UNA PASTORALE DELL’IMMONDIZIA

A questo provocatorio sottotitolo di un libro di Davide Pelanda (La Chiesa e i rifiuti – Tra teologia e pastorale dell’immondizia, Torino, Effatà ed., 2009) mi è venuto spontaneo tornare col pensiero, in occasione dell’incontro culturale che si è svolto il 2 dicembre nella Parrocchia napoletana di Santa Maria della Libera. Il tema in discussione (“Ridurre e valorizzare i rifiuti – tra nuovi stili di vita e nuove tecnologie”) e la sede stessa in cui si svolgeva, infatti, si prestavano ad una seria riflessione sul ruolo della Chiesa – e delle chiese locali – nell’educazione dei singoli e delle comunità ad un modello di sviluppo e di consumi più conforme allo spirito del Vangelo. Il panorama – devastato e devastante – della situazione del trattamento dei rifiuti in Campania è stato tratteggiato dall’amico Vittorio Moccia, referente del Coordinamento Regionale Rifiuti (CO.RE.RI.). La prospettiva di interventi tecnologicamente innovativi, ma al tempo stesso alternativi ed a basso impatto ambientale, è stata brillantemente illustrata dal prof. Antonio Malorni, già capo-ricercatore del CNR e direttore dell’istituto di scienze dell’alimentazione della Seconda Università di Napoli, a Caserta. A me, invece, è toccato introdurre sinteticamente una tematica così spinosa, contro la quale tuttora rischiano d’infrangersi le speranze di chi si augurava che si stesse finalmente voltando pagina, avviandosi ad una gestione diversa di questo problema. Una questione che ha un peso fondamentale e richiede scelte non equivoche, ma che ha visto sommarsi, nel corso di troppi anni, incompetenza, speculazione e veri e propri attentati all’ambiente ed alla salute dei cittadini. La mia parrocchia, grazie alla lungimiranza di don Sebastiano Pepe, non è nuova a tematiche che riflettano un impegno sociale ed ambientale. Già nella primavera scorsa, infatti, è stato svolto un percorso pastorale sugli stili di vita conformi al Vangelo, collegandosi in particolare all’attualità dei quesiti referendari sull’acqua e sul nucleare, che interpellavano la coscienza dei credenti sul binomio energia-consumi. In questa occasione, quindi, il discorso non poteva limitarsi ad una pur necessaria ricognizione sulle nuove tecnologie di trattamento e riciclaggio dei rifiuti solidi urbani. Bisognava andare al cuore dei problema di uno sviluppo equo, solidale ed ecologicamente compatibile, proseguendo quella “pastorale dei nuovi stili di vita” che sta finalmente cominciando a diffondersi nella Chiesa italiana. Non sono le prese di posizione dottrinali e teologiche che mancano, dal momento che l’ultimo decennio ha visto un moltiplicarsi di documenti dell’episcopato (cattolico e non) e di autorevoli ed illuminanti interventi dello stesso Magistero pontificio. Quello che serve davvero, a mio avviso, non sono i pur fondamentali trattati teologici, lettere pastorali dei Vescovi e messaggi dei Papi. Occorre urgentemente un’azione pastorale in ambito socio-ambientale, capace di  raggiungere tutta la comunità ecclesiale, inducendola a fare scelte coerenti con la “sobrietà” evangelica, tanto predicata quanto poco praticata in concreto. C’è bisogno, come preannunciava il testo citato, di una vera “pastorale dell’immondizia”, che sappia aiutarci a comprendere quanto siano “immondi” e contro il bene comune gli interessi di chi ci spinge a diventare sempre meno cittadini e sempre più consumatori. Una pastorale che ci aiuti a capire che, per un cristiano, le vere cose da ‘scartare’ non sono quelle che gettiamo nel sacchetto della spazzatura, ma i finti ‘valori’ da cui ormai non riusciamo più a distaccarci, a costo di diventarne dipendenti. Serve, insomma, una pastorale che ci faccia capire quanto sia incosciente e dannoso il comportamento di chi non comprende quanto valgono le materie che noi riduciamo a rifiuti, cercando poi di liberarci a tutti i costi – anche della nostra stessa salute… – di quelle che sono invece risorse importanti e per di più esauribili, bruciate in poco tempo e poi buttate via dal nostro consumismo sfrenato C’è bisogno di pastori che ci indirizzino verso uno stile di vita diametralmente opposto a quello attuale, facendoci capire che lo spreco e la dissipazione caratteristici della nostra società comportano anche un pesante prezzo in termini di giustizia violata, di pace sempre più minacciata e di danni irreversibili a quel Creato di cui siamo stati resi custodi, non padroni. Nel mio intervento introduttivo ho citato l’importante esempio delle profetiche iniziative pastorali sui “nuovi stili di vita” intraprese dal Patriarcato di Venezia e dalla Diocesi di Padova, ricordando anche il progetto della Chiesa di Napoli per il monitoraggio della ‘impronta ecologica’ nella vita quotidiana di 100 famiglie della nostra città, da troppo tempo nell’occhio del ciclone di una pseudo-emergenza rifiuti.  Ho fatto poi cenno ad alcuni importanti punti di riferimento ecclesiali, come il progetto culturale “Custodi del Creato” (CEI 2009) e ad altri preziosi riferimenti , come la Carta Ecumenica di Strasburgo (KEK 2001) e gli “eco-principi” dei teologi australiani del gruppo “la Bibbia della Terra”(2003). Quello che conta, però, è che il moltiplicarsi di queste iniziative di base aiuti ogni singola comunità parrocchiale a muovere passi concreti, con coraggio e spirito profetico, verso un modello di società autenticamente altro, che restituisca ai credenti in Cristo il loro ruolo di sale della terra e di luce del mondo. © 2011 Ermete Ferraro

