NON FATE I ‘BONUS’, SE POTETE

UN APPELLO PER SALVARE LA SCUOLA ITALIANA

L’ultima riforma della scuola è l’apice di un processo pluridecennale che rischia di svuotare sempre più di senso la pratica educativa e che mette in pericolo i fondamenti stessi della scuola pubblica. Certo la scuola va ripensata e riformata, ma non destrutturata e sottoposta ad un processo riduttivo e riduzionista, di cui va smascherata la natura ideologica, di marca economicistica ed efficientista. La scuola è e deve essere sempre meglio una comunità educativa ed educante. Per questo non può assumere, come propri, modelli produttivistici, forse utili in altri ambiti della società, ma inadeguati all’esigenza di una formazione umana e critica integrale. È quanto mai necessario “rimettere al centro” del dibattito la questione della scuola.[i]

images (2)E’ questo l’incipit dell’Appello per la Scuola Pubblica, che ho appena sottoscritto e che invito tutti/e a leggere con grande attenzione.[ii] E’ stato pubblicato solo pochi giorni fa ma è circolato molto velocemente online, raccogliendo in poco tempo quasi 7.000 firme tra docenti, genitori e studenti Esse si aggiungono a quelle degli otto docenti che lo hanno redatto e dei primi illustri proponenti, fra cui: Salvatore Settis, Massimo Cacciari, Tomaso Montanari, Umberto Galimberti, Nadia Urbinati, Michela Marzano, Romano Luperini, il filosofo Roberto Esposito, gli storici Giovanni De Luna e Adriano Prosperi, il sociologo Alessandro Dal Lago, i pedagogisti Benedetto Vertecchi, Massimo Baldacci e tanti altri educatori e professori universitari, insegnanti e critici letterari e dell’arte.

Basta la premessa appena citata a comprendere che si dà finalmente voce a tantissime persone che vivono quotidianamente la scuola pubblica, con ruoli diversi ma con la stessa amara sensazione di un progressivo degrado del modello d’istruzione che ci ha consegnato la nostra Costituzione, che troppi fanno solo finta di celebrare nella ricorrenza del suo 70° anniversario. Non è certo un caso, infatti, che l’appello sia centrato su sette punti ben precisi, sui quali è più evidente il tradimento dei principi costituzionali, con particolare riferimento agli art. 3 (“E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana “, 33 (“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.” e 34  “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita….” .

I ‘sette peccati capitali’ della sedicente #BuonaScuola  si riferiscono ad altrettanti ambiti in cui la mutazione genetica della scuola italiana ha subito maggiormente il contagio della mentalità efficientistico-aziendale che una volta credevamo patrimonio della destra liberista di stampo berlusconiano, salvo poi ritrovarci con una riforma scolastica di centro-sinistra ancora più esplicita in tal senso. Tali punti nodali sono così sintetizzati nei titoli del documento:  1. Conoscenze vs competenze; 2.  Innovazione didattica e tecnologie digitali; 3. Lezione vs attività laboratoriale; 4. Scuola e lavoro; 5. Metrica dell’educazione e della ricerca; 6. Valutazione del singolo, valutazione di sistema; 7. Inclusione e dispersione. Mi soffermerò pertanto su alcune questioni sollevate dall’Appello, che sono quelle su cui la mia personale esperienza di docente di scuola media mi spinge a riflettere maggiormente.

NELLA ‘BUONA SCUOLA’ C’E’ UN ‘BONUS’ PER OGNI ESIGENZA…

Ho usato l’espressione ‘scuola media’ non certo per un vezzo rétro, ma per sottolineare che uno dei modi in cui si sta a poco a poco snaturando il triennio successivo alla scuola elementare mi sembra proprio la sua collocazione ‘propedeutica’ ed ancillare rispetto a quella superiore, cancellandone così l’originaria caratteristica ‘mediana’, di fondamentale ponte fra due modelli, oltre che gradi, d’istruzione. L’impressione è che il mantra  incalzante del c.d. ‘curricolo verticale[iii]  (concetto che risale peraltro al 1997 ed i cui ultimi riferimenti normativi sono riscontrabili nelle Indicazioni Nazionali del 2012 e nelle circolari esplicative del 2013) sia un chiaro indice dell’orientamento dominante a trasformare l’ex scuola media in un selettivo trampolino verso una specie di college di stile anglosassone. Le ‘riforme’ targate USA arrivano nel nostro Belpaese generalmente con un quarto di secolo di ritardo. E’ il caso anche della legge che nel 1992 introdusse nell’istruzione pubblica degli States un nuovo approccio organizzativo :

“Le charter schools (letteralmente “scuole del prestito”), nel sistema scolastico degli Stati Uniti, sono delle scuole, soprattutto primarie o secondarie, che godono di un particolare statuto di autonomia, legato a un sistema di finanziamento misto al quale contribuiscono fondi pubblici e privati. Esse, infatti, oltre a donazioni private ricevono finanziamenti pubblici (inferiori rispetto a quelli delle scuole pubbliche) in cambio di un assoggettamento ad un minor numero di regole, leggi e vincoli statutari. Pertanto, esse sono più autonome dei corrispondenti istituti pubblici e statali. Le charter school sono considerate, in genere, migliori delle scuole pubbliche in termini di risultati scolastici. Si possono frequentare in base all’espressione del principio della cosiddetta “libera scelta” nel campo dell’istruzione [iv]

images (1)E’ solo il nostro provincialismo italiota che non ci fa cogliere i nessi fra quello che ci sta capitando e le profonde – in alcuni case antiche – radici che sono all’origine di quello che ho chiamato ‘snaturamento’ della scuola. E’ da questa sua profonda ‘modificazione genetica’, infatti, che derivano le linee di tendenza che sono sicuramente tutte dentro le ultime riforme della scuola italiana – in particolare quella renziana – ma che, in modo più strisciante e progressivo, hanno inquinato fini, mezzi e modi dell’insegnamento, riconducendoli alla logica neo-liberista delle privatizzazioni, della selezione pseudo-meritocratica, della ‘managerialità’ dei dirigenti e della deregulation in ambito normativo,  per di più spacciando tutto ciò come attuazione della autonomia scolasticaSono questi i ‘modelli produttivistici’ cui l’Appello fa risalire la ‘destrutturazione’ della nostra scuola pubblica, denunciandone la matrice ideologica ‘economicista ed efficientista’.

Quello che anch’io sto vivendo nella scuola dove opero, dunque, è il frutto un po’ appassito d’un processo di trasformazione precedente, che però ora sta mettendo più apertamente in discussione gli stessi principi costituzionali democratici già citati. Pur volendo tacere della ormai consueta  violazione della ‘collegialità’ delle scelte didattico organizzative che caratterizza il nostro sistema scolastico, penso sia necessario denunciare certe operazioni di cui non molti colleghi sembrano rendersi conto. Il combinato disposto tra la logica ‘premiale’ che lusinga tanti nostri docenti ed il clima di crescente concorrenza fra istituzioni scolastiche sta infatti producendo risultati estremamente deteriori, improntati sempre e comunque alla progressiva privatizzazione della scuola pubblica. L’utilizzo anglofilo del c.d School Bonus previsto dalla ‘Buona Scuola’ e introdotto dal 2016 – che implica benefici fiscali per chi faccia donazioni alle scuole – è stato uno degli strumenti per agevolare questo processo di ‘charterizzazione’ dei nostri istituti che, con la scusa delle ‘erogazioni liberali’ di tali soggetti, crea le premesse per un controllo. [v]

La seconda ‘mossa’ di questo sconcertante ‘gioco di strategia’ governativo è stata, come accennavo prima, la rincorsa dei docenti all’allettante ‘albero della cuccagna’ del c.d. ‘bonus premiale’  (per il 2018 sono stati stanziati in bilancio ben 60 milioni). Col pretesto della ‘valorizzazione’ degli insegnanti, cioè, se ne premia in buona sostanza il conformismo e lo slancio produttivistico ed organizzativo, assoggettandoli mentalmente alla logica perversa della ‘squadra’ che circonda e supporta i dirigenti scolastici.  Il terzo anello della catena mi sembra la crescente tendenza ad introdurre una sorta di ‘pre-selezione’ nelle iscrizioni degli alunni della scuola media (pardon: scuola secondaria di 1° grado). Lo strumento operativo è quello che utilizza il sedicente ‘contributo volontario’ delle famiglie (un importo variabile determinato dai consigli d’istituto delle singole istituzioni scolastiche) non come attuazione della “scuola aperta a tutti […] obbligatoria e gratuita” sancita dalla Costituzione, bensì come subdola chiave di accesso o meno a corsi più qualificati ed appetibili. Basta stabilire che determinate sezioni di una scuola statale presentino una più consistente ed allettante offerta formativa aggiuntiva e/o curricolare, previo esborso di una vera e propria tassa d’iscrizione –  ed il gioco è fatto. In teoria si continua ad affermare che non si può scegliere la sezione cui iscrivere i figli, ma in pratica tale selezione degli alunni in entrata (prevalentemente in discipline come l’inglese di livello più alto e le tecnologie informatiche) pone le basi per ‘premiare’ quelli i cui genitori, oltre ad essere più ambiziosi, hanno il dubbio ‘merito’ di potersi permettere di pagare somme molto più onerose.

COMPETENZE, TECNOLOGIE DIGITALI, LABORATORI, SCUOLA-LAVORO

downloadQuando l’appello elenca i sette punti ‘caldi’ da tenere presenti se si vuole salvare quel che ancora rimane della scuola pubblica, risulta evidente che il processo che la sta “destrutturando” va proprio nella direzione delle charter schools d’oltre oceano. All’enfasi esagerata sulle competenze basilari e sulle tecnologie digitali, ad esempio, il documento giustamente contrappone una riserva:

Non [ha] senso misurare “livelli di competenza” degli studenti, da attestare in una sorta di fermo-immagine valutativo. Il sapere non si acquisisce mai definitivamente. È continuamente rinnovato dalla maturazione, consapevolezza, interiorità, ricerca singolare e plurale, approfondimento di contenuti e pratiche”.[vi]   Si afferma, inoltre: “Non sia il mero ingresso di uno smartphone in classe a migliorare l’apprendimento o l’insegnamento. In quel caso si potrà, certo, aderire a un modello, attualmente dominante: quello che sostiene l’equazione cambiamento=miglioramento e digitale=coinvolgimento.[vii]

 Personalmente, sul primo punto mi sono già espresso già nel 2015, in due articoli pubblicati sul mio blog, intitolati rispettivamente “Quali competenze ci richiede l’Europa”  [viii] e “La Buona Scuola che ci compete”  [ix], mentre sul secondo nel 2016 ho prodotto un intervento dal titolo “Un’impronta digitale sulla scuola” [x]. Per brevità, quindi, rinvio a questi miei precedenti contributi.

Altri due punti su cui il documento dei docenti ha voluto fare chiarezza hanno una radice comune. Attività laboratoriale e alternanza scuola-lavoro sembrano infatti ispirati dalla stessa logica pragmatica e produttivistica che sta cercando in ogni modo di snaturare la funzione educativa e socio-culturale dell’istruzione pubblica, liquidandola come retaggio di una superata cultura dei ‘saperi’ astratti e contrapponendo ad essa la funzione di prep school anglo-americana.[xi]  Fatto sta però che, come si ribadisce nell’Appello:

Non si va a scuola semplicemente per trovare un lavoro, non si frequenta un percorso di istruzione solo per prepararsi ad una professione. Dal liceo del centro storico al professionale di estrema periferia, la scuola era e deve restare, per primo, un “luogo potenziale” in cui immaginare destini e traiettorie individuali, rimettere in discussione certezze, diventare qualcos’altro dalla somma di “tagliandi di competenza” accumulati e certificati.” [xii]

Un’altra osservazione che condivido appieno è quella sullo ‘stile’ dell’insegnamento, sempre più orientato verso le attività ‘laboratoriali’, mandando in soffitta ogni approccio che abbia a che fare con la ‘lezione’ e che, conseguentemente, solleciti l’ascolto, sia pur attento e attivo – da parte dei discenti. Ma basta sfogliare una qualsiasi rivista per imbattersi in inchieste da cui si evince che i nostri ragazzi stanno diventando sempre meno capaci di ascoltare e di stare ‘attenti’, presi come sono dalla smania pseudo-operativa suscitata da smartphones e videogiochi e sensibili quasi esclusivamente a stimoli visuali o, al massimo, audiovisivi. Quella che oggi si esalta, del resto, non è certo la visione educativa attivistica e cooperativa dei pedagogisti di una volta.[xiii]  I presupposti ideologici di questa insistenza sulla ‘laboratorialità’, a mio avviso, affondano piuttosto in una concezione pragmatista, materialista ed economicista della società. Fanno bene, quindi, gli estensori dell’Appello a sottolineare che:

“Attenzione concentrata, aumento dei tempi di ascolto, siano condizioni per un “saper fare” come “agire intelligente”, che non si consegue assecondando l’uso delle tecnologie o seducendo gli alunni con dispositivi smart, ma in contesti di applicazione laboriosa, tempo quieto per pensare, discussione nel gruppo”.[xiv]

Anche su questi ultimi due aspetti – ed in particolare sull’inserimento nella scuola d’interessi produttivi o addirittura della propaganda militare – rinvio a ciò che mi è già capitato di scrivere in passato.[xv]

VALUTATION E SVALUTATION

images (1)Gli ultimi tre dei sette ‘peccati capitali’ della #BuonaScuola hanno a che fare col grande capitolo di ciò che gli autori dell’Appello chiamano “metrica dell’educazione e della ricerca”.

“Gli orientamenti internazionali delle politiche formative e di ricerca […] innescano una competizione globale in cui ranking internazionali (OCSE) e nazionali (INVALSI, ANVUR) comprimono gli scopi formativi e di studio sulla dimensione apparentemente neutra di “risultato”, oltre ad indurre a paragoni privi di rigore logico. Educazione e ricerca universitaria non sono riducibili ad un insieme di pratiche psicometriche globali, a cui sottoporsi in nome del principio di etica e responsabilità. Il futuro della Scuola e dell’Università sono questioni politiche nazionali, da collocare in un contesto europeo e interculturale di confronto e valorizzazione delle differenze, libero e democratico.” [xvi]  

Mi sembra che questa “ossessione quantitativa – che sarebbe imposta da obblighi comunitari o internazionali – sia piuttosto pilotata da interessi economici esterni alla scuola ed inoltre risponde a criteri ‘metrici’ spesso discutibili, o quanto meno parziali. Ecco perché non si può accettare supinamente l’imposizione di una didattica semplificata, schematizzata e valutabile solo mediante aridi questionari. Non è questa la nostra scuola e perfino nei paesi anglosassoni, dove i test strutturati sono la regola da decenni, ci si sta ribellando progressivamente a questa didattica standardizzata dove, è stato osservato, “si studia per i test, non con i test”. Anche su tale dimensione ho già avuto modo di pronunciarmi, per cui rinvio a due miei articoli del 2013 (“Fermate ‘sta pazzia!” e “Oltre i test, per far funzionare le teste”). [xvii]  Ecco perché non posso che associarmi all’Appello, quando si denuncia che:

La logica dell’adempimento e della competizione azzer(a)no il lavoro di personalizzazione nella formazione scolastica ed erod(o)no progressivamente spazi di progettualità libera nella ricerca universitaria (attraverso la sottomissione a criteri di valutazione non condivisi…”[xviii]

Ancor più sottoscrivibile, da parte di un educatore di matrice ecologista come me, è la successiva affermazione:

Le scelte operate da MIUR, INVALSI ed ANVUR, modific(a)no profondamente comportamenti e strategie nelle Scuole […], generando condotte di mero opportunismo metodologico-didattico e scientifico nonché la perdita di “biodiversità culturale”, strumento indispensabile per affrontare le complessità del futuro, oggi imprevedibili.” [xix]

La centralità del concetto di “valutazione” nella nostra didattica ‘riformata’ non è solo una mania, comprensibile in un mondo dove anche il sapere sembra che debba essere pesato e prezzato come qualsiasi altra merce. Il vero problema è che tale ossessione valutativa non sta portando affatto ad una scuola meritocratica bensì ad una selettività sempre più ‘a priori’. Ancora una volta, per citare don Milani: La scuola….è un ospedale che cura i sani e respinge i malati.” [xx]

In questo processo un ruolo non secondario – come osservavo negli articoli citati nella nota 17 – ha avuto ed ha un ruolo centrale l’INVALSI, sulla quale si appuntano gli strali anche degli estensori dell’Appello, sostenendo che:

Un’agenzia “terza” (INVALSI) non possa svolgere compiti di valutazione e di ricerca pedagogico-didattica orientanti programmi e curricola: la terzietà non è, inoltre, comparabile con gli incarichi affidati dal MIUR per la valutazione (diretta e indiretta) di docenti e dirigenti attraverso meccanismi di premialità. [xxi]

Già, perché oltre ad introdursi sul piano didattico come il classico elefante nella cristalleria, queste Agenzie stanno svolgendo un ruolo non secondario nella determinazione dei criteri per la valutazione non solo di singoli alunni, classi ed intere istituzioni scolastiche, ma indirettamente anche dei docenti e dei dirigenti. Fin nel 2012 mi sono espresso criticamente a proposito dei progetti di valutazione degli insegnanti (“Si VALES bene est. Ego valeo” [xxii]), reiterando il mio giudizio due anni dopo (“Il sistema di(sotto)valutazione dei docenti[xxiii]). Oggi la trama di questo piano appare ancora più evidente e sta producendo danni ancora maggiori, aizzando una in-sana competizione a tutti i livelli (tra docenti, tra classi di una scuola, tra istituti dello stesso territorio, etc.)

L’ultimo capitolo del documento, dedicato a “inclusione e dispersione” cerca dunque di riportare l’attenzione degli insegnanti sul loro ruolo centrale, che non è certo quello burocratico di ‘certificatori’ di conoscenze o anche di competenze, ma di educatori. Anch’io, infatti, credo che:     

“ …non ci si possa limitare a chiedere alla Scuola di fare meglio solo con ciò che ha. Semplificare compiti e programmi, organizzare corsi di recupero pomeridiani che ricalchino quelli antimeridiani, medicalizzare le diversità, sono scorciatoie che restano agli atti come prove burocratiche di adempimenti amministrativi […] Dispersione scolastica e abbandoni precoci non sono solo capi d’imputazione su cui è chiamata a rispondere, ma problematiche che nelle attuali condizioni assorbe e subisce.” [xxiv] 

Facciamo in modo, dunque, che la ‘valutation’ standardizzata della #BuonaScuola non sia ancor di più uno strumento socioculturale – e quindi politico – di svalutation’ di chi non rientri in questi nuovi canoni didattici, per cui rischia di essere emarginato, o comunque costretto a seguire percorsi scolastici di seconda categoria.  La scuola che vogliamo non ha molto a che vedere con quella che ogni giorno ci viene proposta e spesso imposta. Muoviamoci allora, prima che sia troppo tardi… Sottoscrivere l’Appello è solo il primo passo di una lotta non facile, ma assolutamente indispensabile.

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[i] AA.VV., Appello per la Scuola Pubblica  > https://sites.google.com/site/appelloperlascuolapubblica/

[ii] Vedi:  Ilaria Venturi, “Moratoria sulla Buona Scuola. L’appello degli insegnanti firmato da intellettuali ed accademici”,  la Repubblica Scuola (30.12.2017) > http://www.repubblica.it/scuola/2017/12/30/news/_una_moratoria_sulla_buona_sucola_l_appello_degli_insegnanti_firmato_da_intellettuali_e_accademici-185485819/

[iii] Cfr.  Gianfranco Cerini, Saperi, curricolo, competenze > http://www.edscuola.it/archivio/riformeonline/saperi.html

[iv] “Charter School” in Wikipedia >

[v]  Cfr. http://www.notiziedellascuola.it/news/2016/settembre/school-bonus-benefici-fiscali-per-donazioni-alle-scuole

[vi] Appello per la scuola pubblica, cit.

[vii] Ibidem

[viii] Ermete Ferraro, Quali competenze ci richiede l’Europa?  (15.03.2015) > https://ermetespeacebook.com/2015/03/15/quali-competenze-ci-chiede-leuropa/

[ix]  Idem, La Buona Scuola che ci compete (12.09.2015) > https://ermetespeacebook.com/2015/09/12/la-buona-scuola-che-ci-compete/

[x]  Idem, Un’impronta digitale sulla scuola? (13.11.2016) > https://ermetespeacebook.com/2016/11/13/unimpronta-digitale-sulla-scuola/

[xi] Vedi definizione di ‘Prep(aratory)school ‘ in: https://dictionary.cambridge.org/it/dizionario/inglese/prep-school

[xii] Appello… cit.

[xiii] Cfr. ad es. le teorie pedagogiche di J. Dewey, C. Freinet, M. Montessori, A.S. Makarenko, R. Cousinet ed altri

[xiv] Appello, cit.

[xv] Vedi, ad es.: E. Ferraro, Profeti e professori (25.06.2017) > https://ermetespeacebook.com/2017/06/25/profeti-e-professori/ e Idem, Ma che ‘Bellica Scuola’ ! (03.12.2016) > https://ermetespeacebook.com/2016/12/03/ma-che-bellica-scuola/

[xvi] Appello, cit.

[xvii] E. Ferraro, “Fermate ‘sta pazzia!” (22.06.2013) > https://ermetespeacebook.com/2013/06/22/fermate-sta-pazzia/ e    Oltre i test, per far funzionare le teste (27.11.2013) > https://ermetespeacebook.com/2013/11/27/oltre-i-test-per-far-funzionare-le-teste/

[xviii] Appello, cit.

[xix]  Ibidem

[xx] Don Lorenzo Milani, Lettera ad una professoressa, Firenze, L.E.F. ,1996

[xxi] Appello, cit.

[xxii] E. Ferraro, Si VALES bene est. Ego valeo (18.02.2012) > https://ermetespeacebook.com/2012/02/18/si-vales-bene-est-ego-valeo/

[xxiii] Idem, Il sistema di (sotto)valutazione dei docenti (03.10.2014) > https://ermetespeacebook.com/2014/10/03/il-sistema-di-sottovalutazione-dei-docenti/

[xxiv]  Appello, cit.

OLTRE I TEST, PER FAR FUNZIONARE LE TESTE

TESTINGMentre da noi, in Italia, sui giornali si parla di scuola solo in occasione delle occupazioni degli studenti o degli scioperi dei docenti, su prestigiosi quotidiani statunitensi è aperto da lungo tempo un vivace dibattito sulla riforma dell’istruzione e, in particolare, sulla mutazione genetica che ha trasformato la scuola in un “testificio”.  Una particolare attenzione a questo problema è riservata dal Washington Post, le cui rubriche dedicate all’educazione riportano spesso articoli riguardanti il “Common Core” (cioè l’imposizione di un ‘nucleo’ didattico comune a tutte le scuole di tutti gli stati degli USA) e la valutazione (degli alunni, ma anche dei docenti e perfino delle istituzioni scolastiche) mediante una massiccia somministrazione di test standardizzati.

Sebbene sulla goffa imitazione di questa modalità si direbbe che qui in Italia quasi nessun pedagogista trovi nulla da ridire, negli Stati Uniti il dibattito è invece molto acceso. Lì sono scesi da molto tempo in campo nutriti e combattivi gruppi di dirigenti scolastici, educatori, insegnanti e genitori, contestando l’assurda mania dei test di valutazione e la standardizzazione dei programmi didattici, in nome della libertà d’insegnamento e del rifiuto di simili criteri di selezione.

A questo tema ho già dedicato alcune note, l’ultima proprio sulla rivolta di chi, negli USA, si batte per“stop this madness” https://ermeteferraro.wordpress.com/2013/06/22/fermate-sta-pazzia/. Recentemente, però, mi è capitato di leggere un altro stimolante articolo sull’argomento http://www.washingtonpost.com/blogs/answer-sheet/wp/2013/11/23/beyond-tests-how-to-foster-imagination-in-students/, nel quale Marion Brady – noto pedagogista e docente con lunga esperienza – ha affrontato criticamente un altro importante aspetto negativo di tale impostazione. La sua attenzione si è focalizzata, infatti, sulla banalizzazione dell’istruzione per garantire a tutti alcune indistinte e generiche “competenze minime”, rinunciando a perseguire obiettivi formativi più ambiziosi, ad esempio stimolare la creatività personale.  Come “alimentare l’immaginazione” dei ragazzi, mortificata da una scuola sempre più appiattita e funzionale ad una società mercantile, omogeneizzata e guidata da un pensiero unico, è viceversa la preoccupazione di un veterano dell’istruzione come Brady, che non si rassegna ad una scuola che “insegna per i test”.

“Quelli che prestano attenzione sanno che la mania di testare le prestazioni di alto livello ha spinto centinaia di migliaia di bambini fuori dalla scuola, ha banalizzato l’apprendimento, ha radicalmente limitato la capacità dell’insegnante di adattarsi alle differenze tra discenti ed ha portato a fine molti programmi di educazione fisica, artistica e musicale . Ciò avvantaggia ingiustamente coloro che possono permettersi la preparazione ai test, rende il Congresso il consiglio d’amministrazione delle scuole d’America, crea irragionevoli pressioni ad imbrogliare, fa chiudere le scuole di quartiere, corrompe la professione docente  e blocca tutte le innovazioni, tranne quelle i cui risultati possono essere misurati da macchine, giusto per iniziare un elenco molto più lungo…” (art. cit.).

Se noi Italiani fossimo capaci d’imparare dall’esperienza altrui, quella maturata in decine d’anni di applicazione alle scuole statunitensi di questo modello dovrebbe renderci estremamente cauti nell’importarlo a cuor leggero nel nostro contesto, fra l’altro molto differente.  Il problema, peraltro, non consiste affatto in un irrazionale rifiuto dei docenti italiani a sottoporsi ad una valutazione oggettiva dei processi di apprendimento che sono riusciti ad avviare nei loro studenti. La questione riguarda piuttosto chi giudica cosa e in quale modo, cioè la legittima contrarietà da parte di molti insegnanti a sottoporre questa pur necessaria valutazione a meccanismi piuttosto discutibili, in nome d’una pretesa uniformità a criteri internazionali, livelli standardizzati ed a competenze selezionate in base a tassonomie didattiche decise in modo verticistico.

“Ridotto all’essenziale, ecco come funziona il sistema per mettere alla prova la competenza minima. Le Autorità stilano elenchi di quello che ritengono che i ragazzi dovrebbero sapere . Le liste sono date agli insegnanti, insieme con l’ordine di insegnare ciò che vi è scritto sopra. Test standardizzati controllano se gli ordini sono stati eseguiti. Qualcuno (non i docenti) imposta in modo arbitrario la linea di demarcazione tra passare o non passare il test e i ragazzi che avranno ottenuto un punteggio oltre il taglio sono considerati “minimamente competenti. Vi sembra ragionevole ? La maggior parte delle persone sembrano pensare così. Però  le scuole che si concentrano su competenze minime non possono produrre ragazzi abbastanza intelligenti per affrontare i problemi che si preparano ad ereditare…” (ibidem).

L’autore dell’articolo, dopo la sua efficace requisitoria contro questa fallimentare modalità didattica, suggerisce anche un efficace antidoto ad essa: una scuola che non punti a selezionare i discenti in base ad un’arbitraria linea di demarcazione tra chi supera o meno le prove strutturate, ma miri piuttosto a stimolare le loro capacità immaginative, logiche ed argomentative. Secondo Brady, progettare il futuro ed imparare a risolvere i problemi sono le competenze-chiave da privilegiare, ragion per cui politiche dell’istruzione che vanno in ben altra direzione preparano un inarrestabile declino dell’educazione. Egli puntualizza poi che, per rendere i progetti formativi capaci di stimolare l’immaginazione, occorre che essi rispondano a sette fondamentali condizioni: (a) devono essere compiti intellettualmente impegnativi ma fattibili; (b) devono essere concreti anziché astratti; (c) devono appartenere al mondo reale e non a quello delle teorie; (d) devono utilizzare tutte le discipline scolastiche; (e) richiedono un dialogo basato sul pensare ad alta voce; (f) la maggior parte dei ragazzi li deve trovare abbastanza interessanti da suscitare emozione; (g) richiedono agli studenti di passare dall’immagazzinare nella mente conoscenze preesistenti al creare nuove conoscenze.

Certo, le problematiche dell’istruzione pubblica nel nostro Paese sono molto diverse da quelle degli Stati Uniti e la nostra società è oggettivamente differente dalla loro. Ciò non toglie che queste indicazioni possano applicarsi anche alla scuola italiana, per contrastare la diffusa tentazione di uniformarsi ad una metodologia didattico-educativa che sta sempre più contabilizzando i saperi come una qualsiasi azienda, a forza di privilegiare conoscenze “misurabili” e di perseguire competenze sempre più uniformi.  Credo quindi che portare avanti progetti come quelli suggeriti da Marion Brady nel suo articolo potrebbe essere un modo valido per evitare che la dittatura del pensiero unico e della standardizzazione renda sempre più grigia la nostra scuola, utilizzando queste “verifiche” come pretesto per una selezione pseudo-meritocratica dei docenti, delle classi e degli istituti.

“Per questi riformatori, i “dati” significano soprattutto i punteggi alle prove standardizzate. […] Essi possono essere indebitamente usati dai politici e far affluire miliardi di denaro pubblico nelle casse delle corporations per pagare servizi di consulenza e materiali di preparazione ai test. Questo è ciò che le prove fanno. Ciò che non fanno, che non possono fare e non saranno mai capaci di fare, è misurare quelli che sono probabilmente i più preziosi risultati di una buona istruzione: l’immaginazione e la creatività. “ (ibidem)

Non sarà certo l’invalsizzazione della scuola italiana che assicurerà il successo scolastico dei nostri ragazzi e la qualità dell’insegnamento. La sfida della personalizzazione dei percorsi formativi e dell’apertura ad una cultura da costruire più che da trasmettere passivamente è troppo importante per essere ridotta alle elaborazioni statistiche dei dati raccolti somministrando le prove nazionali. Ma se i docenti per primi perderanno la loro carica d’immaginazione e di creatività, pur di adeguarsi alle direttive di vertice e di assicurare punteggi abbastanza alti alla propria classe, trionferà la logica delle programmazioni copia-e-incolla e delle crocette sui test.

Strumenti indubbiamente utili per la redazione dei registri elettronici ma assai poco adatti ad un insegnamento che miri a formare intelligenze e coscienze autonome.

© 2013 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

FERMATE ‘STA PAZZIA !

http://http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=wDufCXtO9h4

RIFLESSIONI DI FINE D’ANNO (SCOLASTICO)

Anche quest’anno scolastico si è chiuso con le solite statistiche pubblicate dai giornali sulla percentuale di ammessi e non ammessi nei vari livelli d’istruzione e con gli abituali commenti sulle prove nazionali per gli esami di licenza media o sulla valenza delle tracce dei temi di maturità.
Il fatto è che il baraccone mediatico segue sempre più stancamente le vicende di una scuola sballottata fra riforme e controriforme, ma sulla quale ormai si è smesso di dibattere sul serio, preferendo confluire nel pensiero unico dell’efficienza e del merito come leve dell’innovazione.
Gli stessi insegnanti – al di là delle vertenze sindacali che ne vivacizzano ogni tanto la rassegnata piattezza di chi è abituato ad “attaccare il ciuccio dove vuole il padrone” – non stanno dando segni evidenti di opposizione ad una “riforma” (ma forse sarebbe meglio parlare di “de-forma”) della scuola che continua a marciare sulle rotaie obbligate di una visione aziendalista dell’istruzione, dalla quale – non a caso – da tempo è stato espunto l’aggettivo “pubblica”.
Le parole d’ordine che piovono dalle circolari ministeriali sono ovviamente rassicuranti (trasparenza, efficienza, valutazione oggettiva etc.), ma i risultati che esse si propongono di ottenere vanno in ben altra direzione. Classificare, standardizzare e selezionare sembrano essere diventate l’ossessione della scuola italiana, travolta da un’ansia da prestazione nei confronti dei partners europei e preoccupata di competere in una specie di hit parade mondiale dei risultati formativi, alla quale si continua a dare molto credito. Come se avesse senso raffrontare i dati della Svezia con quelli della Corea o anche quelli del Trentino/Sud-Tirol con quelli della Calabria/Sud Italia…
L’INVALSI, più che un ente convenzionato, sembra essere ormai diventato il motore stesso del MIUR, il “think-tank” che dovrebbe modernizzare la scuola italiana, “allineandola” (ecco un altro dei termini di moda…) agli “standard” internazionali. L’ambiguità dell’espressione anglofila (“serbatoio di pensieri” ma anche “carrarmato ideologico”) è comunque utile per capire come mai questa prestigiosa istituzione da anni riesca a dettare l’agenda dei nostri ministri dell’istruzione, siano di centrodestra o di centrosinistra.
Per contenere e vanificare l’opposizione all’invadente standardizzazione dei “test” nazionali da parte di alcune organizzazioni – sindacali e culturali – si sono escogitati così i sistemi più squallidi, fra cui l’inserimento di queste pratiche tra i compiti ordinari dei docenti all’interno di una legge finanziaria, oppure il ricorso a “circolari ministeriali” spacciate per fonti normative. Il risultato è che, passo dopo passo (come avrebbe detto qualcuno…), la mutazione genetica della scuola italiana è sempre più evidente, colpendo anche l’istruzione superiore e, di striscio, perfino la formazione universitaria. Se poi si aggiungono le trovate ministeriali sulla “de-materializzazione degli atti” e l’imposizione alle scuole del “registro elettronico” – cui di recente ho già dedicato un commento – abbiamo un quadro abbastanza completo di una situazione che sta sfuggendo di mano sempre più a chi nella scuola ci lavora, e che avrebbe quindi il diritto di dire la sua su queste pretese innovazioni.
Lo stesso criterio per la valutazione dei risultati conseguiti dagli alunni – sia trimestrale sia finale sia di esame – riducendo tutto ad un meccanismo automatico, di natura esclusivamente aritmetica, sta svilendo il ruolo stesso dei docenti. E, soprattutto, mi sembra che stia avvilendo la collegialità e la sovranità di giudizio dei consigli di classe, ridotti a ratificatori impotenti delle banali somme delle singole valutazioni, all’insegna di una “semplificazione” che vuole a tutti i costi rendere semplice ciò che, come la valutazione in campo educativo, è invece maledettamente complessa.   Il guaio è che chi cerca di opporsi alla “gioiosa macchina da guerra” dell’invalsizzazione della scuola italiana viene subito bollato come un ribelle sinistrorso, o quanto meno, come un vetero-insegnante, di poco larghe vedute e sempre spaventato dalle novità. Ciò dipende dal solito provincialismo della cultura e dei media italiani, che non sanno o non vogliono guardarsi un po’ attorno, per verificare se le “novità” che si vogliono imporre al nostro sistema educativo siano poi così…nuove e, soprattutto, se sia proprio vero che altrove obiettivi comuni e prove nazionali sono state accolte come doni della provvidenza.

GUARDIAMOCI  UN PO’ ATTORNO

La verità, in effetti, è abbastanza lontana da quella che ci viene dipinta. Il Francia, nel Regno Unito e soprattutto negli USA gli insegnanti stanno scendendo in piazza, sempre più numerosi e incavolati, per far valere i loro diritti sindacali, ma anche per salvaguardare la loro dignità di professionisti della formazione scolastica.
Negli Stati Uniti – dove “common core” e “tests” sono già stati introdotti da decenni nelle legislazioni statali e federali – è in atto una vera e propria rivolta dei docenti e perfino dei presidi, per denunciare l’invadenza stomachevole e socialmente selettiva delle “prove nazionali”, da noi esaltate come progressiste. La chiusura di decine di scuole per volta – utilizzando gli scarsi risultati nei test come banco di prova della loro inefficienza educativa – ha reso fin troppo evidente la connessione fra questi strumenti di pretesa valutazione delle prestazioni culturali degli studenti e la subdola selezione dei docenti e degli istituti che – a loro insindacabile parere – meritano di sopravvivere ai tagli, statali e federali, nelle spese per l’istruzione.
Non sembra essere bastato che migliaia d’insegnanti americani si siano ormai rassegnati ad insegnare “per” i test piuttosto che “con” i test, stravolgendo la loro autonomia professionale e livellando l’offerta formativa a danni delle classi più povere. Questa standardizzazione non è stata evidentemente capace di evitare accorpamenti e chiusure d’istituzioni scolastiche elementari e medie ed una pesante stretta anche nelle scuole superiori. Ecco perché si è creato un diffuso movimento di insegnanti che hanno, per così dire, fatto obiezione di coscienza a queste astruse pratiche selettive. Ed ecco perché – come riportava il Washington Post lo scorso 23 maggio in un articolo intitolato “Perché i test sugli obiettivi comuni hanno fallito” una cinquantina di presidi di scuole di vario ordine e grado dello Stato di New York hanno deciso di scendere anche loro in campo, indirizzando una lettera rispettosa, ma sicuramente molto dura, al Commissario Statale all’Istruzione John King. Ne riporto alcuni passi, nella mia traduzione:
“ Il risultato è che molti studenti hanno trascorso molto del loro tempo leggendo, rileggendo ed interpretando domande difficili e confuse sulle scelte degli autori circa la struttura e l’elaborazione di testi informativi […] ma lo hanno fatto a discapito di molti degli altri profondi e ricchi obiettivi comuni…enfatizzati da stato e comuni. […] In Inglese, gli stessi standard e tutto quanto noi pedagogisti sappiamo essere vero in materia di lettura e scrittura ci dicono che interpretazioni molteplici di un testo possono essere non soltanto possibili, ma perfino necessarie ad una lettura approfondita. Tuttavia, per molte domande a scelta multipla, la distinzione tra la risposta esatta e le altre era quanto meno ridicola. Il fatto stesso che gli insegnanti riferiscono di disaccordi tra loro su quale risposta a scelta multipla fosse quella corretta, in diversi punti della prova nazionale di lingua, è indice che questa modalità di prova non è adatta agli studenti. […] Questi esami determinano la promozione degli studenti. Determinano quali singoli alumni delle scuole possono iscriversi alla scuola media ed a quella superiore. Essi sono la base sulla quale lo Stato e la Città valuteranno – pubblicamente ed in privato – gli insegnanti. Gli esami determinato se una scuola potrebbe fallire ad uno scrutinio più accurato, dopo una relazione statale o cittadina – collegata ai test – che certifichi risultati scadenti, e se rischia perfino di essere chiusa. Queste realtà ci danno una sempre più grande sensazione dell’urgenza di essere rassicurati che i test riflettano le nostre più grandi aspirazioni per il processo d’apprendimento degli studenti…”
Come mai da noi, nel Belpaese, i capi d’istituto non solo non sentono il dovere di esprimere le loro prevedibili perplessità, ma addirittura si sentono vincolati da una specie di giuramento di fedeltà ad un’amministrazione statale della scuola che, a sua volta, sembra essersi legata in un patto indissolubile con le pretese “teste d’uovo” dell’Invalsi ?
Come mai il solo fatto che alcuni docenti mettano in discussione la validità, la legittimità ed obbligatorietà delle “prove nazionali” da essa confezionate sembra essere diventato per molti presidi una specie di eresia da combattere strenuamente, un reato di “lesa maestà” ?
Eppure i 50 capi d’istituto che hanno sottoscritto la lettera al New York State Education Commissioner non hanno avuto nessuna remora a denunciare anche il grosso affare che c’è sotto questi test standardizzati, soprattutto quando dietro la loro confezione e somministrazione c’è un colosso dell’editoria come la Pearson, che si vanta nel suo sito web di aver monopolizzato anche il settore delle prove per testare le istituzioni scolastiche. Scrivono i presidi newyorkesi:
“Siamo infine preoccupati che si ponga il destino di così tante comunità educative nelle mani della Pearson – una società con una storia di errori (il più recente quello sul punteggio inesatto delle prove della Città di New York nel programma per i bambini dotati e di talento – il 13% di quelli da 4 a 7 anni che hanno sostenuto l’esame sono stati vittime di errori… ( La Pearson ha un contratto triennale col Dipartimento dell’Istruzione, per questo solo test, del valore di 5,5 milioni di dollari)…”.

DE-INVALSIZZARE LA SCUOLA ITALIANA

Ma come mai da noi nessuno va a ficcare il naso nel business editoriale delle “prove nazionali”, con le mille pubblicazioni proposte agli studenti per “esercitarsi” ad una pratica didattica che, evidentemente, è considerata ancora poco praticata nella scuola? Eppure si direbbe che tutti la vedano destinata a soppiantare quelle che troppi docenti si ostinano a seguire, come le verifiche orali dell’apprendimento, la personalizzazione dei percorsi, il lavoro di gruppo ed in gruppo, l’elaborazione personale di testi scritti di vario genere ed altre simili pratiche rètro…..
Come mai nessuno mette il naso neppure sulle convenzioni fra il MIUR e quell’INVALSI di cui poco si parla, ma che sembra esercitare un’influenza decisamente smisurata per la sua natura di medio ente, con un organico di appena 9 ricercatori su un totale di 21 persone impiegate nelle varie funzioni. Eppure anche da questo“Ente pubblico di ricerca con personalità giuridica di diritto pubblico ed autonomia amministrativa, contabile, patrimoniale, regolamentare e finanziaria, sottoposto alla vigilanza del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca” – come un po’ pletoricamente si autodefinisce – dipendono le sorti di una scuola come quella italiana, che non ha certo nulla da invidiare a quelle europee o transatlantiche, ma che è da tempo affetta da un provinciale complesso d’inferiorità nei confronti delle “prestazioni” degli altri Paesi.
Come può essere che dalle verifiche predisposte da questo Ente – peraltro commissariato dal lontano 2004 e pesantemente sotto organico – dovrebbe dipendere il riscatto della scuola italiana ed il raggiungimento di obiettivi di alto livello sul piano internazionale? E, soprattutto, perché mai il lavoro di “testing” spettante all’INVALSI lo dovrebbero svolgere gli insegnanti italiani nelle loro ore di docenza e, molto spesso, senza neppure condividerne le metodologie?
L’ultima prova nazionale d’Italiano alla quale i nostri ragazzi si sono dovuti sottoporre, in coda ai soliti esami scritti di licenza media, prevedeva, fra l’altro, la risposta ad alcuni curiosi quesiti, riguardanti un brano di Vincenzo Cerami, intitolato “Un rumorino crudele” . Ebbene, è mai possibile che tanti docenti e capi d’istituto non sentano anche loro il fastidioso rumorino’ che proviene dalle scricchiolanti strutture di un Ministero che ha bisogno di ricorrere ad un ente esterno per confezionare un pacchetto di domande su un paio di testi letterari o giornalistici e su alcune questioni grammaticali?
Il secondo brano su cui si appuntavano le domande del test INVALSI era un articolo giornalistico sullo straordinario fenomeno editoriale legato alla serie di Harry Potter ed ai suoi amici maghetti. Il testo si concludeva con queste parole:  “Se milioni di ragazzi di culture diverse lo leggono con fame non è solo questione di mercato: è anche questione di cuore. E il cuore di un ragazzo bisogna ascoltarlo con le parole che ha, anche se suonano assai semplici.”.
Bene, bravi! Ma siamo proprio sicuri che il MIUR metta fra le sue priorità l’ascolto del “cuore” dei nostri ragazzi, visto che una scuola sempre più standardizzata e omologata va in direzione esattamente contraria a quel ruolo educativo e di guida, alunno per alunno, che sembra aver poco a che fare coi criteri di efficienza, di oggettività e di selezione tanto sbandierati?

UN RAP CONTRO LA SCUOLA STANDARDIZZATA

Bene hanno fatto allora gli studenti USA a lanciare il loro grido contro questa stupida imposizione di un metodo che serve solo ad aumentare le differenze socio-culturali e a tagliare i costi dell’istruzione pubblica, con la scusa dell’efficienza. E lo hanno fatto a modo loro, con un video che diffonde un efficace “rap” di Jeremy Dudley, intitolato “Stop this madness!”, cui s’ispira anche il titolo di questo commento. Riporto di seguito alcuni dei versi più significativi, che ho cercato di esprimere in italiano:
<<Fuori contatto e fuori sintonia noi siamo / sotto-insegniamo, però sovra-testiamo, /proprio dove li dovrebbero investire / invece i fondi li vogliono tagliare / ognuno, ragazzi compresi, è iper-stressato/.
Diteci allora come e perché è accaduto /che, pensando ai ragazzi, ‘sto sistema /il migliore è stato ritenuto, // In vari modi le scuole stanno stritolando / – dalle norme fiscali ai mandati senza fondo – / e se sulla strada dei soldi ci stiamo incamminando / Ci sta profitto certo se la scuola sta fallendo/ Riformare l’istruzione non è filantropia./ Se del meglio per i ragazzi non si tratta /Come diavolo può essere una cosa ben fatta?/ Cercano di contrapporre sindacati e comunità /ma: “Ferma ‘sta pazzia!” lo diciamo in unità.//
Testano i ragazzi per dire: ha colpa l’insegnante / C’entra questo piuttosto che i ragazzi / quello che loro dicono nonostante./ ‘Sto sistema è tanto pieno di difetti /che annega nei problemi /è pensare nelle bolle se tu pensi fuori schemi. / Ma pensare nelle bolle limita la creazione / Stiamo standardizzando i test o una generazione? / E questi dati chi ha il diritto di collezionare? /E perché mai c’è il diritto di selezionare?//
E’ che i politici non conoscono l’educazione / se non antepongono i ragazzi nella legislazione / Quello loro è un apprendimento soffocante / Questa dei test è una cosa ossessionante / I ragazzi meritano di meglio certamente.//
E ora stiam correndo verso ‘comuni obiettivi’ / già avvertiti di aspettarci che i nostri ragazzi / Otterranno alla fine dei punteggi cattivi. / Ragazzi di tutto il mondo, vogliamo ricordarvi / che il test è solo un test, non può classificarvi!…”

Ecco, appunto. Faremmo bene a ricordarcelo anche noi e, perché no, a lanciare anche in Italia “un rap sull’Invalsi… per non selezionare su presupposti falsi.”

(c) 2013 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

“SI VALES BENE EST. EGO VALEO”

Citando scherzosamente l’apertura d’una nota lettera di Cicerone alla moglie (Ad familiares, XIV, 8) vorrei introdurre un argomento sicuramente poco appassionante per i non addetti ai lavori ma che, d’altra parte, potrebbe avere delle ricadute non indifferenti su un servizio pubblico fondamentale come la scuola, e quindi su tutti coloro che ne fruiscono. Mi riferisco al nuovo progetto del MIUR per la valutazione delle istituzioni scolastiche, che fa seguito ai precedenti due avviati dalla ministra Gelmini (“VSQ” e “Valorizza” ), che nel frattempo si sono “spiaggiati” miseramente, dopo l’urto contro gli scogli di una scuola che pare proprio non gradire ambigue ‘sperimentazioni’. Il nuovo progetto, battezzato dallo staff del ministro Profumo col suggestivo acronimo “VALeS” (Valutazione e Sviluppo Scuola), sembrerebbe evocare il classico saluto latino, di cui Cicerone faceva spesso uso nelle sue epistole. Ebbene, direi che il problema è racchiuso proprio in quel “si vales bene est”, laddove quest’antica ed augurale formula di saluto (“è un bene se tu stai bene”) venga invece ad esprimere un legittimo dubbio sull’effettivo valore di quest’ennesimo progetto di valutazione pseudo-meritocratica della scuola. Sebbene si noti qualche lieve differenza rispetto a quelli precedenti – che hanno già drenato notevoli risorse economiche, con ben scarsi risultati, sottraendole agli stipendi degli insegnanti, attraverso il blocco degli scatti… – il nuovo progetto continua infatti a percorrere la sdrucciolevole strada della valutazione aziendalista di un’astratta “accountability” della funzione docente. la cosa peggiore è che lo fa in un momento in cui si è comunque deciso di tagliare drasticamente le risorse per la scuola pubblica, inserendo subdolamente al suo interno elementi di privatizzazione ed interessi estranei al processo formativo.

La pretesa, singolare quanto provocatoria, è che le istituzioni scolastiche (o meglio, un campione di 300 scuole italiane su 10.000, ossia il 3%) si autocandidino a partecipare a questo appassionante gioco al massacro, in cambio di una cifra capitaria che andrà da 10.000 e 20.000 euro che, precisa il MIUR, non hanno una funzione “premiale”, ma piuttosto servono a “…sostenere il piano di miglioramento”, come “…riconoscimento per il maggiore impegno profuso dalla comunità professionale nel partecipare al processo di valutazione…” http://www.istruzione.it/alfresco/d/d/workspace/SpacesStore/037232a2-862b-4363-b5f9-4dfa27d0e851/progetto_vales.pdf .  La cosa che lascia perplessi è che buona parte delle organizzazioni della scuola, sindacali o no, non si siano ancora pronunciate con chiarezza sulla riproposizione di un criterio valutativo che, nei paesi in cui è stato applicato per molti anni, ha dato spesso risultati scarsi o del tutto negativi. Mi sembra quindi ancor più significativo che ad esprimere serie critiche in proposito, nel merito come nel metodo, sia stato invece un insigne docente universitario, un esperto di Statistica come il professor Giorgio Tassinari. Egli, infatti, ha contestato la pretesa scientificità d’un metodo di rilevazione dei processi di apprendimento che, pur restando saldamente ancorato al pilastro delle “prove nazionali” propinate dall’INVALSI, vorrebbe correggerne i risultati – falsati dai test in sé – mediante la stima del c.d. “valore aggiunto”.  Si tratta di confrontare i dati di un anno scolastico con quelli del successivo, per rettificare le previste distorsioni.  Il fatto è che non basta confrontare i risultati di anni successivi per ovviare ad una rilevazione meccanica e falsamente ‘oggettive’ degli apprendimenti. Scrive Tassinari:  “Se ci focalizzassimo unicamente sulle misure di tipo puntuale per la valutazione delle scuole e degli insegnanti non potremmo tener conto della qualità del percorso scolastico precedente degli alunni né dei fattori di tipo non scolastico che influenzano la loro performance. Questi fattori sono altamente correlati con le caratteristiche strutturali delle famiglie, quali il gruppo etnico o il reddito. Ne risulta che molta parte della variabilità nei punteggi medi delle scuole è causata da questa disuguaglianza nei “punti di partenza” che difficilmente può essere tenuta sotto controllo dagli insegnanti…” (http://www.inchiestaonline.it/scuola-e-universita/due-o-tre-cose-sul-progetto-vales/#comment-162 ).

Non si tratta di un’astratta e generica critica alla valutazione delle “performances” didattiche in un contesto ancora troppo variegato sul piano socio-culturale, che potrebbe formulare qualsiasi docente con un po’ di esperienza professionale. Un esperto di statistica, molto ben documentato sulle esperienze statunitensi che i nostri governi si sforzano penosamente di scimmiottare, esprime seri dubbi proprio sulla validità di simili strumenti di misurazione dei processi formativi.  “Chiariamo innanzitutto che l’impiego di test standardizzati per misurare le competenze degli studenti permette di osservare solo una frazione, probabilmente non la più importante, dell’outcome educativo degli insegnanti e delle scuole. Ovviamente dovremmo anche essere sicuri che il test somministrato sia in grado (anche con la non piccola limitazione a cui abbiamo appena accennato) di misurare effettivamente i costrutti “qualità della scuola” e “qualità dell’insegnante”, il che è assai lontano dall’essere una certezza. […] Oltre ai rischi connessi all’eccesso di variabilità delle misure e della fragilità dei risultati rispetto alle assunzioni impiegate per la modellizzazione, vi è un ulteriore rischio connesso all’uso delle misure di valore aggiunto e dei test più in generale, che potremmo chiamare effetto della norma sul comportamento.” (ibidem).

Come ho scritto in un breve commento all’articolo, condivido in pieno il qualificato e documentato intervento del prof. Tassinari. Si tratta di un’analisi che parte dai risultati quanto meno discutibili registrabili negli Stati che adottano da decenni questi sistemi di valutazione delle scuole ed i cui docenti sono stati ormai condizionati ad aderire senza condizioni ad un pervasivo modo di “teaching to the test”.  Però un insegnamento finalizzato quasi esclusivamente al superamento dei test nazionali sarebbe il modo peggiore per affrontare i pur innegabili “punti di debolezza” della scuola italiana, banalizzando la didattica e penalizzando ovviamente i contesti socialmente più fragili.  Il vero problema, d’altra parte, resta quello di definire le reali finalità della stessa valutazione. Si tratta di aiutare le situazioni più delicate con un intervento di supporto – finanziario e di qualificazione professionale degli operatori – come vorrebbero far intendere gli estensori del progetto VALeS – oppure si utilizzerà strumentalmente tale valutazione per penalizzare ulteriormente le scuole più a rischio?

I punti deboli del progetto – oltre alla ridotta capacità di rappresentazione del campione ed alla scarsa definizione degli stessi criteri metodologici – credo che siano riscontrabili soprattutto in una visione ancora freddamente tecnicista dei processi di apprendimento e in un’evidente dipendenza di tali “sperimentazioni” dalla decisione di tagliare drasticamente fondi e stipendi per la scuola pubblica. Grazie, quindi, al prof. Tassinari che ci ha ricordato, opportunamente, che chi ha la pretesa di valutare dovrebbe avere – o comunque esplicitare – una visione chiara dei propri valori di riferimento, quella che una volta si definiva “tassonomia”.

“Ogni sistema “serio”, come si dice in gergo accademico, dovrebbe avere dietro una teoria almeno a maglie larghe. Nel nostro caso, trattandosi di “valutazione”, sembrerebbe necessario aver costruito dapprima una forma, anche debole, di teoria dei valori (si badi che questa non serve all’economia capitalistica di mercato, perché il rapporto tra i prezzi di due merci esprime, da sé, il rapporto tra i rispettivi valori). Ma se il mercato non c’è, in effetti, e noi invece vorremmo indurlo artificiosamente, sembra proprio che una teoria dei valori sia necessaria. A noi rimane il dubbio che una techné che sia valida per tutte le stagioni sia, in fondo, una mistificazione. “ (ibidem) .

 I valori che vanno bene al “Mercato” – con tutti il rispetto per i Professori che ci governano – non vanno bene a chi passa la propria vita a colmare gli “spread” che si riscontrano tra le basi culturali di tanti alunni svantaggiati e quelle di pochi privilegiati. Ecco perché uno come me, – che ha insegnato per un quarto di secolo in ambienti socio-economicamente e culturalmente degradati ma che si è da poco trasferito in una “scuola di prima fascia” – prova oggi un certo disagio di fronte all’autocompiacimento col quale tanti docenti e dirigenti scolastici guardano a questi progetti. Sono convinto che la scuola pubblica non possa e non debba restare un indistinto carrozzone e che valutare la funzione docente sia un dovere di chi abbia il compito di garantire il diritto-dovere costituzionale ad un’istruzione-educazione di buon livello per tutti, a partire da chi ne ha più bisogno per diventare un cittadino responsabile e partecipe. Questo non significa, però, aderire ad una strisciante mutazione genetica della scuola italiana, i cui pilastri non siano più le normative nazionali e le autonomie scolastiche, bensì discutibili agenzie di ‘rating’ scolastico come l’INDIRE e l’INVALSI.

Ecco perché, citando ancora Cicerone, penso che “Si VALeS bene non est” dovremmo perciò congedare questo progetto con un latinissimo “Vale!” o, napoletanamente parlando, con uno “Stàtte bbuono!”

© 2012 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )