‘MMACÁRE E…UÁJE !

 
In un paio di post precedenti (“Santi subito?” dell’1.11.2009 e “Vieni avanti Chrétien!” del 3.2.2008) mi è già capitato di soffermarmi sulle “beatitudini” come carta d’identità di chi abbia deciso di seguire Gesù Cristo lungo la difficile via di un annuncio di salvezza che rivoluziona totalmente le nostre certezze e la nostra stessa logica abituale.
La verità è che, anche duemila anni dopo, quella “buona notizia” non finisce di sconvolgerci, capovolgendo le nostre priorità e mettendo drammaticamente in crisi quei valori da cui stentiamo a distaccarci, pur quando siamo posti di fronte alla loro evidente inconciliabilità con quelli evangelici.
Il c.d. ‘discorso della pianura’ nel Vangelo secondo Luca – riproposto in questa IV domenica di tempo ordinario dell’anno C – risulta significativamente differente dal testo parallelo di Matteo, in quanto si rivolge ad una comunità di pagani convertiti e non di giudei osservanti. Ma, al di là delle diversità evidenti (quattro beatitudini anziché nove ed alcune significative sfumature lessicali, come quella che contrappone realisticamente i “poveri” a quei “poveri in spirito” che richiamavano gli “anawìm” veterotestamentari…), è impossibile non notare che l’intento marcatamente più ‘sociale’ di Luca è posto in risalto anche dalle quattro invettive in parallelo alle corrispondenti beatitudini.
Curiosamente, per un orecchio attento alle assonanze con le espressioni della lingua napoletana, ai “ ‘mmacàre” (“makàroi”) si contrappongono altrettanti “uàje” (“ouài”) esclamazione terribile che sembra interpellare anche oggi chi si dichiara “cristiano”, ma preferisce limitarsi tendenziosamente ad un’interpretazione spiritualizzata e vaga dei precetti del Maestro.
Ebbene, nel caso in cui non avessimo capito bene (o, molto più probabilmente, non ci facesse comodo comprendere a fondo un messaggio così sconvolgente…), ecco che capovolgimento brusco delle beatitudini in una sorta di annuncio di sventura viene a toglierci ogni illusione di poterlo interpretare a nostro uso e consumo.
Non si tratta, ritengo, solo di una contrapposizione cronologica fra presente e futuro, come se ci fosse una specie di automatismo per cui chi adesso (nùn) è ricco, sazio, allegro ed appagato sarà poi condannato alla povertà, alla fame, all’afflizione ed alla cattiva fama. Certo, l’avverbio greco “ sottolinea in modo martellante le situazioni di piacere presenti, opponendo loro i “guai” di una condizione esistenziale espressa al tempo futuro. Ma questo non mi sembra indicare una sorta di escatologica “legge del contrappasso”, volgarizzata dal noto proverbio popolare “ride ben chi ride ultimo!”. Direi piuttosto che il messaggio evangelico rinvia ad una netta contrapposizione fra due modelli di vita, improntati a valori radicalmente opposti, in quanto s’ispirano a priorità inconciliabili.
Da una parte c’è il perseguimento, a tutti costi, della ricchezza, della sazietà, dell’assenza di dolori e preoccupazioni e della notorietà, che conduce sicuramente ad una “consolazione” contingente, (paràklesis) però trascura del tutto i valori veri, che il testo di
Matteo mette più in evidenza: l’umiltà, la mitezza, la misericordia, la purezza interiore, la sete di giustizia e la volontà di adoperarsi per la pace. Dall’altra parte c’è un modello di vita che non ci chiede affatto di perseguire la sofferenza come valore in sé, ma di affidarci a Dio Padre, provando a fare a meno delle sicurezze materiali di cui ci avvolgiamo al punto tale da restarne praticamente prigionieri.
Leggere le parole del Vangelo di Luca, a distanza di venti secoli, continua a farci scorrere un brivido lungo la schiena. Ma che razza di civiltà cristiana siamo stati capaci di costruire in tutto questo tempo, se il mondo occidentale in particolare è il campione più significativo di un mondo dominato dagli eccessi assurdi della corsa alla ricchezza, alla sovralimentazione, all’edonismo sfrenato ed alla celebrità a qualsiasi prezzo? Che razza di vangelo predichiamo ai non credenti, se tanti si fanno perfino un vanto di una civiltà sintetizzabile nel culto del denaro e del piacere?
Se è vero, come è vero, che Luca indirizzava le sue invettive contro un mondo ancora troppo pagano, che cosa diavolo direbbe oggi, dopo 2010 anni di cristianesimo, di fronte alla nostra società consumista e materialista?
E allora: noi da che parte stiamo ?
(c) 2010 Ermete Ferraro

SANTI …SUBITO?

