Dagli ‘Smarties’ alle ‘smart cities’

smartiesLa prima volta che mi sono imbattuto nel vocabolo inglese ‘smart’ si trattava di un noto prodotto dolciario industriale – chi non conosce gli Smarties? – consistente in coloratissime pastiglie dall’anima di cioccolato, nate nel Regno Unito addirittura prima della seconda guerra mondiale. Erano gli anni ’60: allora ero giovane e non mi ponevo domande su perché quei variopinti confetti si chiamassero così ma mi limitavo ad ingurgitarli. Solo molto tempo dopo (per la precisione 70 anni più tardi) la stessa azienda produttrice (la Nestlé) annunciò di aver dovuto ritirare da commercio i suoi Smarties ricoperti dal colorante sintetico  E133 (il ‘blu brillante FCF, ricavato dal liquido della distillazione del carbone per ottenere il coke). Esso infatti risultava piuttosto tossico o, quanto meno, dannoso in età infantile e poteva causare “iperattività, orticaria, insonnia […] sedimentazioni a livello renale e dei vasi linfatici” .[i]  Offrire ai bambini delle semplici pastiglie di cioccolato evidentemente era ormai troppo banale: bisognava colorarle coi residui di lavorazione del carbon coke per renderle così più… smart .

Da allora questo anglicismo ci ha perseguitato sempre più, attraversando vari ambiti dell’offerta commerciale, da quello automobilistico (come non ricordare la mini-vettura tedesca chiamata appunto Smart, utilizzando un ingegnoso acronimo) fino ad arrivare alle ‘smart cards’ (cioè le svariate carte magnetiche di plastica che utilizziamo ogni giorno al posto del denaro) oppure alle ‘smart cities”  ed alla ‘mobilità smart’, di cui si riempiono la bocca alcuni ambientalisti da salotto. Però, a parte l’uso troppo frequente e spesso immotivato d’un vocabolo inglese – potrebbe chiedere qualcuno – che cosa c’è di male a utilizzare questo aggettivo in vari contesti, sia pur con un comune rinvio all’idea di qualcosa di evoluto, moderno ed intelligente?  Beh, non ci sarebbe niente di male se dietro questa ammiccante parolina non si nascondessero significati molto più complessi e contraddittori. In questi casi io sono solito ricorrere ad un metodo infallibile: l’analisi etimologica d’una parola per comprenderne l’origine, ma anche la trasformazione semantica successiva.

Se chiedete ad un qualsiasi connazionale di media cultura che cosa pensa che significhi ‘smart’, e quindi come tradurrebbe in Italiano questo aggettivo, molto probabilmente risponderebbe: sveglio, intelligente, furbo o qualcosa di simile. Essere ‘smart’ , inoltre, ritengo che per i più comporti anche una connotazione di abilità, di evoluzione scientifica e tecnologica e di modernità. Basta del resto consultare un dizionario della lingua italiana per trovare elencata un’altra serie di significati – quasi tutti positivi – attribuiti a questa parola, fra cui: “elegante, alla moda […] sveglio… abile… brillante, spiritoso […] rapido, veloce… considerevole” [ii] , ma anche “…ingegnoso, svelto, vivace,acuto.” [iii]Ciò che si scopre consultando un dizionario etimologico della lingua inglese, però, è piuttosto sorprendente, in quanto ci rinvia ad un’origine del termine abbastanza diversa e, per certi versi, contrastante. Nell’Old English, infatti, questo aggettivo significava :

“doloroso, duro… che causa un dolore acuto […] Col significato di ‘eseguito con forza e vigore’ si trova dal 1300 c.: Con l’accezione di ‘svelto, attivo, intelligente’ è attestato dal 1300 c., dal concetto di battute o parole ‘taglienti’ etc., o anche ‘abile nel contrattare’ […] Con riferimento ad apparecchi/dispositive, nel senso di ‘che si comporta come se fosse guidato dall’intelligenza’ (come nel caso di ‘bombe intelligenti’) è attestato per la prima volta nel 1972…” [iv]

