BAMBINI POVERI E POVERI BAMBINI…..
BAMBINI POVERI E POVERI BAMBINI…..
(segue)
di Ermete FERRARO
Sono passati 34 anni da quando presi la decisione di mettere da parte la mia attività di operatore sociale e di animatore socio-culturale per tornare a quell’insegnamento per il quale mi ero laureato ed abilitato dieci anni prima. Dal ’75 al ’77, il servizio civile che avevo prestato come obiettore di coscienza alla "Casa dello Scugnizzo" mi aveva condotto su un terreno del tutto nuovo ed appassionante. Ero diventato un educatore che si occupava di gruppi di bambini ed i ragazzi di un quartiere difficile di Napoli e, per riflesso, un "social worker" con/per quelle famiglie e quella comunità in cui quei minori stavano crescendo e si stavano formando. In quel decennio di "full immersion" in una realtà esistenziale e socio-culturale lontanissima da quella nella quale ero cresciuto, e grazie alla guida di maestri del calibro di Mario Borrelli e dei suoi primi collaboratori, avevo capito che conoscere ed analizzare quel contesto non serviva per intervenirvi presuntuosamente dall’esterno, in base ai miei schemi mentali ed alle mie priorità, ma piuttosto per coglierne i bisogni reali e per rispondere ad essi nel modo più adeguato ed efficace possibile.
Dal 1984, anno in cui ripresi ad insegnare (scegliendo non a caso di lavorare con i ragazzini delle medie e decidendo di farlo in due ambienti assai problematici, inizialmente nella parte vecchia di Casoria e, in seguito, nella zona del cosiddetto "Buvero", nel quartiere Vicaria di Napoli) ho tentato comunque di mettere a frutto la precedente esperienza di educatore ed assistente sociale, in primo luogo cercando di non dimenticare mai che dietro ogni "alunno" c’è un bambino, una famiglia, un quartiere, un modo di vivere, di pensare e di valutare. La seconda acquisizione che ho cercato di utilizzare anche da docente è che insegnare è un’attività fondata sulle dinamiche della psicologia di gruppo, e che la necessaria "personalizzazione" dell’insegnamento non esclude affatto l’esigenza di fare della scuola un’esperienza collettiva, di socializzazione, e non soltanto di formazione e d’istruzione.
Sono ormai parecchi anni, inoltre, che affianco al mio quotidiano lavoro d’insegnante (nel senso che ho appena chiarito) anche un impegno socio-educativo esterno alle mie classi, svolgendo il ruolo (chiamato inizialmente "funzione obbiettivo" e poi "funzione strumentale") di chi si occupa di analizzare e comprendere meglio la realtà scolastica, per proporre interventi e servizi volti specificamente a promuovere il "benessere" degli alunni/e. Era ed è un modo per cambiare un po’ la prospettiva della scuola, provando per prima cosa a mettersi dalla parte dei ragazzi, per comprendere meglio tutto ciò che produce in loro quello che eufemisticamente viene chiamato "disagio scolastico". In effetti si tratta di un malessere per niente nuovo e ovviamente molto diffuso, ma in contesti socio-economici e culturali come quelli dove ho scelto di operare capita molto spesso che vada ben oltre le dimensioni per così dire "fisiologiche" del comprensibile fastidio per un’attività vissuta come costrizione e fatica, trasformandosi in reazioni più dirompenti e preoccupanti, sospese tra la fuga dalla scuola (dispersione) e l’opposizione aperta ad essa (trasgressività, aggressività, bullismo).
Anche nel corso di questo ‘anno scolastico mi sono occupato di "disagio e dispersione" nella scuola media dove insegno da un bel po’, e alla fine ho provato a tracciare un bilancio di questo mio specifico impegno, che comportava sia il monitoraggio delle assenze frequenti o addirittura della totale inosservanza dell’obbligo di frequenza scolastica da parte di una buona fetta di alunni/e, sia la verifica delle situazioni più problematiche sul piano della socializzazione e del comportamento, tipiche di quel famoso "disagio" scolastico. In ambedue i casi, naturalmente, non si trattava solo di analizzare questi fenomeni, ma anche di porvi rimedio, intervenendo nel modo più opportuno ed efficace. Ebbene, mentre comprendere le origini remote e le cause specifiche di comportamenti del genere risulta abbastanza agevole, soprattutto a chi abbia un minimo di competenza sociale, quello che senza dubbio resta invece più difficile è trovare la chiave giusta per dare delle risposte chiare, univoche e concrete a quelle situazioni di disagio, peraltro sempre più diffuso e trasversale. Io penso che la nostra società sia viziata da due gravi peccati d’origine: il primo è l’influenza negativa esercitata dai vaghi sensi di colpa di genitori ed altre figure adulte nei confronti dei bambini, che finisce per condizionare pesantemente, se non per inficiare del tutto, un’azione educativa degna di questo nome, perpetuando il lassismo di chi, non sapendo più proporre valori e modelli comportamentali in modo credibile, rinuncia del tutto a farlo. Il secondo "peccato originale" credo sia legato ad uno stile di vita sempre più globalizzato e monoculturale, che è riuscito a fondere la tradizionale disattenzione per il futuro – tipica di chi è abituato da secoli a vivere alla giornata e ad apparire più che essere – con lo scellerato consumismo indotto chi è riuscito a mercificare tutto e ad esaltare la soddisfazione del piacere individuale come unico parametro di scelta, azzerando ovviamente ogni forma di etica e di solidarietà di gruppo
.Se si dà un occhiata ai tanti progetti che – nel nostro Paese come all’estero – tentano di contrastare il drammatico binomio disagio/dispersione, appare chiaro che essi si pongono nella maggior parte dei casi come un "correttivo" e/o una "integrazione" a quel modello educativo e didattico considerato "di base", considerando tali interventi come un modo per superare il "disadattamento" dei minori e per aiutarli ad "inserirsi" meglio proprio in quella società che ha prodotto quegli stessi guasti. Il progressivo, e sicuramente preoccupante, aumento dei tassi di questi "disadattati" alla scuola, però, ci costringe a chiederci se il nostro compito di educatori sia proprio quello, o se invece non sia il caso di guardare oltre una "normalità" che ogni anno risulta meno…normale. Ad esempio: un ragazzino non riesce proprio a seguire un discorso, a capire un testo anche breve, ad esprimere quello che pensa e che sente? Niente paura: gli diamo un po’ di attività sportiva in più, lo mettiamo davanti al monitor di un computer oppure rispolveriamo il vecchio e vituperato "avviamento professionale", mandandolo in qualche laboratorio artigianale ad imparare un mestiere… Il "minore" in questione non riesce ad entrare a scuola in orario ed a restare decentemente per alcune ore tra i suoi coetanei; non ce la fa proprio a rispettare le regole collettive; si esprime solo in maniera aggressiva e senza alcun rispetto per le cose e le persone? Bene: lo facciamo frequentare per meno tempo e secondo regole diverse, alleggerendogli il carico didattico e magari facendogli fare soprattutto quello che già sa fare, così almeno non si scoccia…
Ma siamo proprio sicuri che questa sia la strada giusta? Non è, per caso, che stiamo solo cercando di "rimuovere" il problema senza neppure provare a trovare una soluzione insieme con i ragazzi che pretendiamo di aiutare, assecondandone e cristallizzandone invece il disadattamento ? "Beh, sapientone – avverto che qualcuno mi sta dicendo a questo punto – tu invece che cosa diavolo hai da proporre?". Mi dispiace se la mia risposta non risulta all’altezza dell’analisi, ma sinceramente – e, col passare degli anni posso aggiungere, umilmente – ammetto di non conoscere la soluzione giusta sempre e comunque né, del resto, mi sogno di rigettare del tutto le attuali strategie "rieducative". Sto solo chiedendomi se non sia un po’ da farisei affrontare il disagio scolastico come se fosse una malattia che colpisce il corpo sano della comunità scolastica, ed alla quale ci si debba precipitare a rispondere con "rimedi" che assomigliano troppo quei farmaci che dovrebbero curare i guasti che quella stessa società continua a generare senza scrupoli né ripensamenti. Per carità: dieci anni di animazione socio-culturale con ragazzini "a rischio" mi hanno insegnato che "fare" qualcosa è importante e che le "attività", soprattutto se svolte nella giusta dinamica di gruppo, sono indispensabili per avviare un percorso formativo che non sia mummificato negli schemi di una scuola che sembrerebbe sempre diversa e agitata da continue riforme, ma che stranamente, e in buona sostanza, riesce comunque a restare sempre la stessa da decenni. Il fatto è che le "attività", i "progetti" servono a poco – se non a nulla – quando non si sia nemmeno cominciato ad aprire un dialogo educativo degno di questo nome, affrontando il nodo stesso del disagio, che è quello relazionale.
Finché i ragazzi e le ragazze non impareranno a trovare dentro di sé le parole giuste per esprimere il loro malessere, per comprenderne le ragioni e per condividerle con altri – siano essi compagni o figure adulte di riferimento – ritengo estremamente improbabile che si riesca a ricostruire rapporti che troppo stesso si limitano a reprimere o ad esasperare la conflittualità, senza affrontarla per trovare soluzioni costruttive e non distruttive. In tal senso mi è stato molto utile il percorso formativo che ho seguito recentemente sulla "mediazione scolastica", un approccio che utilizza il gioco, le attività e qualsiasi altra tecnica di animazione come strumenti per educare i ragazzi/e a capire e gestire le proprie emozioni, ad affrontare apertamente i conflitti e a contrattare con gli altri delle soluzioni che non saranno forse le migliori in astratto, ma nascono dal rispetto reciproco e da obiettivi condivisi e comuni. Ovviamente un approccio del genere appartiene ad una mentalità che privilegia una visione "behaviorista" dell’educazione, ma non credo che escluda un’impostazione che faccia leva, invece, su valori morali e sullo sviluppo di una coscienza individuale e collettiva. Quello che è certo è che non possiamo più restare immobili, continuando a descrivere ed analizzare problematiche che sono state già abbondantemente affrontate, ma che non abbiamo la minima idea di come fronteggiare. Non è tanto questione di che cosa far fare o non far fare ai troppi ragazzini/e che – per usare una colorita espressione napoletana – "schifano" quella scuola dalla quale si sentono "schifati". L’unica risposta valida, credo, è concentrata nel celebre "I CARE", di cui don Milani aveva fatto la sua bandiera pedagogica. Proviamo a fargli sentire che a noi, invece, importa molto di loro e che siamo davvero al loro servizio per aiutarli a trovare la strada migliore per uscire dal disagio. Proviamo ad ascoltarli ed a capirli, senza condannarli o giustificarli a priori, e forse le cose andranno meglio.
“Infelici, non amati e fuori controllo…”
di Ermete Ferraro
E’ questo il titolo “sparato” sulla copertina dell’ultimo numero dell’edizione europea del settimanale “TIME”, sormontato da un volto da adolescente arrabbiato, giusto al centro della bandiera britannica. Il sottotitolo dell’articolo (“Mean Streets” di Catherine Mayer) esplicita il riferimento alla “epidemia di violenza, criminalità e ubriachezza” che sta colpendo la gioventù inglese, costringendo un po’ tutti ad interrogarsi sulle vere cause della devianza minorile.
“Se stessi al governo sarei davvero preoccupata, non delle bombe terroristiche ma proprio di questo” – ha dichiarato in proposito Camila Batmangelidih, fondatrice dell’organizzazione “Kids Company”, creata nel 1996 per sostenere i “ragazzi soli”, cioè quelli che vengono su senza poter contare su un genitore o un tutore che se ne assuma la responsabilità. Da recenti inchieste (promosse da IPPR, UNICEF, WHO) è emersa infatti una situazione disastrosa, che vede il Regno Unito al primo posto della classifica del disagio giovanile, con un 27% di quindicenni inglesi che si sono già ubriacati 20 o più volte; un 35% della stessa età che ha fatto uso di droghe c.d. “leggere” ed un 40% di ragazze (contro un 35% di ragazzi) che hanno già avuto rapporti sessuali, per il 15% senza nessuna precauzione. Negli ultimi tre anni, infine, un’analoga percentuale di minorenni (37%) sono stati protagonisti di atti di violenza.
Ma che cosa sta succedendo? E poi, come vanno le cose da noi?
Certo, chi vive come me in una città-problema come Napoli – e lavora in mezzo ai ragazzi di un quartiere popolare del suo centro antico – lo sa bene che le cose vanno male e, nella percezione della gente, sempre peggio. Certo, i teenagers inglesi saranno più frequentemente “fatti”, violenti e maggiormente portati al teppismo di gruppo tipico delle bande giovanili, ma purtroppo i ragazzi costretti a convivere col degrado umano e sociale dei nostri vicoli non stanno certo meglio né reagiscono in maniera molto diversa.
“Infelici, non amati e ormai fuori controllo” – recita il titolo dell’articolo del TIME – facendo al tempo stesso una denuncia allarmata ma anche una preoccupata diagnosi di una situazione contrassegnata dall’abbandono dei giovani a se stessi, alle loro frustrazioni ed alla loro cieca rabbia contro tutto e tutti.
Basterebbe capovolgere quel titolo per darsi una risposta: i nostri ragazzi (siano nati a Liverpool o ad Arzano…) hanno bisogno di qualcuno che gli restituisca la speranza, che sappia amarli ma anche ristabilire quei “limiti” che sono tragicamente stati spazzati via dal colpevole lassismo di chi aveva troppi sensi di colpa per esercitare il ruolo di padre/madre e di maestro/maestra. Già, perché non può essere “felice” un ragazzo che si trovi ad esercitare una libertà irresponsabile o diritti cui non corrispondano doveri, ma piuttosto chi sa di essere amato ed accettato, ma proprio per questo è stato inserito in un contesto di regole e garanzie sociali.
Mi venivano in mente le parole di don Luigi Merola – il prete-coraggio di Forcella – che è venuto venerdì scorso a parlare coi ragazzi della mia scuola della sua esperienza di uomo e di sacerdote che non si vuole arrendere all’odiosa e stupida violenza della camorra. Guardavo quel centinaio di facce mentre seguivano, sinceramente colpiti e provocati dall’affascinante discorso di chi ha saputo guardare negli occhi il degrado economico, sociale e morale della sua parrocchia, denunciandolo, ribellandosi e cercando di avviare delle alternative concrete all’interno della comunità di cui era stato chiamato ad essere il “pastore”.
Certo, fra i ragazzini plaudenti c’erano anche figli di pregiudicati, bambini cresciuti nell’assenza totale di valori e di riferimenti certi, “soggetti difficili”, come si usa dire, di cui mi capita spesso di occuparmi come operatore socio-educativo, che vanno dall’estremo dell’apatia rassegnata e passiva a quello di una rabbia violenta e di comportamenti oppositivi e devianti.
Eppure mi è sembrato che quegli applausi e quei sorrisi alle battute di don Luigi fossero in qualche modo sinceri e, in qualche modo, liberatori.
I ragazzi hanno bisogno di figure autorevoli, di persone coerenti, di gente affidabile e, soprattutto, di genitori e insegnanti che si sforzino di fare il loro difficile mestiere.
Certo, l’alone del “personaggio” venuto a trovarli ha giocato il suo ruolo fascinatorio, ma io so bene – perché lo sperimento ogni giorno, in mezzo a delusioni e momenti di sconforto – che quei ragazzi hanno ancora dentro qualcosa di buono e di grande, che va tirato fuori e rianimato, prima che sia troppo tardi.
Cesare Moreno, il maestro di strada che ho citato nel mio intervento in occasione dell’Epifania, augurava a noi professori di avere una voce “forte, suadente e sicura”, per farci ascoltare “nel chiasso di una civiltà che rumoreggia”.
Sì, caro Cesare, è proprio vero: “montagne di arroganza, cattive maniere, presunzione e aggressività” seppelliscono la gioia di vivere e di crescere di troppi giovani. Ed è proprio per questo che dobbiamo avere la pazienza di aspettare che “i fiori sboccino quando ancora le gemme sono sepolte sotto il letame” .
Di fronte a ragazzi “infelici, non amati e senza controllo” non servono le strategie di una mentalità esclusivamente “sicuritaria”, preoccupata solo di arginare gli effetti devastanti del disagio, ma non di affrontarne e rimuoverne le cause.
Per fare gli educatori bisogna avere fiducia – scriveva don Lorenzo Milani – perché “non si può fare l’educatore e non fidarsi. Prima di tutto perché è un obbligo morale, un impegno davanti a Dio […] e poi perché un educatore ha sempre delle soddisfazioni piccole o grandi e sa vedere i segni di speranza e di onestà dove gli altri non vedono…” (1965).
E allora via: domani è lunedì e comincia un’altra settimana di questa avventura educativa, con i suoi alti e bassi, con le sue sorprese belle e brutte. D’altra parte, per citare ancora don Milani, per chi fa questo mestiere “…prenderlo in tasca è il suo destino e il suo dovere, ma non sempre, qualche volta lo prendono in tasca gli altri e il ragazzo malvisto da tutti si rivela un gran galantuomo, un adulto generoso e leale…”
E così sia !