 
CAXAGQXFCAH10AF6CARKIQEBCABLRO4VCAUEJKRTCAVL6WK7CA1UL78HCALAVV0ICAZIRKG0CAUY24H4CAQ6PY07CASR46SKCAGG4D51CACC3CMPCA1OX6KKCAK6NA0A“Vieni avanti, chrètien! s’intitolava un “post” – pubblicato sul mio blog a febbraio 2008 – nel quale, prendendo spunto dalle Beatitudini, riflettevo sulla necessità di vivere il cristianesimo come qualcosa di profondamente contrastante con le più radicate e diffuse convinzioni circa le condizioni per raggiungere la felicità. Il fatto che il termine francese “chrètien” (cristiano) fosse diventata molto presto un’offesa (“cretìno”), infatti, mi sembrava che la dicesse lunga sull’idea che i non credenti si erano fatti di chi, secondo loro, aderiva assurdamente ad una fede irrazionale.
Oggi, in occasione della ricorrenza della festività di “tutti i Santi” – messo finalmente da parte lo stupido chiacchiericcio su “Halloween” e i suoi rituali pagano-mediatici – mi sembra il caso di riflettere un po’ più profondamente sul concetto stesso di “santità”. In quel mio precedente intervento partivo dal termine greco “makàrios” – tradotto in italiano con “beato” – e sulla sua somiglianza con l’ebraico “meushàr” (che significava: approvato, felice). In particolare mi soffermavo sull’espressione augurale “magàri” che, rapportata al testo delle “beatitudini”, sembrerebbe in stridente contrasto con i guai che quasi sempre derivano, allora come oggi, dal seguire Gesù Cristo sulla difficile via della mitezza, dell’umiltà, della misericordia, della purezza di cuore e dell’operare per la pace. Del resto, non si può negare che essere poveri, afflitti, affamati e perseguitati non coincide affatto con la nostra idea di “felicità”, per cui lo stesso san Paolo affermò che: "Dio ha scelto ciò che nel mondo è stoltezza per confondere i sapienti; Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignorabile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono…" (I Cor 1,27ss).
Ecco perché, se ci soffermiamo sul concetto di “santità” e di “sacro”, la necessità di una “metànoia” (cioè di una “conversione”, di una svolta radicale rispetto a ciò che abitualmente di crede e si fa per raggiungere la felicità) risulta evidente. Entrambi i termini italiani ci riportano alla comune radice latina “sac”/”sanc” , derivante a sua volta da quella indoeuropea “sak”-“sag”, che significava sia “attaccarsi, avvincersi, aderire a qcn”, sia “seguire, ossequiare qcn” . Nella fattispecie, quel Qcn. cui aderire, Colui che il “santo” deve seguire è proprio Dio, le cui vie sono però profondamente diverse da quelle che siamo abituati a percorrere.
La radice della parola greca equivalente “hàghios”, del resto, risale al verbo “hàzomai” (rispettare, venerare) ma, come nel caso di “makàrios”, la trascrizione italiana di grafemi stranieri si è prestata a qualche equivoco. Il fatto che sovente si scrivesse “àghios” piuttosto che “hàghios”, ad esempio, ha portato qualcuno a dare a questa parola il senso di negativo di “non terreno” (alfa privativa + gàios), come se i santi fossero da considerarsi persone dell’altro mondo, praticamente degli extraterrestri… Un equivoco molto simile è stato generato dalla difficoltà di rendere graficamente in italiano la differenza fonetica in greco tra “κ” e “χ”, per cui l’aggettivo “makàrios” (beato) è stato spesso fatto risalire etimologicamente a “machaira” (lama, coltello per tagliare), evocando l’idea di qualcuno “tagliato fuori” dalla vita ordinaria. La stessa parola latina “sacer” è stata talvolta riportata alla radice indoeuropea “sek”, proprio nel senso di tagliare, separare.
A questo genere d’interpretazione contribuisce anche il termine ebraico vetero-testamentario corrispondente (“qadosh”), che implica proprio il concetto di “separazione”, in quanto il popolo d’Israele sarebbe stato “messo da parte” da Dio per “consacrarlo”.
Insomma, l’’immagine che ne esce della santità è quella di qualcosa che riguarda persone prescelte e chiamate a ciò, o comunque eccezionali, distaccate dal “mondo” perché consacrate a Dio ma, proprio per questo, lontanissime da noi e dalla nostra vita ordinaria e quotidiana. Bisogna ammettere, poi, che la Chiesa – o meglio, le Chiese – non hanno fatto molto per contrastare questa concezione. Non importa se ciò sia da ricondursi alla visione “ascetica” tipica dei cristiani d’Oriente, o alla tradizionale venerazione cattolica nei confronti dei Santi, troppo spesso trasformata in una sorta di “culto” parallelo, oppure ancora alla concezione pessimistica delle chiese riformate, per cui solo la grazia divina può santificare le nostre esistenze da peccatori.
Quello che è certo, però, è che da 40 anni, cioè dalla fine del Concilio Vaticano II, si parla ormai   di una “santità” cui tutti i cristiani sono chiamati. E’ proprio nella costituzione conciliare “Lumen Gentium”, infatti, che troviamo affermato con molta chiarezza che: “…tutti i seguaci di Cristo, anche i laici, sono chiamati alla perfezione della carità  […] E impegno per la perfezione cristiana significa cammino perseverante verso la santità . […] Il Signore Gesù, maestro e modello divino di ogni perfezione, a tutti e ai singoli suoi discepoli di qualsiasi condizione ha predicato la santità  della vita, di cui egli stesso è autore e perfezionatore: "Siate dunque perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste" (Mt 5,48) […] Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità ». (LG 40).
Per citareil compianto Giovanni Paolo II, quindi: "La consegna primaria che il Vaticano II ha affidato a tutti i figli e tutte le figlie della Chiesa è la santità (…); la tensione alla santità è perciò il fulcro del rinnovamento delineato dal Concilio" (Giovanni Paolo II, Allocuzione, 29-III-1987).
Ma allora, se siamo chiamati tutti – proprio tutti/e – alla santità, non possiamo più far finta di non essere in grado di percorrere la difficile strada indicataci da Gesù con le Beatitudini. Essere umili, miti, puri, misericordiosi e pacifici, di conseguenza, non è una vaga indicazione riservata a pochi eletti, ma piuttosto una scelta che ci tocca direttamente, qui e ora.
Ma ecco che, parlando di santità “ordinaria” e/o “quotidiana”, alcuni si sono lasciati trasportare forse un po’ troppo nell’eccesso opposto. Se è perfettamente vero, infatti, che essere santi è qualcosa che ci riguarda personalmente e in modo non “straordinario”, credo però che talvolta si sia corso il rischio di una banalizzazione del termine, e quindi del concetto stesso di “santità”.
E’ certamente giusto ricordare ad ogni cristiano che la sua chiamata ad essere santo passa anche per la vita di tutti i giorni e che può esplicarsi non solo nella fede, ma anche nel lavoro, nell’impegno sociale o in quello culturale. E’ opportuno chiarire che anche una casalinga o un meccanico possono “santificare” ciò che fanno ogni giorno, anche se non riveste alcun carattere di straordinarietà. Bisogna però stare attenti a non scivolare in una visione troppo semplificata di questo cammino verso quella “perfezione” cui siamo comunque chiamati, poiché quella che il Papa chiamava “tensione alla santità” è un presupposto, una potente molla interiore che ci spinge in quella direzione, ma che troppo spesso è sovrastata dal richiamo ad una realizzazione assai più terrena o, per usare un’espressione idiomatica, molto “terra terra”.
Il vero cristiano, in definitiva, non è chi aspira asceticamente ad una santità intesa come perfezione irrealizzabile e ultraterrena, ma neppure chi la confonde la tranquilla beatitudine quotidiana di chi non è messo alla prova dalle difficoltà e dal dolore. La santità, insomma, non può e non deve essere riservata a pochi supereroi, ma non può neanche essere presentata come se si trattasse di una strada liscia, da percorrere in “santa pace”. E questo perché lo stesso Gesù ci ha ammonito ad entrare per la “porta stretta” ed a passare per la “via angusta” (vedi Mt 7, 13-14 e Lc 13,24) e, nello stesso discorso sulle Beatitudini, non ci ha nascosto che il prezzo della nostra scelta potrebbe essere una situazione di povertà, di afflizione, e di persecuzione.
Essere santi, allora, deve essere qualcosa cui tutti dobbiamo tendere, ma che implica delle scelte niente affatto facili e scontate e richiede un modo di ragionare che a tanti suona ancora pura follia o, per citare ancora san Paolo, “stoltezza”. Quello che è certo è che dobbiamo smettere di cercare i Santi solo sugli altari, magari per propiziarceli paganamente con litanie e candele, e che dovremo provare a diventare anche noi…santi subito! 