Continuando ad approfondire l’etimologia germanica di questa parola, si scopre che essa è strettamente legata al concetto di dolore fisico (ted. ‘Schmerz’), rinviando – senza o con la ‘s’ iniziale – addirittura al latino ‘mordere’, al greco ‘smerdnos’ (terribile) ed al verbo sanscrito ‘mardayati’ (frantumare, strofinare, schiacciare).

smart-bombsA questo punto qualche dubbio sulla totale connotazione positiva di questo attributo dovrebbe coglierci. Fra l’idea di creare dolore e paura con atti palesemente violenti ed il moderno concetto di ‘smartness’ (qualità intesa nell’accezione di: prontezza mentale, acutezza, intelligenza) c’è infatti un salto logico fin troppo evidente per non portarci a riflettere su questa strana ‘evoluzione’ semantica. Dobbiamo chiederci allora quale sia il nesso fra queste due categorie mentali. La prima risposta che mi viene in mente è che categorie come efficacia ed efficienza di un’azione potrebbero spiegarne la connotazione positiva con il latente riferimento all’astuzia, all’abilità ed alla dura determinazione di un soggetto nel perseguire un determinato scopo. Non a caso l’aggettivo inglese ‘smart’ rinvia al suo omologo ‘sharp’ , la cui etimologia ci riporta al mondo delle armi bianche, alle loro punte acute ed alle loro lame affilate (vista l’origine dal verbo germanico ‘sharf’ , che indica la capacità di tagliare o di pungere. Il significato positivo di questo attributo (“intelletto o percezione acuta o penetrante“ [v]) gli è derivato successivamente e in senso figurato.

L’idea che l’intelligenza sia una qualità propria delle persone che pensano e si comportano in modo ‘acuto’ (dal lat. acus = ago) e che usano un linguaggio ‘tagliente’ è un chiaro sintomo di una visione aggressiva della civilizzazione. Il progresso stesso viene considerato frutto di una lotta per l’affermazione di una parte sull’altra, sia pur utilizzando le ‘armi’ della scaltrezza o, quanto meno, anche quelle. Non a caso, infatti, Machiavelli consigliava così chi vuole governare:

<<Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende: non di manco si vede per esperienza, ne’ nostri tempi, quelli príncipi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini: et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà. Dovete adunque sapere come sono dua generazione [modi] di combattere: l’uno con le leggi, l’altro, con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie: ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. […] Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può per tanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro, e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma, perché sono tristi e non la osservarebbano a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro. A uno principe, adunque, non è necessario avere tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. >> [vi]

E’ proprio questa cinica ‘astuzia’ (l’origine è sempre guerresca, dal lat. hasta, cioè: lancia) che mi sembra incarnare meglio il concetto su cui mi sono soffermato. Una visione del mondo ‘smart’ non mi sembra necessariamente fondata sull’intelligenza in sé, semmai sull’uso di questa facoltà per affermarsi sugli altri o come ‘lione’ (che domina grazie alla sua forza) e/o come ‘golpe’ (la volpe, si sa, è il simbolo stesso dell’astuzia). A questo punto non c’è da stupirsi se qualcuno ha parlato di ‘smart bombs’ (da noi ribattezzate ‘bombe intelligenti’), o se gran parte delle soluzioni tecnologiche definite ‘smart’ pretendono di migliorare la vita dell’uomo ricorrendo a congegni elettronici che si stanno progressivamente sostituendo a lui, rubandogli il lavoro e mettendolo in condizione di essere controllato sempre e ovunque. Se aggiungiamo al campo semantico dell’aggettivo ‘smart’ anche la caratteristica della velocità e della prontezza, poi, comprendiamo come una visione del genere tenda ovviamente alla semplificazione ed all’omologazione, altri due strumenti di cui i nostri ‘principi’ si avvalgono per farci sentire semplici elementi di una realtà complessa, guidata e supervisionata dal ‘grande fratello’ di turno.  A questo punto tutto può diventare ‘smart’ (dall’orologio all’automobile, dal cibo alla vacanza, dal bancomat alle competenze linguistiche. Siamo infatti letteralmente circondati da ammiccanti proposte che c’invitano a fare nostri :‘smart food’, ‘smart cards’, ‘smart offices’ e perfino ‘smart skills’. Tutte sembrano alludere ad un mondo perfetto, dove rapidità ed efficienza si coniugano ad efficacia ed affidabilità. Ci stanno ‘smartellando’ il cervello anche sul piano urbanistico e perfino ambientale, vagheggiando città ideali, con tutti i vantaggi della tecnologia moderna ma senza nessuno dei pestiferi affetti collaterali che essa troppo spesso porta con sé.

