Petrosinella nel minestrone

Avrei voluto evitarlo, ma proprio non ce la faccio. Il nome di Roberto De Simone è davvero troppo importante perché un qualunque professore di lettere come me ardisca profferir parola in qualche modo critica nei suoi confronti. Eppure non me la sento di tacere a proposito del suo intervento su la Repubblica [i] che – proprio perché molto autorevole – rischia di avallare e consolidare il già troppo frequente ricorso a spropositi ortografici nella scrittura del Napolitano, verso i quali sto cercando da anni di alzare un muro difensivo, insieme ad altri valenti studiosi.[ii]

Su suggerimento di un amico, ero infatti corso a leggere le pagine locali del citato quotidiano per trovarvi l’originale riscrittura di De Simone – utilizzando il codice fonetico internazionale noto come I.P.A. – della prima fiaba della seconda giornata del Cunto de li cunti’ di G. B. Basile. Già leggendo le parole del Maestro nella prima parte dell’articolo, però, mi era parso di cogliere qualche lieve stonatura tra intenzioni dichiarate e strumentazione impiegata per quel fine.

« Nell’ambito internazionale della cultura più avanzata, il problema oggi è oggetto di accurata analisi, e ci si può giovare di trattati e dispense scientifiche sull’argomento, […] giungendo fin dall’inizio a un apposito alfabeto fonetico detto Ipa (International Phonetic Alphabet), tutt’ora in uso. […] In tal senso, sommariamente indicheremo esclusivamente le vocali mute in fine di parola, quelle acute o gravi, con un “puntino” le altre mute disposte all’interno d’un vocabolo, i troncamenti in fine di parola e la “s” fricativa con il segno “ŝ”…» [iii]

Continuando nella lettura, mi sono così imbattuto nella trascrizione ‘fonetica’ che De Simone ha fornito della celeberrima Petrosinella’ ed i miei dubbi sono diventati purtroppo certezza. Sebbene egli citi esplicitamente l’Alfabeto Fonetico Internazionale [iv] (la cui codificazione risale al 1989, con piccole integrazioni successive), francamente non si comprende da quali fonti abbia tratto la metodologia adottata, in quanto egli fa ricorso a grafemi e segni diacritici che col codice I.P.A. non hanno nulla a che vedere.

Mi rendo conto che la secolare diffidenza verso la scrittura fonetica risponde a motivazioni ragionevoli, che vanno dalla difesa (un po’ nazionalista) dell’autonomia e specificità di ogni singolo idioma alle oggettive difficoltà pratiche derivanti dall’adozione generalizzata di un codice grafico estraneo al sistema classico – ‘occidentale’ – di scrittura meccanica e poi computerizzata, conosciuto come QWERTY. [v]  Sono dunque consapevole delle obiezioni che si oppongono ad una norma unificante di tutti i codici grafici, sebbene l’impiego di un sistema fondato sul principio 1 fonema = 1 grafema arrecherebbe un notevole ed indiscutibile vantaggio allo studio delle lingue straniere. Tutto ciò, d’altra parte, non mi sembra che giustifichi l’atteggiamento sospettoso e critico di linguisti ed esperti di media né tanto meno la trascuratezza di tanti miei colleghi docenti nei confronti dell’insegnamento già dalle scuole medie dei fondamenti della fonetica e della pratica scolastica – e quindi semplificata – della scrittura fonetica internazionale.

Come sperimentatore da oltre un decennio dell’insegnamento nelle scuole medie anche della lingua napolitana, infine, ho dovuto spesso fronteggiare anche la diffidenza di molti ‘cultori della materia’ verso l’introduzione di segni diacritici nella sua scrittura, prendendo magari in prestito grafemi dal codice fonetico internazionale (ad es. nel caso della /s/ seguita da /c/, /p/ , /q/  – denominata ‘fricativa postalveolare sorda’ – trascrivibile a mio avviso o con il segno IPA  / ʃ /, oppure con lettere adoperate in alcune lingue di ceppo slavo, come / š / e / ş /. Si può quindi immaginare quanto mi avrebbe fatto piacere poter contare sull’autorevole avallo di un esperto di cose napolitane come il maestro De Simone, che però è svanito bruscamente non appena mi sono trovato di fronte alla sua versione ‘fonetica’ della celebre fiaba seicentesca del Basile.

«P.TRUS.NELLA –  Er’ na vot’ na fémm.na prèn’ chiammata Paŝcaròzia, la qual’, affacciat.s’ a na f.nèstr’ ch’ ŝbucav’ a nu ciardin’ de n’Orca, védd’ nu bellu quatr’ r’ p.trusin’, de lu qual’ l’ vénn’ tantu vulìø ch’ s’ s.ntév’ aŝc.vulir’: tanto che nu putenn’ r.sist.r’, abbistat’ quann’ scétt’ ll’Orca, n’ cugliètt’ na vrancat’. Ma turnat’ ll’Orca a la cas’ e vulenn’ far’ la sàuz’, s’addunàje ca nc’ er’ m.nat’ la fàuce, e diss’: «M’ s’ pòzza ŝcat.nar’ lu cuoll’ si nce mmatt’ stu man.c’ r’ancin’ e nu lu facciø p.ntir’, azzò s’mpar’ ogn.un’ a magnar’ a lu taglier’ sujø, e nu ŝcucchiariar’ p’ le pignat’ r’autr’» [vi]

«Il risultato – ne sono sicuro – produrrà nella recitazione una sonorità dolcissima, evocativa, quasi prodotta da una voce antica che ci giunge attraverso i secoli, cullando l’immaginario sedimentato e stratificato nel nostro secolare inconscio…» [vii]

Col dovuto rispetto per un musicologo compositore e regista che onora Napoli, questo suo ardito esperimento grafico mi evoca ben altro che una ‘dolcissima sonorità’ e, viceversa, mi ricorda l’attuale, cacofonica ed approssimativa, maniera di scrivere la nostra povera lingua. Essa deriva dalla deprecabile abitudine di storpiarla con apostrofi sballati, troncamenti improponibili ed assurde sparizioni delle vocali atone che invece, sia al centro che alla fine delle parole, non sono mai ‘mute’, bensì caratterizzate da un suono indistinto. Altro che “voce antica”! A me fa venire in mente la smozzicata ed elementare grafìa ‘da smartphone’ adoperata attualmente da ragazzi ed adulti, da qualche noto rapper e perfino da famosi marchi commerciali, che utilizzano strumentalmente – e male – il Napolitano per apparire ‘popolari’.

Mi resta comunque la curiosità su quali fonti De Simone abbia consultato per giungere a questo risultato. Da dove ha tratto, ad esempio, l’uso di un ‘puntino’ per indicare le vocali atone indistinte intermedie, unendolo ad un ancor più improbabile ricorso all’apostrofo come marcatore delle vocali indistinte finali? Chi mai gli ha suggerito l’adozione di un grafema come / ŝ / , che appartiene al sistema grafico dell’esperanto [viii] e non certo al codice IPA? Da dove sbuca poi il grafema / ø /, chiamato ‘aptang’ , che appartiene alla fonetica ed alla grafia delle lingue scandinave? [ix] La verità è che questo minestrone grafico non mi sembra che giovi al miglioramento dell’ortografia del Napolitano moderno, ma neanche che sia evocativo di quello antico.

Giusto per dare l’idea di come apparirebbe lo stesso brano citato di ‘Petrusinella’ se si adottasse l’alfabeto fonetico internazionale, di seguito ne do una mia versione personale, che utilizza i grafemi ‘speciali’ dell’IPA quando mi sembra strettamente necessario.[x]

« Pɘtrusɘnélla – Érɘ na vòtɘ na fémmɘnɘ prènɘ, kjammàtɘ Paskɘdòz:jɘ; la kwalɘ, affɘcciàtɘsɘ a na fɘnèstrɘ, kɘ ʒbuk:àvɘ a nɘ cjardìnɘ dɘ n’òrkɘ, véddɘ nɘ b:èllɘ kwatrɘ dɘ p:ɘtrusìnɘ. Dɘ lo kwalɘ lɘ vènnɘ tantɘ golìɘ, kɘ sɘ sɘntévɘ ascevɘlìrɘ. Tantɘ kɘ, non pɘténnɘ rɘsìstɘrɘ, ab:istàtɘ kwannɘ scêttɘ l:òrkɘ, nɘ kɘgliéttɘ na vraukàtɘ. Ma, turnàtɘ l’:òrkɘ a l:a kàsɘ, e vulénnɘ fàrɘ la sàwzɘ, s’addunàjɘ kɘ nc’érɘ mɘnàtɘ la fàwcɘ, e d:issɘ: «Mɘ sɘ pòzzɘ ʃkatɘnàrɘ lɘ kwòllɘ, si ncɘ méttɘ stɘ m:ànɘkɘ d’ancìnɘ, e non ne l:o fàccjɘ pɘntìrɘ, azzò sɘ mparɘ ognɘ unɘ a m:agnàre a lɘ tagliérɘ sujo, e n:o ʃkuk:iɘriàrɘ pɘ l:e pignàtɘ d’àwtrɘ!»

Certo, bisognerebbe fare progressivamente l’abitudine a questa scrittura e, soprattutto, praticarne l’uso già nella scuola, ad esempio quando si studiano lingue straniere come l’inglese, per le quali la coincidenza tra grafema e fonema è molto rara.  Forse per imparare a scrivere meglio il Napolitano non sarà indispensabile ricorrere ai segni grafici speciali, o quanto meno lo si potrebbe fare solo in alcuni casi molto specifici di suoni inesistenti in italiano, come appunto lo shwa / ɘ / per le vocali atone indistinte centrali e finali e per il segno della fricativa postalveolare sorda / ʃ /. Sarebbe comunque opportuno, a mio avviso, evitare di ricorrere a soluzioni che, come quella proposta dal Maestro de Simone, rischiano di peggiorare la già scadente ortografia della nostra bella lingua, per la quale sono invece indispensabili regole certe, condivise e correttamente insegnate.

© 2019 Ermete Ferraro


[i] Roberto De Simone, “Così ho ritrovato le sonorità antiche della lingua del Basile”, la Repubblica, Napoli, pp. XIII-XV > https://napoli.repubblica.it/cronaca/2019/04/03/news/napoli_roberto_de_simone_per_repubblica_cosi_ho_ritrovato_le_sonorita_antiche_della_lingua_di_basile_-223183442/?rss

[ii] Dagli anni ’90 ho iniziato un’esperienza d’insegnamento della lingua e cultura napolitana in due scuole medie pubbliche e svolgo per il terzo anno un analogo corso per adulti presso l’Unitre (Università delle tre Età) di Napoli. Sono il curatore di una specifica pagina facebook ( Prutezzione d’ ‘a Lengua Napulitana ) e collaboro con varie associazioni e singoli studiosi, fra cui: Amedeo Messina, Nazario Bruno, Davide Brandi, Salvatore Argenziano, Gianni Polverino, Raffaele Bracale, Maria D’Acunto, Massimiliano Verde ed altri) impegnati nella tutela e promozione della lingua napolitana. In tal senso, sono stato anche estensore d’un progetto di legge in discussione al Consiglio regionale della Campania, a firma del cons. F. E. Borrelli.

[iii] Art. cit., p. XIII

[iv] Cfr. Voce “Alfabeto fonetico internazionale” in Wikipedia > https://it.wikipedia.org/wiki/Alfabeto_fonetico_internazionale  e  Laboratorio di Fonetica Sperimentale ‘Arturo Genre’ (LFSAG), Tabella IPA > http://www.lfsag.unito.it/ipa/index.html

[v] Vedi la voce “QWERTY” in Wikipedia > https://it.wikipedia.org/wiki/QWERTY

[vi] Vedi art. cit., p. XIV

[vii] Ibidem, p. XIII

[viii]  Vedi la voce corrispondente su Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/%C5%9C

[ix]    Vedi la voce corrispondente su Wikipediahttps://it.wikipedia.org/wiki/%C3%98

[x]  Oltre alle tabelle citate nella nota iv, è utile far riferimento anche all’ottimo dizionario della lingua napolitana  di Sergio Zazzera, edito da Newton Compton (https://www.amazon.it/Dizionario-napoletano-Sergio-Zazzera/dp/8854109215 ), nel quale sono invece riportate integralmente  le trascrizioni fonetiche di ciascun lemma da lui curato.

OLTRE I TEST, PER FAR FUNZIONARE LE TESTE

TESTINGMentre da noi, in Italia, sui giornali si parla di scuola solo in occasione delle occupazioni degli studenti o degli scioperi dei docenti, su prestigiosi quotidiani statunitensi è aperto da lungo tempo un vivace dibattito sulla riforma dell’istruzione e, in particolare, sulla mutazione genetica che ha trasformato la scuola in un “testificio”.  Una particolare attenzione a questo problema è riservata dal Washington Post, le cui rubriche dedicate all’educazione riportano spesso articoli riguardanti il “Common Core” (cioè l’imposizione di un ‘nucleo’ didattico comune a tutte le scuole di tutti gli stati degli USA) e la valutazione (degli alunni, ma anche dei docenti e perfino delle istituzioni scolastiche) mediante una massiccia somministrazione di test standardizzati.

Sebbene sulla goffa imitazione di questa modalità si direbbe che qui in Italia quasi nessun pedagogista trovi nulla da ridire, negli Stati Uniti il dibattito è invece molto acceso. Lì sono scesi da molto tempo in campo nutriti e combattivi gruppi di dirigenti scolastici, educatori, insegnanti e genitori, contestando l’assurda mania dei test di valutazione e la standardizzazione dei programmi didattici, in nome della libertà d’insegnamento e del rifiuto di simili criteri di selezione.

A questo tema ho già dedicato alcune note, l’ultima proprio sulla rivolta di chi, negli USA, si batte per“stop this madness” https://ermeteferraro.wordpress.com/2013/06/22/fermate-sta-pazzia/. Recentemente, però, mi è capitato di leggere un altro stimolante articolo sull’argomento http://www.washingtonpost.com/blogs/answer-sheet/wp/2013/11/23/beyond-tests-how-to-foster-imagination-in-students/, nel quale Marion Brady – noto pedagogista e docente con lunga esperienza – ha affrontato criticamente un altro importante aspetto negativo di tale impostazione. La sua attenzione si è focalizzata, infatti, sulla banalizzazione dell’istruzione per garantire a tutti alcune indistinte e generiche “competenze minime”, rinunciando a perseguire obiettivi formativi più ambiziosi, ad esempio stimolare la creatività personale.  Come “alimentare l’immaginazione” dei ragazzi, mortificata da una scuola sempre più appiattita e funzionale ad una società mercantile, omogeneizzata e guidata da un pensiero unico, è viceversa la preoccupazione di un veterano dell’istruzione come Brady, che non si rassegna ad una scuola che “insegna per i test”.

“Quelli che prestano attenzione sanno che la mania di testare le prestazioni di alto livello ha spinto centinaia di migliaia di bambini fuori dalla scuola, ha banalizzato l’apprendimento, ha radicalmente limitato la capacità dell’insegnante di adattarsi alle differenze tra discenti ed ha portato a fine molti programmi di educazione fisica, artistica e musicale . Ciò avvantaggia ingiustamente coloro che possono permettersi la preparazione ai test, rende il Congresso il consiglio d’amministrazione delle scuole d’America, crea irragionevoli pressioni ad imbrogliare, fa chiudere le scuole di quartiere, corrompe la professione docente  e blocca tutte le innovazioni, tranne quelle i cui risultati possono essere misurati da macchine, giusto per iniziare un elenco molto più lungo…” (art. cit.).

Se noi Italiani fossimo capaci d’imparare dall’esperienza altrui, quella maturata in decine d’anni di applicazione alle scuole statunitensi di questo modello dovrebbe renderci estremamente cauti nell’importarlo a cuor leggero nel nostro contesto, fra l’altro molto differente.  Il problema, peraltro, non consiste affatto in un irrazionale rifiuto dei docenti italiani a sottoporsi ad una valutazione oggettiva dei processi di apprendimento che sono riusciti ad avviare nei loro studenti. La questione riguarda piuttosto chi giudica cosa e in quale modo, cioè la legittima contrarietà da parte di molti insegnanti a sottoporre questa pur necessaria valutazione a meccanismi piuttosto discutibili, in nome d’una pretesa uniformità a criteri internazionali, livelli standardizzati ed a competenze selezionate in base a tassonomie didattiche decise in modo verticistico.

“Ridotto all’essenziale, ecco come funziona il sistema per mettere alla prova la competenza minima. Le Autorità stilano elenchi di quello che ritengono che i ragazzi dovrebbero sapere . Le liste sono date agli insegnanti, insieme con l’ordine di insegnare ciò che vi è scritto sopra. Test standardizzati controllano se gli ordini sono stati eseguiti. Qualcuno (non i docenti) imposta in modo arbitrario la linea di demarcazione tra passare o non passare il test e i ragazzi che avranno ottenuto un punteggio oltre il taglio sono considerati “minimamente competenti. Vi sembra ragionevole ? La maggior parte delle persone sembrano pensare così. Però  le scuole che si concentrano su competenze minime non possono produrre ragazzi abbastanza intelligenti per affrontare i problemi che si preparano ad ereditare…” (ibidem).

L’autore dell’articolo, dopo la sua efficace requisitoria contro questa fallimentare modalità didattica, suggerisce anche un efficace antidoto ad essa: una scuola che non punti a selezionare i discenti in base ad un’arbitraria linea di demarcazione tra chi supera o meno le prove strutturate, ma miri piuttosto a stimolare le loro capacità immaginative, logiche ed argomentative. Secondo Brady, progettare il futuro ed imparare a risolvere i problemi sono le competenze-chiave da privilegiare, ragion per cui politiche dell’istruzione che vanno in ben altra direzione preparano un inarrestabile declino dell’educazione. Egli puntualizza poi che, per rendere i progetti formativi capaci di stimolare l’immaginazione, occorre che essi rispondano a sette fondamentali condizioni: (a) devono essere compiti intellettualmente impegnativi ma fattibili; (b) devono essere concreti anziché astratti; (c) devono appartenere al mondo reale e non a quello delle teorie; (d) devono utilizzare tutte le discipline scolastiche; (e) richiedono un dialogo basato sul pensare ad alta voce; (f) la maggior parte dei ragazzi li deve trovare abbastanza interessanti da suscitare emozione; (g) richiedono agli studenti di passare dall’immagazzinare nella mente conoscenze preesistenti al creare nuove conoscenze.

Certo, le problematiche dell’istruzione pubblica nel nostro Paese sono molto diverse da quelle degli Stati Uniti e la nostra società è oggettivamente differente dalla loro. Ciò non toglie che queste indicazioni possano applicarsi anche alla scuola italiana, per contrastare la diffusa tentazione di uniformarsi ad una metodologia didattico-educativa che sta sempre più contabilizzando i saperi come una qualsiasi azienda, a forza di privilegiare conoscenze “misurabili” e di perseguire competenze sempre più uniformi.  Credo quindi che portare avanti progetti come quelli suggeriti da Marion Brady nel suo articolo potrebbe essere un modo valido per evitare che la dittatura del pensiero unico e della standardizzazione renda sempre più grigia la nostra scuola, utilizzando queste “verifiche” come pretesto per una selezione pseudo-meritocratica dei docenti, delle classi e degli istituti.

“Per questi riformatori, i “dati” significano soprattutto i punteggi alle prove standardizzate. […] Essi possono essere indebitamente usati dai politici e far affluire miliardi di denaro pubblico nelle casse delle corporations per pagare servizi di consulenza e materiali di preparazione ai test. Questo è ciò che le prove fanno. Ciò che non fanno, che non possono fare e non saranno mai capaci di fare, è misurare quelli che sono probabilmente i più preziosi risultati di una buona istruzione: l’immaginazione e la creatività. “ (ibidem)

Non sarà certo l’invalsizzazione della scuola italiana che assicurerà il successo scolastico dei nostri ragazzi e la qualità dell’insegnamento. La sfida della personalizzazione dei percorsi formativi e dell’apertura ad una cultura da costruire più che da trasmettere passivamente è troppo importante per essere ridotta alle elaborazioni statistiche dei dati raccolti somministrando le prove nazionali. Ma se i docenti per primi perderanno la loro carica d’immaginazione e di creatività, pur di adeguarsi alle direttive di vertice e di assicurare punteggi abbastanza alti alla propria classe, trionferà la logica delle programmazioni copia-e-incolla e delle crocette sui test.

Strumenti indubbiamente utili per la redazione dei registri elettronici ma assai poco adatti ad un insegnamento che miri a formare intelligenze e coscienze autonome.

© 2013 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

LE MASCHERE NUDE DELLA POLITICA

C’è qualcosa che continua a non convincermi nella politica italiana. E non è, badate bene, il fMASCHERE NUDE 1atto che di essa si possa dire tutto ed il contrario di tutto: ad esempio, che è maledettamente prevedibile ma anche che risulta incredibilmente sorprendente. La mia perplessità non riguarda nemmeno il suo scarso equilibrio, che consente ora l’inquietante stasi di un sistema vecchio ed autoreferenziale, ora clamorosi ribaltoni che sembrano scompaginare del tutto quello stesso sistema.

Ciò che non mi convince non è neppure che sembra proprio che non abbiamo ancora imparato a diffidare dei sondaggi e delle previsioni meteorologiche applicate al voto, che peraltro non hanno affatto una finalità che i filosofi epistemologica (cioè puramente conoscitiva), bensì pragmatica, essendo essi stessi parte di una campagna elettorale quasi esclusivamente mediatica e virtuale.

Non mi meraviglio neppure che tanti politici abbiano ricevuto delle sonore tranvate , anche perché la loro frequente estraneità alla vita quotidiana dei poveri cristi non potrebbe oggettivamente essere colmata solo dalla lettura dei giornali, visto che buona parte di essi sono scritti quasi esclusivamente per compiacere lorsignori e non certamente per raccontare la realtà.

Non mi sento neanche sconvolto dal fatto che queste elezioni abbiano dimostrato che gli Italiani non amano chi dice cose di sinistra ma preferiscono chi agita spettri e butta in aria stracci, trovando evidentemente più comodo fare campagna “contro”, prendendosela con gli aspetti più assurdi e rivoltanti della politica, anziché chiedere il voto della gente su proposte e progetti chiari, davvero alternativi a quelli dei avversari.

In effetti, le cose che non mi vanno giù e mi disturbano sono parecchie, a cominciare dal fatto che, pur essendo evidente che ci stavamo cacciando in un maledetto imbuto istituzionale, ora che ci siamo finiti dentro dobbiamo sorbirci lo stupore un po’ ebete di chi sembra invece travolto da eventi impreviste ed imprevedibili.

L’aspetto che mi urta di più, però, lo riscontro invece nella maggior parte dei commenti post-voto, espressi sia da quelli che si atteggiano ad arbitri esterni alla mischia (giornalisti et similia), sia dagli stessi giocatori ed allenatori delle squadre elettorali in campo. E non m’infastidisce tanto la loro evidente parzialità o la supponenza di chi sentenzia col cosiddetto senno di poi, ma che, gira e rigira, la “colpa” di ciò che è andato male non è mai attribuita a programmi evanescenti ed ambigui ma sempre e soltanto agli errori di chi è stato chiamati a supplirne la pochezza e/o vaghezza con la loro persona, mettendoci – come si usa dire – la faccia. Espressione che sottintende un lodevole impegno personale e diretto in favore della “causa”, una sorta di testimonianza da martiri laici, mentre perfino noi poveri elettori non possiamo fare a meno di accorgerci che dietro certe “facce” non c’è proprio niente, a parte sorrisi compiaciuti o pose aggressive, e che troppi re sono nudi.

Per carità, non voglio certo scagionare i tanti leader delle formazioni elettorali dalle legittime accuse che vengono loro rivolte dall’interno e dall’esterno dei partiti. Non mi sento nemmeno di  prosciogliere Tizio e Caio dalle pesanti responsabilità nella conduzione di una campagna elettorale così insignificantemente scialba e deprimentemente qualunquista.

Voglio soltanto dire che non me la sento di puntare anch’io il dito accusatore contro di loro, e non perché non debbano rispondere al loro elettorato degli errori che spesso hanno effettivamente commesso, ma piuttosto perché mi sembra una scorciatoia comoda, ma squallida, per non doversi interrogare sulla sostanza delle proposte politiche in campo.

Lo so: criticare chi ha perso ed esaltare chi ha vinto è un costume troppo radicato, che fa ormai parte del corredo genetico degli Italiani. Ciò non toglie che si tratti però d’un modo ipocrita di sottrarsi al giudizio delle urne, attribuendo le perdite ad una strategia sbagliata e le vittorie ad una strategia azzeccata e vincente.

E’ vero che viviamo già da tempo in un’epoca caratterizzata dal relativismo culturale ed etico, che rende possibile tutto ed il contrario di tutto, scansando accuratamente il giudizio di merito per  limitarsi a quello di metodo, come direbbe un avvocato. E’ vero anche che abbiamo assistito da un ben po’ alla cosiddetta “crisi delle ideologie”, per cui sembra che una cosa è vera e giusta solo se si realizza, mentre viceversa risulta falsa ed improponibile se non riscuote successo.

L’idea di fondo è che il merito il successo o meno di una proposta dipenda esclusivamente da chi sia riuscito a farsene credibilmente portatore ed interprete, assumendo su di sé meriti e demeriti.  Questa logica di tipo sofistico – disincarnata da ogni valutazione morale ed affidata esclusivamente alla bravura ed abilità di chi sa come convincere gli altri – non fa per me, pur essendo un estimatore dell’ars retorica e non disprezzando affatto chi sa giocare al meglio le sue carte.

Trovo però indecente l’abitudine di prendersela solo con gli errori del fantino senza interrogarsi neanche un po’ sul cavallo che gli è toccato di portare al traguardo. Fuor di metafora, non condivido che –  a poche ore di distanza dal voto per quel Parlamento che dovrebbe rappresentarci in un regime democratico –  l’unico problema su cui si confrontano commenti e  prese di posizione è dove e quanto abbia sbagliato questo o quel leader, anziché riflettere su quanto poco sia stato offerto da scegliere agli elettori italiani, al netto delle accuse reciproche dei contendenti, del loro evidente gioco delle parti e delle loro mirabolanti promesse.

La verità è che – a parte alcuni programmi di sinistra e di destra più radicali, anch’essi fondati più su stereotipi che su un vero progetto complessivo – ai cittadini chiamati alle urne è stato servito quasi esclusivamente un piatto stancamente unico, condito sì con varie salse come si usa nei soliti fast food – ma non per questo capace di suscitare entusiasmi autentici o netti rifiuti.

Insomma, con tutto il rispetto, fra i programmi elettorali del centrodestra e del centrosinistra non c’era più differenza di quanto ce ne sia fra un “Big Mac” ed un “Big King” e perciò, restando nell’esempio, la scelta fra un panino e l’altro restava quasi esclusivamente affidata al suo aspetto esteriore, al tipo di salse utilizzato oppure alla bravura a sbrigare i clienti del venditore.

La tendenza ad attribuire meriti e demeriti dei risultati elettorali dei partiti agli esponenti che li hanno caratterizzati e contraddistinti , mettendoci la faccia in senso non più metaforico, mi sembra il naturale risultato d’una politica giocata sulla personalizzazione del confronto e la trasformazione dei partiti in contenitori vaghi ed indistinti, qualificati esclusivamente dai rispettivi “duci”.

In questo mondo di “televendite” più o meno brillanti, dove ciò che conta è la bravura ed estrosità dell’imbonitore più che la qualità del prodotto, non c’è da meravigliarsi se la politica si sia ormai trasformata in un trito spettacolo cabarettistico. Però non c’è neanche da stupirsi se dalla platea si sia alzata una massa di spettatori arrabbiati, montando sul palco ed urlando ai soliti cabarettisti “Andatevene via!” , pur non avendo le idee molto chiare su come continuare lo spettacolo…

Ecco perché sono tutt’altro che contrario a critiche ed autocritiche – quando si basano su fatti e dati concreti – ma mi sento invece poco propenso ad aggiungermi al coro di chi spara sul pianista senza chiedersi se la musica fosse quella giusta.

Per me la politica è una cosa seria, se non altro perché da essa dipendono le esistenze di milioni di persone e la credibilità del nostro Paese, che non ha bisogno né di vecchi istrioni che recitano la loro parte, né di dilettanti allo sbaraglio. La politica dovrebbe farci scegliere fra modelli differenti di sviluppo, di energia, di relazioni internazionali, di attività produttive, di consumi o di gestione dei beni comuni, non fra varie guide di poco credibili coalizioni, trasformate in grotteschi personaggi da commedia dell’arte.

Non m’interessa scegliere fra Pulcinella, Balanzone o Arlecchino, bensì votare progetti che mi sento di condividere e sostenere, non da mero spettatore ma da attore civile della politica. Chi, viceversa, punta troppo a personalizzare la politica evidentemente non ha più molto da dirci ma, soprattutto, non sa o  dimentica che in latino “persona” era la maschera – tragica o comica – indossata dai teatranti per far risuonale (per-sonare) la loro voce nei teatri all’aperto.

Ebbene, sono convinto che l’Italia non abbia bisogno di questo genere di recite, ma piuttosto di proposte chiare e di gente che si dimostri affidabile e coerente e non solo convincente.

© 2013 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

DA PROMETEO ALLE PROMESSE DEL PROGRESSO

20130112_cna400Il mio amico Antonio D’Acunto ha scritto un interessante e profondo articolo sul mito di Prometeo come metafora del tormentato rapporto fra la Divinità, l’Umanità e gli strumenti – cognitivi e tecnologici – attraverso i quali quest’ultima ha cercato di liberarsi dalla propria condizione di bisogno, dominando la Natura. Lo spunto da cui è partito D’Acunto (v. “Crisi delle invenzioni e il dramma di Prometeo”  ( http://www.vasonlus.it/per-la-stampa/gli-editoriali ) è l’efficace immagine d’un assorto pensatore seduto sulla tazza del WC – apparsa sulla copertina del numero del 12 gennaio 2013 del prestigioso “Economist”. Dal fumetto che gli esce dalla testa, infatti, spunta un interrogativo ben preciso: “Inventeremo mai qualcosa che sia ancora così utile?” ed il parallelo col mitico Titano è richiamata anche dall’evidente somiglianza del nerboruto pensatore con quella del Prometeo raffigurato nel quadro di O. Greiner, che ho riportato più sotto.

La mia inveterata passione per le etimologie mi porta ora a soffermarmi dapprima sul significato del nome di colui che rubò il fuoco a Zeus per restituire tale risorsa gli uomini, ma anche su quello di suo fratello Epimeteo. Entrambi derivano, infatti, dallo stesso verbo greco (“manthàno” = imparare) ed i due prefissi preposizionali “pro-” (prima) e “epì-”) ne indicano appunto le caratteristiche. Prometeo è “previdente” e “riflessivo” perché “pensa prima”, mentre Epimeteo pensa e si comporta diversamente, accettando sconsideratamente il vendicativo dono di Zeus.  Nel suo riferimento al mito esiodo-eschileo di Prometeo – al tempo stesso creatore dell’Umanità e suo liberatore dalla schiavitù del bisogno e della fragilità –  l’articolo di D’Acunto non cita però un terzo importante personaggio mitico. Si tratta di Pandora, le bellissima e curiosa fanciulla che della vendetta di Zeus contro il “furto” compiuto da Prometeo sarà appunto lo strumento. La liberazione del Titano da parte di Eracle aveva fatto infuriare ulteriormente la divinità suprema, per cui fu proprio per la sua superficiale sbadataggine che Epimeteo  – sebbene fosse già stato avvisato dal previdente fratello – accolse in sposa Pandora ed il velenoso regalo di cui era inconsapevole portatrice. E fu così che ella (a dispetto del suo nome che significa: “tutti i doni” ), vinta da insana curiosità, aprì il vaso per cui è ricordata, che però avrebbe dovuto restare chiuso, facendone fuoruscire tutti i mali del mondo:

170px-Otto_Greiner_-_Prometheus“Ma la donna di sua mano sollevò il grande coperchio dell’orcio e tutto disperse, procurando agli uomini sciagure luttuose. Sola lì rimase Speranza nella casa infrangibile, dentro, al di sotto del bordo dell’orcio, né se ne volò fuori; ché Pandora prima ricoprì la giara, per volere dell’egioco Zeus, adunatore dei nembi. E altri mali, infiniti, vanno errando fra gli uomini….” (Esiodo, Le opere e i giorni)

L’articolo di D’Acunto è un’ottima riflessione su un antichissimo mito pagano, nel quale si sono riflessi secoli di pensiero religioso successivo, adombrando nella figura di Prometeo la ribellione della più perfetta creatura a Colui che l’aveva creato, e quindi la “hybris” che l’aveva spinta ad un’orgogliosa tracotanza, provocando la divina “némesis” (vendetta, punizione). In questa visione, la Divinità difenderebbe gelosamente le proprie prerogative dall’invadenza arrogante dell’umanità, ma non occorre un’interpretazione psicoanalitica per comprendere che si tratta di un’evidente proiezione da parte del figlio-creatura nei confronti del padre-creatore, al quale vengono attribuite le peggiori caratteristiche dell’animo umano, come la gelosia, l’avidità e la diffidenza. Non sembra un caso, quindi, che lo studioso francese abbia parlato esplicitamente del « complesso di Prometeo », definito come la tendenza ad opporsi ai propri padri e maestri per diventare come loro e più di loro, configurando tale sindrome psichica come « …il complesso d’Edipo della vita intellettuale »  (Gaston Bachelard, La Psychanalyse du feu, 1re éd. 1938, éd. Gallimard, 1949).

L’interpretazione di D’Acunto ci porta invece a scorgere dietro questo antico mito la drammatica situazione di un’Umanità cui la Natura viene contrapposta, ma che si sforza ugualmente di scoprirla e di farla propria alleata.

“…Prometeo che  accende nell’Olimpo la prima torcia della Umanità  dal Carro del Sole, come ci viene raccontato da Eschilo ….non è  un Dio potente come Zeus,  è un Titano, allo stesso tempo un semidio ed un superuomo che plasma l’Uomo stesso con il fango   e che perciò lo  considera sua creatura e l’ama e gli dà la conoscenza del cuore  del suo progresso:  il fuoco. Il dramma della sofferenza e della liberazione di  Prometeo diviene così il dramma della Umanità e  l’interpretazione di tale dramma, soprattutto poetica e filosofica, esprime la  manifestazione  del Pensare dell’Uomo rispetto alla esplorazione cognitiva della Natura, all’applicazione di tali conoscenze e alla Natura stessa…” (D’Acunto, op. cit.)

Il matrimonio fra Prometeo liberato ed Asia (una delle ninfe Oceanine che, secondo altre fonti, sarebbe invece sua madre…) è interpretato romanticamente nel poema omonimo di P. B. Shelley come l’auspicabile e felice riconciliazione tra uomo e natura, che darà inizio ad un regno di bene e di amore. In questo senso, la figura femminile di Asia si contrapporrebbe a quella di Pandora, in quanto ricostruirebbe l’armonia fra umanità e realtà naturale che la seconda invece avrebbe compromesso con le sciagure uscite dal suo temibile vaso.

Credo che il nodo della questione stia proprio qui, in questa continua antinomia fra una visione provvidenziale e benefica della Natura ed una che, viceversa, la teme come fonte di mali d’ogni tipo e come forza ostile da controllare e dominare. La natura matrigna ed estranea dell’ultimo Leopardi del c.d. “pessimismo cosmico” è la visione più tragica di questa ricerca di senso nella realtà, che troppo spesso ha lasciato l’uomo sospeso fra la disperazione di chi ha rinunciato a scorgervi qualcosa di buono ed il titanismo di chi vorrebbe invece sfidare il Creatore, interpretando i limiti imposti come una sorta di schiavitù da cui liberarsi.

La riflessione di D’Acunto, pur da laico, si allarga quindi ad una prospettiva sulla quale mi sono già soffermato più volte, cioè una visione che sappia riconciliare l’Uomo con la Natura, a partire dalla scoperta dei delicati equilibri che la governano e che stanno alla base di ciò che Giovanni XXIII definiva “un ordine stupendo” nell’enciclica “Pacem in terris” citata nell’articolo. La grandezza umana, secondo le parole del Papa, consisterebbe nella sua capacità di “…scopr[ire] tale ordine e crea[re] gli strumenti idonei per impadronirsi di quelle forze e volgerle a suo servizio”. Ne risulta un’impostazione che non vede affatto nel Progresso una minaccia alla fedeltà dell’uomo al suo Creatore, bensì una legittima ricerca di un bene comune e condiviso.

In tale prospettiva, anche il mitologico conflitto tra Zeus e Prometeo – afferma D’Acunto – potrebbe essere interpretata come: “la dialettica esistenziale  tra le  ragioni di Prometeo nel dono agli Uomini per il suo progresso e quelle di Zeus per le conseguenze di tale dono…” (ibidem), tenuto conto del fatto che, in nome dello stesso progresso, l’Umanità ha troppo spesso percorso una strada che non porta al miglioramento della sua vita, ma piuttosto a profonde ingiustizie, gravi alterazione degli equilibri ecologici ed al degrado del suo stesso ambiente. E’ questo atteggiamento avido e predatorio che ha portato gli uomini a trasformare la stessa Natura da scrigno di tutti i doni (pan-dora) a vaso infido, dal quale sono uscite e scaturiscono ancora immani sciagure per tutto il genere umano.

La soluzione che si propone nell’articolo è la ricerca di una saggia conciliazione tra le esigenze dell’avanzamento umano e quelle d’un ambiente che ha dei limiti naturali, che sono posti a garanzia della sua stessa conservazione,  Ci vuole, auspica d’Acunto: “…un Umanesimo capace di orientare,  interpretare e rapportare  scienza, ricerca, innovazione, tecnologia, e conseguentemente economia, produzione e lavoro  al progresso vero della intera Umanità,  di oggi e del futuro, alla Sacralità e al conseguente incondizionato Amore per la Terra e per la Sua Biodiversità ”.  Da credente, il mio approccio al dilemma posto è ovviamente diverso, pur apprezzando profondamente una simile impostazione, che – pur laicamente – riconosce la “sacralità” del mondo vivente e ne difende con passione la preziosa “biodiversità”, nel cui nome Antonio ed io ci sentiamo accomunati.

Un approccio eco-teologico alla questione deve ovviamente essere più specifico ed articolato e, da parte mia, mi sono sforzato di portare avanti questa riflessione con tre miei contributi, dedicati rispettivamente alla visione “creaturale” di San Francesco (“Laude della Biodiversità del 2005), alla Carità cosmica a partire dalla rilettura d’una lettera di san Paolo (“Adàm-Adamah: un’Agàpe cosmica” del 2008, ed alla visione del rapporto Dio-Uomo-Terra che emerge dai Salmi biblici (“Il Salmo del Creato” del 2009).  E’ da quest’ultimo saggio che risulta con più evidenza come una visione eco-teologica non sia affatto una “stranezza” modernista da guardare con diffidenza, ma piuttosto la logica impostazione di chi ritrova la saggia prospettiva della riconciliazione tra Adamo e Adamah (la Terra) nel riconoscimento della comune creaturalità già nell’Antico Testamento, ancor prima della “buona notizia” della salvezza di Cristo, apportatrice della vera liberazione dell’uomo. Ecco perché la strada da perseguire, a mio avviso, era e resta quella di una ricerca di una perduta armonia per cui, come scrivevo in quel saggio:

 “…occorre una vera conversione (ebr. “shuv”) , un’inversione di rotta, che costituisca un “ritorno” al rispetto della volontà divina, consentendoci in tal modo di fare la pace con il Creatore e, francescanamente, di stabilire una relazione fraterna con tutte le sue creature” (“Adàm-Adamàh…”, cit. p.8).

Solo così – in una prospettiva di fede ma anche di rispetto – potremo guardare positivamente  all’invenzione umana, come ci suggerisce D’Acunto, cogliendo l’infinita bellezza della Natura e “godendo del Suo universale abbraccio” (ibidem).

© 2013 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

INSIEME SI’ , MA PER QUALE ALTERNATIVA?

rivoluzione civileLo scorso 25 giugno ho postato sul mio blog un articolo riguardante la nuova situazione politica che si stava creando in Grecia, in occasione delle elezioni che si erano tenute in un momento molto delicato per quel Paese (https://ermeteferraro.wordpress.com/2012/06/25/le-lezione-di-syriza/ ). Il fatto che SYRIZA – coalizione di sinistra radicale ed eco socialista – fosse diventata la seconda forza politica presente nel parlamento ellenico, infatti, mi sembrava un segnale da cogliere, cercando anche di comprenderne il senso e la portata. In quell’occasione, inoltre, ho affermato che: “se anche in Italia fossimo capaci di costituire una vera coalizione di forze alternative – socialiste autogestionarie, pacifiste ed ambientaliste – le cose potrebbero cambiare davvero, e nel senso giusto”, concludendo con l’augurio che, pur non riscontrandone le premesse, anche in Italia si potesse costruire quanto prima: “…un’ampia e significativa alleanza di chi crede ancora, e fermamente, nella giustizia, nella pace ed in uno sviluppo davvero ecologico”.
Sei mesi più tardi, ora che a breve toccherà a noi italiani andare a votare per il rinnovo del nostro Parlamento e per indicare una possibile coalizione di governo, devo purtroppo constatare che quel mio auspicio è rimasto tale. Se il motto elettorale di SYRIZA, come ricordavo allora, “apriamo la strada alla speranza”, è davvero difficile affermare, invece, che il nostro panorama politico attuale apra il cuore alla speranza. Ovviamente non sto parlando di quei poco credibili partiti di plastica o di cartone che proliferano in periodo elettorale, alla faccia della tanto sbandierata ‘semplificazione’ cui ci avrebbe portato il sistema maggioritario, rispetto a quello proporzionale. No, mi riferisco proprio alle maggiori forze politiche nazionali (il vecchio centro-destra ed il vecchio centro-sinistra), che dalla ‘parentesi tecnica’ del governo Monti sono stati costrette prima ad equilibrismi incredibili pur di sostenerlo e poi a profonde revisioni pur di esorcizzare l’ingombrante pretesa degli ex-tecnici di rilanciare un confuso protagonismo centrista. A parte la scarsa credibilità di chi – da una parte e dall’altra – ha sostenuto per un anno il “rigor Montis”, senza saper oggi fornire un’indicazione seria d’un modello diverso, è evidente che per una persona come me, convintamente ecologista, socialista e pacifista, non si può ritrovare in formule elettorali così contraddittorie.
A chi non si accontenti del rassicurante quanto scolorito moderatismo del centro-sinistra, però, a parte l’ambigua demagogia del movimento dei ‘grillini’, quali possibilità di scelta rimangono?
In effetti un’alternativa ci sarebbe, ed è quella della coalizione che ha indicato come proprio leader l’ex magistrato Ingroia ed ha deciso di chiamarsi: “Rivoluzione Civile”. A prima vista potrebbe apparire una versione in salsa italica proprio dell’ellenica SYRIZA, realizzando così l’auspicio di mettere insieme le forze della sinistra radicale, ecologiste e pacifiste, nella direzione alternativa d’un modello di sviluppo equo e che si opponga sia alla violenza – sociale e militare – contro le persone, sia a quella contro gli equilibri ambientali e la biodiversità.
Potrebbe apparire così, ma la realtà mi sembra assai meno incoraggiante. Lo stesso nome scelto per quest’alleanza è sintomo di un’incertezza fra un’impostazione dichiaratamente “rivoluzionaria” ed un programma assai meno radicale nelle scelte e piuttosto vago nelle indicazioni concrete. La stessa scelta dell’aggettivo ‘civile’, fra l’altro, suona più come un rinvio ad una visione radicale e neo-illuminista che un richiamo a un’effettiva alternativa socialista. Ma il problema, ovviamente, non è solo di terminologico, visto che i 10 punti che, ad oggi, costituiscono la sintesi del programma di questo nuova alleanza mi lasciano perplesso proprio sulla sua effettiva carica ‘rivoluzionaria’.
Ho provato quindi a confrontare questo scarno manifesto “Io ci sto” di R.C. coi “40 punti’ del programma di SYRIZA per le scorse elezioni politiche in Grecia, raggruppandone le proposte in base a rubriche generali. Riporto di seguito questa mia sistemazione ‘tematica’ dei due programmi elettorali nella loro forma sintetica, ricondotti a cinque punti fondamentali: (a) riforme istituzionali, diritti e riforma e moralità della politica; (b) economia e finanza; (c) lavoro; (d) servizi educativi e socio-sanitari; (e) pace, disarmo e questioni ambientali.

I 10 PUNTI DI “RIVOLUZIONE. CIVILE”

A) RIFORME ISTITUZIONALI , DIRITTI E MORALITA’ DELLA POLITICA
1) Vogliamo che la legalità e la solidarietà siano il cemento per la ricostruzione del Paese;
2) Vogliamo uno Stato laico, che assuma i diritti della persona e la differenza di genere come un’occasione per crescere;
4) Vogliamo una politica antimafia nuova che abbia come obiettivo ultimo non solo il contenimento, ma l’eliminazione della mafia, e la colpisca nella sua struttura finanziaria e nelle sue relazioni con gli altri poteri, a cominciare dal potere politico;
8) Vogliamo che i partiti escano da tutti i consigli di amministrazione, a partire dalla RAI e dagli enti pubblici, e che l’informazione non sia soggetta a bavagli;
9) Vogliamo selezionare i candidati alle prossime elezioni con il criterio della competenza, del merito e del cambiamento;
10) Vogliamo che la questione morale aperta in Italia diventi una pratica comune e non si limiti alla legalità formale, mentre ci vogliono regole per l’incandidabilità dei condannati e dei rinviati a giudizio per reati gravi. Vogliamo ripristinare il falso in bilancio e una vera legge contro il conflitto di interessi ed eliminare le leggi ad personam.

B) ECONOMIA E FINANZA
5) Vogliamo che lo sviluppo economico rispetti l’ambiente, la vita delle persone, i diritti dei lavoratori e la salute dei cittadini, e che la scelta della pace e del disarmo sia strumento politico dell’impegno dell’Italia nelle organizzazioni internazionali, per dare significato alla parola “futuro”. Vogliamo che la cultura sia il motore della rinascita del Paese;
6) Vogliamo che gli imprenditori possano sviluppare progetti, ricerca e prodotti senza essere soffocati dalla finanza, dalla burocrazia e dalle tasse.

(C) LAVORO
7) Vogliamo la democrazia nei luoghi di lavoro, il ripristino del diritto al reintegro se una sentenza giudica illegittimo il licenziamento e la centralità della contrattazione collettiva nazionale;

(D) SERVIZI EDUCATIVI E SOCIO-SANITARI
3) Vogliamo una scuola pubblica che valorizzi gli insegnanti e gli studenti con l’università e la ricerca scientifica pubbliche non sottoposte al potere economico dei privati e una sanità pubblica con al centro il paziente, la prevenzione e il riconoscimento professionale del personale del settore;

E) PACE, DISARMO E QUESTIONI AMBIENTALI
5) Vogliamo che lo sviluppo economico rispetti l’ambiente, la vita delle persone, i diritti dei lavoratori e la salute dei cittadini, e che la scelta della pace e del disarmo sia strumento politico dell’impegno dell’Italia nelle organizzazioni internazionali,

I 40 PUNTI PROGRAMMATICI DI “SY.RIZ.A.

(A) RIFORME ISTITUZIONALI, DIRITTI E MORALITA’ DELLA POLITICA
4. Cambiare la legge elettorale perché la rappresentanza parlamentare sia veramente proporzionale.
26. Riformare la costituzione per garantire la separazione tra Chiesa e Stato e la protezione del diritto alla istruzione, alla sanità e all’ambiente.
27. Sottoporre a referendum vincolanti i trattati e altri accordi rilevanti europei.
28. Abolizione di tutti i privilegi dei deputati. Rimuovere la speciale protezione giuridica dei ministri e permettere ai tribunali di perseguire i membri del governo.
30. Garantire i diritti umani nei centri di detenzione per migranti.
31. Facilitare la ricomposizione familiare dei migranti. Permettere che essi, inclusi gli irregolari, abbiano pieno accesso alla sanità e all’educazione.
32. Depenalizzare il consumo di droghe, combattendo solo il traffico. Aumentare i fondi per i centri di disintossicazione.
(B) ECONOMIA E FINANZA
1. Realizzare un audit del debito pubblico. Rinegoziare gli interessi e sospendere i pagamenti fino a quando l’economia si sarà ripresa e tornino la crescita e l’occupazione.
2. Esigere dalla Ue un cambiamento nel ruolo della Bce perché finanzi direttamente gli Stati e i programmi di investimento pubblico.
3. Alzare l’imposta sul reddito al 75% per tutti i redditi al di sopra di mezzo milione di euro l’anno.
5. Aumento delle imposte sulle società per le grandi imprese, almeno fino alla media europea.
6. Adottare una tassa sulle transazioni finanziarie e anche una tassa speciale per i beni di lusso.
7. Proibire i derivati finanziari speculativi quali Swap e Cds.
8. Abolire i privilegi fiscali di cui beneficiano la Chiesa e gli armatori navali.
9. Combattere il segreto bancario e la fuga di capitali all’estero.
17. Sgravi fiscali per i beni di prima necessità.
18. Nazionalizzazione delle banche.
19. Nazionalizzare le imprese ex-pubbliche in settori strategici per la crescita del paese (ferrovie, aeroporti, poste, acqua …).
(C) LAVORO
11. Alzare il salario minimo al livello che aveva prima dei tagli (751 euro lordi al mese).
16. Aumentare i sussidi per i disoccupati.
21. Parità salariale tra uomini e donne.
22. Limitare il susseguirsi di contratti precari e spingere per contratti a tempo indeterminato.
23. Estendere la protezione del lavoro e dei salari per i lavoratori a tempo parziale.
24. Recuperare i contratti collettivi.
25. Aumentare le ispezioni del lavoro e i requisiti per le imprese che accedano a gare pubbliche.

(D) SERVIZI EDUCATIVI E SOCIO-SANITARI
12. Utilizzare edifici del governo, di banche e chiesa per ospitare i senzatetto.
13. Aprire mense nelle scuole pubbliche per offrire gratuitamente la colazione e il pranzo ai bambini.
14. Fornire gratuitamente la sanità pubblica a disoccupati, senza tetto o a chi è senza reddito adeguato.
15. Sovvenzioni fino al 30% del loro reddito per le famiglie che non possono sostenere i mutui.
16. Aumentare la protezione sociale per le famiglie monoparentali, anziani, disabili e famiglie senza reddito.
31. Facilitare la ricomposizione familiare dei migranti. Permettere che essi, inclusi gli irregolari, abbiano pieno accesso alla sanità e all’educazione.
34. Aumentare i fondi della sanità pubblica fino ai livelli del resto della Ue (la media europea è del 6% del Pil e la Grecia spende solo il 3).
35. Eliminare i ticket a carico dei cittadini nel servizio sanitario.
36. Nazionalizzare gli ospedali privati. Eliminare ogni partecipazione privata nel sistema pubblico sanitario.
E) PACE, DISARMO E QUESTIONI AMBIENTALI
10. Tagliare drasticamente la spesa militare.
29. Smilitarizzare la guardia costiera e sciogliere le forze speciali anti-sommossa. Proibire la presenza di poliziotti con il volto coperti o con armi da fuoco nelle manifestazioni…
33. Regolare il diritto all’obiezione di coscienza nel servizio di leva.
37. Ritiro delle truppe greche dall’Afghanistan e dai Balcani: nessun soldato fuori dalle frontiere della Grecia.
38. Abolire gli accordi di cooperazione militare con Israele. Appoggiare la creazione di uno Stato palestinese nelle frontiere del 1967.
39. Negoziare un accordo stabile con la Turchia.
40. Chiudere tutte le basi straniere in Grecia e uscire dalla Nato.
20. Scommettere sulle energie rinnovabili e la tutela ambientale.

Credo che basti anche un’occhiata a questo ‘quadro sinottico’ per fare qualche considerazione:
(i) In linea generale, il numero ridotto di punti dedicati da R.C. a certe questioni, come quella della pace, quella ambientale o quella del welfare, ancor prima del merito delle proposte avanzate, lascia perplessi sul modello alternativo di sviluppo che emerge da questa proposta politica;
(ii) la centralità dei concetti di “legalità” e quello di “moralità”, piuttosto che di equità e di diritti umani e sociali, mi sembra che costituisca un secondo elemento di differenza tra il programma di R.C. e quello di SYRIZA;
(iii) la priorità data da R.C. alla cultura come risorsa ed il richiamo alla tutela della salute e dell’ambiente e la contrarietà al peso di finanza, burocrazia e tasse sullo sviluppo – per quanto condivisibili in linea di massima – non indicano, però, un modello economico alternativo a quello liberista e privatistico attuale né delineano una chiara strategia nei confronti dei diktat dell’Europa delle banche;
(iv) su una questione centrale come quella del lavoro e dello statuto dei lavoratori, il semplice appello ad una maggiore “democrazia” da parte di R.C. appare oggettivamente debole, rifacendosi più a criteri di ‘legittimità’ dei provvedimenti che alla loro effettiva equità, aspetto invece più rilevante nel programma di SYRIZA;
(v) l’appello di R.C. a salvaguardare la natura ‘pubblica’ della scuola e della sanità – ovviamente sottoscrivibili in pieno – trascurano però del tutto il rilancio del sistema socio-assistenziale, che la relativa riforma (L. 328/2000) affida in senso federalista agli enti locali che non sono autonomi finanziariamente, e che sono quindi subiscono da anni i traumatici tagli del governo centrale al welfare;
(vi) mentre nel programma della sinistra radicale greca si parla esplicitamente di tagli alla spesa militare, di smilitarizzazione, di uscita dalla NATO e di netta opzione per le energie rinnovabili, nei ’10 punti’ di R.C. ci si limita ad un generica “scelta della pace e del disarmo” e, sul fronte ecologista, nulla si propone sul piano dell’inversione del modello energetico come fonte di uno sviluppo alternativo.
Naturalmente queste mie sono solo considerazioni personali, che affondano su una carenza di messaggi programmatici più espliciti da parte di R.C. più che su un’effettiva visione moderata o su oggettive ambiguità progettuali. Ma penso che anche ciò che non si dice abbia un peso, se ci si trova in piena campagna elettorale, per cui omissioni o concetti vaghi possono risultare sospetti.
La stessa scelta di parlare poco di programma e molto di personalità da candidare, inoltre, rischia di andare nella direzione quasi obbligata di una politica all’americana, dove ideologie e progetti a medio e lungo termini scompaiono sempre più, sovrastati dal leaderismo, dal culto mediatico dell’immagine personale dei candidati e dal simbolismo dei ‘colori’ e dei loghi.
Sinceramente mi auguro che le cose cambino e che dalla coalizione capeggiata da Ingroia esca un messaggio più chiaro e meno tatticamente vago. In caso contrario, la sinistra italiana avrà perso l’ennesima occasione per dimostrare che “cambiare si può” e, ancora una volta, invece di “aprire la strada alla speranza” ci lascerà nel vicolo cieco della rassegnazione all’esistente.

© 2013 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

LA LEZIONE DI SYRIZA

Lo slogan elettorale di SY.RIZ.A. – la Coalizione della Sinistra Radicale che si è presentata alle ultime elezioni politiche in Grecia – è: “Ανοιγουμε δρομο στην ελπιδα”, che significa: “Apriamo la strada alla speranza”. E’ indubbiamente un motto difficile da far accettare a chi sta vivendo sulla sua pelle una crisi economico-politica particolarmente grave. Eppure, e proprio per questo, l’esortazione di SYRIZA a sperare in un vero cambiamento è stata accolta positivamente da oltre un quarto degli elettori greci, consentendo l’elezione di ben 71 deputati della Coalizione, che diventa il secondo partito nel Parlamento.

Non ho nessuna intenzione di lanciarmi in commenti su questa significativa svolta ellenica né voglio atteggiarmi a politologo senza averne la qualificazione. Da ecopacifista, però, non posso fare a meno di sottolineare come SYRIZA sia riuscita a far convivere le tradizionali istanze della sinistra socialista (giustizia retributiva, tassazione dei profitti finanziari, nazionalizzazione delle banche, abolizione dei privilegi fiscali, diritto alla salute per tutti, recupero dei contratti collettivi e lotta alla precarietà occupazionale etc.), con quelle dei movimenti per la democrazia dal basso e pacifisti (tutela dei diritti umani e socio-sanitari dei migranti, laicità dello stato, opposizione alla privatizzazione della sanità e dell’istruzione, diritto all’obiezione di coscienza, chiusura delle basi straniere ed uscita dalla NATO, taglio delle spese militari etc.).

C’è però un aspetto che non emerge dalla sintesi del programma in 40 punti, diramata da SYRIZA ed ovviamente ripresa da tutti i media, probabilmente senza nemmeno andarsi a guardare il programma originale: la posizione della coalizione della sinistra radicale greca sulle principali questioni ambientali. Anche i punti programmatici riguardanti la pace ed il disarmo, nella sintesi – pubblicata tra l’altro su: http://web.rifondazione.it/home/index.php/12-home-page/7794-programma-di-syriza  – risultano meno significativi, se estrapolati da un’impostazione più globale.

Sì, è vero. Il Programma elettorale pubblicato sul sito ufficiale di SYRIZA ( http://www.syriza.gr/ ) è scritto rigorosamente ed esclusivamente in lingua greca, elemento che non invita esattamente a cimentarsi in “versioni” in italiano, soprattutto in questi delicati tempi di maturità…  E’ pur vero che per capire qualcosa di più bisogna fare qualche piccolo sforzo e, in questo senso, un grande aiuto viene da programmi di traduzione rapida (seppur molto approssimativa) come Google Translator e simili, reperibili facilmente sul web.

I punti del corposo “programma” (sì, in greco di dice proprio così…) sui quali mi sono soffermato sono stati, ovviamente il n° 1 (Programma per la Politica Estera e di Difesa) ed il n° 7 (Posizioni programmatiche per l’Ambiente e la Qualità della Vita).  All’impostazione pacifista di SYRIZA avevo già accennato prima, citando i punti della sintesi che parlano – senza se e senza ma – di tagli alle spese militari, obiezione di coscienza, smilitarizzazione dei corpi di polizia, chiusura delle basi militari e fuoriuscita della Grecia dall’Alleanza Atlantica. Leggendo il testo integrale del programma, però, emergono aspetti più interessanti, fra cui la considerazione che in campo internazionale la diplomazia deve prevalere sui rapporti gestiti dalla Difesa, la difesa dei diritti del popolo palestinese, o anche il totale rigetto dell’idea stessa delle cosiddette “guerre umanitarie” o “per la democrazia”.  Al punto 6 di questo capitolo, ad esempio troviamo scritto: “Noi crediamo che la nuova dottrina della NATO e il piano per il cosiddetto “scudo antimissile” aumenti il rischio di guerra, in particolare nella nostra regione. La Grecia dovrebbe collaborare con altri paesi per impedire l’attuazione di questi piani. Perseguiremo il ritiro immediato della forza greca in Afghanistan e in altre missioni militari della NATO o dell’Unione Europea. Rimane stabile e irreversibile posizione strategica per noi la necessità di disimpegnarsi dalla NATO. Siamo consapevoli delle difficoltà di questa posizione. Ma crediamo che gli sviluppi internazionali confermano la correttezza della nostra posizione.”  Tale posizione di SYRIZA è del resto contenuta nel titolo stesso del capitolo sulla politica di difesa, che dovrà essere, appunto: “…nuova, indipendente, attiva e pacifica”

Dove invece la sintesi programmatica in 40 punti tace del tutto, mentre sarebbe stato opportuno  mettere in luce questi aspetti, è il citato settimo capitolo, dedicato alle questioni ambientali e relative alla qualità della vita, e quindi a quell’ecosocialismo che è di fatto una delle componenti fondamentali della coalizione greca.

Il primo paragrafo di questa trattazione, infatti, si apre con una frase emblematica: “L’energia è un bene comune” e prosegue indicando le priorità per una politica energetica eco-sostenibile, a partire dal risparmio energetico (“Il principale obiettivo della politica energetica è quello di risparmiare energia e aumentare l’efficienza energetica in tutti i settori”) e dalla pianificazione di risorse energetiche alternative (“In aggiunta a quanto sopra, SYRIZA / EKM s’impegna a sviluppare un programma a lungo termine di pianificazione energetica, per ridurre la produzione da combustibili fossili e le emissioni di gas serra e per la penetrazione delle fonti rinnovabili, al fine di diversificare radicalmente il modello energetico”).

Certo, il programma si sofferma soprattutto sugli aspetti sociali della questione energetica (prezzo popolare delle risorse, incentivi per i singoli e disincentivi per i grandi consumatori (“…la questione dei prezzi dell’energia per i consumatori residenziali deve essere determinato non dal mercato ma dalle priorità sociali…”). E’ però il caso di sottolineare che SYRIZA si caratterizza anche per una proposta autenticamente eco-sostenibile, facendo appello alle istituzioni accademiche, di ricerca e scientifico-tecnologiche affinché la Grecia possa dotarsi di un moderno sistema di produzione e distribuzione di energia, ricorrendo principalmente alle fonti rinnovabili e diffuse. E’ scritto infatti:

“In questo contesto, l’uso del suolo nelle zone rurali terrà conto della necessità di produrre energia da fonti rinnovabili, per quanto possibile, a seconda delle caratteristiche specifiche di ciascuna regione geografica, della necessità per la gestione e la distribuzione dell’energia prodotta inizialmente a livello locale, e parallelamente della necessità d’integrare tutte le varie unità decentrate nel sistema energetico nazionale  […] Nel complesso, si prescrive uno standard di autosufficienza energetica, di sicurezza e di gestione decentrata…”

Si tratta proprio delle priorità che da anni si sono dati gli ambientalisti italiani, ed in particolare noi del Comitato Campano che ha promosso la legge regionale popolare sulla cultura e diffusione dell’energia solare. L’autosufficienza energetica, unita con la gestione decentrata e ‘locale’ delle fonti naturali e rinnovabili, infatti, sono il punto centrale per chi vuole diffondere una visione totalmente alternativa, al tempo stesso rispettosa della natura e profondamente democratica.

Un altro punto importante, che troviamo nel programma di SYRIZA, è la: “…..ricerca e sviluppo di forme alternative di tecnologie delle energie rinnovabili e sistemi di stoccaggio dell’energia prodotta da sistemi solari ed eolici”,  poiché ogni comunità deve puntare all’autosufficienza energetica, evitando costosi ed inutili trasferimenti di energie lungo reti spesso lunghissime e fonte di enormi sprechi, oltre che occasione di accaparramento di risorse che sono di tutti.

Bene, ho la sensazione che se anche in Italia fossimo capaci di costituire una vera coalizione di forze alternative – socialiste autogestionarie, pacifiste ed ambientaliste – le cose potrebbero cambiare davvero, e nel senso giusto.  Purtroppo il quadro della nostra realtà politica è molto più desolante e deprimente ed anche chi, qui in Italia, inneggia all’esperimento di SYRIZA, in effetti si guarda bene dall’uscire dal proprio misero orticello elettorale.  Ma anche noi abbiamo diritto a quella “speranza” di cui la coalizione della sinistra radicale greca ha saputo farsi portatrice, perché un sistema finanziario multinazionale, strettamente legato al complesso militare-industriale, non si sconfigge certo col velleitarismo dei gruppuscoli o col cinico trasformismo dei partiti, ma piuttosto con un’ampia e significativa alleanza di chi crede ancora, e fermamente, nella giustizia, nella pace ed in uno sviluppo davvero ecologico.

© 2012 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

RESPONSABILITA’ VS RASSEGNAZIONE (1)

imagesE’ da un po’ che mi sento poco stimolato a scrivere qualcosa. Eppure gli argomenti e gli spunti non mancano, come sa bene chi voglia dare almeno un’occhiata ai quotidiani e non sia del tutto “out” rispetto ad una serie di fatti di cronaca, politica e non, che i media ci sbattono in faccia. Quello che sembra essere sopravvenuto, nel mio caso, non è disinteresse per ciò che sta capitando, semmai una specie di saturazione, stanchezza e fastidio per una realtà che avverto sempre più lontana ed ostica. Una sorta di rigetto verso il miscuglio di malignità e d’imbecillità che sembra caratterizzare il nostro tempo, dal quale il futuro sembra essere stato bandito e la responsabilità cancellata.
Lo so, è una valutazione pesante. Ma il fatto di essere in prima persona coinvolto ed impegnato in ambienti e situazioni molto diverse – la scuola, l’ambientalismo, il lavoro sociale quello nell’ambito della chiesa – se non mi consente impossibili generalizzazioni, mi permette di guardarmi attorno in modo più ampio, ovviamente all’interno del tormentato contesto territoriale ed umano nel quale mi tocca di vivere.
E’ questa, infatti, la prima domanda che sorge spontanea, e non credo solo nella mia testa: è mai possibile che in questo bene/maledetto pizzo della Terra si siano concentrate tutte le contraddizioni, le inefficienze e le malefatte dell’umana specie, vanificando di fatto condizioni ambientali e risorse umane che potrebbero essere considerate ideali? Sui nostri capi pende forse qualche arcana e remota maledizione, visto che tutto sembra andare per il verso contrario, a dispetto di premesse favorevoli?
Ovviamente la situazione è molto più complessa di ciò che appare e certi problemi sono chiaramente sintomo di mali molto più ampi, diffusi e generalizzati. Allo stesso modo, alla faccia del catastrofismo che trasuda dalle cronache, è innegabile l’esistenza d’una realtà alternativa: attiva, laboriosa e combattiva, fatta di tante persone “toste”, che non hanno nessuna intenzione di mollare e che persistono nel loro quotidiano impegno, anche se pochi sembrano accorgersene e se nessuno le gratifica di un qualsiasi riconoscimento.
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RESPONSABILITA’ VS RASSEGNAZIONE (2)

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Sta di fatto, comunque, che svegliarsi ogni giorno in una città come Napoli e dover uscire la mattina per andare a fare (o cercare…) il proprio lavoro è molto più stressante e frustrante di quanto accadrebbe in altri posti dove ogni cosa non costituisce un problema e non si è costretti a cominciare sempre daccapo…
Non mi riferisco a questioni pesantemente strutturali come la disoccupazione endemica, una pervasiva criminalità organizzata oppure la struttura urbanistica asfittica di una città saccheggiata e depredata. Non sto pensando neppure ai terribili rischi sismici e vulcanici che, anche di recente, qualcuno ha voluto sbattere sul muso di troppi distratti ed incoscienti abitanti di un territorio di cui non riescono a diventare davvero cittadini, abituati come sono ad esorcizzare tutti i rischi – dalle catastrofi c.d. naturali agli incidenti sul lavoro – facendo ricorso a rituali scaramantici e rispolverando un fatalismo atavico.
Mi riferisco piuttosto alle quotidiane piaghe che affliggono il corpo di Napoli: il traffico convulso ed irrazionale, l’abusivismo a tutti i livelli, il pressappochismo colpevole di troppi tecnici ed amministratori pubblici, la dispersione scolastica, il caos degli ospedali e le mille altre facce di una precarietà esistenziale assurta a regola di vita ed accompagnata da una generalizzata fuga dalla responsabilità e dal rigore morale.
Eppure non è che manchino stimoli positivi ed appelli autorevoli, a partire da quelli della Chiesa e di tante istituzioni e realtà associative che si spendono quotidianamente per invertire questa tendenza e per prefigurare scenari diversi per le nostre comunità. Fatto sta che esortazioni ed ipotesi alternative non sono sempre accompagnate da azioni continuative e, al tempo stesso, capaci di coinvolgere sempre più persone in un processo di cambiamento che tutti sembrano ritenere necessario, ma non per questo riesce a diventare una prospettiva credibile e concreta.
Che fare allora? Non esistono certo formule né ricette valide e sicure, ma penso sia evidente che il primo elemento sul quale occorre far leva è il richiamo alla dignità, personale e collettiva, di chi non si sia rassegnato definitivamente a tale situazione. E’ un po’ come quando un insegnante deve darsi una strategia educativo-didattica per affrontare i sempre più frequenti casi in cui alunni/e provino un autentico rifiuto della scuola, per le sue regole, per le sue proposte e per i suoi valori.
E’ inutile ricorrere a prediche, minacce o lusinghe: il contrasto è troppo marcato ma, d’altra parte, non è possibile che la scuola rinunci al suo compito formativo o, peggio, si rassegni ad inseguire la realtà, magari ricorrendo a segnali ambivalenti. Il primo passo non può essere che quello della disponibilità e dell’apertura alle esigenze di questi minori ed al loro disagio. Ma poi bisogna trovare il modo per riattivare le loro risorse personali ed il senso di autostima di ciascuno/a, proprio perché la dignità è la base per un comportamento più autonomo e responsabile, e nel contempo meno condizionato da un ambiente sfavorevole e malsano.
Allo stesso modo, probabilmente, bisognerebbe affrontare le problematiche della nostra città, cominciando a restituire ai suoi abitanti la dignità di cittadini che contano, che sono interpellati prima di decidere, che non debbano sentirsi né blanditi né minacciati, ma autenticamente serviti da chi si è proposto per rappresentarli ed amministrarli. Ecco perché la responsabilità personale ed il senso della comunità restano obiettivi irrinunciabili per un uscire dalla palude della rassegnazione e recuperare la speranza in un futuro possibile.

© 2010 ERMETE FERRARO