 
La prima domenica di Quaresima dell’anno C ci ripresenta un passo del Vangelo (Lc 4,1-13) che più o meno tutti conoscono, ma del quale – proprio per questo motivo – rischiano di sfuggire alcuni significati meno evidenti. Si tratta infatti delle “tentazioni” cui viene sottoposto Gesù nel deserto (il verbo greca “peirào” ci mette di fronte a varie accezioni possibili, tra cui: “mettere alla prova”, “tentare”. “saggiare”, “sperimentare”…) e che, sia nel testo di Luca sia in quello parallelo di Matteo (Mt 4,1-11), seguono un ordine ben preciso.
Delle tre, la prima “prova” cui Gesù – dopo quaranta giorni di isolamento e di digiuno nello squallore dell’“eremòs”-  è sottoposto dal Diàbolos (dal greco “diabàllo”, e quindi: il calunniatore, il maldicente; colui che crea separazione e discordia…) è raccontata dai due evangelisti con parole molto simili. Le sfumature, in effetti, sono minime: nel testo matteano il “testatore” (“ò peiràzon”) sfida il Maestro a dimostrare di essere figlio di Dio (cosa che egli non mette affatto in dubbio, come dimostra l’uso del periodo ipotetico della realtà) dicendo alle pietre che aveva davanti di diventare pani, mentre Luca esprime lo stesso concetto al singolare “Di’ a questa pietra di diventare pane”.  La potenza della parola del “uiòs toù theoù” – s’insinua – non avrà certo difficoltà a trasformare dei sassi in cibo…
Ebbene, quella di mutare magicamente o “lithoi” in“àrtoi” (nel titolo l’ho chiamata “lithoartìa” ) mi sembra una tentazione ricorrente e mai esaurita del Diàbolos. Abitualmente, a livello di catechesi o di omelia domenicale, questo fenomeno viene ascritto alla categoria più generale che contrappone il cibo materiale – e quindi la soddisfazione della nostra corporeità – al nutrimento spirituale, che sostiene la nostra “psyché”-anima, consentendole di liberarsi dal peso condizionante del “soma”. Effettivamente, la risposta di Gesù (il verbo greco “apocrìno” suggerisce una contrapposizione netta, in questo brusco scambio verbale col suo interlocutore…) sembrerebbe avallare questa interpretazione: “Sta scritto che non di solo pane vivrà l’uomo”, citazione tratta dal libro del Deuteronomio cui Matteo, da buon giudeo, aggiunge la seconda parte omessa da Luca:     “ …ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (nel testo ebraico: “di tutto ciò che esce dalla bocca di YHWH” (Deut 8,3). Eppure la citazione va contestualizzata. Il Signore ammonisce il popolo che si è scelto ad avere fiducia nel Padre che lo mette alla prova solo per “correggerlo” e “fargli capire” che il cibo è sì necessario (tanto è vero che lo ha sfamato con la manna), ma non basta all’uomo per vivere (“hày”), se egli non ascolta più il suo Dio che gli parla.
La vita, insomma, non è garantita dal nutrimento materiale, ma dall’ascolto fiducioso delle parole del Padre, cui – come ci ricorda lo stesso Matteo – lo stesso Gesù ci ha invitato a rivolgerci per chiedere, ogni giorno, il “pane necessario” (“tòn àrton emôn tòn epioùsion dòs ymîn sèmeron”).
Eppure mi sembra di scorgere qualcosa di più, che è suggerito dalla triplice prova cui Gesù è sottoposto nel deserto. Nella richiesta del Diàbolos, che lo sfida a trasformare le pietre in pane mi par di leggere anche una provocazione ironica, sia perché pretende di mettere alla prova il Signore stesso, sia perché è paradossalmente rivolta ad un betlemmìta, ossia un abitante d’un paese che si chiama proprio “bèit-lehèm”, cioè “casa del pane”…
La seconda e terza prova riguardano la tentazione di dominare gli uomini e di strumentalizzare perfino Dio. Ecco, allora, che la prima prova mi suggerisce una lettura che non si esaurisce nella scontata contrapposizione spirito-materia o corpo-anima, ma colga una terza dimensione dell’eterna volontà di dominio che l’uomo porta dentro di sé, ma preferisce oggettivare in una tentazione esterna, “diabolica”. L’ordine delle “prove” nei due vangeli è lo stesso e denota una sorta di “klimax”: (i) sottomettere la natura: (ii) sottomettere gli altri uomini; (iii) sottomettere perfino Dio alla propria volontà. Ritorniamo col pensiero al terribile verbo ebraico “rada’”, utilizzato in Gen 1,28 per sancire quel “dominio” di Adam su Adama’ (la terra), che l’umanità ha trasformato da affidamento e custodia in pretesa di controllo e di sottomissione.
Nell’ebraico moderno, a quell’accezione violenta di dominio (“radad” vuol dire “schiacciare”) prevale quella di “estrarre”, tanto è vero che – curiosamente – “sfornare il pane” si dice “rada’ et ha-lehèm”. Il guaio è che il vecchio e il nuovo Adamo non si accontentano di usare i frutti della provvidenza divina, simboleggiati nel giardino paradisiaco piantato in Eden (Gen 2,8). La tentazione del Diàbolos era e resta sempre la stessa: perché mai limitarsi ad usare i beni della terra quando si può diventarne padroni, trasformandosi in dei? L’umanità ha costantemente ceduto a quest’insinuante ipotesi, arrogandosi in diritto di mettersi sotto i piedi la terra, visto che non le bastava calpestarla fisicamente. Trasformare le pietre in pani è – e rimane ancora – la peggiore tentazione, assecondando la quale Adam è progressivamente giunto a minacciare la sopravvivenza stessa di Adama’, la “sora madre terra” cui Francesco d’Assisi si rivolgeva, invece, con spirito grato e filiale.
Nel vangelo della scorsa domenica Luca ci aveva presentato le sue tre beatitudini come la strada che Cristo ci indica per sfuggire ai “guai” che ci procurano la folle corsa alla ricchezza, alla sovra-alimentazione ed alla ricerca della fama a tutti i costi. Nel brano di questa prima domenica di quaresima ci troviamo di fronte alle tre tentazioni che allontanano l’uomo da Dio padre: manipolare la natura, i propri simili e lo stesso Signore per affermare se stessi, anche se tocca “prostrarsi” ai piedi del Diàbolos, distogliendo lo sguardo da Chi ci ha creato.
Mai come in questo XXI secolo la tentazione di manipolare la natura è diventata una realtà tangibile, con la dichiarata intenzione di sfamare l’umanità affamata ma, come nel caso delle manipolazioni genetiche dei prodotti della terra, per dominarla sempre più e sempre meglio. Lo sfruttamento dell’ambiente, infatti, è solo il risvolto della medaglia dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ed entrambi nascono dalla pretesa di rivoltarsi contro Dio, snaturando ciò che ha creato e cercando di forzare le leggi naturali – e quindi divine – in nome dell’affermazione orgogliosa della superiorità schiacciante dell’uomo sulle altre creature.
Ma le pietre non possono e non devono diventare pane. La verità è che è proprio l’insaziabile egoismo e l’avidità smodata di una ristretta parte dell’umanità che impedisce alla maggioranza degli abitanti della Terra di sfamarsi col pane ‘quotidiano’. La verità è che la follia di una parte dell’umanità sta riuscendo nel prodigio opposto: quello di trasformare terre coltivabili in lande desolate ed aride, alimentando spaventosamente il fenomeno della desertificazione di territori sempre più vasti, anche a causa del c.d. “riscaldamento globale” del pianeta. (v. sito dell’UNCCD)
La cosa più grave è che troppo spesso tutto questo viene fatto non solo in nome di un assurdo “progresso”, ma perfino in nome di Dio, mettendo alla prova o pretendendo di mettere nella sua “bocca” quello che ci fa comodo e rifiutandoci di ascoltare (“shma’) le sue parole di vita eterna.
La “lithoartìa” è una malattia molto grave, di cui l’uomo non sembra volersi curare, ma che ha radici molto antiche, come è attestato dal mito di re Mida, in una fiaba araba ed in tante altre storie leggendarie e alchimistiche, che favoleggiano di prodigiose trasformazione delle pietre in oro più che in pane. L’unico rimedio è ricordarci del monito del Maestro ed imparare a seguirlo nel “deserto”, liberandoci in quella solitudine delle mille voci estranee che cercano di coprire la voce del Padre, che è poi quella della nostra coscienza.
 
