
Oggi, in occasione della ricorrenza della festività di “tutti i Santi” – messo finalmente da parte lo stupido chiacchiericcio su “Halloween” e i suoi rituali pagano-mediatici – mi sembra il caso di riflettere un po’ più profondamente sul concetto stesso di “santità”. In quel mio precedente intervento partivo dal termine greco “makàrios” – tradotto in italiano con “beato” – e sulla sua somiglianza con l’ebraico “meushàr” (che significava: approvato, felice). In particolare mi soffermavo sull’espressione augurale “magàri” che, rapportata al testo delle “beatitudini”, sembrerebbe in stridente contrasto con i guai che quasi sempre derivano, allora come oggi, dal seguire Gesù Cristo sulla difficile via della mitezza, dell’umiltà, della misericordia, della purezza di cuore e dell’operare per la pace. Del resto, non si può negare che essere poveri, afflitti, affamati e perseguitati non coincide affatto con la nostra idea di “felicità”, per cui lo stesso san Paolo affermò che: "Dio ha scelto ciò che nel mondo è stoltezza per confondere i sapienti; Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignorabile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono…" (I Cor 1,27ss).
Ecco perché, se ci soffermiamo sul concetto di “santità” e di “sacro”, la necessità di una “metànoia” (cioè di una “conversione”, di una svolta radicale rispetto a ciò che abitualmente di crede e si fa per raggiungere la felicità) risulta evidente. Entrambi i termini italiani ci riportano alla comune radice latina “sac”/”sanc” , derivante a sua volta da quella indoeuropea “sak”-“sag”, che significava sia “attaccarsi, avvincersi, aderire a qcn”, sia “seguire, ossequiare qcn” . Nella fattispecie, quel Qcn. cui aderire, Colui che il “santo” deve seguire è proprio Dio, le cui vie sono però profondamente diverse da quelle che siamo abituati a percorrere.
La radice della parola greca equivalente “hàghios”, del resto, risale al verbo “hàzomai” (rispettare, venerare) ma, come nel caso di “makàrios”, la trascrizione italiana di grafemi stranieri si è prestata a qualche equivoco. Il fatto che sovente si scrivesse “àghios” piuttosto che “hàghios”, ad esempio, ha portato qualcuno a dare a questa parola il senso di negativo di “non terreno” (alfa privativa + gàios), come se i santi fossero da considerarsi persone dell’altro mondo, praticamente degli extraterrestri… Un equivoco molto simile è stato generato dalla difficoltà di rendere graficamente in italiano la differenza fonetica in greco tra “κ” e “χ”, per cui l’aggettivo “makàrios” (beato) è stato spesso fatto risalire etimologicamente a “machaira” (lama, coltello per tagliare), evocando l’idea di qualcuno “tagliato fuori” dalla vita ordinaria. La stessa parola latina “sacer” è stata talvolta riportata alla radice indoeuropea “sek”, proprio nel senso di tagliare, separare.
A questo genere d’interpretazione contribuisce anche il termine ebraico vetero-testamentario corrispondente (“qadosh”), che implica proprio il concetto di “separazione”, in quanto il popolo d’Israele sarebbe stato “messo da parte” da Dio per “consacrarlo”.
Insomma, l’’immagine che ne esce della santità è quella di qualcosa che riguarda persone prescelte e chiamate a ciò, o comunque eccezionali, distaccate dal “mondo” perché consacrate a Dio ma, proprio per questo, lontanissime da noi e dalla nostra vita ordinaria e quotidiana. Bisogna ammettere, poi, che la Chiesa – o meglio, le Chiese – non hanno fatto molto per contrastare questa concezione. Non importa se ciò sia da ricondursi alla visione “ascetica” tipica dei cristiani d’Oriente, o alla tradizionale venerazione cattolica nei confronti dei Santi, troppo spesso trasformata in una sorta di “culto” parallelo, oppure ancora alla concezione pessimistica delle chiese riformate, per cui solo la grazia divina può santificare le nostre esistenze da peccatori.
Quello che è certo, però, è che da 40 anni, cioè dalla fine del Concilio Vaticano II, si parla ormai di una “santità” cui tutti i cristiani sono chiamati. E’ proprio nella costituzione conciliare “Lumen Gentium”, infatti, che troviamo affermato con molta chiarezza che: “…tutti i seguaci di Cristo, anche i laici, sono chiamati alla perfezione della carità […] E impegno per la perfezione cristiana significa cammino perseverante verso la santità . […] Il Signore Gesù, maestro e modello divino di ogni perfezione, a tutti e ai singoli suoi discepoli di qualsiasi condizione ha predicato la santità della vita, di cui egli stesso è autore e perfezionatore: "Siate dunque perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste" (Mt 5,48) […] Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità ». (LG 40).
Per citareil compianto Giovanni Paolo II, quindi: "La consegna primaria che il Vaticano II ha affidato a tutti i figli e tutte le figlie della Chiesa è la santità (…); la tensione alla santità è perciò il fulcro del rinnovamento delineato dal Concilio" (Giovanni Paolo II, Allocuzione, 29-III-1987).
Ma allora, se siamo chiamati tutti – proprio tutti/e – alla santità, non possiamo più far finta di non essere in grado di percorrere la difficile strada indicataci da Gesù con le Beatitudini. Essere umili, miti, puri, misericordiosi e pacifici, di conseguenza, non è una vaga indicazione riservata a pochi eletti, ma piuttosto una scelta che ci tocca direttamente, qui e ora.
Ma ecco che, parlando di santità “ordinaria” e/o “quotidiana”, alcuni si sono lasciati trasportare forse un po’ troppo nell’eccesso opposto. Se è perfettamente vero, infatti, che essere santi è qualcosa che ci riguarda personalmente e in modo non “straordinario”, credo però che talvolta si sia corso il rischio di una banalizzazione del termine, e quindi del concetto stesso di “santità”.
E’ certamente giusto ricordare ad ogni cristiano che la sua chiamata ad essere santo passa anche per la vita di tutti i giorni e che può esplicarsi non solo nella fede, ma anche nel lavoro, nell’impegno sociale o in quello culturale. E’ opportuno chiarire che anche una casalinga o un meccanico possono “santificare” ciò che fanno ogni giorno, anche se non riveste alcun carattere di straordinarietà. Bisogna però stare attenti a non scivolare in una visione troppo semplificata di questo cammino verso quella “perfezione” cui siamo comunque chiamati, poiché quella che il Papa chiamava “tensione alla santità” è un presupposto, una potente molla interiore che ci spinge in quella direzione, ma che troppo spesso è sovrastata dal richiamo ad una realizzazione assai più terrena o, per usare un’espressione idiomatica, molto “terra terra”.
Il vero cristiano, in definitiva, non è chi aspira asceticamente ad una santità intesa come perfezione irrealizzabile e ultraterrena, ma neppure chi la confonde la tranquilla beatitudine quotidiana di chi non è messo alla prova dalle difficoltà e dal dolore. La santità, insomma, non può e non deve essere riservata a pochi supereroi, ma non può neanche essere presentata come se si trattasse di una strada liscia, da percorrere in “santa pace”. E questo perché lo stesso Gesù ci ha ammonito ad entrare per la “porta stretta” ed a passare per la “via angusta” (vedi Mt 7, 13-14 e Lc 13,24) e, nello stesso discorso sulle Beatitudini, non ci ha nascosto che il prezzo della nostra scelta potrebbe essere una situazione di povertà, di afflizione, e di persecuzione.
Essere santi, allora, deve essere qualcosa cui tutti dobbiamo tendere, ma che implica delle scelte niente affatto facili e scontate e richiede un modo di ragionare che a tanti suona ancora pura follia o, per citare ancora san Paolo, “stoltezza”. Quello che è certo è che dobbiamo smettere di cercare i Santi solo sugli altari, magari per propiziarceli paganamente con litanie e candele, e che dovremo provare a diventare anche noi…santi subito!