IV GIORNATA PER LA SALVAGUARDIA DEL CREATO

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      “… è conseguenza del peccato se la rete delle relazioni con il creato appare lacerata e se gli effetti sul cambiamento climatico sono innegabili, se proprio laria – così necessaria per la vita – è inquinata da varie emissioni, in particolare da quelle dei cosiddetti gas serra”. Se, però, prendiamo coscienza del peccato, che nasce da un rapporto sbagliato con il creato, siamo chiamati alla conversione ecologica, secondo lespressione di Giovanni Paolo II. […] Una tempestiva riduzione delle emissioni di gas serra      è, dunque, una precauzione necessaria a tutela delle generazioni future, ma anche di quei poveri della terra, che già ora patiscono gli effetti dei mutamenti climatici. Occorre, dunque, un profondo rinnovamento del nostro modo di vivere e delleconomia, cercando di risparmiare energia con una maggiore sobrietà nei consumi […] uno stile di vita più essenziale, come espressione di una disciplina fatta anche di rinunce, una disciplina del riconoscimento degli altri, ai quali il creato appartiene tanto quanto a noi che più facilmente possiamo disporne; una disciplina della responsabilità nei riguardi del futuro degli altri e del nostro stesso futuro”.
Le parole citate – sulle quali esprimerò qualche osservazione – le ha pronunciate Benedetto XVI che, incontrando ad agosto il clero di Bressanone, ha rinnovato il suo appello “ecologico” in occasione della IV Giornata per la Salvaguardia del Creato (1° settembre ’09).
§         E’ molto importante che il Papa insista sulle conseguenze ecologiche e sociali derivanti dalla lacerazione di quelle “reti di relazioni con il creato” alla cui origine c’è il “peccato” , che a sua volta è frutto di un “rapporto sbagliato con il creato”.L’attuale “crisi ecologica”, in altre parole, non è una disgrazia incidentale e fortuita che purtroppo ci è capitata, ma il risultato di una visione predatoria dell’uomo sulla natura e di un rapporto di sfruttamento selvaggio delle risorse del Pianeta. L’uso del termine “relazione”, d’altra parte, mi sembra escludere una visione grettamente ed utilitaristicamente materialistica della realtà naturale –intesa come una “cosa” di cui appropriarci – ma lascia intravedere un vero e proprio rapporto con una pluralità e complessità di elementi biologici, governata dai principi dell’ecologia (interdipendenza, biodiversità, simbiosi…).
§         Ancora più importante mi sembra l’appello del Pontefice affinché la presa di coscienza di questo peccato non resti qualcosa di teorico, astratto o di relativo alla sfera della morale personale, ma conduca piuttosto ad una vera, tangibile, collettiva ed immediata “conversione ecologica”.  Il teologo mons. Ravasi ha chiarito in un suo acuto commento che i tre vocaboli che in lingua ebraica esprimono il peccato (hatta’ – awôn – pesha’)  rinviano ad una sfumatura di significati. Il “peccato” è un errore, un “aberrazione” che ci porta lontani da Dio e dal prossimo; è una deviazione tortuosa”, ma è anche una vera e propria “ribellione” della creatura nei confronti dei suo Signore e Creatore. Ecco allora che occorre quella “conversione” che gli ebrei chiamavano “shub”, cioè una netta e chiara inversione di rotta, che consenta all’umanità di rimediare al proprio “errore” e che corregga quella “deviazione” che nasceva dalla pretesa di ribellarsi all’ordine cosmico e alla signoria dell’autore del creato.
§         La “tempestività” richiesta nella riduzione delle emissioni che avvelenano irreversibilmente l’aria – l’elemento cui la Giornata 2009 è dedicata in modo specifico – non è presentata esclusivamente come una “precauzione” necessaria per tutelare la salute nostra e delle generazioni future dai cambiamenti climatici, ma anche come una risposta dovuta a quei “poveri della terra”che ne soffrono già da ora gli effetti devastanti sulla propria pelle. La salvaguardia del creato, ancora una volta, è presentata come strettamente correlata al principio di giustizia sociale e come esempio concreto di quella solidarietà che è alla radice di una pace fra gli uomini e di questi con la natura. Tale conversione deve essere per forza “tempestiva”, perché esige scelte immediate e non più rinviabili, che investono in primo luogo i governi, con provvedimenti strutturali, ma anche le comunità e la responsabilità – qui e ora – di ogni singola persona.
§         Occorre infatti, afferma il Papa, un “profondo rinnovamento del nostro modo di vivere e dell’economia”,e quindi un cambiamento che parta dal basso, dagli stili di vita, e costringa la stessa economia a prendere atto di questa svolta radicale. Nel documento si parla di “essenzialità”, di “risparmio energetico” , di “sobrietà dei costumi” e di “disciplina della responsabilità”. Questo significa che il cambiamento auspicato non può essere né graduale né indolore, ma richiede la risposta a degli imperativi categorici, non una blanda e generica sensibilità ambientale. Ecco perché i Cristiani – e la stessa Chiesa – hanno il dovere di rinunciare a compromessi, scorciatorie e fittizie “compatibilità” e devono dimostrare nei fatti perché, come ammoniva già S. Giacomo apostolo, “…la fede, se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta “ (Gc. 2,18)
 