© 2010 Ermete Ferraro
      

IV GIORNATA PER LA SALVAGUARDIA DEL CREATO

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      “… è conseguenza del peccato se la rete delle relazioni con il creato appare lacerata e se gli effetti sul cambiamento climatico sono innegabili, se proprio laria – così necessaria per la vita – è inquinata da varie emissioni, in particolare da quelle dei cosiddetti gas serra”. Se, però, prendiamo coscienza del peccato, che nasce da un rapporto sbagliato con il creato, siamo chiamati alla conversione ecologica, secondo lespressione di Giovanni Paolo II. […] Una tempestiva riduzione delle emissioni di gas serra      è, dunque, una precauzione necessaria a tutela delle generazioni future, ma anche di quei poveri della terra, che già ora patiscono gli effetti dei mutamenti climatici. Occorre, dunque, un profondo rinnovamento del nostro modo di vivere e delleconomia, cercando di risparmiare energia con una maggiore sobrietà nei consumi […] uno stile di vita più essenziale, come espressione di una disciplina fatta anche di rinunce, una disciplina del riconoscimento degli altri, ai quali il creato appartiene tanto quanto a noi che più facilmente possiamo disporne; una disciplina della responsabilità nei riguardi del futuro degli altri e del nostro stesso futuro”.
Le parole citate – sulle quali esprimerò qualche osservazione – le ha pronunciate Benedetto XVI che, incontrando ad agosto il clero di Bressanone, ha rinnovato il suo appello “ecologico” in occasione della IV Giornata per la Salvaguardia del Creato (1° settembre ’09).
§         E’ molto importante che il Papa insista sulle conseguenze ecologiche e sociali derivanti dalla lacerazione di quelle “reti di relazioni con il creato” alla cui origine c’è il “peccato” , che a sua volta è frutto di un “rapporto sbagliato con il creato”.L’attuale “crisi ecologica”, in altre parole, non è una disgrazia incidentale e fortuita che purtroppo ci è capitata, ma il risultato di una visione predatoria dell’uomo sulla natura e di un rapporto di sfruttamento selvaggio delle risorse del Pianeta. L’uso del termine “relazione”, d’altra parte, mi sembra escludere una visione grettamente ed utilitaristicamente materialistica della realtà naturale –intesa come una “cosa” di cui appropriarci – ma lascia intravedere un vero e proprio rapporto con una pluralità e complessità di elementi biologici, governata dai principi dell’ecologia (interdipendenza, biodiversità, simbiosi…).
§         Ancora più importante mi sembra l’appello del Pontefice affinché la presa di coscienza di questo peccato non resti qualcosa di teorico, astratto o di relativo alla sfera della morale personale, ma conduca piuttosto ad una vera, tangibile, collettiva ed immediata “conversione ecologica”.  Il teologo mons. Ravasi ha chiarito in un suo acuto commento che i tre vocaboli che in lingua ebraica esprimono il peccato (hatta’ – awôn – pesha’)  rinviano ad una sfumatura di significati. Il “peccato” è un errore, un “aberrazione” che ci porta lontani da Dio e dal prossimo; è una deviazione tortuosa”, ma è anche una vera e propria “ribellione” della creatura nei confronti dei suo Signore e Creatore. Ecco allora che occorre quella “conversione” che gli ebrei chiamavano “shub”, cioè una netta e chiara inversione di rotta, che consenta all’umanità di rimediare al proprio “errore” e che corregga quella “deviazione” che nasceva dalla pretesa di ribellarsi all’ordine cosmico e alla signoria dell’autore del creato.
§         La “tempestività” richiesta nella riduzione delle emissioni che avvelenano irreversibilmente l’aria – l’elemento cui la Giornata 2009 è dedicata in modo specifico – non è presentata esclusivamente come una “precauzione” necessaria per tutelare la salute nostra e delle generazioni future dai cambiamenti climatici, ma anche come una risposta dovuta a quei “poveri della terra”che ne soffrono già da ora gli effetti devastanti sulla propria pelle. La salvaguardia del creato, ancora una volta, è presentata come strettamente correlata al principio di giustizia sociale e come esempio concreto di quella solidarietà che è alla radice di una pace fra gli uomini e di questi con la natura. Tale conversione deve essere per forza “tempestiva”, perché esige scelte immediate e non più rinviabili, che investono in primo luogo i governi, con provvedimenti strutturali, ma anche le comunità e la responsabilità – qui e ora – di ogni singola persona.
§         Occorre infatti, afferma il Papa, un “profondo rinnovamento del nostro modo di vivere e dell’economia”,e quindi un cambiamento che parta dal basso, dagli stili di vita, e costringa la stessa economia a prendere atto di questa svolta radicale. Nel documento si parla di “essenzialità”, di “risparmio energetico” , di “sobrietà dei costumi” e di “disciplina della responsabilità”. Questo significa che il cambiamento auspicato non può essere né graduale né indolore, ma richiede la risposta a degli imperativi categorici, non una blanda e generica sensibilità ambientale. Ecco perché i Cristiani – e la stessa Chiesa – hanno il dovere di rinunciare a compromessi, scorciatorie e fittizie “compatibilità” e devono dimostrare nei fatti perché, come ammoniva già S. Giacomo apostolo, “…la fede, se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta “ (Gc. 2,18)
 

CARITAS IN VERITATE

 
“Coniugare la carità con la verità” è l’intento che si è proposto S.S. Benedetto XVI nella sua ultima enciclica, il cui titolo capovolge l’espressione paolina “veritas in caritate” (Ef 4,15) e, seguendo questa parola d’ordine, affronta da tutti i punti di vista quel concetto di “populorum progressio” che Paolo VI ebbe il merito di analizzare già nel 1967.
1.      La prima questione affrontata dal Papa è il rapporto inscindibile tra carità cristiana e giustizia, nella convinzione che: “Non solo la giustizia non è estranea alla carità, non solo non è una via alternativa o parallela alla carità: la giustizia è « inseparabile dalla carità » intrinseca ad essa.” (6). La ricerca del “bene comune”, infatti, comporta la giustizia perché: “La condivisione dei beni e delle risorse, da cui proviene l’autentico sviluppo, non è assicurata dal solo progresso tecnico e da mere relazioni di convenienza, ma dal potenziale d’amore che vince il male con il bene”  (ivi). Il sottosviluppo, quindi, dipende dalla “…mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli” visto che, argomenta il pontefice, “la società sempre più globalizzata ci rende vicini ma non ci rende fratelli” (19).A distruggere ricchezza e produrre nuova povertà, inoltre, contribuiscono certamente “l’esclusivo obiettivo del profitto (…) gli effetti deleteri di un’attività finanziaria…per lo più speculativa (…) la corruzione e l’illegalità” e qui Benedetto XVI non manca di additare un’altra causa paradossale d’impoverimento, ossia quegli “aiuti internazionali…spesso distolti dalle loro finalità, per irresponsabilità che si annidano sia nella catena dei soggetti donatori sia in quella dei fruitori” (19-31-22). La verità, prosegue il Papa, è che purtroppo lo Stato ha smesso di svolgere il suo ruolo di garanzia sociale, dovendo “far fronte alle limitazioni che alla sua sovranità frappone il nuovo contesto economico-commerciale e finanziario internazionale, contraddistinto anche da una crescente mobilità dei capitali finanziari e dei mezzi di produzione materiali ed immateriali”, e pertanto l’auspicio è un “meglio calibrato ruolo dei pubblici poteri” che accresca “una partecipazione più sentita alla res publica da parte dei cittadini” in modo da superare “situazioni di degrado umano oltre che di spreco sociale” (24).
 
2.      Il secondo aspetto toccato dall’enciclica è quello del rapporto tra sviluppo e cultura. I due rischi estremi, quello dell’”eclettismo culturale” derivante da un diffuso relativismo e quello dell’ “appiattimento culturale e dell’omologazione degli stili di vita (…) convergono nella separazione della cultura dalla natura umana (…) Quando questo avviene, l’umanità corre nuovi pericoli di asservimento e di manipolazione.” (26) Il rispetto per la vita – aggiunge il Papa – è particolarmente importante, perché “l’apertura alla vita è al centro di un vero sviluppo” (28). Allo stesso modo va garantito il rispetto della libertà religiosa, se non si vuole incorrere nel “danno che il « supersviluppo »  procura allo sviluppo autentico, quando è accompagnato dal «sottosviluppo morale »…” (29) . Premesso che “la dignità della persona e le esigenze di giustizia (…) richiedono una nuova e approfondita riflessione sul senso dell’economia e dei suoi fini” (32), Benedetto XVI ricorda che “la dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l’importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato” (35) ed ammonisce che “ogni decisione economica ha una conseguenza di carattere morale. (…) L’economia globalizzata sembra privilegiare la prima logica, quella dello scambio contrattuale, ma direttamente o indirettamente dimostra di aver bisogno anche delle altre due, la logica politica e la logica del dono senza contropartita.” Bisogna perciò evitare di leggere in modo deterministico la stessa globalizzazione, di cui vanno corrette “ le disfunzioni, anche gravi, che introducono nuove divisioni tra i popoli e dentro i popoli e fare in modo che la ridistribuzione della ricchezza non avvenga con una ridistribuzione della povertà o addirittura con una sua accentuazione (…) orientando “la globalizzazione dell’umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione” (42).
 
3.      L’articolata analisi del Pontefice passa quindi ad affrontare il delicato rapporto tra lo sviluppo dell’uomo e la salvaguardia dell’ambiente naturale. Questo è stato donato da Dio a tutti, e il suo uso rappresenta per noi una responsabilità verso i poveri, le generazioni future e l’umanità intera (…) La natura è a nostra disposizione non come « un mucchio di rifiuti sparsi a caso », bensì come un dono del Creatore che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l’uomo ne tragga gli orientamenti doverosi per custodirla e coltivarla” (Gn 2,15).”(48). Bisogna evitare, ribadisce Benedetto XVI sia il neo-panteismo paganeggiante di chi considera la natura più importante della stessa persona umana… (sia)la sua completa tecnicizzazione, perché l’ambiente naturale non è solo materia di cui disporre a nostro piacimento, ma opera mirabile del Creatore, recante in sé una “grammatica” che indica finalità e criteri per un utilizzo sapiente, non strumentale e arbitrario (…) L’uomo interpreta e modella l’ambiente naturale mediante la cultura, la quale a sua volta viene orientata mediante la libertà responsabile, attenta ai dettami della legge morale ”(48). Il Papa, dunque, condanna severamente l’accaparramento delle risorse energeticheed auspica, al contrario, un netto miglioramento dell’efficienza energetica e la promozione di energie alternative, stimolando una responsabilità globale che porti ad un governo responsabile della natura (…) con l’obiettivo di rafforzare quell’alleanza tra essere umano e ambiente che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino» In questo ambito, particolare importanza ha l’adozione di nuovi stili di vita(49-50). L’enciclica entra successivamente in un ambito fondamentale: il rapporto tra sviluppo e pace:Ogni lesione della solidarietà e dell’amicizia civica provoca danni ambientali, così come il degrado ambientale, a sua volta, provoca insoddisfazione nelle relazioni sociali. (…)Inoltre, quante risorse naturali sono devastate dalle guerre! La pace dei popoli e tra i popoli permetterebbe anche una maggiore salvaguardia della natura. L’accaparramento delle risorse, specialmente dell’acqua, può provocare gravi conflitti tra le popolazioni coinvolte. Un pacifico accordo sull’uso delle risorse può salvaguardare la natura e, contemporaneamente, il benessere delle società interessate…”. (51)
 
4.      Il documento passa poi a delineare un modello di società più equa e solidale che veda la ‘famiglia umana’ impegnata in un discernimento cui la fede cristiana può fornire le indispensabili basi etiche, evitando gli opposti atteggiamenti laicisti e fondamentalisti cui assistiamo si solito, in quanto: “…l’esclusione della religione dall’ambito pubblico come, per altro verso, il fondamentalismo religioso, impediscono l’incontro tra le persone e la loro collaborazione per il progresso dell’umanità…” (55-56). Questa “collaborazione feconda tra credenti e non credenti” è il primo punto fermo, cui segue la proposta di una visione complessiva in cui “…il principio di sussidiarietà va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa(58). Quanto poi alla “cooperazione allo sviluppo”, il Pontefice ammonisce i paesi c.d. “sviluppati” a non utilizzare gli “aiuti” per ribadire una loro “presunta superiorità culturale” e come uno strumento per “…mantenere un popolo in uno stato di dipendenza e perfino favorire situazioni di dominio locale e di sfruttamento all’interno del Paese aiutato” (58). D’altronde, aggiunge Benedetto XVI:  “Le società in crescita devono rimanere fedeli a quanto di veramente umano c’è nelle loro tradizioni, evitando di sovrapporvi automaticamente i meccanismi della civiltà tecnologica globalizzata…” (59). L’unica molla della cooperazione internazionale, quindi, deve essere soltanto la solidarietà sociale, discorso strettamente connesso con quello delle migrazioni, fenomeno molto complesso sul piano economico, sociale e culturale, ma che richiede comunque un approccio umanitario e solidaristico. Ecco perché il Papa sottolinea con forza che: “…tali lavoratori non possono essere considerati come una merce o una mera forza lavoro. Non devono, quindi, essere trattati come qualsiasi altro fattore di produzione. Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione…” (63). Una società più equa e solidale, prosegue l’enciclica, non può non tener conto del “nesso diretto tra povertà e disoccupazione” e perciò il Papa lancia un appello: “ per « una coalizione mondiale in favore del lavoro decente » e richiama le stesse organizzazioni sindacali “…alla loro necessaria azione di difesa e promozione del mondo del lavoro, soprattutto a favore dei lavoratori sfruttati e non rappresentati, la cui amara condizione risulta spesso ignorata dall’occhio distratto della società…” (64). Tra le caratteristiche di una società diversa, ma già in parte presenti ed operanti, il Papa ricorda alcune significative esperienze, quali quella della microfinanza (65) e le battaglie incentrate sulla responsabilità sociale del consumatore (66), strettamente collegata a quella sobrietà cui più volte la Chiesa ha richiamato i Cristiani. Un ulteriore pilastro di questa alternativa è, per Benedetto XVI, la necessaria ed irrimandabile “… riforma sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale”  dal momento che urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale (che) dia finalmente attuazione ad un ordine sociale conforme all’ordine morale e a quel raccordo tra sfera morale e sociale, tra politica e sfera economica e civile che è già prospettato nello Statuto delle Nazioni Unite.” (67)
 
5.      All’impropria e semplicistica identificazione dello sviluppo con il progresso tecnologico è dedicata l’ultima parte dell’enciclica “Caritas in veritate”.  La tecnica – spiega Benedetto XVI – non può essere fine a se stessa. ” Il processo di globalizzazione potrebbe sostituire le ideologie con la tecnica, divenuta essa stessa un potere ideologico, che esporrebbe l’umanità al rischio di trovarsi rinchiusa dentro un a priori dal quale non potrebbe uscire per incontrare l’essere e la verità. (…) Ma la libertà umana è propriamente se stessa, solo quando risponde al fascino della tecnica con decisioni che siano frutto di responsabilità morale…” (68-70). La stessa costruzione della pace – aggiunge il Papa – rischia pericolosamente di essere “…considerata come un prodotto tecnico, frutto soltanto di accordi tra governi o di iniziative volte ad assicurare efficienti aiuti economici”, con l’aggravante che questo processo diventa una forzatura tutt’altro che pacifica, nella misura in cui spesso trascura di “… sentire la voce e guardare alla situazione delle popolazioni interessate per interpretarne adeguatamente le attese…” (72). Oltre che dall’“assolutismo della tecnica”, un altro rischio deriva anche dalla “accresciuta pervasività dei mezzi di comunicazione sociale”, laddove non siano un autentico strumento di promozione umana e sociale, nonché da quel “riduzionismo neurologico”, che semplifica materialisticamente la complessità della natura umana, mortificandone la crescita spirituale (76) e bloccandone lo slancio verso un “umanesimo integrale”.
 
Da questo rapido, ma non superficiale, excursus dell’ultima enciclica della massima autorità spirituale del cristianesimo cattolico mi sembra che emerga una visione certamente non nuova, ma sicuramente coerente ed alternativa della prospettiva sociale per i credenti del XXI secolo. Che non si tratti di qualcosa di nuovo si evince dall’impostazione dello stesso Benedetto XVI, che ci tiene a ribadire il legame che lo lega alla tradizione sociale della Chiesa, dalla Rerum Novarum di Leone XIII del 1891 fino ad oggi, passando per la Pacem in terris di Giovanni XXIIII (1963), la Populorum Progressiodi Paolo VI (1967) e la Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II (1987).
Che si tratti di una silloge assolutamente originale e innovativa della dottrina sociale cattolica, peraltro, si ricava dal richiamo continuo all’attualità e particolarità dei problemi e dei fenomeni che costituiscono il terreno su cui la fede deve cimentarsi, coniugandosi con la ragione e non limitandosi a promuovere la “carità” senza il richiamo ad una “verità” rivelata e stabile.
Al di là di qualche residua compiacenza antropocentrica e di un’affermazione del progresso come crescita, che onestamente non mi sento di condividere (secondo la quale: “La vocazione al progresso spinge gli uomini a « fare, conoscere e avere di più, per essere di più »…”(18) ) ritengo che ci troviamo di fronte ad una proposta significativamente alternativa e, nei fatti, molto più innovativa di tante fumose ed ambigue analisi di una sinistra che ha perso le proprie coordinate e che sta scontando la propria incoerenza opportunistica, travestita da “Realpolitik”.
L’analisi dell’attuale momento storico e della società presente è svolta con lucidità e consapevolezza dei problemi: basti pensare a questioni come quella del bene comune”, contrapposto al profitto assurto a unica motivazione di un’economia sempre più speculativa e finanzia rizzata; al giudizio sulla globalizzazione come fonte di omologazione culturale e di crescita delle disuguaglianze socio-economiche, oppure all’importanza degli stili di vita per una società più sobria, giusta e rispettosa della natura.
Quello che mi sembra ancora più importante è la proposta in positivo – e nell’ottica cristiana – di un modello di sviluppo alternativo, il cui obiettivo sia quello di una società equa, solidale, pacifica ed autenticamente umana. Le coordinate di questa proposta, infatti, possono così essere sintetizzate: 
  1. Collaborazione tra credenti e non credenti vs laicismo e fondamentalismo;
  2. Ruolo dei pubblici poteri per ristabilire il “bene comune”la giustizia vs preponderanza del profitto economico-commerciale e finanziario;
  3. Sviluppo caratterizzato da relazionalità, comunione e condivisione vs “supersviluppo” che porta con sé un “sottosviluppo morale”;
  4. Rapporto corretto e responsabile tra sviluppo umano e salvaguardia dell’ambiente naturale, a partire da “nuovi stili di vita” vs tecnocrazia, sfruttamento ambientale ed accaparramento delle risorse vitali ed energetiche;
  5. Solidarietà sociale, cooperazione autentica, lavoro “decente” e rispetto dei diritti dei migranti vs lavoro sfruttato e/o precario e “mercificazione” e mancata tutela dei migranti;
  6. Umanesimo integrale vs assolutismo della tecnica, riduzionismo “neurologico” e mortificazione della dimensione spirituale.
Non si tratta del “manifesto” di una nuova rivoluzione, ma solo perché la vera rivoluzione è già stata proclamata 2009 anni fa da quel Gesù di Nazareth che ci ha portato la “buona notizia” di un Dio che si fa uomo per farci diventare come Lui. Concluderi con un’ultima citazione dell’enciclica: “La maggiore forza a servizio dello sviluppo è quindi un umanesimo cristiano, che ravvivi la carità e si faccia guidare dalla verità, accogliendo l’una e l’altra come dono permanente di Dio. La disponibilità verso Dio apre alla disponibilità verso i fratelli e verso una vita intesa come compito solidale e gioioso.(…) Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio…”
 
 
 
 
 
 

ELEGANTEMENTE SEMPLICI

sfrancescoFOL2Sull’ultimo numero di Resurgence” (la bella rivista ambientalista inglese che ospita contributi di studiosi del calibro di Fritjof Capra, James Lovelock, Noam Chomsky, Vandana Shiva…), Satish Kumar – che ne è il direttore – ha scritto un editoriale dal titolo “Elegante semplicità”.
Il nocciolo del problema,  di cui peraltro si occupano vari articoli di questo numero della rivista (254 * May June 2009), è l’esigenza di resistere alla schiavitù delle tendenze e delle mode, considerate giustamente come l’antitesi della sostenibilità, in quanto causa di problemi economici ed ambientali.
Viceversa, argomenta Kumar: “la semplicità è parte della ‘saggezza perenne’ promossa da molti grandi pensatori ed utopisti. […]La semplicità è una qualità positiva: quando le cose sono semplici sono ben fatte, durano indefinitamente, sono fatte con piacere e danno piacere quando sono usate. E’ stato E. F. Schumacher a dire: ‘Qualsiasi stupido può fare cose complicate, però ci vuole un genio per fare cose semplici’…”
Ecco, appunto: siamo effettivamente circondati da pazzi che creano cose e situazioni complicate ed intricate, dalle quali non riusciamo più a liberarci e di cui diventiamo irrimediabilmente schiavi. La moda e la tirannia di ciò che ‘fa tendenza’ sono solo due aspetti di una generale visione distorta della vita e delle sue priorità. Il fatto è che la nostra società, in nome del benessere e della libertà, ha generato mostri che minacciano ogni giorno il nostro benessere psicofisico e ci privano della libertà di essere noi stessi.
La semplicità, osserva Kumar, richiede meno egoismi, complicazioni e preoccupazioni per le apparenze e, invece, più immaginazione e creatività ed una maggiore attenzione alla sostanza delle cose. Naturalmente la maggior parte delle persone sono convinte che una società avanzata e sviluppata debba necessariamente avere certe caratteristiche e che i problemi personali, sociali ed ambientali che abbiamo davanti agli occhi siano soltanto spiacevoli effetti collaterali di un inarrestabile e lineare progresso.
La verità – benché difficile da digerire – è che i nostri attuali stili di vita, orientati al consumismo e a mode effimere, sono oggettivamente alla base della triplice crisi del nostro tempo, che investe non solo l’ambito ecologico, ma anche quello socio-economico e spirituale. Lo sfruttamento intensivo e contro natura delle risorse del nostro pianeta, infatti, provoca catastrofi ambientali, ma è fonte anche di povertà ed ingiustizia e sta minando le basi stesse di una convivenza basata su valori etici che rendano la vita degna di essere vissuta ed impediscano agli esseri umani di sentirsi soli ed infelici.
Non è un caso che le principali religioni stiano ponendo nuovamente al centro del loro messaggio di rinnovamento e di speranza valori come l’umiltà, la semplicità e la sobrietà, indicandoli come il solo antidoto ad una crisi planetaria, ma anche interiore e comunitaria.
“La moderazione non è solo una regola ascetica, ma anche una via di salvezza per l’umanità – ha scritto Benedetto XVI nel Messaggio per la giornata della pace 2009 – E’ ormai evidente che soltando adottando uno stile di vita sobrio , accompagnato dal serio impegno per un’equa distribuzione delle ricchezze, sarà possibile instaurare un ordine di sviluppo giusto e sostenibile.”
Anche se a molti non piace sentirselo dire, bisogna allora insistere sul fatto che l’attuale crisi di un’economia e di una finanza artificiali e drogate ci sta dando, suo malgrado, la possibilità di non persistere diabolicamente nell’errore, ma di perseguire un’autentica conversione a U, in direzione di un modo di vivere più sano, più giusto e più semplice, riscoprendo la bellezza delle cose naturali e dei rapporti diretti e solidali.
A tal proposito, segnalo che a Napoli è iniziato oggi – e proseguirà fino a domenica 24 – il VI convegno per la formazione e l’impegno sociale dell’O.F.S. (Ordine Francescano Secolare), dedicato significativamente al tema: “Francescanamente per il Bene Comune. Le responsabilità e il contributo della politica”.   
 

EARTH DAY 2008

CHE IL "GIORNO DELLA TERRA"

NON DURI…UN GIORNO.

                                                  di Ermete Ferraro

Il 22 EarthLove2 aprile, a partire dal 1970, si celebra il “Giorno della Terra”, promosso ed organizzato dall’ Earth Day Network (EDN), la quale ha costruito in questi 38 anni d’impegno ecologista una rete che raccoglie 17.000 organizzazioni in 174 stati.  La mission di E.D.N. consiste nel: “…far crescere e diversificare il movimento ambientalista a livello mondiale, e di mobilitarlo come un più efficace veicolo per la promozione di un pianeta sano e sostenibile. Perseguiamo la nostra finalità istitutiva mediante l’educazione, l’impegno politico, eventi e l’attivismo dei consumatori”.

Nel documento citato , si precisa che uno degli obiettivi perseguiti da questa organizzazione-ombrello è quello di allargare il concetto stesso, e quindi la definizione, di “ambiente”, per includervi tutte le questioni che toccano la nostra salute, le comunità ed il loro ambiente di vita, come ad es. “…l’inquinamento delle acque, il degrado degli edifici scolastici, i trasporti pubblici, l’accesso al lavoro, le crescenti percentuali di malattie come l’asma ed il cancro, l’assenza di finanziamenti per parchi e spazi ricreativi…” , come chiaramente indicato nel documento dal titolo “Urban environment Report” . Ebbene, anche in Italia sarà celebrata questa data del 22 aprile per sensibilizzare grandi e piccoli all’acquisizione di una coscienza ecologica che non si limiti ad una confusa e generica consapevolezza dei rischi che l’umanità sta affrontando a causa del suo pessimo rapporto con l’ambiente naturale, ma giunga a dare a ciascuna persona – e quindi ad ogni comunità – concrete indicazioni teoriche e strumenti pratici per una vera e propria “conversione ecologica”, a tutti i livelli.

Il rischio ambientale peggiore, infatti, è che si continui ad oscillare sterilmente tra quelle due opposte concezioni – che in tempi non sospetti Umberto Eco definiva “apocalittici” e “integrati” – in base alle quali il nostro rapporto con l’ambiente è ormai irrimediabilmente compromesso o, al contrario, non esiste una questione ecologica che non possa essere risolta adeguandosi alle nuove realtà socio-economiche ed ambientali e, soprattutto, che non si possa risolvere usando al meglio la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica.

Nel suo dossier-natura “Una perla preziosa”, pubblicato sulla rivista “Messaggero di Sant’Antonio” (aprile 2008), Mario Tozzi (noto geologo, ricercatore e giornalista TV) ci conduce per mano a scoprire come vivere secondo natura è molto più facile e…naturale di quanto possa sembrarci, avvolti come siamo dagli inutili ed ingombranti incarti di una civiltà sprecona, energivora e fondata sul dominio più che sull’uso delle risorse. “Sopravvivere al limite”, spiega Tozzi, è stato per millenni il vero problema per tanti esseri umani, costretti a resistere con tutto il proprio ingegno ad un ambiente spesso sfavorevole e, in certi casi, lo è ancora oggi per tante comunità che devono adattarsi ad una natura poco ospitale.

Al polo opposto, ci sono milioni di uomini che stanno letteralmente depredando la Terra, di cui pur sono figli, e che ormai sembrano non poter fare a meno di uno stile di vita assurdo ed irrazionale. Mario Tozzi fa riferimento, in particolare, al nostro modo di abitare e di vivere quotidianamente e commenta: “Ad osservarle bene, le nostre case di occidentali ricchi sono un monumento al paradosso energetico e non direi neppure che sono veramente tecnologicamente avanzate” . Dopo aver elencato una serie di provvedimenti da lui stessi assunti per rendere meno pesante l’impronta ambientale della sua stessa casa, a partire dall’eliminazione di ogni spreco energetico, egli ci indica nel paragrafo "Alla ricerca della sobrietà" il modo più idoneo per migliorare – e al tempo stesso rendere più efficiente – quel nostro microcosmo “sprecone oltre ogni misura”.

Anche la scuola – come la casa – è per tanti di noi l’ambiente di vita quotidiano: il nostro vero “oikos” , dal quale dobbiamo necessariamente partire per fare “oiko-logìa” più che per parlarne accademicamente quanto inutilmente. Non è certo un caso che uno dei punti qualificanti del programma proposto da E.D.N. sia proprio quello dedicato non solo all’educazione ambientale – che troppo spesso noi italiani consideriamo come una pura e semplice aggiunta al curriculum scolastico, una materia in più da far studiare – bensì un vero e proprio percorso di formazione alla consapevolezza ecologica e di sperimentazione di un modo alternativo di vivere e di consumare. Basta cliccare sulla pagina “Green Schools” del sito di E.D.N., infatti, per accedere ad un accattivante itinerario di conoscenze e di azioni, di saperi e di competenze, per rendere “più verdi” le nostre scuole. Si va dall’informazione per rendere più sana la refezione scolastica alle indicazioni per il vero e proprio “curriculum” degli studi; dalle nozioni di base di educazione civico-politica a quelle sulle attività ludiche e ricreative più adatte.

Partire da questo microcosmo domestico e scolastico mi sembra davvero una buona idea per celebrare anche questo “Earth Day”, ma credo anche che non sia il caso di perdere di vista le nostre priorità più ampie ed i valori su cui esse di poggiano. Ecco perché, se è opportuno che ognuno faccia la sua parte dove meglio e più riesce ad ottenere dei risultati tangibili, penso che non è possibile fare a meno d’interrogarsi sul nostro ruolo di esseri umani su questa Terra sempre più minacciata da chi dovrebbe sentirsene figlio. Se è vero che “Adàm” (“uomo” in ebraico) è solo il maschile di “Adamà” (cioè “terra” nella stessa lingua), dobbiamo seriamente chiederci perché siamo giunti al punto da rinnegare questo vincolo che ci lega ad essa, come figli ad una madre.

Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8,19-23), ci ricordava l’articolo di Dario Bossi su “Ecologia e Missione” su “Comboni-fem” dello scorso Marzo, citando San Paolo e stimolando chi è credente a non considerare l’ecologia una disciplina scientifica da studiare, ma piuttosto un “nuovo paradigma per interpretare il mondo”. Come ci ammonisce il teologo Leonardo Boff, il vero credente è chiamato a recuperare il valore sacro delle “relazioni” che ci legano alla Terra, rifacendosi alla fisica quantistica, secondo la quale tutto è strutturato in campi di energia interattivi, per cui ogni parte resta costantemente in comunicazione con il tutto.

E’ il solo modo perché i Cristiani si decidano davvero a comprendere, con la mente – ma anche col cuore e con la volontà – che il “giorno della Terra” viene tutti i giorni e che la sua “liberazione” procede di pari passo con quella dei tanti esseri umani di cui il Signore dice, nel libro dell’Esodo (3,7-8): “Ho udito il grido del mio popolo. Per questo sono sceso a liberarlo”, versetto che Boff così parafrasava nell’articolo citato: “Ho udito un silenzio preoccupante, innaturale. Per questo sono sceso, per restituire voce e vita a questa terra ferita”.

Buon “giorno della terra” a tutti !   

 

ADAM V-ADAMAH : riflessioni ecoteologiche sull’amore cosmico

                                                                       di Ermete Ferraro

La rivista "Filosofia ambientale" (www.filosofia-ambientale.it ) ha pubblicato in questi giorni un mio saggio dell’anno scorso, nel quale cerco di analizzare – in chiave ecoteologica – l’impegno cristiano per la "salvaguardia del Creato", indissolubilmente legato a quello per la giustizia e per la pace.

Sono convinto, però, che questo impegno non dovrebbe essere solo un "dovere" morale, ma un’effettiva, concreta, adesione ad un progetto che ha posto l’Uomo/Adam sulla Terra (in ebraico: Adamah) come custode e non come il padrone della creazione. E siccome il servizio, in una visione evangelica, nasce dall’amore, ho provato a leggere la prima lettera paolina ai Corinzi – in particolare, il cosiddetto ‘inno all’amore’  – in una chiave "cosmica", ecologica.

Mi rendo conto che l’argomento può apparire piuttosto particolare e poco adatto ad un "blog", ma spero comunque di aver suscitato un minimo di curiosità in chi legge. In tal caso, vi basta cliccare qui per accedere al testo completo e, se proprio siete in vena di follie, potreste addirittura scrivermi qualche riga di commento….