroi”) si contrappongono altrettanti “uàje” (“ouài”) esclamazione terribile che sembra interpellare anche oggi chi si dichiara “cristiano”, ma preferisce limitarsi tendenziosamente ad un’interpretazione spiritualizzata e vaga dei precetti del Maestro.
Ebbene, nel caso in cui non avessimo capito bene (o, molto più probabilmente, non ci facesse comodo comprendere a fondo un messaggio così sconvolgente…), ecco che capovolgimento brusco delle beatitudini in una sorta di annuncio di sventura viene a toglierci ogni illusione di poterlo interpretare a nostro uso e consumo.
Non si tratta, ritengo, solo di una contrapposizione cronologica fra presente e futuro, come se ci fosse una specie di automatismo per cui chi adesso (nùn) è ricco, sazio, allegro ed appagato sarà poi condannato alla povertà, alla fame, all’afflizione ed alla cattiva fama. Certo, l’avverbio greco “ sottolinea in modo martellante le situazioni di piacere presenti, opponendo loro i “guai” di una condizione esistenziale espressa al tempo futuro. Ma questo non mi sembra indicare una sorta di escatologica “legge del contrappasso”, volgarizzata dal noto proverbio popolare “ride ben chi ride ultimo!”. Direi piuttosto che il messaggio evangelico rinvia ad una netta contrapposizione fra due modelli di vita, improntati a valori radicalmente opposti, in quanto s’ispirano a priorità inconciliabili.
Da una parte c’è il perseguimento, a tutti costi, della ricchezza, della sazietà, dell’assenza di dolori e preoccupazioni e della notorietà, che conduce sicuramente ad una “consolazione” contingente, (paràklesis) però trascura del tutto i valori veri, che il testo di
Matteo mette più in evidenza: l’umiltà, la mitezza, la misericordia, la purezza interiore, la sete di giustizia e la volontà di adoperarsi per la pace. Dall’altra parte c’è un modello di vita che non ci chiede affatto di perseguire la sofferenza come valore in sé, ma di affidarci a Dio Padre, provando a fare a meno delle sicurezze materiali di cui ci avvolgiamo al punto tale da restarne praticamente prigionieri.
Leggere le parole del Vangelo di Luca, a distanza di venti secoli, continua a farci scorrere un brivido lungo la schiena. Ma che razza di civiltà cristiana siamo stati capaci di costruire in tutto questo tempo, se il mondo occidentale in particolare è il campione più significativo di un mondo dominato dagli eccessi assurdi della corsa alla ricchezza, alla sovralimentazione, all’edonismo sfrenato ed alla celebrità a qualsiasi prezzo? Che razza di vangelo predichiamo ai non credenti, se tanti si fanno perfino un vanto di una civiltà sintetizzabile nel culto del denaro e del piacere?
Se è vero, come è vero, che Luca indirizzava le sue invettive contro un mondo ancora troppo pagano, che cosa diavolo direbbe oggi, dopo 2010 anni di cristianesimo, di fronte alla nostra società consumista e materialista?
E allora: noi da che parte stiamo ?
(c) 2010 Ermete Ferraro

CARITAS IN VERITATE

 
“Coniugare la carità con la verità” è l’intento che si è proposto S.S. Benedetto XVI nella sua ultima enciclica, il cui titolo capovolge l’espressione paolina “veritas in caritate” (Ef 4,15) e, seguendo questa parola d’ordine, affronta da tutti i punti di vista quel concetto di “populorum progressio” che Paolo VI ebbe il merito di analizzare già nel 1967.
1.      La prima questione affrontata dal Papa è il rapporto inscindibile tra carità cristiana e giustizia, nella convinzione che: “Non solo la giustizia non è estranea alla carità, non solo non è una via alternativa o parallela alla carità: la giustizia è « inseparabile dalla carità » intrinseca ad essa.” (6). La ricerca del “bene comune”, infatti, comporta la giustizia perché: “La condivisione dei beni e delle risorse, da cui proviene l’autentico sviluppo, non è assicurata dal solo progresso tecnico e da mere relazioni di convenienza, ma dal potenziale d’amore che vince il male con il bene”  (ivi). Il sottosviluppo, quindi, dipende dalla “…mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli” visto che, argomenta il pontefice, “la società sempre più globalizzata ci rende vicini ma non ci rende fratelli” (19).A distruggere ricchezza e produrre nuova povertà, inoltre, contribuiscono certamente “l’esclusivo obiettivo del profitto (…) gli effetti deleteri di un’attività finanziaria…per lo più speculativa (…) la corruzione e l’illegalità” e qui Benedetto XVI non manca di additare un’altra causa paradossale d’impoverimento, ossia quegli “aiuti internazionali…spesso distolti dalle loro finalità, per irresponsabilità che si annidano sia nella catena dei soggetti donatori sia in quella dei fruitori” (19-31-22). La verità, prosegue il Papa, è che purtroppo lo Stato ha smesso di svolgere il suo ruolo di garanzia sociale, dovendo “far fronte alle limitazioni che alla sua sovranità frappone il nuovo contesto economico-commerciale e finanziario internazionale, contraddistinto anche da una crescente mobilità dei capitali finanziari e dei mezzi di produzione materiali ed immateriali”, e pertanto l’auspicio è un “meglio calibrato ruolo dei pubblici poteri” che accresca “una partecipazione più sentita alla res publica da parte dei cittadini” in modo da superare “situazioni di degrado umano oltre che di spreco sociale” (24).
 
2.      Il secondo aspetto toccato dall’enciclica è quello del rapporto tra sviluppo e cultura. I due rischi estremi, quello dell’”eclettismo culturale” derivante da un diffuso relativismo e quello dell’ “appiattimento culturale e dell’omologazione degli stili di vita (…) convergono nella separazione della cultura dalla natura umana (…) Quando questo avviene, l’umanità corre nuovi pericoli di asservimento e di manipolazione.” (26) Il rispetto per la vita – aggiunge il Papa – è particolarmente importante, perché “l’apertura alla vita è al centro di un vero sviluppo” (28). Allo stesso modo va garantito il rispetto della libertà religiosa, se non si vuole incorrere nel “danno che il « supersviluppo »  procura allo sviluppo autentico, quando è accompagnato dal «sottosviluppo morale »…” (29) . Premesso che “la dignità della persona e le esigenze di giustizia (…) richiedono una nuova e approfondita riflessione sul senso dell’economia e dei suoi fini” (32), Benedetto XVI ricorda che “la dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l’importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato” (35) ed ammonisce che “ogni decisione economica ha una conseguenza di carattere morale. (…) L’economia globalizzata sembra privilegiare la prima logica, quella dello scambio contrattuale, ma direttamente o indirettamente dimostra di aver bisogno anche delle altre due, la logica politica e la logica del dono senza contropartita.” Bisogna perciò evitare di leggere in modo deterministico la stessa globalizzazione, di cui vanno corrette “ le disfunzioni, anche gravi, che introducono nuove divisioni tra i popoli e dentro i popoli e fare in modo che la ridistribuzione della ricchezza non avvenga con una ridistribuzione della povertà o addirittura con una sua accentuazione (…) orientando “la globalizzazione dell’umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione” (42).
 
