La resistenza civile funziona, da un secolo.

Uscire dagli stereotipi sulla ‘difesa della patria’

In occasione della Giornata Internazionale della Nonviolenza [i] – vorrei andare oltre le frasi di circostanza tipiche di ogni anniversario per affrontare un punto centrale ma spesso trascurato di questa radicale scelta etica e politica: il suo modello alternativo di difesa. Mai come in questi lunghi mesi di guerra in Ucraina abbiamo assistito a ripetitive discussioni mediatiche sul sacrosanto diritto alla difesa di un popolo il cui territorio sia stato invaso militarmente da una soverchiante potenza straniera. Anche nei martellanti ed angoscianti réportages dall’Ucraina (peraltro mai riscontrati in altre circostanze belliche) si è ribadito che non si era minimamente da mettere in discussione la legittimità della difesa armata di quella nazione e, conseguentemente, che l’unica forma di solidarietà possibile da parte degli stati ‘democratici’ doveva essere l’invio di massicci aiuti economici, ma soprattutto militari, a sostegno della sua ‘resistenza’ all’invasore.

Eppure, in questo convulso moltiplicarsi d’interventi sulla una delle guerre in atto, alla scontata retorica nazionalista e militarista di chi esalta il coraggio di quelli che difendono eroicamente la patria dal nemico arrogante e violento ho sentito raramente contrapporre argomentazioni che non si limitassero ad invocare un po’ genericamente la pace o ad evocare interventi diplomatici e/o azioni sovranazionali esterne, di cui purtroppo abbiamo già conosciuto, e verifichiamo tuttora, la scarsa efficacia, la limitata credibilità e la ridotta ‘terzietà’.

Purtroppo, ai pur apprezzabili e condivisibili appelli all’immediata cessazione delle operazioni di guerra, all’armistizio, al ricorso a mediazioni internazionali ed alla solidarietà attiva cogli oppositori a una guerra cinicamente mascherata da ‘operazione militare speciale’, molto raramente sono seguite indicazioni e proposte che prefigurassero una strada davvero alternativa alla difesa militare.

Eppure, a mezzo secolo dalla legge che in Italia riconobbe il diritto all’obiezione di coscienza [ii], non dovrebbero mancare fonti (bibliografiche ed esperienziali) cui attingere per argomentare non soltanto la propria opposizione al militarismo ed il disarmo, ma anche la scelta d’una modalità difensiva non armata civile popolare e nonviolenta [iii]. E non solo per motivazioni di natura etica e/o religiosa, ma perché si è fermamente convinti che una difesa alternativa a quella armata, oltre che moralmente giusta, è realmente praticabile ed efficace.

Il fatto è che più di 30 anni di analisi, studi e proposte anche legislative sulla transizione ad un modello non violento di difesa [iv] sono state spazzate via dalla legge che nel 2004 ha abolito il servizio militare obbligatorio, ma al tempo stesso ha fatalmente azzerato il crescente movimento di obiettori di coscienza alla leva e alla stessa guerra. Quella guerra che la nostra Costituzione repubblicana all’art. 11 “ripudia” inequivocabilmente, pur proclamando all’art. 52 che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Quella guerra che è ‘follia’ ed a cui legittimamente hanno obiettato coloro i quali ritenevano che il dovere di difendere la propria terra e le istituzioni nazionali non coincidesse affatto con l’addestramento a (e la pratica di) una tradizionale difesa armata, bensì con l’impegno civile a salvaguardare comunità e territori, anche e in primo luogo con metodologie operative non militari e non violente.

Per un percorso verso la ‘transizione difensiva’

Nella nota relazione di accompagnamento del disegno di legge per l’istituzione in Italia di un Dipartimento per la Difesa Civile Non Armata e Nonviolenta vengono ricapitolati alcuni di questi compiti nei seguenti: la difesa civile, che – al contrario di quella militare – usa mezzi e strumenti coerenti con le finalità perseguite ha, tra gli obiettivi dichiarati, la difesa della Costituzione e dei diritti civili e sociali in essa enunciati; la predisposizione di piani per la difesa civile non armata e nonviolenta, compresa la formazione della popolazione; le attività di ricerca per la pace, il disarmo, la risoluzione dei conflitti e la conversione a fini civili delle industrie belliche; la prevenzione dei conflitti armati, la mediazione, la riconciliazione, la promozione dei diritti umani, l’educazione alla pace e al dialogo inter-religioso, in particolare nelle aree a rischio di conflitto, in stato di conflitto o di post-conflitto; il contrasto, infine, delle situazioni di degrado sociale, culturale ed ambientale [v].

Ma il travagliato percorso verso l’istituzione di una componente non militare della difesa italiana non è iniziato solo otto anni fa con la presentazione d’una proposta di legge d’iniziativa popolare [vi], ripresa dopo un anno dalla Proposta d’iniziativa parlamentare C 3484 [vii] e rafforzata cinque anni dopo da una ‘petizione costituzionale’ ai Presidenti dei due rami del Parlamento [viii], rimasta finora senza riscontri da parte di una classe politica ottusa e diffidente. In effetti il cammino in quella direzione era già stato preceduto negli anni ’80 da intenso lavoro preliminare, condotto da noti esponenti dei movimenti nonviolenti italiani, in primis da Antonino Drago. Essi – oltre a studiare e diffondere le teorie della Difesa Popolare Nonviolenta (DPN) e le sue esperienze storiche più significative – si sono basati su alcuni pronunciamenti della Corte Costituzionale per sancire il principio che la difesa di cui parla l’art. 52 non è esclusivamente quella armata, per cui lo stato italiano, con un apposito Comitato ministeriale, avrebbe dovuto avviare un percorso normativo di transizione verso la DPN.