ELEGANTEMENTE SEMPLICI

sfrancescoFOL2Sull’ultimo numero di Resurgence” (la bella rivista ambientalista inglese che ospita contributi di studiosi del calibro di Fritjof Capra, James Lovelock, Noam Chomsky, Vandana Shiva…), Satish Kumar – che ne è il direttore – ha scritto un editoriale dal titolo “Elegante semplicità”.
Il nocciolo del problema,  di cui peraltro si occupano vari articoli di questo numero della rivista (254 * May June 2009), è l’esigenza di resistere alla schiavitù delle tendenze e delle mode, considerate giustamente come l’antitesi della sostenibilità, in quanto causa di problemi economici ed ambientali.
Viceversa, argomenta Kumar: “la semplicità è parte della ‘saggezza perenne’ promossa da molti grandi pensatori ed utopisti. […]La semplicità è una qualità positiva: quando le cose sono semplici sono ben fatte, durano indefinitamente, sono fatte con piacere e danno piacere quando sono usate. E’ stato E. F. Schumacher a dire: ‘Qualsiasi stupido può fare cose complicate, però ci vuole un genio per fare cose semplici’…”
Ecco, appunto: siamo effettivamente circondati da pazzi che creano cose e situazioni complicate ed intricate, dalle quali non riusciamo più a liberarci e di cui diventiamo irrimediabilmente schiavi. La moda e la tirannia di ciò che ‘fa tendenza’ sono solo due aspetti di una generale visione distorta della vita e delle sue priorità. Il fatto è che la nostra società, in nome del benessere e della libertà, ha generato mostri che minacciano ogni giorno il nostro benessere psicofisico e ci privano della libertà di essere noi stessi.
La semplicità, osserva Kumar, richiede meno egoismi, complicazioni e preoccupazioni per le apparenze e, invece, più immaginazione e creatività ed una maggiore attenzione alla sostanza delle cose. Naturalmente la maggior parte delle persone sono convinte che una società avanzata e sviluppata debba necessariamente avere certe caratteristiche e che i problemi personali, sociali ed ambientali che abbiamo davanti agli occhi siano soltanto spiacevoli effetti collaterali di un inarrestabile e lineare progresso.
La verità – benché difficile da digerire – è che i nostri attuali stili di vita, orientati al consumismo e a mode effimere, sono oggettivamente alla base della triplice crisi del nostro tempo, che investe non solo l’ambito ecologico, ma anche quello socio-economico e spirituale. Lo sfruttamento intensivo e contro natura delle risorse del nostro pianeta, infatti, provoca catastrofi ambientali, ma è fonte anche di povertà ed ingiustizia e sta minando le basi stesse di una convivenza basata su valori etici che rendano la vita degna di essere vissuta ed impediscano agli esseri umani di sentirsi soli ed infelici.
Non è un caso che le principali religioni stiano ponendo nuovamente al centro del loro messaggio di rinnovamento e di speranza valori come l’umiltà, la semplicità e la sobrietà, indicandoli come il solo antidoto ad una crisi planetaria, ma anche interiore e comunitaria.
“La moderazione non è solo una regola ascetica, ma anche una via di salvezza per l’umanità – ha scritto Benedetto XVI nel Messaggio per la giornata della pace 2009 – E’ ormai evidente che soltando adottando uno stile di vita sobrio , accompagnato dal serio impegno per un’equa distribuzione delle ricchezze, sarà possibile instaurare un ordine di sviluppo giusto e sostenibile.”
Anche se a molti non piace sentirselo dire, bisogna allora insistere sul fatto che l’attuale crisi di un’economia e di una finanza artificiali e drogate ci sta dando, suo malgrado, la possibilità di non persistere diabolicamente nell’errore, ma di perseguire un’autentica conversione a U, in direzione di un modo di vivere più sano, più giusto e più semplice, riscoprendo la bellezza delle cose naturali e dei rapporti diretti e solidali.
A tal proposito, segnalo che a Napoli è iniziato oggi – e proseguirà fino a domenica 24 – il VI convegno per la formazione e l’impegno sociale dell’O.F.S. (Ordine Francescano Secolare), dedicato significativamente al tema: “Francescanamente per il Bene Comune. Le responsabilità e il contributo della politica”.   
 

UNA QUARESIMA PER RISORGERE…

 
E’ difficile condividere con dei non credenti lo spirito della Quaresima, uscendo dai luoghi comuni e dalle banalità che avvolgono solitamente una delle manifestazioni più evidenti della religiosità popolare, e quindi di quel ritualismo che spesso costituisce il sostituto di un’autentica religiosità.
E’ difficile, talvolta, dialogare perfino con quelli che si dicono Cristiani, ma considerano il periodo quaresimale solo come uno dei periodi preparatori alle grandi festività dell’anno liturgico; una specie di parentesi oscura – con connotazioni vagamente medievali – che consentono di far risplendere ancor di più la gioia e la festa per la Resurrezione.
Eppure senza Quaresima la stessa Pasqua non avrebbe senso. Senza passione e morte non ci sarebbe risurrezione. Se ne stanno tragicamente accorgendo, sulla propria pelle, i nostri fratelli e sorelle di quell’Abruzzo sconvolto dal sisma, che in pochi attimi ha azzerato vite, famiglie, case, attività, beni e patrimoni, aprendo davanti a loro un vero e proprio baratro di annientamento e, in certi casi, di disperazione e di rabbia.
Ma attenzione: questo non significa che il male del mondo (violenze, stragi, disoccupazione, fame, guerre…) sia in qualche modo da considerarsi un bene, in quanto consentirebbe, per contrasto, di apprezzare la bontà, il lavoro, il benessere o la pace. Credo che si debba stare attenti a non banalizzare anche il male, riducendolo ad uno dei termini di un eterno conflitto, come ad esempio ipotizzato da alcune religioni come quella di Zoroastro o da deformazioni dello stesso cristianesimo.
Già nell’Antico Testamento, del resto, sventure lutti ed altre disgrazie e malattie venivano scaricate sul capo del pio e felice Giobbe proprio per metterne duramente alla prova la fede, in una sorta di “scommessa” tra il Padreterno e il Diavolo. Ma non mi pare che questo voglia comunicarci che “i mali” siano il contrario del bene e della beatitudine, ma piuttosto che quella che ci viene proposta non è una fede facile ed appagante, bensì una scelta che comporta difficoltà e sofferenze.
Come scrivevo oltre un anno fa su questo blog, a proposito delle “beatitudini”: “ la "buona notizia" di Gesù Cristo è resa efficacemente in questa apparentemente paradossale chiave di lettura, l’unica che ci può indurre ad aspettarci serenamente ciò che nessuno mai si augurerebbe e che, è bene chiarirlo, non diventa automaticamente buono solo perché può fungere da strumento della nostra santificazione. Il discorso di Cristo non è affatto l’esaltazione della sofferenza patita né può in alcun modo giustificare coloro che affliggono il loro prossimo e  lo lasciano  nella fame e nella sete, oppure che fanno le guerre e perseguitano chi gli è d’intralcio. […] Il programma alternativo di questo regno è tanto semplice quanto assurdo per la nostra mentalità: dobbiamo diventare: "poveri in spirito", cioè umili, ma anche "miti", "misericordiosi", "puri di cuore", "operatori di pace". Attenzione: nessuno dice che dobbiamo andarci a cercare masochisticamente afflizioni, sofferenze, disprezzo, diffamazioni ed insulti, ma il guaio è che sappiamo bene che chi decide di imboccare la "porta stretta" di Gesù, seguendolo su questa difficile strada, ha ottime probabilità di tirarsi addosso, una dopo l’altra, queste spiacevoli conseguenze…”.
di erferraro Inviato su Senza categoria Contrassegnato da tag

UNA QUARESIMA…(segue)

Di fronte alle sciagure “naturali”, come i disastri causati dal terremoto, ma soprattutto di fronte ai disastri direttamente provocati dall’uomo, come quello ecologico o la spaventosa crisi finanziaria che sta affliggendo milioni di persone, è legittimo chiedersi allora se essi possano essere letti anche come “segni dei tempi”. Non come tragedie da esorcizzare ma, al contrario, come drammatici appelli ad un cambiamento troppo rinviato e mai realizzato.
Un interessante dossier pubblicato sul numero di aprile del mensile cattolico Il Messaggero di sant’Antonio, dal titolo “La Chiesa italiana di fronte alla crisi” , si sofferma proprio sulle disastrose conseguenze economiche e sociali che la crisi della finanza mondiale ha avuto ed avrà ancora sull’esistenza quotidiana di tantissime persone. Questo periodo fosco e doloroso, d’altra parte, viene considerato da quasi tutte le organizzazioni del laicato cattolico impegnato nel sociale come “al contempo una difficoltà ed un’opportunità”, in quanto ci offre l’occasione per riflettere sull’assurdo modello di sviluppo in cui siamo imprigionati e per rilanciare un’alternativa etica di sviluppo più sobrio, giusto e solidale.
Cambiare stile di vita e rimettere al centro l’etica evangelica non è, ovviamente, qualcosa che scaturisca automaticamente dalla crisi attuale. E’ però un’occasione da non perdere per riconsiderare le nostre priorità e per ripensare al bene comune ed ai valori veri, che non sono quelli quotabili in borsa…
Ebbene, questa Quaresima c’interpella nuovamente, chiedendoci quella “metanoia” indispensabile ad un cambiamento da cui possiamo aspettarci solo la conferma di aver aderito ad una religione che non ci assicura la felicità a buon mercato, ma piuttosto la beatitudine di chi sa che seguire Gesù significa amare, servire, dare senza attenderci nulla in cambio.
Chi vuole conservare la propria vita la perderà – egli ci ha ammonito –  e noi sappiamo bene che se cercassimo di conservare a tutti i costi il nostro stile di vita potremmo solo accelerare la catastrofe ecologica ed alimentare i conflitti bellici, mettendo così in discussione anche la nostra stessa sopravvivenza.
Per non continuare a svendere la nostra salvezza in cambio di 30 danari, abbiamo solo un’alternativa: cambiare radicalmente strada, per far uscire la Parola di Dio da quel sepolcro di convenzioni, accomodamenti e compromessi entro cui l’abbiamo troppo a lungo seppellita, imbalsamando la fede al punto da farne, come i farisei, una ritualità vuota quanto ipocrita.
Lasciamo ad altri la pasqua dei coniglietti e delle uova di cioccolato, che ormai non ci riservano più neppure una vera sorpresa. Per chi crede, Pasqua era e resta un “passaggio”, un cambiamento profondo che non possiamo più rinviare e che ci richiede fede autentica, speranza solida, ma soprattutto amore vero, capace di produrre frutti di giustizia di pace e di solidarietà.   
di erferraro Inviato su Senza categoria Contrassegnato da tag

“VIENI AVANTI, CHRETIEN !”

                                                di Ermete Ferraro

Ricordate la vecchia ma celebre battuta che introduceva gli sketch dei fratelli De Rege?  Quella frase, rivolta dalla "spalla" al protagonista comico ("Vieni avanti, cretino!")  mi è curiosamente tornata in mente stamattina, mentre riflettevo sull’evangelo di questa domenica, dedicato al brano di Matteo sulle "Beatitudini".

Il fatto è – ma pochi lo sanno –  che il termine spregiativo "cretino"  è nato dalla deformazione del francese "chrétien", come offesa ai Cristiani che avevano preso sul serio quelle affermazioni programmatiche di Gesù  e cercavano di testimoniare concretamente e tangibilmente la propria fede , applicando alla vita quotidiana la "pazzia" dell’evangelo. D’altra parte, parliamoci chiaro, senza una vera "metànoia", cioè un cambiamento radicale del nostro abituale modo di pensare e di agire, ci vuole effettivamente un bel coraggio a proclamare "beati" i poveri, gli afflitti, gli affamati e i perseguitati! Come diavolo ci verrebbe in testa, altrimenti, di esaltare l’umiltà, la mitezza, la misericordia, la purezza interiore, la sete di giustizia e di pace in un mondo in cui chi non è arrogante, prepotente, sospettoso e violento sembra destinato a soccombere miseramente? Insomma, bisogna essere proprio dei "chrétiens" per chiamare beate le vittime di un contesto ingiusto e oppressivo, invitandole perfino a "rallegrarsi ed esultare" !

Mi è poi venuto in mente che l’espressione italiana magari !(resa ancora più fedelmente dal napoletano " ‘mmacàro" ) non è altro che la ripresa letterale dell’esclamazione greca che l’evangelista Matteo volle ripetere ben nove volte per proclamare le "beatitudini" secondo Gesù di Nazareth, la nuova tavola dell’unica legge che conta, quella dell’amore.  Il passo evangelico di questa domenica, infatti, ci ripresenta il discorso-chiave della sua predicazione, ritmato nella lingua greca da quel martellante "makarioi"  che si pronuncia proprio: makàrii…. Probabilmente il termine ebraico-aramaico usato originariamente da Matteo era מאשר  (meushàr), il cui suono risulta abbastanza simile a quello dell’aggettivo greco (M-SH-R/ M-K-R) e che significa: "felice", "approvato". La traduzione italiana, figlia di quella latina ma un po’ meno fedele, è stata "beati", la cui etimologia si può forse far risalire alla radice di "bene"/"buono", nel senso di "colmi di beni.

E di quali beni, poi, sarebbe poi colmato il Chrétien? Esattamente di tutte quello che noi chiameremmo normalmente "guai", "sciagure", "sventure" e via elencando; parole indicanti qualcosa che nessuno mai si augurerebbe: povertà, afflizione, bisogno, persecuzione… Siamo onesti! Chi di noi si rivolgerebbe ad un’altra persona esclamando: "Magari tu fossi povero, afflitto, affamato e perseguitato!" senza attendersi in risposta qualche espressione assai poco evangelica? Eppure è proprio questa logica paradossale, questa "follia" evangelica, questa incredibile "stoltezza" che dovrebbe contraddistinguere i veri cristiani.     Lo  ribadiva chiaramente san Paolo nella seconda lettura di questa domenica, tratta dalla prima lettera ai Corinzi: "Dio ha scelto ciò che nel mondo è stoltezza per confondere i sapienti; Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignorabile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio." (I Cor 1,27ss)

La "buona notizia" di Gesù Cristo è resa efficacemente in questa apparentemente paradossale chiave di lettura, l’unica che ci può indurre ad aspettarci serenamente ciò che nessuno mai si augurerebbe e che, è bene chiarirlo, non diventa automaticamente buono solo perché può fungere da strumento della nostra santificazione. Il discorso di Cristo non è affatto l’esaltazione della sofferenza patita né può in alcun modo giustificare coloro che affliggono il loro prossimo e  lo lasciano  nella fame e nella sete, oppure che fanno le guerre e perseguitano chi gli è d’intralcio. Anche se la versione di Matteo sembrerebbe rinviarci ad una giustizia futura e ad un riequilibrio trascendente, la verità è che il regno di Dio lo dobbiamo realizzare ,già su questa terra, noi figli di quell’Adam che dalla terra (adamà) prese il suo nome.

Il programma alternativo di questo regno è tanto semplice quanto assurdo per la nostra mentalità: dobbiamo diventare: "poveri in spirito", cioè umili, ma anche "miti", "misericordiosi", "puri di cuore", "operatori di pace". Attenzione: nessuno dice che dobbiamo andarci a cercare masochisticamente afflizioni, sofferenze, disprezzo, diffamazioni ed insulti, ma il guaio è che sappiamo bene che chi decide di imboccare la "porta stretta" di Gesù, seguendolo su questa difficile strada, ha ottime probabilità di tirarsi addosso, una dopo l’altra, queste spiacevoli conseguenze… 

E allora facciamoci reciprocamente coraggio, perchè sappiamo bene, da duemila anni, che "il mondo" è pronto a ridicolizzarci e a trattarci da cretini se soltanto proviamo a mettere in pratica ciò in cui crediamo e se non rinunciamo a testimoniarlo con la nostra vita di tutti i giorni. E magari  ci riuscissimo davvero !…