3.      L’articolata analisi del Pontefice passa quindi ad affrontare il delicato rapporto tra lo sviluppo dell’uomo e la salvaguardia dell’ambiente naturale. Questo è stato donato da Dio a tutti, e il suo uso rappresenta per noi una responsabilità verso i poveri, le generazioni future e l’umanità intera (…) La natura è a nostra disposizione non come « un mucchio di rifiuti sparsi a caso », bensì come un dono del Creatore che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l’uomo ne tragga gli orientamenti doverosi per custodirla e coltivarla” (Gn 2,15).”(48). Bisogna evitare, ribadisce Benedetto XVI sia il neo-panteismo paganeggiante di chi considera la natura più importante della stessa persona umana… (sia)la sua completa tecnicizzazione, perché l’ambiente naturale non è solo materia di cui disporre a nostro piacimento, ma opera mirabile del Creatore, recante in sé una “grammatica” che indica finalità e criteri per un utilizzo sapiente, non strumentale e arbitrario (…) L’uomo interpreta e modella l’ambiente naturale mediante la cultura, la quale a sua volta viene orientata mediante la libertà responsabile, attenta ai dettami della legge morale ”(48). Il Papa, dunque, condanna severamente l’accaparramento delle risorse energeticheed auspica, al contrario, un netto miglioramento dell’efficienza energetica e la promozione di energie alternative, stimolando una responsabilità globale che porti ad un governo responsabile della natura (…) con l’obiettivo di rafforzare quell’alleanza tra essere umano e ambiente che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino» In questo ambito, particolare importanza ha l’adozione di nuovi stili di vita(49-50). L’enciclica entra successivamente in un ambito fondamentale: il rapporto tra sviluppo e pace:Ogni lesione della solidarietà e dell’amicizia civica provoca danni ambientali, così come il degrado ambientale, a sua volta, provoca insoddisfazione nelle relazioni sociali. (…)Inoltre, quante risorse naturali sono devastate dalle guerre! La pace dei popoli e tra i popoli permetterebbe anche una maggiore salvaguardia della natura. L’accaparramento delle risorse, specialmente dell’acqua, può provocare gravi conflitti tra le popolazioni coinvolte. Un pacifico accordo sull’uso delle risorse può salvaguardare la natura e, contemporaneamente, il benessere delle società interessate…”. (51)
 
4.      Il documento passa poi a delineare un modello di società più equa e solidale che veda la ‘famiglia umana’ impegnata in un discernimento cui la fede cristiana può fornire le indispensabili basi etiche, evitando gli opposti atteggiamenti laicisti e fondamentalisti cui assistiamo si solito, in quanto: “…l’esclusione della religione dall’ambito pubblico come, per altro verso, il fondamentalismo religioso, impediscono l’incontro tra le persone e la loro collaborazione per il progresso dell’umanità…” (55-56). Questa “collaborazione feconda tra credenti e non credenti” è il primo punto fermo, cui segue la proposta di una visione complessiva in cui “…il principio di sussidiarietà va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa(58). Quanto poi alla “cooperazione allo sviluppo”, il Pontefice ammonisce i paesi c.d. “sviluppati” a non utilizzare gli “aiuti” per ribadire una loro “presunta superiorità culturale” e come uno strumento per “…mantenere un popolo in uno stato di dipendenza e perfino favorire situazioni di dominio locale e di sfruttamento all’interno del Paese aiutato” (58). D’altronde, aggiunge Benedetto XVI:  “Le società in crescita devono rimanere fedeli a quanto di veramente umano c’è nelle loro tradizioni, evitando di sovrapporvi automaticamente i meccanismi della civiltà tecnologica globalizzata…” (59). L’unica molla della cooperazione internazionale, quindi, deve essere soltanto la solidarietà sociale, discorso strettamente connesso con quello delle migrazioni, fenomeno molto complesso sul piano economico, sociale e culturale, ma che richiede comunque un approccio umanitario e solidaristico. Ecco perché il Papa sottolinea con forza che: “…tali lavoratori non possono essere considerati come una merce o una mera forza lavoro. Non devono, quindi, essere trattati come qualsiasi altro fattore di produzione. Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione…” (63). Una società più equa e solidale, prosegue l’enciclica, non può non tener conto del “nesso diretto tra povertà e disoccupazione” e perciò il Papa lancia un appello: “ per « una coalizione mondiale in favore del lavoro decente » e richiama le stesse organizzazioni sindacali “…alla loro necessaria azione di difesa e promozione del mondo del lavoro, soprattutto a favore dei lavoratori sfruttati e non rappresentati, la cui amara condizione risulta spesso ignorata dall’occhio distratto della società…” (64). Tra le caratteristiche di una società diversa, ma già in parte presenti ed operanti, il Papa ricorda alcune significative esperienze, quali quella della microfinanza (65) e le battaglie incentrate sulla responsabilità sociale del consumatore (66), strettamente collegata a quella sobrietà cui più volte la Chiesa ha richiamato i Cristiani. Un ulteriore pilastro di questa alternativa è, per Benedetto XVI, la necessaria ed irrimandabile “… riforma sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale”  dal momento che urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale (che) dia finalmente attuazione ad un ordine sociale conforme all’ordine morale e a quel raccordo tra sfera morale e sociale, tra politica e sfera economica e civile che è già prospettato nello Statuto delle Nazioni Unite.” (67)
 
5.      All’impropria e semplicistica identificazione dello sviluppo con il progresso tecnologico è dedicata l’ultima parte dell’enciclica “Caritas in veritate”.  La tecnica – spiega Benedetto XVI – non può essere fine a se stessa. ” Il processo di globalizzazione potrebbe sostituire le ideologie con la tecnica, divenuta essa stessa un potere ideologico, che esporrebbe l’umanità al rischio di trovarsi rinchiusa dentro un a priori dal quale non potrebbe uscire per incontrare l’essere e la verità. (…) Ma la libertà umana è propriamente se stessa, solo quando risponde al fascino della tecnica con decisioni che siano frutto di responsabilità morale…” (68-70). La stessa costruzione della pace – aggiunge il Papa – rischia pericolosamente di essere “…considerata come un prodotto tecnico, frutto soltanto di accordi tra governi o di iniziative volte ad assicurare efficienti aiuti economici”, con l’aggravante che questo processo diventa una forzatura tutt’altro che pacifica, nella misura in cui spesso trascura di “… sentire la voce e guardare alla situazione delle popolazioni interessate per interpretarne adeguatamente le attese…” (72). Oltre che dall’“assolutismo della tecnica”, un altro rischio deriva anche dalla “accresciuta pervasività dei mezzi di comunicazione sociale”, laddove non siano un autentico strumento di promozione umana e sociale, nonché da quel “riduzionismo neurologico”, che semplifica materialisticamente la complessità della natura umana, mortificandone la crescita spirituale (76) e bloccandone lo slancio verso un “umanesimo integrale”.
 
Da questo rapido, ma non superficiale, excursus dell’ultima enciclica della massima autorità spirituale del cristianesimo cattolico mi sembra che emerga una visione certamente non nuova, ma sicuramente coerente ed alternativa della prospettiva sociale per i credenti del XXI secolo. Che non si tratti di qualcosa di nuovo si evince dall’impostazione dello stesso Benedetto XVI, che ci tiene a ribadire il legame che lo lega alla tradizione sociale della Chiesa, dalla Rerum Novarum di Leone XIII del 1891 fino ad oggi, passando per la Pacem in terris di Giovanni XXIIII (1963), la Populorum Progressiodi Paolo VI (1967) e la Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II (1987).
Che si tratti di una silloge assolutamente originale e innovativa della dottrina sociale cattolica, peraltro, si ricava dal richiamo continuo all’attualità e particolarità dei problemi e dei fenomeni che costituiscono il terreno su cui la fede deve cimentarsi, coniugandosi con la ragione e non limitandosi a promuovere la “carità” senza il richiamo ad una “verità” rivelata e stabile.
Al di là di qualche residua compiacenza antropocentrica e di un’affermazione del progresso come crescita, che onestamente non mi sento di condividere (secondo la quale: “La vocazione al progresso spinge gli uomini a « fare, conoscere e avere di più, per essere di più »…”(18) ) ritengo che ci troviamo di fronte ad una proposta significativamente alternativa e, nei fatti, molto più innovativa di tante fumose ed ambigue analisi di una sinistra che ha perso le proprie coordinate e che sta scontando la propria incoerenza opportunistica, travestita da “Realpolitik”.
L’analisi dell’attuale momento storico e della società presente è svolta con lucidità e consapevolezza dei problemi: basti pensare a questioni come quella del bene comune”, contrapposto al profitto assurto a unica motivazione di un’economia sempre più speculativa e finanzia rizzata; al giudizio sulla globalizzazione come fonte di omologazione culturale e di crescita delle disuguaglianze socio-economiche, oppure all’importanza degli stili di vita per una società più sobria, giusta e rispettosa della natura.
Quello che mi sembra ancora più importante è la proposta in positivo – e nell’ottica cristiana – di un modello di sviluppo alternativo, il cui obiettivo sia quello di una società equa, solidale, pacifica ed autenticamente umana. Le coordinate di questa proposta, infatti, possono così essere sintetizzate: 
  1. Collaborazione tra credenti e non credenti vs laicismo e fondamentalismo;
  2. Ruolo dei pubblici poteri per ristabilire il “bene comune”la giustizia vs preponderanza del profitto economico-commerciale e finanziario;
  3. Sviluppo caratterizzato da relazionalità, comunione e condivisione vs “supersviluppo” che porta con sé un “sottosviluppo morale”;
  4. Rapporto corretto e responsabile tra sviluppo umano e salvaguardia dell’ambiente naturale, a partire da “nuovi stili di vita” vs tecnocrazia, sfruttamento ambientale ed accaparramento delle risorse vitali ed energetiche;
  5. Solidarietà sociale, cooperazione autentica, lavoro “decente” e rispetto dei diritti dei migranti vs lavoro sfruttato e/o precario e “mercificazione” e mancata tutela dei migranti;
  6. Umanesimo integrale vs assolutismo della tecnica, riduzionismo “neurologico” e mortificazione della dimensione spirituale.
Non si tratta del “manifesto” di una nuova rivoluzione, ma solo perché la vera rivoluzione è già stata proclamata 2009 anni fa da quel Gesù di Nazareth che ci ha portato la “buona notizia” di un Dio che si fa uomo per farci diventare come Lui. Concluderi con un’ultima citazione dell’enciclica: “La maggiore forza a servizio dello sviluppo è quindi un umanesimo cristiano, che ravvivi la carità e si faccia guidare dalla verità, accogliendo l’una e l’altra come dono permanente di Dio. La disponibilità verso Dio apre alla disponibilità verso i fratelli e verso una vita intesa come compito solidale e gioioso.(…) Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio…”
 
 
 
 
 
 

UN CUOR SOLO E UN’ANIMA SOLA…

 
Oggi, 19 aprile, ricorrono vent’anni dal mio matrimonio con Anna. Solitamente, in questi casi, le mogli sono contente se il marito le porta a cena fuori o se organizza qualcosa di speciale. Anna no: mi ha solo fatto capire che ci teneva che fossimo presenti ad un incontro per le famiglie della nostra parrocchia, su all’Eremo dei Camadoli. Confesso di averla assecondata con scarso entusiasmo, ma devo ammettere che abbiamo trascorso una giornata molto particolare, in cui si sono sposate le fondamentali parole delle letture di questa II domenica di Pasqua con quelle di una profetessa del nostro tempo, Chiara Lubich, che del carisma dell’unità e dello spirito di famiglia ha saputo fare il motore del movimento dei Focolari.
Le parole degli Atti degli Apostoli tornavano, infatti, particolarmente a proposito, quando ricordano che i primi cristiani avevano: “…un cuor solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune […] Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno…”
Quando si leggono queste parole, la prima considerazione che sorge spontanea è, ovviamente, che due millenni dopo, di questa originaria “communio” dei credenti in Cristo purtroppo è rimasto molto poco, se c’è addirittura chi giunge a presentare la difesa della proprietà privata come una bandiera della civiltà cristiana, facendo finta di non capire che non è un caso se il numero dei “bisognosi” è in costante crescita, e che tutta la nostra società si muove, di fatto, in una logica del tutto opposta, risultando sempre più divisa, profondamente iniqua e sempre meno solidale.
E’ peraltro evidente che il “comunismo” dei primi cristiani aveva un’altra origine, che non è possibile rinnegare senza distruggere le fondamenta stesse della fede cristiana. La comunità (d’intenti, di beni e di servizi) nasceva infatti da una “con-cordia” di fondo, cioè da quella convinzione che, come scriveva Giovanni nella sua prima lettera: “…chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato […] Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo…”
Ma che significa oggi cercare di ritornare ad essere “un cuor solo e un’anima sola” ?  Che cosa comporta scegliere di ritornare a quella radicalità evangelica, che è ricerca di unità e di comunione con i fratelli come unica strada per giungere alla comunione con Dio Padre?
La risposta di Chiara Lubich è stata l’invito a “fare unità”, allargando i confini della nostra famiglia a tutti quelli che ci capita d’incontrare e che sono, quindi, il nostro prossimo. Non si tratta di dichiarazioni di principio o di principi astratti: dobbiamo prenderci sul serio come Cristiani e metterci al servizio di tutti, perché amare è proprio questo. Si tratta di una verità semplice quanto sconvolgente, con la quale bisogna fare i conti, lasciando che la rivoluzione dell’amore diventi qualcosa di concreto e di tangibile, in modo da “vincere il mondo” e le sue lusinghe materialistiche, individualistiche ed edonistiche.
Quella sessantina di persone – fra cui molte coppie – che hanno trascorso con noi questa strana festa di anniversario nel convento camaldolese testimoniano già l’impegno di una comunità parrocchiale che non si accontenta del consumismo religioso e che, sotto la guida del suo pastore, sta incamminandosi su questa strada di condivisione e di fraternità. Il pericolo è che star bene insieme possa trasformarsi in una scelta auto-gratificante ed auto-consolatoria, che chiuda il cerchio della “communio” intorno agli amici ed a coloro che la pensano come noi.
Al contrario, la sfida è quella di costruire questa comunità uscendo dalla logica ristretta del gruppo o della parrocchia, proprio per contagiare col nostro amore cristiano chi è molto diverso da noi o non accetta per nulla quel messaggio, se non è reso credibile da una testimonianza autentica e diretta. Lo stesso matrimonio – come più volte abbiamo riflettuto col nostro parroco – tradirebbe lo spirito cristiano se ci portasse a chiudere la “famiglia” come un recinto intorno ai nostri cari, quasi per proteggerla dal contagio di chi sta fuori. 
E’ esattamente il contrario: dobbiamo “fare unità” con chiunque ci sia “prossimo” e questo anniversario… “comunitario” è stato un modo di farne esperienza. 
 

VIZI E VIZIETTI (1)

foto: Pete Leonard/Zefa/CorbisUna recente indagine demoscopica – promossa dal mensile Messaggero di sant’Antonio – ci mostra la faccia meno simpatica e buonista degli Italiani, svelandone impietosamente i vizi più diffusi ed avvertiti. Al primo posto c’è la maleducazione, che spesso si manifesta sotto forma di arroganza e di cui si lamentano il 90% degli intervistati. Al secondo posto, con l’80% , troviamo l’individualismo – connotato come consumismo materialistico – mentre il terzo posto, in questo poco onorevole podio, spetta alla indifferenza, il tipico menefreghismo nostrano, denunciato dal 77% dei nostri connazionali come mancanza di senso della responsabilità. La disonestà si classifica quarta (74%) e, in quinta posizione col 71%, emerge lo scarso rispetto per la natura. Pur volendo tralasciare gli ultimi quattro “vizi” emersi dall’indagine (dipendenze, carrierismo, infantilismo, intolleranza), il quadro dei difetti degli Italiani è già abbastanza desolante…
Che dite? Che non c’era bisogno di fare un’indagine per giungere a queste conclusioni? Che basta uscire di casa, in una giornata qualunque, per imbattersi in continue e diffuse manifestazioni dei tipici vizi italioti? Che ne siamo talmente consapevoli che ormai ci ridiamo su, riflettendoci spensieratamente nei personaggi dei cine-panettoni e nelle battute dei cabarettisti?
Beh, l’immagine degli Italiani maleducati, individualisti, strafottenti, imbroglioni e poco attenti all’ambiente effettivamente non è proprio nuova. Il sondaggio del Messaggero, però, ci fa toccare con mano l’incongruenza e l’assurdità di una comunità nazionale che da un lato appare cosciente dei difetti della sua stragrande maggioranza, ma, dall’altro, sembra non rendersi conto che dentro quelle così larghe percentuali – se non altro per probabilità statistica – sono compresi gli stessi intervistati, che di quei “vizi” si sono lamentati…
di erferraro Inviato su Senza categoria Contrassegnato da tag ,

VIZI E VIZIETTI (segue)

Non ho capito: state dicendo che, comunque, tra scostumatezza e disonestà c’è una bella differenza? Pensate che l’indifferenza è ancora meno grave e che, coi tempi che corrono, è difficile sostenere che l’individualismo sia il segno distintivo dei soli Italiani?
 Quello che è certo è che la radice comune di tutti questi difetti la ritroviamo proprio in una visione materialistica, individualistica ed amorale delle relazioni umane, in cui la solidarietà e l’empatia non trovano più alcuno spazio. Le persone sono diventate solo le comparse – e l’ambiente naturale la scenografia – di recite individuali, di tanti monologhi in cui si esercita il l’ipertrofico Ego di chi ha ormai smarrito la dimensione verticale e orizzontale della relazione.
C’è forse da meravigliarsi, allora, se quasi un terzo dei nostri compatrioti si comportano in modo ecologicamente irresponsabile, quando sappiamo che la mancanza di senso di responsabilità e di limiti morali sono alla base di tutti gli altri “vizi” emersi dall’inchiesta? Che c’è di strano se l’unica molla per farci cambiare strada non è la coscienza etica dei nostri gravi errori, ma la paura che le conseguenze di essi possano compromettere la nostra sicurezza e la nostra salute?
Ho appena terminato di scrivere un saggio sul rapporto Dio-uomo-terra che emerge dalla lettura dei Salmi e, tra le considerazioni che ne derivavano, c’è quella che riguarda la vera tragedia cosmica che emerge dalla Bibbia. Il male non fa parte della natura, non è stato creato da Dio, è una macchia quasi inspiegabile, che infanga una realtà uscita dalle sue mani “bella/buona”.
Pensate: nella lingua ebraica ci sono tre vocaboli diversi per indicare il concetto di “peccato”. La prima (hatta’) indica il ‘fallire il bersaglio’ perseguito, e quindi si può rendere etimologicamente con errore; il secondo (awon) rende piuttosto l’idea di una curvatura, una deviazione, e quindi di uno sbaglio (= abbaglio), che induce a cambiare strada; il terzo (pesha’) rappresenta un vero e proprio atto di ribellione alla legge, un volontario de-linquere.
Dice: ma che c’entra questo con l’indagine demoscopica della rivista antoniana? Io credo che c’entra, anche se la parola “peccato” in quel contesto non è stata tirata in ballo. Penso, infatti, che se il Padreterno ci ha lasciato la libertà di errare, di sbagliare e perfino di ribellarci alla Sua legge, forse è un po’ da vigliacchi non assumerci le nostre responsabilità, nascondendoci dietro il comodo paravento del “costume”, della “consuetudine” che fa la regola… Certo, non si può negare che gli Italiani abbiano questi “vizi”, ma non ridiamoci tanto su, perché dentro quell’universo statistico ci siamo anche noi. Cambiare le cose, allora, spetta a ciascuno di noi perché, come ha detto qualcuno, dobbiamo essere noi stessi il cambiamento che ci aspettiamo dagli altri.
di erferraro Inviato su Senza categoria Contrassegnato da tag ,