Un nuovo topos retorico di questo ambientalismo 4.0 – che condivide ovviamente tale visione incentrata sull’innovazione tecnologica e sulla digitalizzazione spinta – è costituito infatti dalle cosiddette ‘smart cities’, pianificazioni urbane avveniristiche prospettate come ‘la’ soluzione all’invivibilità della nostre città moderne. Pochi però si ricordano che la parola inglese ‘digit’ non ha niente a che fare con le dita che percorrono sempre più velocemente e lievemente gli schermi ‘touch’ o le ‘smart keyboards’ dei nostri amati ‘smarphones’ , ‘tablets’  e ‘pcs’. In inglese, infatti, ‘digit’ vuol dire semplicemente ‘cifra’, per cui una civiltà digitale è, inevitabilmente, fondata sui numeri, sui valori misurabili, sulle quantità. Se andiamo a cercare su Wikipedia il significato di ‘smart city’ troviamo questa descrizione:

<< La città intelligente (dall’inglese smart city) in urbanistica e architettura è un insieme di strategie di pianificazione urbanistica tese all’ottimizzazione e all’innovazione dei servizi pubblici, così da mettere in relazione le infrastrutture materiali delle città «con il capitale umano, intellettuale e sociale di chi le abita» grazie all’impiego diffuso delle nuove tecnologie della comunicazione, della mobilità, dell’ambiente e dell’efficienza energetica, al fine di migliorare la qualità della vita e soddisfare le esigenze di cittadini, imprese e istituzioni.  […] Il concetto di città intelligente è stato introdotto in questo contesto come un dispositivo strategico per contenere i moderni fattori di produzione urbana in un quadro comune e per sottolineare la crescente importanza delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC), del capitale sociale e ambientale nel definire il profilo di competitività delle città, muovendosi verso la sostenibilità e verso misure ecologiche sia di controllo sia di risparmio energetico, ottimizzando le soluzioni per la mobilità e la sicurezza. Il significato dei due assetti (del capitale sociale e di quello ambientale) evidenzia la necessità di un lungo cammino da compiere per distinguere le città intelligenti o smart da quelle con maggior carico tecnologico, tracciando una linea netta tra di loro, ciò che va sotto il nome rispettivamente di città intelligenti e di città digitali.>>

smart-cityA parte il linguaggio usato – palesemente aziendalista e improntato ad una visione economicista della realtà, coi i suoi immancabili stereotipi come: ‘capitale’ umano, sociale e ambientale, ‘efficienza’, ‘ottimizzazione’ e ‘competitività’ – ciò che mi colpisce è che l’aspetto che dovrebbe richiamare invece una scelta ecologista si risolve nel banale rinvio al miglioramento della ‘qualità della vita’ e all’ambiguo concetto di ‘sostenibilità’. Ma, come osservavo in un precedente articolo:

<<…un modello di economia fondato unicamente sulla logica del profitto e del tutto incurante del rispetto degli equilibri biologici e di quelli sociali non potrà mai diventare ‘sostenibile’, almeno nel senso originario del termine. Se parliamo della definizione sintetica riportata all’inizio, infatti, non si comprende come un sistema fondato sulla massimizzazione del profitto possa conciliarsi con l’esigenza di garantire lavoro e cibo alla popolazione mondiale, benessere e giustizia ai singoli ed alle comunità locali, e riproducibilità alle risorse naturali.>> [vii]

Sto esagerando? Beh, proviamo a leggere un’altra definizione di ‘smart city’, che mi sembra abbastanza ufficiale, visto che è comparsa sul sito web dell’ENEA:

<<Una città è smart (Nijkamp) quando gli investimenti in capitale umano e sociale, le infrastrutture di comunicazione tradizionali (trasporti) e moderne (ICT), alimentano una crescita economica sostenibile e una elevata qualità di vita, con una sapiente gestione delle risorse naturali, ricorrendo ad una governante partecipativa. C’è quasi sempre un forte ricorso all’utilizzo delle tecnologie informatiche, di monitoraggio e controllo nella vita quotidiana, che comprende la connettività in rete, i sistemi di trasporto più moderni, le infrastrutture e la logistica e l’energia rinnovabile ed efficiente. Ad una Smart City si richiedono buone pratiche di partecipazione, elevati livelli di sicurezza, bassa incidenza della criminalità, un patrimonio culturale ben custodito. Una Smart City, se non è già una città sostenibile, per lo meno è una comunità sociale in evoluzione, mobilitata per crescere e per durare, ed anche per competere in fatto di economia, benessere ed inclusione sociale.>> [viii]

Anche in questo caso il linguaggio mostra una forte impronta tecnocratica ed economicista, ed evoca un modello di ‘crescita’ che, se accompagnata dall’aggettivo ‘sostenibile’, finisce solo col produrre uno stridente ossimoro. L’utilizzo di aggettivi con valenza positiva (sapiente, elevato, moderno, efficiente etc.) non riesce infatti a nobilitare sostantivi che rinviano ad un efficientismo produttivo, come: investimenti, crescita, governance o monitoraggio-controllo. Come osserva argutamente Roberto Mancini:

<<Uno dei risultati più paradossali di questo training è che, mentre l’economia diventa sempre più decisiva per la vita di tutti, della sua realtà effettiva si sa ben poco e si comprende ancor meno. Si diffonde così un’incapacità a sentire, a capire, a giudicare quello che accade. Nella sua dignosi della degenerazione degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, Dietrich Bonhoeffer parlava di Dummheit, cioè di ‘stupidità’, precisando che ‘si tratta essenzialmente di un difetto che interessa non l’intelletto, ma l’umanità della persona’. >> [ix]

Ecco: se non vogliamo cadere nella trappola di questa stupidità programmata, che utilizza slogan e luoghi comuni per convincerci che viviamo “nel migliore dei mondi possibili”  (l’assioma illuminista sul quale Voltaire ironizzava nel suo ‘Candido’), occorre stare molto attenti alle parole da cui siamo quotidianamente bombardati. Se la radice etimologica dell’aggettivo ‘smart’ ci riporta più al dolore ed all’aggressività che all’intelligenza ed alla saggezza, sarebbe meglio evitare di cadere in questa trappola mediatica. Si tratti dell’esaltazione acritica della ‘smart city’ o semplicemente della pubblicità degli ‘Smarties’.

© 2016 Ermete Ferraro ( http://ermetespeacebook.com )

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[i]  Cfr. http://www.my-personaltrainer.it/additivi-alimentari/E133-blu-brillante.html

[ii]  Cfr. http://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=smart

[iii]  Cfr. http://dizionari.corriere.it/dizionario_inglese/Inglese/S/smart.shtml

[iv]  Cfr. http://www.etymonline.com/index.php?term=smart

[v]   Cfr. http://www.etymonline.com/index.php?term=sharp

[vi]  N. Machiavelli, Il Principe e Discorsi, Feltrinelli, Milano, 1960 (cap. XVIII – pagg. 73-74

[vii]  E. Ferraro, L’insostenibile leggerezza della sostenibilità > https://ermetespeacebook.com/2015/05/03/linsostenibile-leggerezza-della-sostenibilita/ .V. anche lo scritto di Antonio D’Acunto, “L’insostenibilità dello sviluppo sostenibile”, in: Alla ricerca di un nuovo umanesimo, Napoli, La Città del Sole, 2015 (pp.240-270)

[viii]  Toni Federico, Innovazione e sostenibilità  > http://www.enea.it/it/pubblicazioni/EAI/anno-2013/n-5-settembre-ottobre-2013/smart-city-innovazione-e-sostenibilita

[ix]   Roberto Mancini, Trasformare l’economia. Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche, Milano, Franco Angeli, 2014 (p.10).

LE 5 PAROLE DELLA SCUOLA

La prima parte del corso di avviamento all’etimologia, che sto svolgendo nella classe di seconda media nella quale ho solo un’ora di ‘approfondimento’ settimanale, si è conclusa con la pubblicazione di un mio manualetto online e come supporto cartaceo per gli alunni/e che partecipano a questo progetto. Per la seconda parte, di tipo più pratico ed applicativo, ho pensato ad attività di tipo laboratoriale, che richiedono strumenti e tecniche capaci di portare i ragazzi/e ad una verifica personale della competenza acquisita in teoria.
Visitando http://logophilia.in/ – interessante e accattivante sito web indiano tra i più qualificati nella diffusione della ricerca etimologica – ho trovato molto efficace la periodica presentazione d’un esempio concreto di analisi dell’origine e della logophilia1evoluzione semantica di alcune parole molto comuni, raggruppate per ambiti tematici.
Il motto di questa vivace realtà formativa indiana è: “Teach a word, you will help for a day; teach etymology, you will help for lifetime” (“Insegna una parola e darai aiuto per un giorno; insegna l’etimologia e darai aiuto per tutta la vita”). Condivido in pieno questo principio, ragion per cui mi è sembrato che questo genere di “schede” tematiche siano una risorsa particolarmente utile che, nella sua semplicità, può stimolare chi inizia questo percorso a cimentarsi in prima persona con l’indagine etimologica. Se è vero, come si proclama sul sito citato, che le parole sono uno strumento fondamentale per la conoscenza e che un ampio numero di vocaboli possono essere agevolmente decifrati attraverso la comprensione funzionale dell’etimologia, aiutare i ragazzi ed i giovani a verificare direttamente come funziona questa tecnica di analisi, facendone esperienza direttamente, perchè non ispirarsi a questa metodologia? Ecco, allora, che ho cominciato a proporre al mio gruppo-classe la prima delle ‘schede’ etimologiche dedicate a specifiche tematiche. Si tratta delle “5 parole della scuola”, che mi hanno permesso di cominciare con loro questo percorso laboratoriale, discutendo non solo della tecnica etimologica in sé, ma anche di come sia cambiato, nel tempo, il senso di tanti termini di largo uso.
Scavando nelle parole per ricavarne le radici più antiche, quindi, gli alunni/e hanno scoperto, ad esempio, che la “cattedra” non è quela scrivania dietro la quale siedono i loro insegnanti, bensì la “sedia” che – come una volta il trono del vescovo o di un governatore civile – rappresenta il simbolo della loro posizione ed autorità. O anche che “registro” è un termine di origine latina da cui sono derivati anche “registratore” e “registrazione”, trattandosi anche in questo caso di strumenti che servono a “riportare” dati e fatti. Così come hanno scoperto che lo stesso “insegnante” dovrebbe essere una persona capace di lasciare effettivamente un “segno”, una traccia, nella mente e nella coscienza dei propri alunni. Questi ultimi, poi, hanno appreso di chiamarsi così perché l’insegnamento è ciò che nutre – “alimenta” – le loro menti e li fa crescere da ogni punto di vista…..
Ebbene, come si vede da questa semplice esplorazione di cinque parole è possibile allargare il discorso e, soprattutto, incitare i ragazzi/e a seguire gli esempli forniti, provando a fare anche loro gli “Sherlock Holmes” del vocabolario, svelandone misteri e curiosità. Ecco perchè ho deciso di allargare questa esperienza a tutti gli allievi/e delle mie classi, nella speranza che anche in loro si accenda una scintilla d’interesse per la ricerca etimologica e per le sue affascinanti avventure dentro le parole.

ETIMOLOGICAMENTE PARLANDO…

“…..Se noi, consapevoli dell’eredità insita in ogni parola, esaminassimo  i nostri vocabolari, scopriremmo che dietro ogni parola si nasconde un mondo, e chi pratica le parole… dovrebbe sapere che mette in moto dei mondi, che scatena forze polivalenti…”

Heinrich Boll, 1958 (Nobel per la letteratura)

Il titolo di questo post è anche quello del progetto che ho proposto alla scuola media dove insegno, per l’a.s. 2012/13, utilizzando in almeno una classe affidatami l’ora settimanale di ‘approfondimento di lettere’.  E’ un modo per sperimentare un approccio attivo ed innovativo alla riflessione linguistica già prevista dal curricolo della scuola media puntando, in questo caso, sulla scoperta da parte degli alunni/e delle enormi risorse lessicali della lingua italiana. Tutto questo non soltanto in chiave di arricchimento del vocabolario, obiettivo che resta prioritario, ma anche di scoperta dell’evoluzione dell’Italiano, avviando i ragazzi/e delle medie alla ricerca etimologica.

Mi sono sempre meravigliato della scarsa attenzione prestata dalla scuola italiana a questi specifici aspetti della formazione linguistica degli studenti, soprattutto se si tiene conto che esiste una antica e consolidata tradizione di studio del latino e del greco e che in Italia sono state portate avanti in questo campo ricerche molto autorevoli. Il guaio è che lo studio dell’origine delle parole e della loro evoluzione semantica è stato costantemente confinato a livello universitario, senz’alcuna ricaduta sulla formazione linguistica di base dei nostri ragazzi. Non c’è niente di peggio, secondo me, per rendere questo campo di studi un polveroso esercizio accademico, un approfondimento glottologico sicuramente importante, ma del tutto privo di interesse per la maggioranza degli studenti ed anche di chi, dentro o fuori della scuola, vorrebbe forse capire qualcosa di più della propria lingua.

Ho recentemente ripetuto la ricerca su Internet, sperando di trovarvi esperienze recenti di avvio alla ricerca etimologica nella scuola italiana, ma la situazione non mi sembra affatto cambiata. Ciò vale anche per altri Paesi di cultura latina, come la Francia o la Spagna, dove – per quanto ne so – mancano progetti scolastici che vadano in tale direzione. Paradossalmente, per reperire esperienze didattiche di avvio all’etimologia per studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado bisogna spostarsi negli USA.  Ci sono stati e ci sono, infatti, molteplici progetti educativi statunitensi che valorizzano questo strumento di approfondimento linguistico, utilizzando una metodologia d’insegnamento seria ed affidabile, ma anche stimolante e coinvolgente.

Lo stesso termine “etimologia” è un importante oggetto di studio, dal momento che ci rinvia ad una ricerca del senso “vero” (etymòs) delle parole che usiamo, quanto meno nel senso di “originario”. Ci si lascia intravedere, infatti, sia la possibilità di scavare dentro di esse per trovarvi le radici più antiche e comuni, ma anche di ripercorrere l’affascinante evoluzione nel tempo della loro forma e del loro significato. In una società dove le parole stanno progressivamente smarrendo il loro senso, sostituite da slogan, frasi fatte e ‘netichette’ , credo invece che ci sia un gran bisogno di riscoprire il valore ed il significato degli strumenti di comunicazione linguistica. Si tratta, fra l’altro, di un ambito particolarmente adatto a  stuzzicare l’interesse dei ragazzi/e, abituandoli a riflettere su ciò che dicono e scrivono, ma anche ad indagare scientificamente sul senso autentico delle parole.  Da questa ricerca, infatti, emergeranno spesso le assurdità e le contraddizioni di tante nostre espressioni, ma anche divertenti aneddoti sull’origine di certi termini e paradossali stravolgimenti del senso di altre parole. La possibilità di analizzare la propria lingua con metodi che ne evidenziano la struttura interna, infine, credo che sia di grande utilità per la scoperta di collegamenti meno evidenti tra vocaboli e che rappresenti, soprattutto, una grossa risorsa, offerta agli allievi, perché riescano da soli ad avvicinarsi al senso di parole ancora sconosciute.

Presentando il mio progetto, ho chiarito allora che esso non ha solo lo scopo d’accrescere le conoscenze  linguistiche degli alunni/e, ma che persegue anche i seguenti obiettivi didattici:

1)           una reale competenza nel decifrare i segni linguistici, per ricavarne informazioni di grande utilità pratica, ai fini della comunicazione, prima ancora che dello studio delle discipline linguistico-letterarie;

2)           un obiettivo didattico di natura interdisciplinare, in quanto l’approccio etimologico alla propria lingua ne rivela sia gli aspetti storici sia quelli geografici. La scoperta dei ricorrenti meccanismi di formazione e trasformazione delle parole rappresenta inoltre un utile strumento nello studio delle lingue straniere;

3)           un ulteriore obiettivo collaterale, poiché l’introduzione all’etimologia dei vocaboli italiani è un fondamentale strumento di approccio alla lingua latina, finalizzandone lo studio.

Per quanto riguarda l’organizzazione del progetto “Etimologicamente parlando…” , ho previsto di svilupparlo nel corso delle 30 ore disponibili (una alla settimana) con la seguente articolazione:

(a)         parte introduttiva > per chiarire la materia oggetto dello studio e per fornire agli alunni/e gli strumenti lessico-grammaticali di base  per intraprendere una ricerca etimologica;

(b)         seconda parte > incentrata sull’approfondimento dei prefissi, dei suffissi e di tutti gli elementi che modifichino il concetto di base, contenuto in nuce nella radice della parola;

(c)         terza parte > dedicata alla ricerca degli elementi radicali di origine latina, greca e  germanica più ricorrenti nella formazione del vocabolario della lingua italiana;

(d)         quarta e ultima parte > applicativa di quanto appreso, dedicata a concrete esercitazioni all’analisi etimo- semantica di parole molto frequenti del lessico italiano, ma anche di termini desueti e letterari.

Il progetto utilizzerà per la sua attuazione gli abituali sussidi didattici (lavagna, computer di classe e/o LIM, appunti forniti fotocopiati agli alunni/e o dettati in aula, cartelloni riassuntivi, testi scolastici d’Italiano e  dizionari della lingua italiana). Prevedo di avvalermi anche di sussidi bibliografici specifici (manuali, dizionari etimologici…) ed anche fonti multimediali (fornendo collegamenti a siti specifici (per esercizi e giochi linguistici) ed a schede che pubblicherò sul mio sito-web scolastico (Schoolbook).

Sul piano metodologico, seguirà un approccio didattico attivo e coinvolgente, alternando le lezioni frontali col lavoro di gruppo, momenti di discussione, attività  ludiche e vere e, soprattutto, con una sorta di lavoro ‘sul campo’. Avvierò vere e proprie indagini etimologiche a tema (es.: nomi e/o cognomi, denominazione delle discipline scolastiche e/o degli sport, terminologia sanitaria, alimentare, lessico giuridico-costituzionale) e pubblicizzerò le ricerche etimologiche realizzate dal gruppo-classe mediante una pubblicazione finale (cartacea e/o multimediale).

Chiudo ricordando che “parola” – etimologicamente parlando – deriva dal latino “parabola”, a sua volta calco del greco: “parabolé”. Ogni parola, quindi, è qualcosa che viene ‘lanciata’ (gr.: bàllo ) e che percorre una traiettoria (parà) prima di giungere a destinazione. Questo termine ci ricorda anche le parabole evangeliche e la loro capacità di cogliere il segno, utilizzando però una strada metaforica e narrativa.  Bene, se col mio progetto riuscirò a ripercorrere la storia racchiusa dentro una semplice parola avrò sicuramente fatto qualcosa di utile…

© 2012 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )