La ‘felice memoria’ di Renato de Falco

È stato proprio un bell’incontro. Credo che Renato de Falco ne sarebbe stato contento, osservando dall’alto la sala della Fondazione Mezzogiorno Europa – all’interno di Palazzo Reale – affollata di persone venute a rendergli omaggio. Gli sarebbe piaciuto il tono serio, ma non serioso, con cui lo abbiamo ricordato, anzi abbiamo attualizzato il ricordo mai spento della sua inesauribile e poliedrica attività di maestro della lingua e cultura napolitana, di profeta della sua divulgazione popolare che non ha mai perso la consistenza, la ‘sostanza’ diremmo noi, della sua profondità di filologo. Ma per coltivare seriamente la filologia, ho osservato nel mio intervento, bisogna essere prima ancora ‘logofili’, cioè amanti della parola, appassionati della sua storia e capaci di ripercorrerla in modo scientifico, in modo da ricostruire etimologie altrimenti affidate a intuizioni o fantasia, come purtroppo accade.

Renato de Falco, noto avvocato napolitano, è stato definito la “Cassazione del Napolitano” e riconosciuto come il maggiore cultore e custode di una napolitanità che non è affatto ‘a rischio’ di estinzione, ma deve piuttosto essere coltivata e rivitalizzata per non ridursi a caricatura di se stessa. Nel manifesto d’una mostra commemorativa a lui dedicata, tenuta al P.A.N. nel 2017, de Falco era definito “un signore napolitano”, sottolineando giustamente una ‘signorilità’ mai contrassegnata da altezzosità, ma condita e insaporita col sale della genuinità e dell’arguzia popolare.

L’intervento di Claudio Pennino – noto poeta, scrittore, traduttore e napolitanista – ha messo in luce quanto dobbiamo tutti/e a questo Maestro, che è stato capace di trasformare le sue ricerche filologiche in gustosi interventi per la televisione, raccolti nel volume “Alfabeto napoletano” che tuttora resta la Bibbia di chi si sente scorrere nelle vene il fluido di una napolitanità al tempo stesso antichissima e moderna. Il libro – ristampato numerose volte dal 1985 al 2019 – che spiccava ovviamente sul tavolinetto davanti alla postazione dei partecipanti a questo ricordo, quasi un altare predisposto per celebrare, insieme con de Falco, la “lingua geniale” cui egli ha dedicato tutta la vita.

Anch’io ho reso doveroso omaggio a questo illustre precursore di tutti quelli che anche adesso si sforzano – con caparbietà e passione – di riportare alla gente di Napoli una cultura ed una lingua che rischiano di essere banalizzate, volgarizzate e parodiate, smarrendone la preziosa eredità, senza preoccuparsi di tramandarle alle nuove generazioni. Ho ricordato infatti che molto si sta facendo ancora per raccogliere il testimone del suo insegnamento, mai pedante ma piacevole ed accattivante, attraverso corsi tenuti presso centri culturali, associazioni ed università popolari, cercando di portare l’insegnamento del napolitano nelle scuole e di sviluppare una cultura identitaria ma non passatista. Ho anche fatto presente quanto si sta cercando di fare per far uscire lo studio e la pratica della nostra lingua dal chiuso delle aule universitarie e delle biblioteche, restituendo alla gente il diritto di parlare e scrivere come pensa, però in modo più preciso e corretto. Purtroppo l’approvazione nel 2019 della legge regionale sulla tutela e valorizzazione del nostro idioma – cui avevo dato il mio contributo – non mi sembra che si sia finora rivelata lo strumento giusto per sostenere lo sforzo chi vorrebbe liberare il napolitano dalla gabbia accademica in cui è intrappolato, non agevolando né promovendo la diffusione di esperienze capaci di agire alla base di questo processo di rivitalizzazione.

Il guaio – ha osservato Vincenzo de Falco, avvocato come il padre ma anche scrittore, regista e traduttore – è che all’eccesso di cultura cattedratica che poco comunica col quotidiano si somma oggi anche l’eccesso opposto, quello di una divulgazione mediatica che definirei ‘sciué sciué’, più populista che popolare, accattivante e divertente ma figlia della superficialità di chi si accontenta d’informazioni raffazzonate raccolte su internet. Questo accade naturalmente quando si tratta di spiegare l’etimologia delle parole napolitane – come ha ricordato citando i suoi sapidi articoli ma mostrando anche quanto, di recente, la ricerca della loro origine abbia rivelato spesso basi cognitive fragili e fallaci.   

Tornare a de Falco – che avrebbe potuto essere il titolo dell’incontro – significa quindi conservare il tono vivace ed umoristico della divulgazione, ma anche blindarne i contenuti con la serietà nella ricerca delle fonti etimologiche e letterarie. Significa sicuramente  evitare la pedanteria di alcuni studi accademici ma, seguendo il suo esempio, utilizzare l’arte della paremiologia per fare dei proverbi popolari non soltanto l’occasione per farsi una risata, ma in primo luogo per riflettere sul nostro DNA culturale e sulla stratificazione di millenni e di culture che solo un attento geologo della lingua riesce a rilevare.

Vincenzo de Falco, Ermete Ferraro, Claudio Pennino

Dobbiamo dunque augurarci che gli spunti emersi da questo incontro diano dei frutti non solo nella vendita della ristampa del libro di de Falco – che non ne ha certo bisogno – ma soprattutto nella maturazione della consapevolezza che il destino del napolitano non può restare nelle mani di alcuni ‘sacerdoti’ che ne celebrino il ricordo, se non diventa impegno diffuso e comunitario a mantenerlo vivo e vegeto.  La degustazione finale dei dolci della tradizione natalizia partenopea ha concluso gradevolmente questo evento, evocando al tempo stesso uno dei temi più trattati da Renato de Falco nelle sue raccolte di parole e locuzioni, spesso consacrate ai temi del cibo e della salute. Insomma, per mutuare le parole da lui pronunciate in un video alcuni anni prima della scomparsa, spero che siamo riusciti a rispettare il senso di quella “felice memoria” con la quale egli disse di voler essere ricordato. Perché la memoria è autentica e utile solo quando induce felicità, cioè – etimologicamente parlando – se risulta feconda, fertile, e produttiva. E qui – avrebbe detto de Falco – “è il momento di far punto”.

Petrosinella nel minestrone

Avrei voluto evitarlo, ma proprio non ce la faccio. Il nome di Roberto De Simone è davvero troppo importante perché un qualunque professore di lettere come me ardisca profferir parola in qualche modo critica nei suoi confronti. Eppure non me la sento di tacere a proposito del suo intervento su la Repubblica [i] che – proprio perché molto autorevole – rischia di avallare e consolidare il già troppo frequente ricorso a spropositi ortografici nella scrittura del Napolitano, verso i quali sto cercando da anni di alzare un muro difensivo, insieme ad altri valenti studiosi.[ii]

Su suggerimento di un amico, ero infatti corso a leggere le pagine locali del citato quotidiano per trovarvi l’originale riscrittura di De Simone – utilizzando il codice fonetico internazionale noto come I.P.A. – della prima fiaba della seconda giornata del Cunto de li cunti’ di G. B. Basile. Già leggendo le parole del Maestro nella prima parte dell’articolo, però, mi era parso di cogliere qualche lieve stonatura tra intenzioni dichiarate e strumentazione impiegata per quel fine.

« Nell’ambito internazionale della cultura più avanzata, il problema oggi è oggetto di accurata analisi, e ci si può giovare di trattati e dispense scientifiche sull’argomento, […] giungendo fin dall’inizio a un apposito alfabeto fonetico detto Ipa (International Phonetic Alphabet), tutt’ora in uso. […] In tal senso, sommariamente indicheremo esclusivamente le vocali mute in fine di parola, quelle acute o gravi, con un “puntino” le altre mute disposte all’interno d’un vocabolo, i troncamenti in fine di parola e la “s” fricativa con il segno “ŝ”…» [iii]

Continuando nella lettura, mi sono così imbattuto nella trascrizione ‘fonetica’ che De Simone ha fornito della celeberrima Petrosinella’ ed i miei dubbi sono diventati purtroppo certezza. Sebbene egli citi esplicitamente l’Alfabeto Fonetico Internazionale [iv] (la cui codificazione risale al 1989, con piccole integrazioni successive), francamente non si comprende da quali fonti abbia tratto la metodologia adottata, in quanto egli fa ricorso a grafemi e segni diacritici che col codice I.P.A. non hanno nulla a che vedere.

Mi rendo conto che la secolare diffidenza verso la scrittura fonetica risponde a motivazioni ragionevoli, che vanno dalla difesa (un po’ nazionalista) dell’autonomia e specificità di ogni singolo idioma alle oggettive difficoltà pratiche derivanti dall’adozione generalizzata di un codice grafico estraneo al sistema classico – ‘occidentale’ – di scrittura meccanica e poi computerizzata, conosciuto come QWERTY. [v]  Sono dunque consapevole delle obiezioni che si oppongono ad una norma unificante di tutti i codici grafici, sebbene l’impiego di un sistema fondato sul principio 1 fonema = 1 grafema arrecherebbe un notevole ed indiscutibile vantaggio allo studio delle lingue straniere. Tutto ciò, d’altra parte, non mi sembra che giustifichi l’atteggiamento sospettoso e critico di linguisti ed esperti di media né tanto meno la trascuratezza di tanti miei colleghi docenti nei confronti dell’insegnamento già dalle scuole medie dei fondamenti della fonetica e della pratica scolastica – e quindi semplificata – della scrittura fonetica internazionale.

Come sperimentatore da oltre un decennio dell’insegnamento nelle scuole medie anche della lingua napolitana, infine, ho dovuto spesso fronteggiare anche la diffidenza di molti ‘cultori della materia’ verso l’introduzione di segni diacritici nella sua scrittura, prendendo magari in prestito grafemi dal codice fonetico internazionale (ad es. nel caso della /s/ seguita da /c/, /p/ , /q/  – denominata ‘fricativa postalveolare sorda’ – trascrivibile a mio avviso o con il segno IPA  / ʃ /, oppure con lettere adoperate in alcune lingue di ceppo slavo, come / š / e / ş /. Si può quindi immaginare quanto mi avrebbe fatto piacere poter contare sull’autorevole avallo di un esperto di cose napolitane come il maestro De Simone, che però è svanito bruscamente non appena mi sono trovato di fronte alla sua versione ‘fonetica’ della celebre fiaba seicentesca del Basile.

«P.TRUS.NELLA –  Er’ na vot’ na fémm.na prèn’ chiammata Paŝcaròzia, la qual’, affacciat.s’ a na f.nèstr’ ch’ ŝbucav’ a nu ciardin’ de n’Orca, védd’ nu bellu quatr’ r’ p.trusin’, de lu qual’ l’ vénn’ tantu vulìø ch’ s’ s.ntév’ aŝc.vulir’: tanto che nu putenn’ r.sist.r’, abbistat’ quann’ scétt’ ll’Orca, n’ cugliètt’ na vrancat’. Ma turnat’ ll’Orca a la cas’ e vulenn’ far’ la sàuz’, s’addunàje ca nc’ er’ m.nat’ la fàuce, e diss’: «M’ s’ pòzza ŝcat.nar’ lu cuoll’ si nce mmatt’ stu man.c’ r’ancin’ e nu lu facciø p.ntir’, azzò s’mpar’ ogn.un’ a magnar’ a lu taglier’ sujø, e nu ŝcucchiariar’ p’ le pignat’ r’autr’» [vi]

«Il risultato – ne sono sicuro – produrrà nella recitazione una sonorità dolcissima, evocativa, quasi prodotta da una voce antica che ci giunge attraverso i secoli, cullando l’immaginario sedimentato e stratificato nel nostro secolare inconscio…» [vii]

Col dovuto rispetto per un musicologo compositore e regista che onora Napoli, questo suo ardito esperimento grafico mi evoca ben altro che una ‘dolcissima sonorità’ e, viceversa, mi ricorda l’attuale, cacofonica ed approssimativa, maniera di scrivere la nostra povera lingua. Essa deriva dalla deprecabile abitudine di storpiarla con apostrofi sballati, troncamenti improponibili ed assurde sparizioni delle vocali atone che invece, sia al centro che alla fine delle parole, non sono mai ‘mute’, bensì caratterizzate da un suono indistinto. Altro che “voce antica”! A me fa venire in mente la smozzicata ed elementare grafìa ‘da smartphone’ adoperata attualmente da ragazzi ed adulti, da qualche noto rapper e perfino da famosi marchi commerciali, che utilizzano strumentalmente – e male – il Napolitano per apparire ‘popolari’.

Mi resta comunque la curiosità su quali fonti De Simone abbia consultato per giungere a questo risultato. Da dove ha tratto, ad esempio, l’uso di un ‘puntino’ per indicare le vocali atone indistinte intermedie, unendolo ad un ancor più improbabile ricorso all’apostrofo come marcatore delle vocali indistinte finali? Chi mai gli ha suggerito l’adozione di un grafema come / ŝ / , che appartiene al sistema grafico dell’esperanto [viii] e non certo al codice IPA? Da dove sbuca poi il grafema / ø /, chiamato ‘aptang’ , che appartiene alla fonetica ed alla grafia delle lingue scandinave? [ix] La verità è che questo minestrone grafico non mi sembra che giovi al miglioramento dell’ortografia del Napolitano moderno, ma neanche che sia evocativo di quello antico.

Giusto per dare l’idea di come apparirebbe lo stesso brano citato di ‘Petrusinella’ se si adottasse l’alfabeto fonetico internazionale, di seguito ne do una mia versione personale, che utilizza i grafemi ‘speciali’ dell’IPA quando mi sembra strettamente necessario.[x]

« Pɘtrusɘnélla – Érɘ na vòtɘ na fémmɘnɘ prènɘ, kjammàtɘ Paskɘdòz:jɘ; la kwalɘ, affɘcciàtɘsɘ a na fɘnèstrɘ, kɘ ʒbuk:àvɘ a nɘ cjardìnɘ dɘ n’òrkɘ, véddɘ nɘ b:èllɘ kwatrɘ dɘ p:ɘtrusìnɘ. Dɘ lo kwalɘ lɘ vènnɘ tantɘ golìɘ, kɘ sɘ sɘntévɘ ascevɘlìrɘ. Tantɘ kɘ, non pɘténnɘ rɘsìstɘrɘ, ab:istàtɘ kwannɘ scêttɘ l:òrkɘ, nɘ kɘgliéttɘ na vraukàtɘ. Ma, turnàtɘ l’:òrkɘ a l:a kàsɘ, e vulénnɘ fàrɘ la sàwzɘ, s’addunàjɘ kɘ nc’érɘ mɘnàtɘ la fàwcɘ, e d:issɘ: «Mɘ sɘ pòzzɘ ʃkatɘnàrɘ lɘ kwòllɘ, si ncɘ méttɘ stɘ m:ànɘkɘ d’ancìnɘ, e non ne l:o fàccjɘ pɘntìrɘ, azzò sɘ mparɘ ognɘ unɘ a m:agnàre a lɘ tagliérɘ sujo, e n:o ʃkuk:iɘriàrɘ pɘ l:e pignàtɘ d’àwtrɘ!»

Certo, bisognerebbe fare progressivamente l’abitudine a questa scrittura e, soprattutto, praticarne l’uso già nella scuola, ad esempio quando si studiano lingue straniere come l’inglese, per le quali la coincidenza tra grafema e fonema è molto rara.  Forse per imparare a scrivere meglio il Napolitano non sarà indispensabile ricorrere ai segni grafici speciali, o quanto meno lo si potrebbe fare solo in alcuni casi molto specifici di suoni inesistenti in italiano, come appunto lo shwa / ɘ / per le vocali atone indistinte centrali e finali e per il segno della fricativa postalveolare sorda / ʃ /. Sarebbe comunque opportuno, a mio avviso, evitare di ricorrere a soluzioni che, come quella proposta dal Maestro de Simone, rischiano di peggiorare la già scadente ortografia della nostra bella lingua, per la quale sono invece indispensabili regole certe, condivise e correttamente insegnate.

© 2019 Ermete Ferraro


[i] Roberto De Simone, “Così ho ritrovato le sonorità antiche della lingua del Basile”, la Repubblica, Napoli, pp. XIII-XV > https://napoli.repubblica.it/cronaca/2019/04/03/news/napoli_roberto_de_simone_per_repubblica_cosi_ho_ritrovato_le_sonorita_antiche_della_lingua_di_basile_-223183442/?rss

[ii] Dagli anni ’90 ho iniziato un’esperienza d’insegnamento della lingua e cultura napolitana in due scuole medie pubbliche e svolgo per il terzo anno un analogo corso per adulti presso l’Unitre (Università delle tre Età) di Napoli. Sono il curatore di una specifica pagina facebook ( Prutezzione d’ ‘a Lengua Napulitana ) e collaboro con varie associazioni e singoli studiosi, fra cui: Amedeo Messina, Nazario Bruno, Davide Brandi, Salvatore Argenziano, Gianni Polverino, Raffaele Bracale, Maria D’Acunto, Massimiliano Verde ed altri) impegnati nella tutela e promozione della lingua napolitana. In tal senso, sono stato anche estensore d’un progetto di legge in discussione al Consiglio regionale della Campania, a firma del cons. F. E. Borrelli.

[iii] Art. cit., p. XIII

[iv] Cfr. Voce “Alfabeto fonetico internazionale” in Wikipedia > https://it.wikipedia.org/wiki/Alfabeto_fonetico_internazionale  e  Laboratorio di Fonetica Sperimentale ‘Arturo Genre’ (LFSAG), Tabella IPA > http://www.lfsag.unito.it/ipa/index.html

[v] Vedi la voce “QWERTY” in Wikipedia > https://it.wikipedia.org/wiki/QWERTY

[vi] Vedi art. cit., p. XIV

[vii] Ibidem, p. XIII

[viii]  Vedi la voce corrispondente su Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/%C5%9C

[ix]    Vedi la voce corrispondente su Wikipediahttps://it.wikipedia.org/wiki/%C3%98

[x]  Oltre alle tabelle citate nella nota iv, è utile far riferimento anche all’ottimo dizionario della lingua napolitana  di Sergio Zazzera, edito da Newton Compton (https://www.amazon.it/Dizionario-napoletano-Sergio-Zazzera/dp/8854109215 ), nel quale sono invece riportate integralmente  le trascrizioni fonetiche di ciascun lemma da lui curato.

Che si dice in Dacia?

Diario minimo di un viaggio in Romania

Una settimana affacciati ai Balcani…

40487972_269986853826162_137723499350327296_nQuesto scritto è il seguito ideale del precedente post, in quanto sintesi della settimana che ho trascorso in Romania con mia moglie Anna e la minore delle tre figlie, Chiara. Infatti la mia scherzosa esplorazione delle affinità elettive – quanto meno sul piano linguistico – tra Napolitani e Romeni si chiudeva così: “Comunque, quando tornerò dal mio viaggetto in Romania, vi farò sapere se questa somiglianza ha funzionato anche per me e per la mia famiglia.” [i] Non intendo venir meno a tale impegno e cerco quindi di tratteggiare la nostra scoperta della Dacia degli antichi Romani, sottolineando gli aspetti che più mi hanno colpito di questo paese, caratterizzato dall’originale compresenza di elementi culturali ed espressivi che rinviano alla tradizione latina, ma anche greco-bizantina, ottomana e germanica. [ii] A proposito di lingua romena, devo ammettere che la mia ricerca, oltre che per la brevità del soggiorno, è stata in gran parte vanificata dalla generale tendenza degli abitanti di questo paese a rivolgersi ai turisti direttamente in inglese, in spagnolo e talvolta anche in italiano. La mia più significativa fonte di conoscenza del Romeno, pertanto, è stato l’ascolto in albergo d’interminabili notiziari televisivi, intervallati da lunghi dibattiti e da estenuanti pause pubblicitarie, in massima parte dedicate a propagandare articoli farmaceutici di ogni tipo. Ne ho ricavato la conferma che la comprensione di questa originale lingua neolatina è abbastanza agevole, anche se la sua sonorità ha più a che fare con il ligure o il veneto che col mio Napolitano. [iii]  E’ innegabile, inoltre, che il Romeno ricordi molto l’Esperanto. La commistione di elementi linguistici eterogenei tipica della limba română [iv], infatti, richiama alla mente la voluta mescolanza di matrici glottologiche che caratterizza la lingua artificiale e transnazionale ideata, come auspicio di unità dei popoli, dal polacco Zamenhof alla fine del XIX secolo, da tempo accantonata e surclassata dall’onnipresente Inglese, ma ora rilanciata con varie iniziative. [v]

Lasciando da parte le considerazioni di natura linguistica, vorrei sottolineare alcune somiglianze e differenze che ho riscontrato nel corso di questa săptămâna română di metà agosto, che ci ha visti atterrare all’enorme aeroporto di Otopeni e percorrere per la prima volta la periferia e l’intera città  su un taxi guidato da un esuberante e chiassoso autista ispano-parlante. A parte la sensazione d’incredibile vastità e dilatazione urbanistica che la pianeggiante București lascia nel visitatore – ben diversa dalla forzosa concentrazione territoriale di Napoli – la prima sensazione è stata quella di muoverci in una vera capitale europea con ambizioni metropolitane, caratterizzata da lunghi e larghi boulevard alberati in stile parigino, enormi piazze, numerosi monumenti ed imponenti palazzi dallo stile ibrido ma sempre magniloquente. Come scriveva recentemente in un commento una giornalista de la Repubblica:

«Tra chiese mozzafiato simbolo di resilienza ed edifici maestosi di triste memoria, tra scorci eleganti e terme spettacolari, la capitale romena è uno scrigno zeppo di sorprese […] Di storia e di storie, passeggiando per Bucarest, ne incontrerete tante, e verrete letteralmente conquistati dalla sua atmosfera elegante – non a caso la città è stata ribattezzata “la piccola Parigi” – e dal suo fascino decadente, un po’ dark e un po’ tamarro, un po’ est e un po’ ovest, un po’ fuga dal passato e un po’ nostalgia del futuro.» [vi]

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Bucarest – Piazza della Rivoluzione

Questa ambiziosa megalopoli, che fa distretto a sé ed è divisa in affollati ‘sestieri’, ospita quotidianamente fino a 3 milioni di persone, con un numero di effettivi abitanti comunque pari al 10% dell’intera Romania. Eppure – complice probabilmente la festività ferragostana della Madonna Assunta, molto onorata anche dagli Ortodossi – noi abbiamo trascorso tre giorni e mezzo girando a piedi ed in metropolitana per Bucarest in un silenzio innaturale, circondati da ben pochi residenti e da non molti turisti, che erano prevalentemente intruppati su bus bipiani tipo city sightseeing.

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Camminare per i lunghissimi viali e per le strade interne – stanchezza e sudate a parte… – è un ottimo modo per conoscere più intimamente una città come Bucarest. Il toponimo risalirebbe al suo leggendario fondatore, il pastore Bucur, ma in ogni caso l’etimologia rinvia alla radice lessicale romena bucurie, traducibile con ‘gioia’, ‘felicità’.[vii] Eppure il clima che abbiamo respirato in quei giorni non ci è sembrato particolarmente gioioso, sicuramente a causa dello spopolamento ferragostano, ma anche per i fermenti di rivolta che covavano sotto la cenere a tre giorni dai gravi scontri scoppiati nella centrale e grandiosa piaţa Victoriei, che hanno visto contrapposte decine di migliaia di manifestanti contro la corruzione e le complicità governative che la proteggono e nugoli di spicciative e violente forze dell’ordine, in seguito ai quali si sono registrati moltissimi arresti, centinaia di feriti ed interminabili polemiche politiche. [viii] La devastante piaga della corruzione, infatti, sembra particolarmente avvertita dai Romeni ma, nonostante gli attacchi dell’opposizione e la riprovazione espressa dallo stesso presidente della repubblica, il governo si direbbe intenzionato a continuare sulla sua discutibile strada, incurante delle mobilitazioni dal basso, ma anche delle critiche che gli stanno piovendo addosso perfino dall’amministrazione statunitense. [ix]

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Bucarest – L’Ateneo romeno

Tafferugli e rivolte a parte, comunque, a Bucarest si avvertiva una netta separazione tra i non moltissimi giovani che abbiamo incontrato – concentrati prevalentemente nel quartiere universitario e nella limitata area dello shopping e degli esercizi pubblici più attrattivi – ed una popolazione composta da persone mediamente anziane e d’impronta economicamente più modesta, frammista ad una diffusa ma discreta comunità di Rom romeni (ma guai a chiamarli con questo ambiguo nome anziché col termine di țigan, cioè ‘zigani’…!).

Qui si comincia ad intravedere alcune affinità con una città assai diversa come Napoli, dove fino a non molti anni fa i palazzoni umbertini del ‘risanamento’ post-unitario e gli edifici moderni e le alte ‘torri’ direzionali convivevano con i ruderi prodotti dai disastrosi bombardamenti della guerra e dove sopravvivevano miserabili rioni popolari con i loro ‘bassi’. Anche Bucarest, coi suoi modernissimi grattacieli ed i tronfi palazzoni edificati dal dispotico regime di Ceauşescu, non è riuscita a nascondere del tutto le rovine causate dal disastroso terremoto di 40 anni fa, il terribile Cutremurul din 1977, a causa del quale vennero giù più di trenta vecchi edifici. Questi ruderi convivono tuttora con la pomposa nuova Bucarest pianificata dalla megalomania del dittatore ed al loro interno sono state realizzate spesso abitazioni di fortuna, dove vivono i ceti più marginali come, appunto, gli zigani. L’aspetto generale della capitale romena resta comunque molto dignitoso, pulito, ordinato e caratterizzato da molti parchi urbani, ben curati ed attrezzati, dove però si vedono giocare ben pochi bambini, forse anche loro in vacanza…Non vi starò certo a raccontare nei dettagli il nostro vorticoso tour bucarestiano, agevolato provvidenzialmente dalla moderna ed efficiente rete metropolitana. I tre giorni trascorsi ci hanno consentito di visitare gran parte delle attrazioni turistiche offerte da questa metropoli, dall’affascinante ‘Museo di storia naturale G. Antipa’ al ricco ‘Museo nazionale di arte romena’, sito nel vecchio Palazzo Reale; dal neoclassico ‘Ateneo’, simbolo dell’attuale Università, alle originali architetture delle cattedrali ortodosse; dal tronfio Palazzo del Parlamento fortemente voluto da Ceauşescu  (il più vasto dopo il Pentagono) al mussoliniano Palazzo dei governo, avvolto in un enorme bandiera tricolore romena proprio di fronte al quale si sono svolti gli scontri tra dimostranti e polizia; dallo splendido Parco Tineretului (ben 200 ettari con laghetti e spazi attrezzati per i più piccoli) al chilometrico percorso verde, con laghetti e fontane danzanti, del boulevardul Uniri, che collega Piazza Alba Julia con quella della Costituzione.

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Bucarest – Piazza della Vittoria

Sono stati tre giorni in cui abbiamo scoperto le bellezze di questa capitale ma anche le sue stridenti contraddizioni, la sua vocazione internazionale ma anche la sua evidente impreparazione a far fronte ad un  turismo di massa, a cominciare dalla scarsità di ristoranti degni di questo nome, di bar e di altri locali e perfino di esercizi commerciali, che non fossero concentrati in alcune specifiche aree, sotto forma di enormi shopping centres multipiano o delle solite catene di fast food di massa alla Mc Donald, KFC, Pizza Hut e compagnia bella.

La strana coppia: istituti bancari e strutture di sanità privata

Ciò che ci ha lasciati sorpresi, però, è stata la scarsità di normalissimi e quotidiani negozi, come tabaccai, giornalai, salumieri etc., soprattutto in contrasto con la pervasiva presenza nel centro di Bucarest di centinaia di filiali bancarie di ogni provenienza (tedesche, greche, italiane, spagnole, oltre che, naturalmente, romene) e di altrettante mega-strutture appartenenti allo spropositato settore della sanità privata, come megafarmacie, cliniche per tutte le specializzazioni e sofisticati ambulatori dentistici. Si direbbe che gran parte del flusso di stranieri in Romania sia richiamato da questo strano ‘turismo sanitario low cost’ , mentre l’anomalo proliferare d’istituti di credito lascerebbe pensare piuttosto ad un’intensa attività finanziaria, alimentata dal boom delle agevolate delocalizzazioni industriali e da un giro di affari più o meno legittimi. Il primo fenomeno era peraltro confermato dall’innaturale tasso di spot pubblicitari dedicati – in radio e televisione – ai più svariati prodotti farmaceutici. Il secondo aspetto è ribadito invece dal fatto che, per mutuare il commento di un articolo apparso su osservatoriodiritti.it, in Romania:povertà2-2

«…l’economia cresce tra baracche e bambini di strada […] Nel 2016 il Pil è cresciuto del 4,8% superando le aspettative della Commissione europea, che per il 2017 stima una crescita del 4,4% e del 3,7% nel 2018 (il governo romeno ha stimato un incremento pari al 5,2%).» [x]

L’analisi di questo preoccupante paradosso socio-economico è confermata da un articolo del quotidiano cattolico Avvenire, in cui leggiamo che:

«Di certo la Romania ha ancora da fare molta strada[…] : sviluppare le infrastrutture, modernizzare scuole e ospedali, dotare la sanità di strumenti e farmaci adeguati, sviluppare le zone rurali in cui mancano persino le fognature. Bucarest dovrebbe inoltre investire di più sull’infanzia, in un Paese dove – secondo i dati Eurostat – quasi la metà dei minori sono a rischio povertà. Dati confermati di recente dal Collegio nazionale degli Assistenti sociali, secondo i quali ogni sera in Romania 200mila bambini vanno a dormire senza aver mangiato. In base statistiche europee aggiornate a ottobre 2017, il 38,8% dalla popolazione è a rischio povertà ed esclusione sociale, con particolare disagio tra i pensionati. È così che si presenta la Romania: assieme al primato di crescita economica, in Europa ha paradossalmente anche quello, negativo, di diseguaglianze sociali.» [xi]

Ovviamente queste acute disparità colpiscono soprattutto le fasce deboli della società romena (comunità rom, anziani, minori, piccola borghesia urbana, contadini…), proprio mentre si assiste ad un vistoso quanto artificioso ‘miracolo economico’, sostenuto da transazioni commerciali, nuovi insediamenti industriali, rilancio dell’edilizia ed intensa attività finanziaria, il cui biglietto da visita più evidente sono appunto le tante banche che costellano il centro della capitale.

Quando si lascia Bucarest per raggiungere la sassone Transilvania in treno – come abbiamo fatto noi tre ‘turisti per caso’ – il contrasto risulta ancor più stridente. Agli enormi insediamenti industriali ed agli impianti petroliferi della periferia della capitale si avvicendano ampie aree pianeggianti agricole (in prevalenza coltivazioni cerealicole), larghi spazi incolti e, infine, territori affascinanti sul piano paesaggistico, ricchi di fiumi e boschi, ma apparentemente improduttivi e scarsamente abitati, fatta eccezione per le grandi città come Sibiu, Cluj e Brașov, dove abbiamo trascorso due intense giornate. In realtà la situazione sarebbe migliore, in quanto:

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Veduta della Transilvania.

«La Transilvania è ricca di risorse minerarie come ferro, piombo, lignite, manganese, oro, rame, sale, gas naturale e zolfo. Esistono poi grandi stabilimenti industriali chimici, acciaierie e industrie tessili. Altre risorse economiche sono nell’ambito dell’agricoltura, con frutteti e vigne, e nella trasformazione del legname[xii]

Prìncipi sassoni, feroci impalatori e tenebrosi castelli

Eppure lo spettacolo che si è presentato ai nostri occhi, attraverso i finestrini del treno che ci ha condotti in due ore alla bellissima Brașov, sembrava piuttosto testimoniare una certa povertà e marginalità, caratterizzata dalla presenza sporadica fra i boschi di mini-villaggi di catapecchie – abitate probabilmente da zigani – a ridosso della ferrovia o di scoscesi terreni in prossimità dei corsi d’acqua. Tutt’altra storia, invece, quando siamo giunti in quell’antica e nobile città di origine sassone, estremamente bella, perfettamente curata e letteralmente invasa da turisti, locali e stranieri. Uno splendido borgo mercantile rinascimentale, con la sua originale piazza circondata da edifici civili, basiliche ortodosse, chiese gotiche e palazzi nobiliari di stile teutonico. Oltre alla sua originale architettura austro-ungarica, la cosa che più ci ha colpito di Brașov – la latina Corona e la germanica Kronstadt – sono stati i meravigliosi giardini che l’attraversano tutta, con molte aiuole fiorite ed ampi spazi per i giochi dei bambini.  La sua visita ci ha condotto dall’antica cittadella fortificata di Brassovia, che le ha dato nome, al suo incantevole ed animato centro antico, dove abbiamo potuto ammirare la luterana cattedrale denominata Biserica Neagră (con l’originale contrasto tra le severe e svettanti linee gotiche e le centinaia di colorati tappeti ottomani esposti) ed il Palazzo del Consiglio civico, che ospita un interessante e moderno museo storico-etnografico. Diversamente dalla capitale, questa città è dotata di ogni negozio e piena di ristoranti, birrerie ed ogni tipo di locale pubblico ed anche la gente che si incontra per strada ha un aspetto decisamente benestante.

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Brașov – Piazza del Consiglio

Stazioni termali, sciovie ed altri impianti di turismo invernale esercitano infatti un indubbio richiamo sia per i locali sia per i forestieri, attirati specialmente dallo scontato e farlocco mito del vicino castello di Dracula.[xiii]  In effetti la fortezza medievale di Bran, di origine angioina, non ha mai ospitato né l’immaginario ‘principe delle tenebre’ (frutto della fervida fantasia dello scrittore irlandese Bram Stoker), né l’autentico Vlad III, principe di Valacchia ed eroe nazionale rumeno, soprannominato Dracul (il diavolo) in quanto figlio di un appartenente al germanico ordine del drago. Costui è però passato alla storia col poco lusinghiero titolo di Țepeș (cioè ‘l’impalatore’) per la sua poco simpatica tendenza a trattare i nemici nel corso della sua feroce lotta contro gli Ottomani, dai quali però aveva preso in prestito tale feroce modalità di tortura dei prigionieri. Non dimentichiamo poi, a proposito di affinità, che la fervida fantasia dei Napolitani ha localizzato il sepolcro del principe Vlad III addirittura nel chiostro della celebre chiesa rinascimentale di S. Maria la  Nova. [xiv]

Ma se il fantastico conte Dracula serve a vendere la paccotiglia di ricordini per i turisti che visitano la Transilvania, nel nostro caso ha rappresentato solo un insignificante particolare nella scoperta di un paese affascinante e pieno di contraddizioni, che abbiamo cercato di scoprire senza pregiudizi e con apertura mentale verso questo unicum storico-culturale dell’area balcanica. Basti pensare che solo a Brașov nello stesso parco si affacciano cattedrali gotiche, basiliche ortodosse, fortezze angioine e perfino un monumento alla lupa capitolina…

Insomma, forse non abbiamo trovato le attese somiglianze tra la lingua romena e quella napolitana, ma certamente questo viaggio ci ha fatto avvertire una profonda affinità tra le vicende romene e l’intricata storia di Napoli, con le sue molteplici dominazioni straniere, sulle quali però ha sempre prevalso lo spirito beffardo e sfottente della nostra gente, capace di saggia resilienza ma anche di autentica e determinata resistenza.

© 2018 Ermete Ferraro (www.ermeteferraro.org )

N O T E ———————————————————————

[i] Ermete Ferraro, “Ci stava un romeno, un napoletano e un italiano”, ermetespeacebook.com (13.08.2018) > https://ermetespeacebook.com/2018/08/13/ci-stavano-un-romeno-un-napoletano-e-un-italiano/

[ii] Vedi: “Romanìa” in Sapere.it > http://www.sapere.it/enciclopedia/Roman%C3%ACa.html

[iii] Se ne avete voglia e siete un po’ curiosi, potete collegarvi in live streaming con una delle principali televisioni romene, Romania.tv, seguendo questo link > http://www.romaniatv.net/live

[iv] Vedi la voce sulla lingua romena in wikipedia.it >: https://ro.wikipedia.org/wiki/Limba_rom%C3%A2n%C4%83

[v] Vedi la voce “Lingua esperanto” in wikipedia.it > https://it.wikipedia.org/wiki/Lingua_esperanto . Interessante anche l’articolo di Viviana Pellegatta, “L’esperanto, lingua dell’umanità”, blastingews.com > https://it.blastingnews.com/cronaca/2017/11/lesperanto-la-lingua-dellumanita-002182271.html

[vi] Sara Ficocelli, “Bucarest: la ‘piccola Parigi’ tutta da scoprire”, la Repubblica (26.02.2018) > http://www.repubblica.it/viaggi/2018/02/21/news/bucarest_la_piccola_parigi_tutta_da_scoprire-189410529/?refresh_ce

[vii] Nel nostro viaggio ci è stata molto utile l’accurata ‘guida verde’ della Romania, curata dal Touring editore > https://www.amazon.it/Romania-0/dp/8836553451/ref=sr_1_5?ie=UTF8&qid=1535793209&sr=8-5&keywords=guida+touring+romania . Vedi anche la voce “Bucarest” in wikipedia.it > https://it.wikipedia.org/wiki/Bucarest

[viii] Cfr.: “Bucarest, romeni all’estero in piazza contro corruzione: oltre 440 feriti”, Affari italiani (11.08.2018) > http://www.affaritaliani.it/esteri/bucarest-migliaia-di-romeni-estero-in-piazza-contro-corruzione-555354.html?refresh_ce  e: Marco Ansaldo,  “A migliaia in piazza a Bucarest, la diaspora romena contro la corruzione”, la Repubblica (10.08.2018) > http://www.repubblica.it/esteri/2018/08/10/news/a_migliaia_in_piazza_a_bucarest_la_diaspora_romena_contro_la_corruzione-203850273/

[ix] s.a., “Stati Uniti-Romania: Casa Bianca prende le distanze da lettera di Giuliani a governo romeno”, Agenzia Nova (28.08.2018) > https://www.agenzianova.com/a/5b85c77929c615.73320608/2046131/2018-08-28/stati-uniti-romania-casa-bianca-prende-le-distanze-da-lettera-di-giuliani-a-governo-romeno

[x] Felicia Buonomo, “Romania, dove l’economia cresce tra baracche e bambini di strada”, Osservatorio Diritti.it (01.03.2018) > https://www.osservatoriodiritti.it/2018/03/01/romania-economia-cresce-baracche-bambini-di-strada/

[xi] Mihaela Iordache, “Povertà e corruzione. I due volti della Romania che richiama i suoi emigrati”, Avvenire.it (04.01.2018) > https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/romania-pil-disparita-economiche

[xii] Vedi la voce “Transilvania” in Wikipedia.it > https://it.wikipedia.org/wiki/Transilvania#Economia

[xiii] Vedi: https://www.romaniaturismo.it/transilvania/il-castello-di-dracula/

[xiv]  Cfr.: “Vlad Tsepes di Valacchia: l’impalatore, il demonio, il vampiro Dracula”, Latelanera.com > http://www.latelanera.com/vite-estreme/personaggio.asp?id=261  ed anche:  “Da Vlad Tepes a Conte Dracula”, Ciaoromania.com > http://www.ciaoromania.com/vladtepes_ital.html

Ci sta un romeno, un napoletano e un italiano…

images (1)Anche questa estate, per interrompere la solita villeggiatura estiva al mare, abbiamo deciso di fare un piccolo viaggio. Il criterio dell’alternanza Italia-estero ci ha fatto optare questa volta per una settimana in Romania. Perché proprio là? Beh, oltre ad essere uno stato per noi ancora inesplorato, non nego che l’antica Dacia eserciti tuttora un certo fascino sia per la sua storia sia per il suo territorio, ricco di affascinanti paesaggi e di interessanti testimonianze artistiche. Non posso negare neppure che uno dei motivi della curiosità che la Romania esercita su di me risiede anche nella sua lingua: un curioso impasto di latinità miracolosamente conservata nei secoli e di influssi molto eterogenei, che vanno dal tedesco al turco, dagli idiomi slavi al francese. [i] Chi, come me, ama la diversità ambientale e culturale è naturalmente attratto da questa terra così varia e dai suoi abitanti. Molti altri italiani, del resto, sono stati attirati dalla Romania, ma per motivi un po’ meno nobili, visto che spesso si tratta di puro opportunismo economico, al punto tale che su un territorio rumeno in particolare sono state delocalizzate talmente tante fabbriche italiane che qualcuno chiama quell’area l’ottava provincia del Veneto. Ma questa è un’altra storia.

Volevo invece soffermarmi proprio sulla lingua romena alla quale – come ogni volta che viaggio – ho cercato di avvicinarmi con interesse e rispetto, utilizzando – oltre ad un frasario-vocabolario – anche un manuale forse un po’ vecchiotto, ma abbastanza efficace, dal titolo beneaugurante ‘ Il romeno senza sforzo ’. [ii]  Forse le lezioni seguite non mi sarà basteranno  per conversare amenamente con gli abitanti di Bucarest e delle altre città che ho in mente di visitare, ma quel testo mi ha dato un’idea più chiara e precisa di come si articola questa lingua-cugina, rimasta curiosamente ancorata dopo molti secoli al latino dei suoi conquistatori. L’aspetto che mi ha colpito maggiormente, sfogliando manuale e frasario, è che alcune espressioni romene mi suonavano stranamente familiari dal punto di vista sia fonetico sia lessicale. E non solo in quanto italiano, ma soprattutto come amante – e da anni docente e promotore – della lingua napolitana, con la quale ho scoperto a poco a poco diverse curiose consonanze. Non mi pare proprio il caso di mettermi in questa sede a fare una disquisizione glottologica sugli elementi di somiglianza tra romeno e napolitano. Ho pensato allora che, per darne almeno un’idea, sarebbe stato più utile ed efficace ricorrere ad un immaginario dialogo tra due interlocutori, che ho chiamato Vicienzo e Tudor.

download (1)Molti di voi sicuramente ricordano certe barzellette di una volta, che incominciavano proprio come il titolo che ho dato a questo mio post vacanziero. Si tratta anche in questo caso di una breve storiella, ma lo scopo non è quello di fare ridere con battute un po’ stereotipate sui vizi di questo o quel popolo, ma piuttosto di un modo per mostrare concretamente che un napoletano ed un romeno sono comunque destinati a capirsi, e non solo per l’abitudine di gesticolare o per lo spirito salace che ne accomuna il modo di esprimersi.  Va bene, direte voi, ma in questo dialogo che cosa c’entra l’italiano?  Ecco, appunto, non c’entra per niente, visto che la lingua napolitana non è affatto un dialetto dell’italiano ma un idioma neolatino del tutto autonomo e, se permettete, con una storia ancora più lunga di quello che ci hanno abituato a considerare ‘nazionale’ e praticamente unico, sol perché da un secolo e mezzo il meridione della nostra penisola è diventata colonia di chi allora lo ha conquistato. Ma, anche in questo caso, bando alle disquisizioni di natura storico-politica per lasciar spazio alla conversazione tra il medico romeno Tudor Popescu e l’infermiere napolitano Vicienzo Russo, con l’avvertenza che la grafia usata per il romeno, come vedrete, comprende qualche lettera un po’ diversa, ma facilmente assimilabile. [iii]

Tudor: Scużati-mă …

Vicienzo: Dicìte: comme ve pozzo ajutà?

Tud.: Eu nu sînt Italian, sînt român.

Vic.: Vabbuò, nun fa niente. Tanto ce capimmo ‘o stesso.

Tud.: Scużati-mă, nu m-am prezentat. Eu mă cheamă Tudor Popescu.

Vic.: Piacere assaje! Io me chiammo Vicienzo Russo.

Tud.: Cred ca sintem vecini..

Vic.: Overamente! Però è ‘a primma vota ca ve veco accà.

Tud.: La ce ora vine autobuzul?

Vic.: Beh, vene quanno capita…Accà nun ce stanno orarie…

Tud.: Nu pot să cred!

Vic.: Eh, vuje nun ce putite credere però accussì vanno ‘e ccose a Napule.

Tud.: Ce faceţi?

Vic.: Io che faccio? Faccio ‘o ‘nfermiere ô spitale.

Tud.: Bine! Eu sint medic la spitala, la Bucureşti.

Vic.: Vide nu poco ‘a cumbinazzione! Aggio ‘ncuntrato justo a nu miedeco. E mo’ che ce facite accà?

Tud.: Vint la Napoli pentru Congresu medicilor.

Vic.: Mica canuscite ‘o miedico mio, ‘o duttore Pinto?

Tud.: N-o cunoşti. N-am avut tiemp…

Vic.: ‘A quanto tiempo state a Napule?

Tud.: De cinci zile…’giorni’.

Vic.: Nuje parlammo, però fa nu cavero ‘e pazze e ‘stu pulmanne manco arriva…

Tud.: E cald foarte! Mi-e sete şi me doare capul…

Vic.: Pur’io tengo sete e me fa male ‘a capa.

Tud.: Nu ve sintiz bine?

Vic.: E’ normale, cu ‘o sole ca coce ‘e ‘sta manera…

Tud.: Şi eu nu pot suporta…

Vic.: E’ nu ddiece ‘e guaio a aspettà sotto ‘o sole cucente ‘Austo. 

Tud.: Bine! O sa vedem ce putem face.

Vic.: Pecché, che vvulisseve fa’ ?

Tud.: Avem pierzi timpul…. Ehi, taxi!  Sînteţi liber?

Vic.: Vabbuò. Pe vvuje è ‘a meglia cosa. Arrivederci duttò.  Stateve bbuono!

Tud.: Voi cum faceţi ? De ce nu veniţi cu mi?

Vic.: Grazzie assaje, duttò, si nun ve dispiace…

Tud.: Bine! Totul se aranjeaza!

Vic.: Beh, anche pe ogge avimmo arrangiato…

1200px-Flag_of_the_Parthenopaean_Republic.svgQui la storiella finisce, ma spero che vi abbia dato sufficiente dimostrazione di come un napolitano potrebbe tranquillamente chiacchierare con un romeno. Sarà un caso se la bandiera della Repubblica Napolitana del 1799 è proprio uguale a quella romena?… Comunque, quando tornerò dal mio viaggetto in Romania, vi farò sapere se questa somiglianza ha funzionato anche per me e per la mia famiglia.

P.S.: Nel caso in cui vi sia capitato di comprendere le frasi in romeno meglio di quelle in napolitano, vi consiglierei caldamente di decidervi ad imparare a parlare e scrivere la nostra nobile ed antica lingua. Magari iscrivendovi al corso che terrò anche il prossimo anno all’Unitre di Napoli…Arrivederci a settembre. O meglio: ce verimmo! La revedere!

© 2018 Ermete Ferraro

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[i] “Lingua romena”, Wikipedia.it > https://it.wikipedia.org/wiki/Lingua_romena

[ii] Vincent Ilutiu, Il romeno senza sforzo, Assimil > https://www.lafeltrinelli.it/libri/vincent-ilutiu/romeno-senza-sforzo/9788886968270

[iii]  Cfr. Testo cit. ed anche: https://it.wikibooks.org/wiki/Rumeno/Pronuncia_e_alfabeto

Maje cchiù lengua attaccata: comme dicifrà ‘o dialetto

Chesta è ‘a traduzzione napulitana – fatta ‘a Ermete Ferraro –  ‘e ll’articulo “Tongue Tied No More: Deciphering Neapolitan Dialect”, scritto ‘a Kristin Melia  e pubbrecato ô 13 ‘e giugno 2017 ‘ncopp’ ‘a revista ‘mericana ITALY MAGAZINE (http://www.italymagazine.com/featured-story/tongue-tied-no-more-deciphering-neapolitan-dialect).

 

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‘O Nnapulitano è na lengua o nu dialetto? Chi ‘o pparla e addò? E ancora, quanno s’avess’ ’a parlà Taliano e quanno ’o dialetto? L’Italia, comme stato, è na ’mmenzione bastantemente nova e quase miraculosa.  Contr’a tutte ‘e prubbabbeletà puliteche, (’o statista Conte Mettenich dicette na vota ca ll’Italia nun era nient’ ’e cchiù ‘e nu termene geografeco), ’o Stato Taliano nascette ô 1871, doppo ca paricchie state nazziunale se mettettero ‘nzieme pe furmà chello ca mo’ chiammamo Italia.

Ce vulettero quase 100 anne pecché ’o Taliano accummenciasse a addeventà ’a lengua parlata dint’ ’e ccase e p’ ’a via, ’ncopp’ ’a tutto grazzie â ‘mmenzione d’ ’a televisione e â rezza nazziunale d’ ’a RAI.  Ddio c’ajute tuttequante ’ntiempo ’e Internét – po’ essere can nun ce vo’ assaje tiempo ca parlarrammo tuttequante cu ll’ashtagghe e ll’emmoje.

Nun ce sta periculo ca ’stu fatto succede a Napule. ’O fatto è ca ê ffamiglie e ê putecare, pe Napule e ‘e pizze vicine, lle piace ’e cchiù ’e parlà Nnapulitano, ’a lengua antica d’’o Rregno d’’e Ddoje Secilie. Museciste e judece, chianchiere e barriste sciuliéano assaje spisso int’’o ddialetto lucale. Pe tutte ll’anne ca io songo stata a Napule, aggio cercato ’e tutt’ ’e mmanere, ma quase sempe a vvacante, comm’avevo ’a fa’ pe trasì int’a suggità secreta d’’a ggente che parlano ’o Nnapulitano.

E’ na lengua che nun se po’ ‘mparà. Pparlà bbuono talianamente pare quase nu ‘ntuppo pe chi vo’ parlà napulitanamente. ’Mmacenàteve nu paro ’e frobbece pigliate pe na currente cuntinua ’e vvucale, po’ tagliate e mise n’ata vota ’nzembra pe furmà na specie ’e verme sulitario lenguisteco. Ê Taliane d’’o Nnorde ’o Nnapulitano pare quaccosa che nun s’arriva a capì, però paricchie ’e lloro songo ‘ncantate d’’e ccuriose saglie-e-scinne ’e stu dialetto misteriuso.

‘A semmana passata, me songo assettata cu ’o professore Ermete Ferraro, nu canuscitore d’’o Nnapulitano, pe vedé ‘e sestimà ’e ccose. Tanto p’accummencià, io l’aggio spiato comme se po’ ’mparà ’o Nnapulitano e si ’o Nnapulitano po’ esse pure qualeficato comme lengua.

’O duttore Ferraro m’ha subbeto fatto sapé che stessa ’a quistione  si ’o Nnapulitano è na lengua opuro nu dialetto sta soda sempe ô stesso pizzo. ’O Ffrangese, ’o Spagnuolo, ’o Ppurtuese (‘nzomma, tuttequante ’e llengue rumanze) songo sulo dialette reggiunale che fanno capo ô Llatino vulgare. ’O fatto è che ’a Storia ’a scriveno chille ca venceno:  a ccà veneno ’e differenze che int’’a ‘stu munno fanno addiventà ’e llengue cchiù o mmeno ’mpurtante.

E cumunque ’o Nnapulitano – che tene certamente na grammateca unneca e na bella tradezzione letteraria – ha dda essere qualefecato comme lengua.

Mo’ comm’a mmo’, a Napule ’a differenza che passa ‘mmiezo a llengua e dialetto sta ‘nnanz’a ll’uocchie ‘e tuttequante.   Nu sacco ’e ggente arbasciuse d’esse Suddiste – paricchie ‘mmiezo a lloro cu ’a nustalgìa d’’e tiempe d’’o Rregno d’’e Ddoje Secilie… – facettero trasì ’stu fatto int’ô trascurzo puliteco, cundicenno ca ’o Nnapulitano è na lengua e pe cchèsto ha dda essere rispettata. Se po’ certamente capì a chille c’ ’a penzano accussì.

Chiammatelo comme v’aggarba, ’o Nnapulitano è na lengua allera e friccicarella, bbona pe ll’ironia e ’a cummedia. Siconno ô dr. Ferraro, ’sta lengua sarria ll’arede d’ ’a tradezzione d’ ’a cummedia grieca antica. Nun se po’ propeto nun fa’ caso ê mmosse, â museca e ô pazzià che fanno parte d’ ’o Nnapulitano. Si sulo io c’ ’a facesse a me ‘mparà ’a pparlà ‘sta lengua commilfò…

Sbenturatamente –  dice ’o dr. Ferraro – ’a ggente che scriveno bbuono ’o Nnapulitano spisso nun ’o pparlano bbuono e ’o stesso succede pure tutt’ô ccuntrario. Pe cchesto, ’a meglia cosa pe se ‘mparà ’o Nnapulitano è sulo campà ‘mmiez’â ggente che ’o pparlano e trasì cu a capa e cu ’o penziero int’ ’o scuro d’ ’o core d’ ’a lengua addò stammo ’e casa. L’abbenture c’aggio passate pe me ’mparà ’o Nnapulitano se pônno cuntà comme na specie ’e battìsemo d’ ’o ffuoco…

Appriesso veneno ’e cunziglie meje pe ffa’ a vveré ca faje o saje ’o Nnapulitano accussì bbuono p’esse nu periculo p’ ’e viche e p’ ’e vvie che vanno giranno pe ‘mmiezo Napule.

1) ’E vvucale smurzate: ’E pparole napulitane spisso smorzano ’e vvucale finale che stanno dint’ ’e soccie taliane. Chesto succede pure ’e cchiù cu ’e vierbe. Parlà Napulitano è comme si tenisse ’a dicere nu sacco ’e cose int’ ’a nu limmete ’e tiempo. ’E pparole veneno a cadé int’ ’a nu brusco ‘staccato’  p’ ’a pressa. Purzì ’a frase taliana pe traducere: “I need tu buy a house”  tene na certa languetezza (“Devo comprare una casa”), però napulitamente ’a soccia frase addeventa: “Aggi’ ‘a accattà na casa”. Capita spisso, ’nfatte, ca ’a sillaba     ‘-re’  ô ffinale d’ ’e vierbe int’ ’o Nnapulitano vene ammuzzata senza cumplimente. Accussì, quanno tenite nu dubbio, parlate ’o Ttaliano comme si jate ’e pressa e ve state mazzecanno chiù gomma ancora ’e chella ca tene ‘mmocca Sean Spicer a na Cunferenza Stampa d’ ’a Casa Janca. Na ‘mmaggena assaje puèteca, tanto pe ce capì.

2) ’O Schwa:’E vvucale ‘O’ e ‘E’ int’ ’o ffinale d’ ’e pparole napulitane sonano quase tale e quale. ‘Nfatte tutt’ ’e ddoje sonano come na ‘uh’ ‘ngresa opuro, comme ’o cchiammano ’e patute d’ ’a lenguisteca, teneno ’o suono ‘schva’.  Abbasta sulo ca penzammo pe assempio a na canzona c’ ’a sape tutt’ ’o munno, comme ‘O sole mio.  ’A vucale ‘e’ che sta â fine ’e sole e chella ‘o’ â fine ‘e mio napulitanamente teneno ’o soccio suono smurzato. Accussì se po’ quase subbeto appurà si chillo che canta ’sta canzona è o nun è nu Napulitano verace.

Pruvate a ssentere Il Volo o Luciano Pavarotti quanno cantano ’O sole mio. Isse, senz’ ’0 vvulé, prununciano sane ’e vvucale ‘o’ e ‘e’, che napulitanamente avesser’ ‘a sunà assaje smerzate.  Tuttequante sanno ca Enrico Caruso, Napulitano verace, facette granne ’sta canzona. Pirciò, ausate ’o suono schwa e po’ essere pure ca ce ’a ffacite a ffa’ credere â ggente ca tenite ammeno na socra napulitana.

3) Cantate, cantate, cantate: pare na specie ’e stereotepo e pe ‘stu fatto ’e Nnapulitane se putessero pure piglià collera. Fatt’è ca nisciuno ’e nuje (e stess’io) po’ nnià ca ’e Napulitane cantano, e pure nu sacco! Se tratta ’e pecundria, priezza o ’e leticarìa, ce sta sempe na canzona c’ha dda essere murmuriata, tammurriata o alluccata. Chella che ppiace ’e cchiù è ’O surdato ’nnammurat0, che arriva a ll’abbrucato crescendo:Oje vita, oje vita mia”. Io aggio ‘mparato ’a chella pazzarella d’ ’a socra mia ca tuttequante pônno cantà e hanno ‘a cantà cuntinuamente ’sta strufetta, pe ffa sentere a ll’ate ogne pussibbele quistione ‘e sentimente. Chi tene besuogno ’e l’emmoje quanno si’ na vecchia meza-sorda ’e 93 anne opuro, comm’a mme, na scema ’e Mmericana che nun ’a teneno fiducia manco d’ ’a fa’ vollere na caurara ’e maccarune? Nun sapite che dicere? Embé, respunnite cu ’na canzona bbona p’attaccà.

bigstock-naples-italy-january-181140646 - bis4) Pruverbie: ’Nce sta nu ditto napulitano pe tuttequante ll’accasione. ‘Mparateve quacche pruverbio e si tenite ‘a lengua ancora attaccata, abbasta ca dicite nu pruverbio cu bbastante presumenzia, ca smaniate comm’a nu puliteco spasteco e ca dimannate retoricamente: “E’ vero o no?”. ’O ditto napulitano che mme piace ’e cchiù è “Chi chiagne fotte a chi ride”. Si ’o traducimmo tale e quale int’a ll’ingrèse nun se capisce bbuono chello che vo’ dicere, cioè: ’e ccriature ca chiagneno songo geluse figlie ‘e ‘ntrocchia e vuje femmene nun l’avite propeto ’a penzà.  ‘Mparateve nu bellu ditto, facite pratteca annant’ô specchio e po’ parlate cu nu carisema assuluto e a ssecurdune. Na lista d’’e pruverbie cchiù annummenate ’a putite truvà ccà: (http://napoli.fanpage.it/i-dieci-proverbi-napoletani-piu-belli/).

5) Tenite fiducia! ’E Napulitane parlano cu assaje cunvinzione ’e nu cuofano ’e argumiente, che vanno d’ ’o tiempo che ffa nzì ô fatto si int’ ’o rraù verace s’ha dda mettere o no ’a cepolla (No!), opuro si fosse caso o no ’e fa’ cremmà nu pariente d’ ’o vuosto ch’è muorto (pure chesta risposta sarrìa nu bellu NO!). ‘O famuso commeco Totò, int’ ’e filme che facette, nun parlava napulitanamente spisso comme se tende a penzà. Comme ’o dr. Ferraro me facette capì, chello che faceva essere Totò accussì napulitano era sperciarmente ’o carisema che isso teneva. A Napule simmo canusciute pe nu sacco ’e cose, però lloco ‘mmiezo l’indifferenzia nun ce sta. Forze è cchesta ’a raggiona pecché quanno io vaco spianno ê Napulitane quanno e pecché parlano ‘ndialetto ‘mmece d’ ’o Taliano, isse nun me sanno risponnere ’e na manera pricisa. Io me fiuro c’ ’a risposta è assaje semprice. ’O Nnapulitano è na lengua pe cummencere e nuje l’ausammo pe ffa’ capì  ’e sentimiente ’e tutte ’e mmanere.

’O felosefo spagnuolo Miguel de Unamuno jeva dicenno: “Cada filologia es una filosofia”, che putimmo traducere: “Ogne filologia è na felosofia”. Cu ’stu penziero ‘ncapa, aggio spiato ô dr. Ferraro che penzava ca fosse ’o ’ssenziale d’ ’a felosofia d’ ’o Nnapulitano.      “Chesta è na dumanna defficele ’a risponnere – m’ha ditto – Napule è na cetà ’e culunizzature e pputenzie furastiere. Paricchie hanno lassato ’a marca lloro ‘ncopp’a Napule. Io penzo però ca nun ce sta dubbio ca pure nuje âmmo lassato na bbona marca ’ncopp’a lloro.“ Me songo sfurzata ’e capì comme ’stu fatto putesse risponnere a chella che io me penzavo na dimanna assaje ’struita. Mo’ però credo che ll’aggio capito.

’A meglia felosofia pe pittà  ’o Nnapulitano è stessa ’a vitalità  soja.

E’ na lengua parlata e scritta ausata ‘mmiezo a tuttequante ’e classe e tuttequante ’e riune. Ò tiempo    d’ ’a televisione e d’Internét – cu tutto ’o scamazzo e l’apparamiento lenguisteco ca se portano appriesso – ’a lengua napulitana nun tene nisciuna ‘ntenzione ’e se fa’ trascurà.  Faciteve na passiata pe nu vico sperduto ’e Chiaja opuro pe na via ’e Scampia e sentite ’o Nnapulitano che saglie ’ncoppa,’mmiezz’a l’addore d’ ’a Ggenuvese che pepetea e ’o casino che fanno ’e mezze. E’ na cosa ca nun tene classe e nemmanco tiempo. ’O Nnapulitano sta ccà pe ‘nce rummané, e che ppiacere è cchistu ccà. Mo’ nun me resta ca fa’ quaccosa pe cummencere ’e vvicine ’e casa ca saccio comme se parla.


Kristina era na ‘mpiegata pubbreca che però mo’ passa ’o tiempo sujo muvennose ’ntra Napule e ’a custiera ’malfitana. Pe ttramente, essa cucina, cumbina ‘tour’ d’ ’o vino e d’ ’e ccose ’a magnà e, ogne tanto, se mette pure a strillà ’nNapulitano. Essa porta annanze na cumpagnia che s’occupa  ’e viagge e d’ ’o magnà – chiammata “Sauced & Found”, che  â ggente che veneno a visità ’o Sudd ’e ll’Italia lle dà accasione ’e vevere ’o vino c’ ’a scusa che hann’ ’a canoscere ll’uve ’e na vota (pur’essa ausa pe sé a soccia scusa). Quanno nun se sta occupanno ’e ‘tour’ nummenate primma, se strafoca na Pizza Margarita.

 

 

Era de Maggio…

downloadEra de Maggio…” , scriveva 132 anni fa Salvatore Di Giacomo e, da allora, questo motivo è stato cantato da tutti i grandi interpreti della canzone napolitana. Ed anche quest’anno, a Maggio, Napoli ha ospitato una quantità d’iniziative culturali e turistiche, per rilanciare l’immagine di una città che vuole riscattarsi da luoghi comuni ed inerzie, valorizzando i suoi inestimabili tesori e rendendoli fruibili da un numero sempre maggiore di visitatori e di residenti. In questo patrimonio sarebbe impossibile non comprendere la ‘lengua nosta’, per troppo tempo abbandonata ad un inesorabile destino di decadenza ma rimasta, ciò nonostante, incredibilmente viva e vitale. Nel giro di pochi anni, anche se un po’ tardi, si è registrata una notevole fioritura d’iniziative dal basso, finalizzate alla tutela ed alla promozione di un idioma che, sebbene corrotto e meticciato, vanta ben otto secoli di storia e di tradizione letteraria e resta uno dei più conosciuti in giro per il mondo. Corsi di lingua, spettacoli, convegni accademici ed altri iniziative del genere hanno finalmente messo in luce un troppo a lungo sopito senso dell’orgoglio partenopeo, mescolando talvolta a questa giusta riscossa identitaria elementi non sempre condivisibili, ma comunque frutto di una volontà di uscire da un oscuro complesso d’inferiorità culturale e di subalternità socio-politica.

Qualcuno potrebbe obiettare, con una nota espressione inglese: “Too little, too late”, sottolineando che secoli di dipendenza e rassegnazione non si possono spazzar via con qualche anno d’iniziative spontanee e talvolta piuttosto scoordinate. Altri potrebbero invece arricciare il naso, scorgendo in tale movimento echi d’un revanscismo meridionalista, se non neoborbonico. Altri ancora– e sempre più spesso – sembrerebbero cogliere in questa riscossa solo un’occasione di sfruttamento commerciale del ‘marchio Napoli’, così da marketizzare (se non marchettizzare…) la legittima riscoperta e valorizzazione della lingua e cultura napolitana. Pare dunque che siamo condannati a scegliere fra chiudere gli occhi di fronte ai troppo frequenti e diffusi esempi di crassa ignoranza di lessico grammatica ed ortografia del Napolitano, o accettare passivamente scaltre manipolazioni massmediatiche della ‘lingua locale’, che spesso ribadiscono stereotipi folkloristici duri a morire, strizzando l’occhio ai ‘bisinìss’ più che alla cultura.

imagesChe fare allora? Per paura di errori, insufficienze e contaminazioni lasciamo perdere e ci rassegniamo fatalisticamente alla decadenza della nostra lingua-nonna, surclassata dalla lingua-madre italiana e da invadenti lingue-cugine come l’inglese o lo spagnolo? Oppure continuiamo a combattere le  nostre piccole crociate identitarie, cavalcando velleitariamente, lancia in resta, contro i mulini a vento di istituzioni politico-amministrative sorde ed autorità accademiche diffidenti? Ovviamente nessuna di queste due soluzioni mi trova d’accordo, visto che sia rassegnazione sia velleitarismo mi sembrano pericoli da scongiurare, se vogliamo davvero cambiare le cose. Penso piuttosto che ci sia bisogno d’un sano realismo, sorretto da scelte salde e motivate, così che da iniziative isolate e spontanee si passi ad una strategia più efficace e coordinata. Mi sembra che i tempi siano ormai maturi per questa terza via, che richiede pazienza e disponibilità al dialogo, pur senza rinunciare ai principi basilari di una battaglia che resta identitaria.

‘A Festa d’ ‘a lengua nosta, di cui si è tenuta in questo mese la sesta edizione, mi è sembrata un’indubbia  tappa di questo cammino verso una strategia più condivisa. L’Associazione G.B. Basile, che lodevolmente l’ha promossa e portata avanti, ha avuto infatti il merito di mettere intorno ad un unico tavolo gli interlocutori – individuali associativi ed istituzionali – che possono dare un respiro più ampio a questo crescente movimento, che non sembra ancora riuscito a coordinare gli sforzi di chi ne fa parte ed a formulare ipotesi di lavoro comuni. C’è una priorità generalmente avvertita, che sicuramente è quella di evitare che l’imbarbarimento ortografico del Napolitano prosegua indisturbato, disseminando occasioni di formazione ma anche operando un serio monitoraggio dei fenomeni degenerativi che lo affliggono. Ciò richiede che si raggiunga un consenso su poche e chiare regole ortografiche, evitando di disquisire oziosamente su tutto e concentrandosi sugli errori più comuni e diffusi, soprattutto fra i giovani.

images (1)Bisogna anche di far uscire il Napolitano dalla ‘riserva indiana’ in cui è stato a lungo confinato, come se questa lingua servisse solo per scrivere poesie, canzoni o battute farsesche, ma non avesse una funzione espressiva e comunicativa – almeno nella sua forma scritta – in altri ambiti, come la letteratura in prosa oppure il giornalismo. Sta di fatto che gli appassionati della nostra nobile lingua sono principalmente scrittori in versi, per cui è ovvio che la maggioranza degli impegni vanno in quella direzione. La stessa Associazione Basile, ad esempio, ha promosso un concorso per poesie originali in Napolitano, registrando quest’anno un sensibile miglioramento della qualità degli elaborati raccolti. Bisogna però fare uno sforzo per far uscire ‘a lengua nosta da questo limbo, riportandola alla sua autentica natura di mezzo di comunicazione quotidiana, e quindi di elaborazione di testi di vario genere e natura.

Anche il suo insegnamento nella scuola dovrebbe essere maggiormente diffuso, senza la pretesa di fare del Napolitano una materia in più ma piuttosto come stimolo a riscoprire la bellezza e la ricchezza espressiva di un idioma conosciuto in tutto il mondo, la cui sopravvivenza resta però affidata ad un suo effettivo e corretto utilizzo comunicativo quotidiano. Su questo punto permangono ovviamente punti di vista diversi e resiste la diffidenza accademica rispetto alla necessità di farne oggetto di un vero e proprio insegnamento. A distanza di dieci anni dalle mie prime esperienze di laboratorio di Napolitano nella scuola media statale, d’altronde, direi che ben poco si è mosso per moltiplicare questo modulo operativo. E’ pur vero che molti insegnanti, anche se motivati, non si sentono adeguatamente preparati in materia, visto che allo stato non esiste alcun ente che possa formarli a tale compito o quanto meno certificare le competenze di chi segua un corso del genere. Per altre lingue regionali, come il Catalano o il Provenzale, esistono invece autorevoli istituzioni a ciò delegate e le normative nazionali di quei Paesi prevedono esplicitamente il diritto della comunità di preservare il proprio patrimonio linguistico.

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Ermete con Mariano Rigillo alla presentazione della proposta di legge regionale

In attesa dell’auspicata legge regionale della Campania, che recepisca le proposte avanzate da alcuni di noi allo scopo di salvaguardare e promuovere le espressioni linguistiche presenti sul nostro territorio e l’identità culturale dei suoi abitanti, bisogna continuare a tener aperto il dialogo fra docenti universitari, scrittori e cultori della materia. Sarebbe davvero un peccato se protagonismi personali o diversità di opzioni metodologiche dovessero prevalere sullo sforzo comune per restituire al Napolitano la sua dignità di lingua. Bisogna puntare ad un coordinamento operativo delle varie organizzazioni esistenti, smussando gli spigoli delle divergenze e cercando di sottolineare convergenze ed obiettivi condivisi. In caso contrario, per citare un nostro arguto proverbio, si dimostrerà ancora una volta vero che: Troppi galle a cantà nun schiara maje juorno. Spero che sia giunto il momento di cantare insieme il nostro richiamo, per far sì che sulla sorte del Napolitano finalmente ‘passi la nottata’ e risplenda finalmente la luce del giorno. Del resto, siamo o non siamo ‘o paese d’ ‘o sole?

© 2017 Ermete Ferraro (http://ermetespeacebook.com)