Ad un secolo esatto dalla nascita, il pittore
Guglielmo Ferraro nel ricordo del figlio Ermete.
L’otto febbraio ricorrevano esattamente 100 anni dalla nascita del pittore Guglielmo Ferraro, mio padre, morto nel novembre del 1988, quasi venti anni fa ed il cui autoritratto accompagna queste righe.
Non mi è facile parlarne qui e adesso, come non è stato facile finora, trovando le parole giuste per ricordarlo degnamente e rispettando, al tempo stesso, quella sua caratteristica riservatezza di persona schiva, timida, umile.
Un uomo, un padre ed un’artista di poche parole, che ha attraversato quasi in punta di piedi gli ottanta anni della sua vita, da vero signore, in mezzo al chiasso, alla volgarità ed all’esibizionismo di un ambiente nel quale sembrava essere capitato quasi per caso e dove si sentiva a disagio.
Cent’anni di solitudine: il titolo del famoso romanzo di Gabriel Garcia Marquez mi è venuto automaticamente alla mente ripercorrendo questo secolo che ci divide dalla nascita di mio padre Guglielmo. Ma attenzione: si tratta di una solitudine che non va letta come mancanza di riferimenti, di affetti, di agganci con la realtà, ma piuttosto nel senso di oggettiva estraneità ad un mondo che egli avvertiva sempre più lontano dalla propria concezione dell’arte, più prossima a quella umanistica e, al tempo stesso, ad una sua visione quasi religiosa, come rilettura personale della realtà.
“Ferraro rappresenta il caso singolare di un pittore che rifugge da ogni formula e da schemi e schermi dell’inflazione modernistica – scriveva il maestro Domenico Spinosa, presentando il catalogo della sua personale del 1974 – [il visitatore] avrà la rara occasione di poter accostare un pittore che opera, che ha sempre operato, con la coscienza e la religiosa fiducia di un buon artigiano […] Una presenza…questa di Ferraro, singolare e confortevole; una pausa rilassante e rasserenante in mezzo a tanta confusione: un’affermazione di rara compostezza artistica e morale, sincera e umana fra tanti sfiatati annunzi di miracolistici eventi. Nel gran vuoto e nel gran silenzio che si lascia indietro il vaniloquio degli istrioni di turno, la voce di Ferraro così sommessa e – nella apparenza – così dimessa, acquista il valore di un richiamo a quanto di autentico e generoso impegno possa tendere l’interesse dell’uomo…”
Ecco, “la coscienza e la religiosa fiducia di un buon artigiano”: in questa efficace sintesi del suo vecchio amico e collega Mimì Spinosa – persona peraltro molto diversa da lui, sia caratterialmente sia artisticamente – mi sembra che rispecchi fedelmente la vita e l’opera di Guglielmo Ferraro.
E bene gli si attagliano anche altri attributi utilizzati in questa presentazione: la sua presenza, umana e pittorica, ha effettivamente costituito una “pausa rasserenante e confortante” nel caos di un’arte troppo spesso urlata provocatoriamente, gettata in faccia al suo smarrito e confuso fruitore. La “compostezza artistica e morale” di mio padre Guglielmo – come testimoniato da Spinosa – è stata infatti la cifra stessa della sua vita, caratterizzata dalla sincerità dell’ “autentico e generoso impegno” di chi, però, ha scelto di mantenere “sommessa” la propria voce.
“Guglielmo Ferraro è temperamento riflessivo, pacato e ben disposto alla concezione lirica delle cose dipinte…” – osservava acutamente il critico Eolo Serao, cogliendone la poetica di pittore per cui l’osservazione e la riflessione erano sempre e comunque il primo, indispensabile, passo per poter poi trasfigurare liricamente la realtà, che si trattasse di quella di una persona, di un paesaggio oppure delle “cose” suggestivamente e un po’ misteriosamente composte in unità nelle sue tante nature morte…
Di “vibratili sensibilità e controllata moderazione” ebbe a scrivere invece un altro critico d’arte, Armando Miele, riuscendo a cogliere sia la sua volontà di rifuggire da ogni esasperata e falsata visione di ciò che cade sotto i nostri sensi, sia l’innata tendenza ad una moderazione che nasceva dal rispetto della realtà e dall’istintiva repulsione verso ogni forma di esagerazione e di plateale esibizionismo.
“Conosco la sua pittura: in essa trovo l’uomo con le sue delicatezze, con i suoi silenzi, con le sue meditazioni – osservava il critico Piero Girace – […] Ha una sua poesia genuina e la esprime in modo compiuto, nella disciplina della forma, con una colorazione soave…”
Sì, mio padre era una persona con una “delicatezza” e d’una compostezza decisamente estranee al suo – e a maggior ragione al nostro – tempo. La sua “genuinità” era frutto di un rigore formale della “fiducia del buon artigiano” e della “francescana umiltà” di cui parlava Spinosa, che non lo hanno mai abbandonato, anche quando ha avuto l’onore di esporre in contesti artistici prestigiosi, come la Biennale di Venezia, la Quadriennale di Roma, il Premio “Michetti” o le tante edizioni della Mostra Nazionale d’Arte Sacra.
La stessa genuinità ed umiltà che lo hanno accompagnato nel corso dei suoi tanti anni d’insegnamento, prima come assistente all’Accademia di Belle Arti e poi come titolare della cattedra di Ornato disegnato al Liceo Artistico di Napoli.
Ricordo che, da bambino, il suo “studio” m’incuteva uno strano timore reverenziale, col grande cavalletto, la tavolozza multicolore, le centinaia di quadri e tavolette esposte ed accatastate, gli strani oggetti che mi apparivano, quasi surreali, disposti sul tavolo in attesa di essere fissati su tela o compensato dallo sguardo assorto e penetrante e dalla pennellata densa di mio padre.
Ricordo il suo impegno, minuzioso e infaticabile, nel cercare in quei tubetti di colori ad olio – di cui mi par quasi di avvertire ancora l’odore caratteristico, sposato a quello dell’acquaragia… – l’alchimia giusta per far rivivere, ricreandola, la realtà di una veduta, il volto di una donna o la fisicità immobile di frutti, fiori, oggetti e perfino pesci e uccelli, visti come soggetti da studiare e ri-produrre…
Da ragazzo sono stato spesso a far compagnia alla sua tranquilla solitudine nello studio di via Ribera, o l’ho accompagnato nei suoi frequenti giri quando si trattava di andare a catturare la natura della realtà all’aperto, in occasione delle cosiddette “estemporanee di pittura”.
L’ho seguito spesso nella sua scoperta della strana atmosfera silenziosa ed operosa dei cantieri navali nel porto di Napoli. Sono rimasto a fissarne i movimenti quando, dietro il suo cavalletto portatile, scrutava panorami e scorci di Forio d’Ischia, di Baia oppure di Agnano, quasi se se ne stesse nutrendo per poterli restituire agli altri attraverso la sua pittura, come un’ape che estrae dai fiori il loro nettare, per trasformarlo in qualcosa di simile ma anche di profondamente diverso.
L’ho guardato mentre studiava un volto, le venature di una mano, la piega di un abito – in occasione di uno dei suoi molti ritratti – cercando di cogliere fino in fondo l’espressione, il sorriso e la stessa fisicità di chi stava pazientemente posando per lui da ore, guardando a sua volta quella figura alta, distinta, assolutamente seria e distaccata eppure così dolce.
Me lo ricordo bene, con i pennelli tra le dita macchiate di colore, col viso velato ogni tanto dagli sbuffi di fumo quando tra le sue dita compariva la punta incandescente di una sigaretta, che interrompeva periodicamente il lavoro della mano, assorbendolo in una contemplazione ancora più assorta del soggetto che aveva davanti.
Questo succedeva sia che si trattasse delle sue modelle "dal segno un po’ tedesco" (S. Ortolani), o di una delle sue nature morte "…dense e gustose, ove le tonalità dei verdi bottiglia rilucono gravi, conferndo un’aura misteriosa al dipinto" (P. Girace), oppure ancora dei suoi paesaggi "…così gentilmente primitivi, e pur carichi di sollecitazioni naturalistiche" colti dalla sua "assorta e delicata visione" che produceva "una bella veduta, precisa e ariosa", secondo le parole del critico Carlo Barbieri.
Ebbene, Guglielmo Ferraro ha attraversato i suoi 80 anni di vita guardando il mondo, la realtà, come un grande repertorio di meravigliose immagini da cogliere e restituire poeticamente agli altri, dopo essersene imbevuto profondamente. Ha comunicato, come insegnante, questa magia della forma e del colore a generazioni di allievi dell’Accademia-Liceo di via Costantinopoli, restando però anche lì un po’ spaesato in quel contesto rumoroso, brusco, agitato, attraversato dalla scontentezza e dai fremiti ribellistici dei ragazzi degli anni ’60 e ’70 e, sul versante dei docenti, dal sensazionalismo rutilante delle provocazioni artistiche, tipiche dell’informale e della pop-art.
Ha vissuto silenziosamente le amarezze di chi non si è mai rassegnato alla trasformazione del mondo dell’arte in un grande "mercato", dal quale si è sempre ritratto con la dignitosa fermezza di chi credeva in quello che faceva ma, d’altra parte, non aveva nessuna intenzione di polemizzare o di rivendicare nient’altro che la propria libertà di coscienza e di azione. Ha mantenuto sempre il low profile di chi, con modestia ma consapevolmente, fa il proprio dovere fino in fondo, senza aspettarsi gratificazioni personali dall’apprezzamento degli altri.
C’è una bella ma poco conosciuta "lettera agli artisti" che Giovanni Paolo II scrisse nel 1999, nella quale il Papa ad un certo punto affermava che: "nel modellare un’opera, l’artista esprime di fatto se stesso a tal punto che la sua produzione costituisce un riflesso singolare del suo essere, di ciò che è e di come lo è…" . Ebbene, questo è certamente vero per mio padre Guglielmo, , che ha sempre conservato quello "stupore" di cui parla più avanti lo stesso Papa, come dell’unico atteggiamento adeguato "…di fronte alla sacralità della vita e dell’essere umano […] La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente. E’ invito a gustare la vita e a sognare il futuro".
Guglielmo Ferraro, al di là delle tante opere manifestamente classificabili come "arte sacra", ha saputo infatti cogliere quel richiamo alla bellezza trascendente della stessa realtà, di fronte alla quale c’è sempre da stupirsi e che l’arte ci aiuta a riscoprire, come se la vedessimo per la prima volta. Come uomo, come docente e come padre ha conservato lo stesso naturale ritegno, lo stesso distacco che non era freddezza né rigidità, ma un modo per rifugiarsi in un mondo tutto suo, poestico e un po’ nostalgico, da cui usciva fuori talvolta, insospettabilmente, con vecchie canzoni napoletane o con caustiche battute e fulminanti giochi di parole…
Sono passati vent’anni dalla sua morte ed egli è sempre presente nella mia casa, nella mia famiglia, attraverso i molti quadri che ne ricoprono le pareti, facendo compagnia ai libri che mi hanno accompagnato in questi anni. E’ una presenza discreta ma calda, come quando era ancora fra noi, che fin da allora mi ha dato sicurezza, stabilità e valori saldi in cui credere, anche a costo di fare scelte "alternative", rischiando come lui la solitudine della diversità. Per questo gli sono grato e, nel rispetto della taciturna riservatezza che gli era propria, cercherò di ricordarlo come merita.
Cercherò di ricordarlo soprattutto a chi ha completamente cancellato dalla memoria un’intera generazione di pittori napoletani del Novecento, dotati di gusto e di finezza artistica, ma sovrastati dalla volgarità barocca di troppi pinturicchi folkloristici e, al tempo stesso, da troppi artisti smaniosi di cavalcare un’avanguardia diventata presto post-avanguardia, senza essere riuscita a comunicare praticamente nulla al cuore e alla mente dei suoi ‘spettatori’.
Forse così, dopo questi cent’anni di solitudine, scopriremo che in realtà di veri artisti e maestri del colore a Napoli ne abbiamo avuti davvero tanti, e che riscoprirne l’opera significa anche rivalutarne la personalità e l’originalità.
Chi riesce, come tuo padre, ad esprimere semplicemente il proprio mondo interiore, senza sovrastrutture e mistificazioni, è indubbiamente un “artigiano dell’anima”, vale a dire un Artista autentico.
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Un ricordo molto struggente:devi averlo amato molto tuo padre e sicuramente in lui l’arte ha agito, facendone un raffinato costruttore di emozioni trasformate in colore e forma.Bello il suo autoritratto: dovresti mettere sul blog altre sue opere.
Ciao!
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Non ho avuto il piacere di conoscere tuo padre, ma conoscendo il figlio ( te caro Ermete) sono sicuro che era una bella persona.
Riccardo Rossi
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Solo oggi ho visto la tua segnalazione, che ho letto con interesse commosso: mi ha fatto bene. Ti ringrazio
Sandra
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