 La sentenza… affermava che la Costituzione ammette, accanto alla difesa armata, una difesa non armata […] Quindi l’importante novità è che da qualche tempo il concetto di ‘difesa non armata’ è entrato ufficialmente nell’ordinamento giuridico italiano […] Si noti che, a partire dalla sentenza n. 164/85, la Corte Costituzionale ha implicitamente programmato anche il transarmo […] In questa direzione…nel 1998 è stata approvata la legge 230, di riforma dell’obiezione di coscienza e del servizio civile, ora chiamato ‘alternativo’ a quello militare […]  3) l’organizzazione e la programmazione dell’Ufficio Nazionale del Servizio Civile (UNSC) […] 4) tra le competenze dell’UNSC è prevista, all’art. 8, quella di “predisporre, di concerto col Dipartimento per il coordinamento della protezione civile, forme di ricerca e sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta” […] Ma poi lo Stato italiano ha progettato… di sospendere l’obbligo di leva…dal gennaio 2005 […] questa decisione appare una maniera per far scomparire dall’orizzonte i tanti obiettori di coscienza e allo stesso tempo di svuotare il problema politico della nascita istituzionale della difesa non armata [ix].

Il cammino iniziato in Italia nel 1967 col saggio di Capitini sulle “tecniche della Nonviolenza” [x], da 17 anni si è arenato non solo nelle secche di una politica ideologicamente ostile, ma anche per una diffusa ignoranza dei fini e mezzi della DPN e più in generale dei principi e metodi della Nonviolenza, alla quale nessuna istituzione o organizzazione è tuttora in grado di addestrarci.

Da ‘persuasi della Nonviolenza’ a ‘addestrati alla DPN’

È innegabile che una serie di secolari caratteristiche storiche ideologiche e religiose abbiano reso gli italiani meno sensibili ad una cultura e ad un’etica politica di stampo prevalentemente orientale (induista in particolare) e protestante (tipica di alcune denominazioni come valdesi, battisti, quaccheri, etc.). Infatti la tendenza della teologia morale cattolica a teorizzare il principio della ‘guerra giusta’ – sancito e consolidato da secoli di tradizione patristica e di magistero ecclesiale – si è interrotta solo nella seconda metà del XX secolo.

 Il papa Giovanni XXIII, per esempio, nella sua enciclica Pacem in Terris mise di fatto in discussione tutti e tre i principi della guerra giusta, affermando che, nell’era degli armamenti atomici, fosse addirittura «alienum a ratione bellum iam aptum esse ad violata iura sarcienda» («estraneo alla ragione [ritenere] che la guerra possa essere uno strumento adatto per rivendicare dei diritti violati». Significativamente, il concilio ecumenico Vaticano II si rifiutò anche solo di parlare di “guerra giusta” nei suoi documenti ufficiali, adottando piuttosto le riflessioni sulla legittima difesa in campo internazionale come unico ambito in cui affrontare il tema della tutela dei diritti dei popoli nell’ambito del bene dell’intera umanità (Gaudium et spes, 77-82)… [xi]

Non è un caso che i profeti della nonviolenza (da Thomas Merton a Giorgio La Pira, da don Lorenzo Milani a don Primo Mazzolari) non abbiano avuto vita facile nella Chiesa Cattolica, che però dal Concilio Vaticano II ha subito una profonda riconversione, testimoniata dal magistero di pontefici come il citato Giovanni XXIII, ma anche Paolo VI, Giovanni Paolo II. Benedetto XVI e l’attuale papa Francesco [xii]. Inoltre va detto che movimenti come la cattolica Pax Christi (1945) o di matrice originariamente protestante come il Movimento Internazionale della Riconciliazione (1952) negli ultimi decenni hanno lodevolmente contribuito a diffondere in Italia una visione etico-spirituale pacifista e nonviolenta, alimentando il movimento per l’obiezione al servizio militare ed alla guerra.

Ciò che invece è mancato – quanto meno da quel 2005 che ha segnato la fine dell’esperienza diffusa e significativa del servizio civile alternativo – è stata la l’opportunità e capacità di progettare, organizzare e gestire la formazione ad un modello alternativo di difesa, facendone conoscere principi e metodi e addestrando i cittadini ad una resistenza non armata civile e popolare. Eppure già negli anni ’60 e ’70 erano stati diffusi alcuni interessanti ‘quaderni della DPN’ che documentavano varie esperienze storiche, nazionali ed internazionali, di difesa non armata. Dal 1994 in poi essi sono stati parzialmente ripresi dal Centro Studi Difesa Civile, che ha pubblicato ulteriori contributi relativi ad esperienze di resistenza non violenta in Italia, in Europa e in altri ambiti geografici. [xiii] Un piccolo contributo ho cercato di darlo anch’io, affrontando le Quattro Giornate di Napoli del 1943 in una prospettiva diversa, né populisticamente oleografica né retoricamente resistenzialista [xiv].

Un ottimo contributo ad uscire dalla genericità di una scelta etica non supportata da esperienze reali e da una concreta formazione alla pratica della DPN è stato inoltre il libro di Antonio Lombardi [xv], che illustrava il ‘funzionamento’ di una nonviolenza che puntasse ad essere costruttiva ed efficace, soffermandosi sulle caratteristiche di tale strategia alternativa ma anche sull’effettivo addestramento all’azione diretta e sulla formazione al lavoro su di sé.

Purtroppo – ha sottolineato Antonino Drago – l’impasse italiana, che ha impedito l’avvio d’un servizio civile strettamente connesso alla sperimentazione concreta e diffusa della DPN, è in parte dovuta alle stesse associazioni in cui il servizio civile si è finora prestato, che evidentemente non se la sono sentita di sostenere un modello alternativo di difesa o temono la perdita di finanziamenti statali per il terzo settore.

Un secolo di esperienze nella DPN ne dimostrano l’efficacia

Tra i problemi che in Italia hanno rallentato la diffusione delle informazioni su modelli alternativi di difesa – oltre allo sfilacciarsi dei movimenti nonviolenti ed all’assenza di una consolidata tradizione di ricerca accademica sulla pace – ci sono la scarsa diffusione della letteratura in materia (fruita quasi solo dagli ‘addetti ai lavori’ o comunque da persone già consapevoli) e soprattutto la mancata traduzione di alcune opere fondamentali di autori stranieri. Fatta eccezione per alcuni classici – ad es. i contributi di Gene Sharp [xvi], di Theodor Ebert [xvii] e di Johan Galtung [xviii], sulle cui differenze teoriche si è soffermato Drago) [xix] – scarseggiano infatti testi in italiano utili a tale formazione. Ciò è particolarmente vero se si esce dalle teorizzazioni per affrontare la DPN in modo più empirico, analizzando le esperienze storiche registrate nell’ultimo secolo in vari contesti geografici ed esaminandone la reale funzionalità ed efficacia.

Un interessante libro in tal senso è quello di Sibley – O’Brien, intitolato “After Gandhi”, una rassegna dei casi più significativi, dal Vietnam di Thich Nhat Hahn alla lotta di Martin Luther King e Rosa Parks per i diritti civili dei neri statunitensi; dalla battaglia anti-apartheid di Mandela in Sudafrica ai movimenti insurrezionali in Argentina e Kenya o alla ‘rivoluzione di velluto’ di Havel in Cecoslovacchia. Ma il testo fondamentale per dimostrare quanto efficace e vincente possa essere un modello di difesa civile e nonviolenta rispetto a quella militare (purtroppo non ancora tradotto in italiano) resta l’esaustivo studio di due ricercatrici statunitensi, Erica Chenoweth e Maria J. Stephan “Why Civil Resistance Works” (“Perché la resistenza civile funziona”) [xx]. Un approccio pragmatico e scientifico alla “logica strategica del conflitto nonviolento”, che si avvale dei metodi statistici per provare che la resistenza civile ha avuto spesso la meglio su quella militare ed armata.

Lo studio di Chenoweth e Stephan è la prima analisi che utilizza metodi quantitativi di grandi dimensioni N per confrontare l’impatto dei metodi violenti e nonviolenti nel determinare il cambiamento sociale. Hanno sviluppato un set di dati NAVCO (Nonviolent and Violent Campaigns and Outcomes) che analizza 323 esempi storici di campagne di resistenza civile avvenute in un arco di oltre cento anni […] Chenoweth e Stephan mostrano che i metodi nonviolenti sono più efficaci della lotta armata. Nei casi esaminati, le campagne non violente hanno avuto successo il 53% delle volte, rispetto a un tasso di successo del 26% quando è stata impiegata la violenza. I metodi non violenti hanno avuto lo stesso successo nei regimi democratici e nelle dittature repressive. L’analisi mostra che le forme di lotta non violente hanno maggiori probabilità di produrre cambiamenti sociali e politici che portano a società più libere e democratiche [xxi].

I recenti imbarazzati silenzi – talvolta perfino da parte dei pacifisti – di fronte alle incalzanti e categoriche affermazioni sull’assenza di vere alternative alla resistenza armata di un popolo vittima di un’invasione attestano quanto poco noti siano ancora questi dati di fatto. Non basta infatti parlare genericamente di ‘vie diplomatiche’ o di ‘mezzi pacifici’ se non si è in grado di contrapporre un’alternativa difensiva nonviolenta non solo eticamente preferibile, ma anche pragmaticamente valida ed efficace. Studiarne e farne conoscere i casi storici, come esempio di gandhiano ‘programma costruttivo’, dovrà dunque diventare un impegno prioritario per i movimenti antimilitaristi, no-war e pacifisti che non si accontentino di convincere, ma vogliano anche vincere le loro battaglie nonviolente.


Note

[i]   Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Giornata_internazionale_della_nonviolenza  e https://www.onuitalia.it/2-ottobre-giornata-internazionale-della-non-violenza/   

[ii] Cfr. “50 anni di obiezione per la pace”, numero monografico di AZIONE NONVIOLENTA, anno 59, n. 652 (4/2022)   https://www.azionenonviolenta.it/azione-nonviolenta-4-2022-anno-59-n-652/

[iii]  Cfr. Enrico PEYRETTI, Difesa senza guerra Bibliografia storica delle lotte non armate e nonviolente, Taranto, PeaceLink, 2012. https://www.peacelink.it/storia/a/36008.html

[iv] Cfr. in particolare, Antonino DRAGO, Difesa popolare nonviolenta. Premesse teoriche, principi politici e nuovi scenari, Torino, E.G.A., 2006

[v] Gianmarco PISA, “La Difesa Civile e il Servizio Civile a quindici anni dalla Legge 64”, Pisa, Scienza e Pace – Research Paper n. 35 – Aprile 2016

[vi] Cfr. documentazione relativa alla Campagna nazionale “Un’altra difesa è possibile”, ed in particolare il testo presentato alla Suprema Corte di Cassazione: https://www.difesacivilenonviolenta.org/la-proposta-di-legge/

[vii] Cfr. https://www.camera.it/leg17/126?tab=&leg=17&idDocumento=3484&sede=&tipo=

[viii] Cfr. https://www.difesacivilenonviolenta.org/wp-content/uploads/2020/06/Petizione-al-Parlamento-DCNANV.pdf

[ix] A. DRAGO, op. cit., p 368-389. Vedi anche: Idem, L’ingresso della Difesa Popolare Nonviolenta (DPN) nella legislazione italiana, PeaceLink, 2005. https://www.peacelink.it/disarmo/a/13056.html . Un interessante documento da consultare è anche: Presidenza del Consiglio dei Ministri- Ufficio Naz. Per il Serv. Civile, La Difesa civile non armata e nonviolenta (DCNAN), Roma, 2006. https://www.serviziocivile.gov.it/media/561235/DCNAN-30-gen-06.pdf

[x]  Cfr. Aldo CAPITINI, Le tecniche della Nonviolenza, Milano, Libreria Feltrinelli, 1967

[xi] Voce “Guerra giusta” in Wikipedia. https://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_giusta_(teologia)#: ~:text=%C2%ABSant’Agostino%20afferma%3A%20%22,imboscata%20agli%20abitanti%20di%20Ai.%C2%BB

[xii] Cfr. Movimento Internazionale della Riconciliazione, La colomba e il ramoscello. Un progetto ecopacifista, Torino, E.G.A., 2021, pp. 102-105

[xiii] Cfr. Centro Studi Difesa Civile, “I Quaderni – dalla Ricerca all’Azione”, Roma, CSDC, 1994-2021. https://www.pacedifesa.org/category/quaderni/

[xiv] Cfr. Ermete FERRARO: (1985) “La Resistenza Napoletana e le Quattro Giornate: un caso storico di difesa civile e nonviolenta”, Verona, Azione Nonviolenta, XXII-10 (pp.15-17; (1986) “Un caso storico di difesa popolare”, Napoli, Il Tetto, XXIII, n. 133/1986 (pp.86-95); (1993) “La resistenza napoletana e le Quattro Giornate: un caso storico di difesa civile e popolare”, in: AA.VV., Una strategia di pace: la difesa civile nonviolenta (pp.89-95), Bologna, Fuori Thema; (1993) “Le trenta giornate di Napoli”, in: AA.VV., La lotta non-armata nella Resistenza, Roma, Centro Studi Difesa Civile (Quaderno n.1)

[xv] Antonio LOMBARDI, Satyagraha – Manuale all’addestramento alla difesa popolare nonviolenta, Bozzano (LU), 2014

[xvi] Gene SHARP, Politica dell’azione nonviolenta, Torino, E.G.A., 1986

[xvii] Theodor EBERT, La difesa popolare nonviolenta. Un’alternativa democratica alla difesa militare, Torino, E.G.A., 1984

[xviii] Johan GALTUNG: Ci sono alternative! – Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1986; Gandhi oggi. Per una Alternativa politica nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1987; Pace con mezzi pacifici, Ediz. Esperia, Milano, 2000

[xix] Cfr. A. DRAGO, op. cit., pp. 375-384

[xx]  Anne SIBLEY O’BRIEN & Perry Edmond O’BRIEN with Tharanga YAKUPITIYAGE, After Gandhi – One Hundred Years of Nonviolent Resistance, Watertown, Charlsbridge, 2018 ; Erica CHENOWETH & Maria J. STEPHAN, Why Civil Resistance Works – The Strategic Logic of Nonviolent Conflict, New York, Columbia University Press, 2011 (i dati principali emergenti dal libro di Chenoweth e Stephan sono stati publicati da Antonino DRAGO nel suo libro Le rivoluzioni nonviolente nell’ultimo secolo, Aracne, Roma, 2010) .

[xxi] Cfr. Why Civil Resistance Works, review  by David Cortright (https://www.e-ir.info/2013/01/17/review-why-civil-resistance-works/

© 2022 Ermete Ferraro

CTR+ALT+CANC (Esercitare il controllo + Creare alternative +Cancellare la guerra)

CTR ALT CANCLo scorso 26 aprile si è svolta a Bruxelles una “giornata di preparazione ed azione” contro  la vendita di armi ed ‘lobbismo’ dei fabbricanti di armamenti sugli organi dell’Unione Europea. La campagna – denominata “CTR+ALT+EU” – è stata organizzata dall’organizzazione pacifista belga Agir pour la Paix per denunciare ad un’opinione pubblica, da sempre poco informata su questi temi, che : “ I fabbricanti di armi ed i loro lobbisti sono molto vicini alle istituzioni europee, in quanto le aiutano a definire le loro leggi, a vendere le loro armi ed a beneficiare delle sovvenzioni europee, sotto il ‘coperchio’ dell’aiuto allo sviluppo delle nuove tecnologie’…”.[1]

Lasciando stare l’iniziativa belga e tornando a noi, il silenzio dei media su questi temi risulta invece davvero assordante. Siamo appena usciti dalla tornata elettorale per l’elezione del nuovo Parlamento Europeo ma, per caso, ricordate che qualcuno dei candidati italiani – di qualsiasi partito – si sia soffermato almeno un po’ su una questione così importante per la sicurezza e la pace dei cittadini della vecchia Europa? In questa campagna si è parlato poco, in generale, delle politiche dell’Unione, dal momento che l’unica preoccupazione sembrava essere quella di coltivare il proprio orticello e le proprie alleanze a livello interno, ma soprattutto si è evitato accuratamente di affrontare questioni scottanti come quella della difesa e degli equilibri internazionali.

Solo qualche forza politica, come la Lista Tsipras, ha accennato – nell’ultimo punto del suo programma – alla “abolizione degli accordi economici e militari”[2] . Il Partito Democratico si è premurato d’inserire nel suo programma elettorale l’affermazione che:  “L’Europa deve unire le proprie risorse in tema di difesa, sviluppo, commercio e diplomazia, per massimizzare gli effetti positivi della sua politica estera…”[3], mentre nel programma del Partito Socialista Europeo (cui il PD aderisce), non si trova neppure questo vago riferimento.[4]

Altrettanto ambigua – ma più prevedibilmente – è la posizione del Partito Popolare Europeo, nel cui Manifesto è stata inserita quest’affermazione: “L’unione Europea deve…potenziare ed accrescere l’efficienza della sua politica estera. Guadagniamo forza attraverso un’azione coordinata. à Il PPE intende potenziare le prerogative dell’Europa in materia di affari esteri, sicurezza e difesa, rafforzando la sua capacità di agire nel mondo.” [5]

Nessun riferimento alle questioni della pace e del disarmo è possibile reperire nei sintetici 7  punti del programma per l’Europa del Movimento 5 Stelle , mentre qualcosa di più dettagliato lo troviamo nel programma elettorale dei Verdi Europei: “ Grazie ai Verdi , una parte più importante del bilancio dell’UE sta per essere consacrata alla prevenzione dei conflitti attraverso lo Strumento di stabilità e di pace. Noi abbiamo sostenuto anche l’idea di un Corpo della pace dell’UE e di un Istituto europeo per la pace. Noi siamo contrari al finanziamento della ricerca militare da parte del bilancio europeo [… ]Il commercio europeo delle armi, comprese le tecnologie di sorveglianza, esporta insicurezza nelle regioni come il Medio ed Estremo Oriente. I Verdi vogliono ridurre questo commercio ed impedire l’esportazione di armi, che può essere utilizzata contro i movimenti di liberazione e di protesta civica”. [6]

La triste e scomoda verità – come ha messo in luce la Campagna Europea di Banche Armate – è che: “L’Unione Europea (UE) assicura un quarto delle esportazioni mondiali di armi. Alcuni Stati sono particolarmente coinvolti: la Francia e la Gran Bretagna si disputano da anni la terza posizione a livello mondiale dietro la Russia e gli Stati Uniti; altri paesi, tra cui la Germania, la Spagna e l’Italia occupano a loro volta una collocazione rilevante in questo commercio.” [7]

A tal proposito, Giorgio Beretta, scrivendo per il portale Unimondo, sottolineava che, dopo il calo del 2010, gli ordinativi ai paesi dell’Unione Europea per esportazioni di sistemi militari nel 2011sono addirittura aumentati del 18,3% , superando i 37,5 miliardi di euro. Alcuni Stati europei non hanno reso noti i dati richiesti, mentre l’allora governo ‘tecnico’ di Monti: “…forse per adeguarsi allo standard tedesco […] ha pensato di manipolare un po’ le cifre. A fronte degli oltre 2,6 miliardi di consegne riportate nella Relazione governativa nazionale, i funzionari governativi hanno riferito all’UE solo poco più di 1 miliardo…” [8]

Insomma, sembrerebbe proprio che il ruolo dei mercanti d’armi (e quindi di morte) all’interno dell’Europa sia l’ultimo dei problemi. Si direbbe che ben pochi si preoccupino che la nostra Unione – presentata trionfalisticamente negli spot televisivi come la realtà che ha garantito la pace negli ultimi 60 anni –  appaia sì priva di una politica comune di difesa, ma comunque molto solidale nel difendere gli interessi di chi produce ed esporta strumenti per fare le guerre. Del resto, non è certo un caso che Papa Francesco abbia recentemente affermato, con la consueta chiarezza evangelica: Tutti parlano di pace, tutti dichiarano di volerla, ma purtroppo il proliferare di armamenti di ogni genere conduce in senso contrario. Il commercio delle armi ha l’effetto di complicare e allontanare la soluzione dei conflitti, tanto più perché esso si sviluppa e si attua in larga parte al di fuori della legalità…” [9]  Lo stesso Pontefice, il 15 maggio, è tornato sull’argomento, auspicando: ‘…che la comunita’ internazionale dia luogo ad una nuova stagione di impegno concertato e coraggioso contro la crescita degli armamenti e per la loro riduzione”.[10]

Control-Arms-80-governi-partecipano-alla-consultazione-sostegno-di-Ban-Ki-Moon1_mediumIn Italia, comunque, le campagne contro lo strapotere degli armivendoli ci sono da anni, anche se ben pochi ne parlano, come è facile immaginare. Oltre quella denominata Banche Armate – promossa da Missione Oggi, Mosaico di Pace e Nigrizia [11] – c’è infatti ControllArmi , promossa dalla Rete Italiana per il Disarmo[12]  e ci sono anche le puntuali ricerche condotte da Archivio Disarmo, che il 14 maggio scorso ha organizzato un importante convegno a Roma, sul tema: “Italia/Europa: politica di difesa e prospettive di pace”[13].

Questo però non significa che gli Italiani siano consapevoli dello scandalo dei miliardi che il nostro Paese spende per le armi e di quelli che guadagna vendendole, all’interno di un quadro istituzionale europeo dove, in teoria, esisterebbero già trattati e convenzioni.

“Resta il fatto che a 14 anni dall’entrata in vigore del Codice di Condotta (aggiornato nel 2008 dalla Posizione Comune sulle esportazioni di sistemi militari) non si è ancora in grado di conoscere con certezza dalla Relazione UE né i paesi destinatari né la precisa tipologia dei sistemi d’arma esportati dai singoli stati membri. E’ una questione non irrilevante per la sicurezza comune e che andrebbe sollevata sia nei parlamenti nazionali che al parlamento europeo: soprattutto ora che è entrata in vigore la direttiva comunitaria che “semplifica l’interscambio di materiali d’armamento all’interno dell’UE” che rischia di ridurre ulteriormente le informazioni e la trasparenza in materia di esportazioni di armi.” [14]

Date queste premesse, risulta un’enorme contraddizione non solo che il premio Nobel per la pace sia stato recentemente attribuito all’U.E. ma, soprattutto, che si sia continuato anche di recente a sbandierare l’immagine dell’Europa come garanzia di pace e di sicurezza.

Da un altro interessante articolo [15] apprendiamo, ad esempio, che il 90% dei ‘consulenti’esterni al Parlamento Europeo proviene dal mondo delle industrie, molte delle quali sono, guarda caso, legate alla produzione di armamenti. Li chiamano advisory groups ma il loro ruolo, più che  ‘consigliare’ gli europarlamentari, pare proprio sia quello di fare lobbying, influenzando pesantemente le decisioni comunitarie.

Certo, l’Europa si è già data strumenti legislativi di controllo, come la Decisione 2010/336 del Consiglio, nella quale si prevede che debbano: “…incoraggiare gli Stati membri dell’ONU a sviluppare e migliorare competenze nazionali e regionali per attuare controlli efficaci sul trasferimento di armi, al fine di assicurare che il futuro ATT, quando entrerà in vigore, sia quanto più possibile efficace.”[16].  Per conseguire tale risultato, questo atto normativo prevede che il progetto di ‘seminari regionali’ sia finanziato con un milione e mezzo di euro, anche se – a dire il vero –  nessuno sembra essersi finora accorto della loro effettiva funzione…

E’ il caso di sottolineare poi che l’Unione Europea, sebbene sia allineata alle normative internazionali e si avvalga della normativa internazionale e degli esperti dell’ONU (UNIDIR), paradossalmente non è stata a lungo in grado di ratificare direttamente il Trattato sul Commercio delle Armi (Arms Trade Treaty – ATT) [17], in quanto non è ufficialmente membro delle Nazioni Unite, ragion per cui ha dovuto seguire un percorso piuttosto contorto per adeguarvisi, come nota Gianluca Farsetti in un suo articolo dello scorso febbraio.[18]

Anche nella mia Napoli sono state svolte alcune iniziative pubbliche, per diffondere la campagna contro l’intreccio perverso tra politica e commercio di armi, promossa dal tenace missionario comboniano padre Alex Zanotelli. Egli infatti ha lo sempre denunciato con forza, rilanciando recentemente una petizione per chiedere trasparenza su una questione così grave, che sembra aver registrato non solo ‘pressioni’ lobbistiche, ma vere e proprie tangenti ai partiti (cfr. il mio precedente articolo: https://ermeteferraro.wordpress.com/2013/12/08/noli-me-tangere/).

“Dobbiamo sostenere la Procura di Napoli ,di Busto Arsizio e di Roma perché possano continuare la loro indagine per permetterci di capire gli intrecci tra il commercio delle armi e la politica. Noi cittadini abbiamo il diritto di sapere la verità su questo misterioso intreccio. E’ in gioco la nostra stessa democrazia. Soprattutto ora che l’Italia sta investendo somme astronomiche in armi. […] Noi cittadini italiani abbiamo il diritto di sapere se quella pratica è continuata in questi ultimi 20 anni. In questi anni l’industria bellica italiana è cresciuta enormemente. Abbiamo venduto armi, violando tutte le leggi, a paesi in guerra come Iraq e Iran e a feroci dittature da Mobutu a Gheddafi, che hanno usato le nostre armi per reprimere la loro gente….”[19]

Per concludere, su questa sconcertante vicenda occorre davvero che Italia ed Europa “cambino verso” – per prendere in prestito lo slogan del PD alle ultime elezioni – in modo da assicurare trasparenza e coerenza nelle scelte.  Continuando a citare alcune frasi ricorse in quest’ultima, brutta, campagna per il Parlamento Europeo, potremmo dire allora che: “Ce lo chiedono i nostri figli”, proprio perché – come recita uno slogan della Sinistra tedesca –  “L’Europa può essere diversa: sociale, pacifica, democratica”.

E’ inutile nasconderselo: il quadro politico emerso da queste elezioni europee non è certo incoraggiante, presentando un primato dei partiti popolari moderati ed una forte crescita delle forze politiche di destra e populiste. Ecco perché, come ho sintetizzato nel titolo, credo che sia arrivato il momento di azionare i tre fatidici tasti del computer della politica: CTR (esercitare il controllo); ALT (promuovere alternative) e, soprattutto, CANC (cancellare la guerra). E’ ora d’iniziare anche noi, fin da subito, la nostra lobbying dal basso – in nome del disarmo e della pace – nei confronti di coloro che abbiamo contribuito ad eleggere europarlamentari.

Ce lo chiedono i nostri figli.

© 2014 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

NOTE :

[1]  http://agirpourlapaix.be/26-04-journee-de-preparation-daction-crtlalteu/

[2] http://www.oltremedianews.com/rubriche/lista-tsipras-ecco-il-programma

[3]https://s3.amazonaws.com/PDS3/allegati/programma%20pd%20europa_DEF_Layout%201_1.pdf

[4] http://www.europaquotidiano.it/wp-content/uploads/2014/05/europee_programmaPse1.pdf

[5] http://dublin2014.epp.eu/wp-content/uploads/2014/03/Manifesto-with-cover-IT.pdf

[6] http://europeangreens.eu/sites/europeangreens.eu/files/Manifeste%20Commun%202014_0.pdf

[7] http://www.banchearmate.it/CampagnaEuropea.rtf

[8] https://www.facebook.com/notes/stop-the-war/sempre-pi%C3%B9-armi-europee-nel-mondo-litalia-cosa-fa/10151372841614404

[9]http://www.sanfrancescopatronoditalia.it/30461_Papa_Francesco__Commercio_armi_e_migrazioni_forzate_mettono_a_rischio_la_pace.php#.U4nMXXLV9cQ

[10]http://www.asca.it/news-Papa__condanno_proliferazione_e_commercio_armi__Pace_bene_globale-1388034.html

[11] http://www.banchearmate.it/home.htm

[12] http://www.disarmo.org/rete/index.html

[13]http://www.archiviodisarmo.it/images/Programma%20seminario%2014%20maggio%202014.pdf

[14] https://www.facebook.com/notes/stop-the-war/sempre-pi%C3%B9-armi-europee-nel-mondo-litalia-cosa-fa/10151372841614404 (cit.)

[15] http://www.lettera43.it/politica/lobby-nell-unione-europea-gli-advisory-group-danno-la-linea_43675124988.htm

[16] http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/;jsessionid=YPQsTKFWG7v492g0RDrpvDQy4QR2pyxGWdKXc89s97BNVYhQ9RBk!-1548291755?uri=CELEX:32010D0336   Altra documentazione sulla regolamentazione europea del controllo delle armi è reperibile all’indirizzo internet: http://europa.eu/legislation_summaries/foreign_and_security_policy/cfsp_and_esdp_implementation/ps0012_it.htm

[17] Cfr. http://www.un.org/disarmament/ATT/

[18]http://www.rivistaeuropae.eu/esteri/esterni/lunione-europea-e-larms-trade-treaty-att/

[19] http://www.ildialogo.org/appelli/MaleOscuro_1369771177.htm

IL PECCATO DELLE ARMI

« Cosa possiamo fare contro la guerra? Naturalmente sempre difendere il messaggio della pace, coscienti che la violenza non risolve mai un problema, e rafforzare le forze della pace. […] Direi anche che deve finalmente cessare l’importazione di armi, perché senza l’importazione della armi la guerra non potrebbe continuare, invece dell’importazione delle armi che è un peccato grave si dovrebbe importare idee di pace, creatività, trovare soluzioni da accettare ognuno nella sua alterità e dobbiamo quindi nel mondo rendere visibili il rispetto delle religioni, gli uni degli altri, rispetto dell’uomo come creatura di Dio, l’amore del prossimo come fondamentale per tutte le religioni». http://www.korazym.org/index.php/attivita-del-papa/2-il-papa/2998-la-conferenza-stampa-di-benedetto-xvi-durante-il-volo-per-beirut-testo-integrale.html   

   Questa netta e coraggiosa dichiarazione di Benedetto XVI, pronunciata giorni fa nella conferenza stampa in occasione della sua partenza per il Libano, è stata riportata da molti quotidiani e notiziari radiotelevisivi, però pochi sono stati i commenti su queste inequivocabili parole del Papa. Evidentemente è meglio glissare su quest’affermazione, tanto più autorevole in quanto il suo autore non è un semplice missionario o un attivista nonviolento, ma il massimo esponente del Cattolicesimo. La frase estrapolata dall’intervista rispondeva ad una domanda relativa al conflitto siriano: non si trattava quindi d’un generico monito sul piano etico contro il commercio d’armi, bensì d’un chiaro riferimento al nuovo bagno di sangue alimentato dalla dittatura di Assad, ma anche da quelli che lucrano su quel conflitto, piazzando cinicamente armi ad entrambi i contendenti. Senza vendita di armamenti la guerra non potrebbe continuare, ha argomentato il Pontefice, e perciò l’export di armi è un oggettivo e grave peccato. Direi che, mai come in questo caso, il termine “peccato mortale” suona particolarmente appropriato, visto che non si tratta solo di un’azione spregevole sul piano morale e religioso, ma d’un vero e proprio attentato alla stessa vita. Il primo imperativo morale per un cristiano di fronte a questa strage di vite umane, quindi, dovrebbe essere rifuggire da questo peccato e farsi portatore di idee di pace. Le uniche proposte per un credente nel Vangelo di Cristo, ha ribadito Benedetto XVI,  non possono mai essere distruttive, ma creative, rispettose e fondate sull’amore.

Da pacifista, devo dire che ho particolarmente apprezzato questa dichiarazione, che suona come condanna senza se e senza ma della più disastrosa delle attività economiche mondiali, purtroppo tutt’altro che in crisi in questo pur travagliato periodo. Non si tratta infatti di un’argomentazione sottile e sopra le righe né di un’affermazione rivestita di veli diplomatici. Il Capo della Chiesa Cattolica ha affermato  – stavo per dire “papale papale”…- che chi importa (ed esporta) strumenti di guerra commette un grave peccato. Che non si tratti di un concetto neutro mi pare evidente, soprattutto se ci fermiamo un attimo a riflettere  sulla mostruosità dell’attuale corsa agli armamenti e sulla devastante diffusione di focolai di guerra ovunque. La classifica mondiale dei “peccatori” contro la vita e la pace resta tuttora guidata dagli Stati Uniti, i cui verdi bigliettoni recano da sempre impresso il blasfemo motto “In God we trust” (Noi crediamo in Dio).  Da recenti dati del SIPRI (http://www.sipri.org/yearbook/2012/files/SIPRIYB12Summary.pdf ) emerge con evidenza che le esportazioni di armi degli USA (che per il 2011 sono stati in testa anche alla classifica delle spese militari, con l’incredibile cifra di 711 miliardi di dollari…) rappresentano addirittura il 30% del totale di questo dannato traffico. Segue a ruota la Federazione Russa col 24%, ma poi si scende (si fa per dire…) al 9% di Germani a ed all’8% della Francia. Secondo l’autorevole istituto di ricerca sulla pace di Stoccolma, la cattolica Italia si piazza comunque nona in questa peccaminosa “top 10” di mercanti d’armi, esibendo per di più con deprecabile fierezza anche il suo ottavo posto nella classifica mondiale delle aziende produttrici di strumenti di morte. Esso è stato infatti detenuto nel 2010 dall’azzurra Finmeccanica, con 14.410 milioni di dollari di fatturato in vendita di armamenti ed un profitto netto di 738 milioni di dollari (solo un quarto di quello portato a casa dalla statunitense Lockeed Martin).

Quasi quarant’anni fa Alberto Sordi fu protagonista e regista del film “Finché c’è guerra c’è speranza”, nel quale interpretava magistralmente il ruolo di Pietro Chiocca, un commerciante di pompe idrauliche ‘convertitosi’ al molto più lucroso mestiere di mercante d’armi, col quale manteneva nel lusso la sua esosa famigliola. Eppure proprio dalla moglie e dai figli gli arriverà una reazione di sdegnato disprezzo, quando un noto quotidiano ne sbatterà la foto sulle sue pagine, accanto allo sferzante titolo “Ho incontrato un mercante di morte”. Ma Pietro Chiocca non ci sta e reagisce duramente e smaschera la loro ipocrita ed egoistica reazione,concludendo con queste parole: « Perché vedete… le guerre non le fanno solo i fabbricanti d’armi e i commessi viaggiatori che le vendono. Ma anche le persone come voi, le famiglie come la vostra che vogliono vogliono vogliono e non si accontentano mai! Le ville, le macchine, le moto, le feste, il cavallo, gli anellini, i braccialetti, le pellicce e tutti i cazzi che ve se fregano! …Costano molto, e per procurarsele qualcuno bisogna depredare!  Ecco perché si fanno le guerre!…».

Ebbene, in questo squallido mondo di mercanti d’armi e di tanti che su di quest’odioso traffico hanno fondato e fondano la loro prosperità, ben venga la chiarezza di chi, semplicemente e senza giri di parole, ha dichiarato dall’alto della propria autorevolezza che tutto ciò è un “grave peccato”, che va quindi condannato. Ancor più apprezzabile mi è parso che il Pontefice non si sia limitato a deprecare l’esportazione di armamenti, ma abbia auspicato che i cristiani diventino finalmente esportatori di idee di pace, di rispetto delle diversità, di slancio creativo. Certo, questo significa che da parte della Chiesa Cattolica ci si aspetterebbe la stessa, lodevole, chiarezza e coerenza anche in altre circostanze. Ad esempio, nel caso dell’Italia, respingendo l’untuosa protezione da parte di politici che ostentano la loro bigotteria solo quando si tratta di aborto o d’eutanasia, senza però minimamente preoccuparsi di proporre e votare atti di aggressione armata e di esaltare la nostra industria bellica. Certo, la guerra ed il commercio di armi sono un peccato. Peccato però che, a quanto pare, nessuno sembra essersene accorto…

© 2012 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

DOV’E’ LA VITTORIA?

Nel tempo necessario per leggere questo post l’Italia sta spendendo oltre 51.000 euro per le spese della c.c. “difesa”. Nel 2010, infatti, sono stati già spesi 27 miliardi di euro, vale a dire 76 milioni ogni giorno, 3 milioni ogni ora e, appunto, oltre 51.000 euro al minuto!
In aggiunta a quest’enorme quantità di risorse economiche assegnate al Ministero della Difesa nello scorso anno, il Parlamento italiano – su proposta del Governo – ha approvato una spesa di altri 17 miliardi di euro nei prossimi anni, per l’acquisto di 131 caccia-bombardieri F35. Basterebbe rinunciare ad un solo cacciabombardiere e si potrebbero costruire 183 nuovi asili per 12.810 bambine e bambini…
La partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan ci costa tuttora 2 milioni di euro al giorno ed ha causato decine di migliaia di vittime, in maggioranza civili. L’ultima delle operazioni armata cui abbiamo partecipato, quella contro la Libia che in teoria si è appena conclusa, ci è finora costata 700 milioni di euro!
Ma siccome siamo un grande Paese industriale, nel 2009 l’Italia ha esportato armi per un circa 5 miliardi di euro, contribuendo ad alimentare focolai di guerra in tutto il mondo!
L’art. 11 della Costituzione della nostra Repubblica dichiara solennemente: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.” Ma i 27 miliardi all’anno già spesi ed i 17 previsti solo per i nuovi caccia F35 che cosa hanno a che fare con la “difesa della Patria” che – secondo l’art. 52 della stessa Costituzione – sarebbe “sacro dovere del cittadino” ? E le missioni armate cui abbiamo aderito supinamente, quelle passate e quelle attuali, non sono forse atti di quella guerra che, secondo la Carta costituzionale, dovremmo invece “ripudiare”?
Il Governo ha tagliato 8 miliardi alla scuola ed ai servizi sociali, però non vuol rinunciare neanche ad uno dei 131 bombardieri F35, il cui solo costo permetterebbe di realizzare ben 183 asili! Non ci resta, allora che protestare contro l’ipocrisia di chi vorrebbe contrabbandare il 4 novembre come una celebrazione civile e di unità nazionale, come se le Forze Armate avessero una mission diversa da quella di addestrarsi a fare la guerra.
L’alternativa c’è, e da molti anni. Decenni di lotte per l’0biezione di coscienza, il servizio civile nazionale e l’affermazione della difesa civile nonviolenta ci hanno portato ad una legislazione in teoria esemplare nel contesto dell’Unione Europea. Purtroppo si continua a fare propaganda strisciante ed ambigua nelle scuole, a vanificare le potenzialità del servizio civile e ad ignorare ogni reale alternativa alla difesa armata. Contro tutto questo è doveroso non solo indignarsi, ma lottare contro le mistificazioni militariste e per diffondere una cultura di pace e di nonviolenza attiva.
Ecco perché non c’è nessuna “vittoria” da festeggiare il 4 novembre, ma piuttosto l’esigenza di commemorare le centinaia di migliaia di morti delle tante “inutili stragi” della nostra storia ed un impegno comune perché l’Italia si “desti” sì, per cingersi la testa non dello “elmo di Scipio”, ma con una pacifica corona di foglie d’ulivo.
(C) 2011 Ermete Ferraro