E C O S O C I A L I S M I

Ecosocialismo o barbarie?

Ho partecipato nei giorni scorsi ad un istruttivo incontro online così intitolato, organizzato e promosso da Sinistra Anticapitalista di Milano (https://www.facebook.com/events/290381306058188/?ref=newsfeed ).  Il tema trattato potrà forse risultare non del tutto chiaro, in quanto il termine ‘ecosocialismo’, pur intuendone il senso, resta ai più poco noto. È ciò che accade anche quando mi capita di parlare e scrivere di ‘ecopacifismo’, altra categoria politica che a non a tutti è chiara, per cui è sempre alto il rischio di fraintendimenti, equivoci e semplificazioni, che tendono a ricondurre quanto non si conosce sui rassicuranti binari del politicamente noto.

Già alcuni anni avevo scritto per il mio blog un articolo intitolato: “Ecosocialismo? Sì, grazie!”, col quale provavo a chiarire i termini entro i quali è riconducibile questa categoria dal punto di vista di chi, come me, non affonda le radici nel terreno della cultura marxista, bensì in quello di un ambito nonviolento ed ecopacifista. Come scrivevo allora:

«I principi fondamentali di questo approccio sono così sintetizzabili: (a) interdipendenza ed unità nella diversità; (b) decentramento e democrazia diretta; (c) centralità dell’idea di cittadinanza attiva e responsabile: (d) visione liberatrice della tecnologia; (e) impostazione sociale del lavoro; (f) visione filosofica improntata ad un ‘naturalismo dialettico’ e fondata su un’etica ecologica…». [i]

Ma l’alternativa ecosocialista al pensiero unico neoliberista non è proponibile senza chiarire le espressioni utilizzate e la loro evoluzione, per cui bene ha fatto Umberto Oreste, uno dei due relatori dell’incontro citato, a ripercorrere le tappe del pensiero ecosocialista a partire dal 1972, anno in cui alla critica del sistema economico capitalista cominciarono a sommarsi le denunce e gli allarmi provenienti dal mondo scientifico, ma anche le prime mobilitazioni ecologiste popolari. Il perseguimento di un’autentica armonia dell’uomo con la natura, d’altronde, già negli anni ‘70 era declinato secondo modalità abbastanza diverse. Si andava infatti dalla ‘ecosofia’ proposta dal filosofo della scienza norvegese Arne Naess [ii] alla contrapposizione tra “cultura e società” di cui si faceva portatore il sociologo gallese Raymond Williams [iii], passando per la filosofia di Herbert Marcuse e la sua critica alla repressività insita in una società fondamentalmente totalitaria [iv].

In tale disamina storica non potevano mancare naturalmente i riferimenti al fondamentale contributo ad una svolta ecologista costituito dal ‘rapporto sui limiti dello sviluppo’ prodotto nel 1972 dal Club di Roma, coi suoi ’10 scenari’ per uscire dalla crisi con una rivoluzione sostenibile [v], e  quelli alla nascita d’un soggetto politico ‘verde’, che materializzava la spinta verso una ecologia politica attiva, sia pure con tutte le contraddizioni registrate nei decenni successivi. Risale agli stessi anni ’80 lo stimolo del pensatore statunitense Murray Bookchin, uno degli autori fondamentali riconducibili al pensiero ecosociale e libertario, assai critico nei confronti di un’urbanizzazione antiecologica e promotore di una ‘ecologia della libertà’. [vi]

«Gli ideali di libertà oggi non mancano…e possono essere descritti con ragionevole chiarezza e coerenza. Abbiamo di fronte non solo l’esigenza di migliorare la società, o modificarla; abbiamo di fronte la necessità di ricostruirla. Le crisi ecologiche e i conflitti che ci hanno divisi in lotte che fanno del nostro il secolo più sanguinoso della storia, possono essere risolti soltanto se riconosciamo che ciò che qui viene messo in discussione è la civiltà dominante, non semplicemente un assetto sociale male organizzato […] Le soluzioni di tipo ‘eco-tecnocratico’, per così dire, comportano un livello tale di coordinazione sociale da far impallidire i più centralizzati dispotismi della storia […] Il messaggio ecologico è un messaggio di diversità, ma anche di unità nella diversità. La diversità ecologica, inoltre, non poggia sul conflitto, poggia sulla differenziazione, cioè su di una globalità che viene esaltata dalla varietà dei suoi componenti…» [vii]

Ecologia sociale e nonviolenza attiva

Questa lunga citazione di Bookchin fornisce una prima chiave di lettura del progetto ecosocialista, che egli centrava sulla critica della città e la proposta di un ‘municipalismo libertario’ a misura d’uomo, ma anche sul ripudio della mentalità consumistica e dell’agribusiness. Sono infatti pratiche che semplificano ecosistemi complessi, utilizzando tecnologie sempre più innaturali, mirando esclusivamente al profitto e producendo ‘degradazione ecologica’. Questa tensione verso una società alternativa, conforme ai principi dell’ecologia e promotrice d’una democrazia partecipativa e comunitaria, non era solo un’opzione politica, ma soprattutto etica. Nella sua visione, infatti:

«…ogni persona della comunità è un cittadino, non un individuo egoista e nemmeno il membro di un ‘collettivo particolare’ […] Un tale tipo di persona, scevro da interessi particolari perché vive in un ambiente dove tutti contribuiscono al bene della comunità, dando il meglio di se stessi e prendendo dal fondo comune quanto necessitano, darebbe alla condizione di cittadino una solidità materiale senza precedenti, superiore a quella ottenibile con la proprietà privata». [viii]

Da queste parole sembra trasparire la visione originaria, comunitaria, del cristianesimo, così come risuonano a echi dell’etica politica gandhiana, soprattutto laddove si esalta la dimensione collettiva dei piccoli centri, sintonizzati con gli ecosistemi nei quali si trovano ed in cui la tecnologia riacquista la sua caratteristica di supporto al lavoro umano. Mi riferisco in particolare ad alcuni concetti basilari del pensiero del Mahatma – e del ‘programma costruttivo’ nonviolento –  come quello di swaraj (autogoverno, autogestione) e di swadeshi  (localismo, attaccamento al proprio paese, autonomia, autosufficienza), come sottolinea Roberto Mancini.

«Il primo soggetto della pratica dello swadeshi è la comunità del villaggio, che deve provvedere all’organizzazione materiale della vita collettiva attraverso un’economia locale orientata alla sussistenza nell’equità che permette di non escludere nessuno. È il primo soggetto, non l’unico. Infatti Gandhi non è contrario a un’apertura dell’attività economica oltre i confini del villaggio; egli vuole solo impedire che ci siano modelli organizzativi che giungano a cancellare la rilevanza di questa unità territoriale per polverizzare il tessuto comunitario della società». [ix]

A questo punto – come affiorava anche dalla relazione di Umberto Oreste – viene alla mente il collegamento con un movimento che gran parte di questi obiettivi ha fatto propri, quello sulla c.d. ‘decrescita felice’, il cui principale esponente è Serge Latouche, fautore di un’economia frugale, rispettosa dei limiti ecologici, che coniughi il localismo con un modello anticrescista e conviviale.

«A questo punto il sistema non è più riformabile, dobbiamo uscire da questo paradigma e qual è questo paradigma? È il paradigma di una società di crescita. La nostra società è stata a poco a poco fagocitata dall’economia fondata sulla crescita, non la crescita per soddisfare i bisogni che sarebbe una cosa bella, ma la crescita per la crescita e questo naturalmente porta alla distruzione del pianeta perché una crescita infinita è incompatibile con un pianeta finito. […] Il nostro immaginario è stato colonizzato dall’economia, tutto è diventato economico». [x]

Le accuse più comuni rivolte ai sostenitori della ‘decrescita felice’ sono quella di anti-universalismo, di cedimento a posizioni anti-tecnologiche e perfino di romanticismo ‘primitivista’. Eppure, come confermato dallo stesso Oreste, gran parte della revisione dello stesso pensiero marxista aveva puntato a superare la sua visione ‘produttivista’ ed a contrapporre un ‘globalismo ecologico’ al tradizionale internazionalismo proletario.Come riferivo nel mio articolo precedente, inoltre, la stessa mozione sull’ecosocialismo approvata nel 2013 segnava una discontinuità con la visione tradizionale della sinistra marxista, coniugando l’anticapitalismo di fondo col pensiero ecologista e con una democrazia partecipativa.

«L’ecosocialismo, ossia la trasformazione sociale ed ecologica, si trova alla congiunzione dell’ecologia anti-capitalista con i movimenti di sinistra antiproduttivisti […] è una nuova sintesi per fronteggiare la doppia sfida delle crisi sociale ed ambientale- che hanno le stesse radici […] Esso implica il ricorso a radicalità concrete ed a misure che noi chiamiamo ‘pianificazione ecologica’, basata sulla redistribuzione delle ricchezze esistenti ed un sistema di produzione radicalmente differente, che tenga conto dei limiti ambientali, che si basi sul rigetto di ogni forma di dominazione ed oppressione, così come sulla sovranità popolare…». [xi]

Già negli anni ’40 del secolo scorso, il principale teorico del modello gandhiano, Joseph C. Kumarappa, aveva parlato di “economia della libertà” e di “economia della condivisione”, sottolineando fra l’altro il nesso fra un’economia predatoria e basata sul profitto e la conflittualità permanente, finalizzate al controllo oppressivo e violento delle risorse naturali.

«Le economie fondate sul petrolio e sul carbone portano a conflitti tra le nazioni perché questi combustibili sono limitati. […] La vera soluzione per i conflitti internazionali passa per l’autosufficienza economica, la riduzione degli standard di vita di alcune popolazioni e il riaggiustamento della vita di ogni nazione per permettere lo sviluppo delle altre…». [xii]

Ecosocialismo ed ecopacifismo per un’alternativa nonviolenta

Ovviamente l’incontro citato su “Ecosocialismo o barbarie” si è sviluppato seguendo la linea più ‘classica’ dell’ecosocialismo, e quindi in chiave prevalentemente collettivista ed internazionalista, pur aprendosi ad una globalità di stampo ecologista e ad una visione che superi il produttivismo classico. In tal senso, una recente lettura alternative è stata quella di Jason W. Moore, autore di “Antropocene o Capitalocene. Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria”, per la cui prefazione all’edizione italiana egli scriveva:                                                   

«L’Antropocene pone correttamente la questione del dualismo Natura/Società senza tuttavia poterla risolvere a favore di una nuova sintesi. Quest’ultima, a mio avviso, dipende da un ripensamento del capitalismo all’interno della rete della vita. È bene che sia ormai diffusissimo lo slogan “cambiare il sistema, non il clima”, ma bisogna fare attenzione al modo in cui pensiamo il sistema. […] L’argomento-Capitalocene, quindi, segnala una prospettiva diversa da quella comunemente in uso negli studi sul cambiamento ambientale globale […] Tale approccio contesta il materialismo volgare implicito in molti studi sul cambiamento ambientale globale, per il quale le idee, le culture e anche le rivoluzioni scientifiche sarebbero fenomeni derivati, di secondaria importanza – un problema che affligge le analisi sia radicali che tradizionali…». [xiii]

Un altro recente ed importante contributo all’apertura di un confronto a più voci sull’ecosocialismo è sicuramente quello di Michael Löwy, il sociologo brasiliano operante in Francia che nel 2001 ha scritto con Joel Kovel il Manifesto Ecosocialista, proprio per invitare ad un ‘dialogo’ che conducesse ad un auspicabile ‘internazionale ecosocialista’.

«Respingiamo tutti gli eufemismi o l’ammorbidimento propagandistico della brutalità di questo regime: tutto il greenwashing dei suoi costi ecologici, ogni mistificazione dei costi umani sotto il nome di democrazia e diritti umani […] Agendo sulla natura e sul suo equilibrio ecologico, il regime, con il suo imperativo di espandere costantemente la redditività, espone gli ecosistemi a inquinanti destabilizzanti, frammenta gli habitat che si sono evoluti nel corso di eoni per consentire il fiorire di organismi, dilapida risorse e riduce la sensuale vitalità della natura a la fredda interscambiabilità richiesta per l’accumulazione del capitale […] Crediamo che l’attuale sistema capitalista non possa regolare, né tanto meno superare, le crisi che ha messo in atto. Non può risolvere la crisi ecologica perché per farlo è necessario porre dei limiti all’accumulazione, un’opzione inaccettabile per un sistema basato sulla regola: cresci o muori! […] In sintesi, il sistema mondiale capitalista è storicamente in bancarotta. È diventato un impero incapace di adattarsi, il cui stesso gigantismo ne rivela la debolezza sottostante. È, nel linguaggio dell’ecologia, profondamente insostenibile e deve essere radicalmente cambiato, anzi sostituito, se deve esserci un futuro degno di essere vissuto […] Si tratta…di sviluppare la logica di una trasformazione sufficiente e necessaria dell’ordine attuale, e di iniziare a sviluppare i passi intermedi verso questo traguardo. Lo facciamo per pensare più profondamente a queste possibilità e, allo stesso tempo, iniziare il lavoro di riunire tutti coloro che la pensano allo stesso modo […] L’ecosocialismo…insiste…sulla ridefinizione sia del percorso che dell’obiettivo della produzione socialista in un quadro ecologico. Lo fa proprio nel rispetto dei “limiti alla crescita” essenziali per la sostenibilità della società. Questi sono abbracciati, tuttavia, non nel senso di imporre la scarsità, il disagio e la repressione. L’obiettivo, piuttosto, è una trasformazione dei bisogni, e un profondo spostamento verso la dimensione qualitativa e lontano da quella quantitativa». [xiv]

Esattamente venti anni dopo, egli ha confermato questa sua proposta in un articolo nel quale, nel ribadire la critica all’ossessione per la ‘crescita’ economica tipica del sistema capitalista, sottolinea anche come questo non soltanto esaspera il consumismo compulsivo e provoca inquinamento e devastazione ambientale, ma si ripercuote anche sulla corsa agli armamenti. Si tratta di una riflessione che, pur non esplicitamente, collega l’opzione ecosocialista a quella ecopacifista, dal momento che quel modello predatorio, energivoro ed iniquo di sviluppo deve necessariamente essere sostenuto e difeso dal braccio armato del complesso militare industriale. Come avevo puntualizzato alcuni anni fa:

«L’ecopacifismo non è una dottrina politica ma neanche una semplice strategia d’zione. Sullo sfondo della proposta ecopacifista, infatti, si delinea un ben preciso modello di convivenza e di sviluppo economico-sociale. La sua caratterizzazione ecosocialista, autogestionaria ed antimilitarista è riconducibile sia alla tradizione etico-religiosa dell’Ahimsa gandhiana, sia alla nonviolenza laica di pensatori come Capitini, sia anche alle proposte di pacifisti di matrice anticapitalista e terzomondista». [xv]

Parlare di ‘ecosocialismi’, quindi, per me è un modo per ricercare – secondo l’auspicio di Löwy – l’unità di azione di coloro che ritengono indispensabile il superamento del modello capitalista e la transizione ad una società più giusta, pacifica ed ecologica. Il rifiuto del profitto ad ogni costo, del consumismo sfrenato, dello sviluppo senza limiti e dello sfruttamento dell’uomo e della natura sono, a mio avviso, fondamentali elementi etico-politici in comune su cui bisogna costruire un’alternativa ecosocialista. Prima che sia troppo tardi per invertire la rotta e riprendere in mano il nostro futuro.

L’ecosocialismo per un “futuro rosso-verde”

In tale direzione sembra andare la sollecitazione dello stesso Michael Löwy, il quale – nell’articolo del 2021 cui facevo cenno – parlava già dal titolo di questo “Red-Green Future”.

«L’ecosocialismo offre un’alternativa radicale che mette al primo posto il benessere sociale ed ecologico. Tenendo conto dei legami tra sfruttamento del lavoro e sfruttamento dell’ambiente, l’ecosocialismo si oppone sia alla ‘ecologia di mercato’ riformista sia al ‘socialismo produttivista’. Abbracciando un nuovo modello di pianificazione solidamente democratica, la società può assumere il controllo dei mezzi di produzione e del proprio destino. Orari di lavoro più brevi e un focus sui bisogni autentici rispetto al consumismo possono facilitare l’elevazione dell’ ‘essere’ rispetto all’ ‘avere’ ed il raggiungimento di un più profondo senso di libertà per tutti. Per realizzare questa visione, tuttavia, ambientalisti e socialisti dovranno riconoscere la loro lotta comune e il modo in cui si collega al più ampio “movimento di movimenti” che cercano una Grande Transizione».[xvi]

La storia del movimento internazionale dei Verdi è costellata di buoni propositi ma anche di cedimenti e compromessi, che paradossalmente lo hanno caratterizzato proprio quando il suo peso è cresciuto all’interno di alcuni stati, rendendo però il suo contributo politico sempre meno radicale ed incisivo. Sarebbe d’altra parte poco lungimirante rinchiudere il discorso ecopacifista all’interno della cerchia della new wave dei partiti comunque riconducibili alla sinistra marxista, trascurando l’apporto dei movimenti ambientalisti e dei partiti esplicitamente ecologisti proprio quando, viceversa, sarebbe necessaria una nuova sinergia di taglio ecosocialista. Come ricordavo nel mio precedente contributo, infatti, non sono state poche le organizzazioni politiche che in questi decenni si sono dichiarate esplicitamente ecosocialiste, soprattutto in Spagna (Izquierda Unida, Esquerra Unida i Alternativa), in Portogallo (Os Verdes), in Francia (Les Alternatifs), in Germania (Die Linke) ed in Grecia (Syriza). Molte di esse non sono più operative o sono confluite in organizzazioni e reti più ampie, ma è innegabile il contributo che anche il movimento dei Verdi ha dato allo sviluppo d’un pensiero ecosocialista. Basti pensare al Manifesto dei Global Greens, la rete che a livello mondiale collega oltre 100 partiti, rappresentati da più di 400 parlamentari. I sei principi fondanti (o ‘pilastri’ comuni) dei Verdi globali riguardano infatti solo per metà l’ambiente in senso stretto (Sostenibilità, Rispetto della diversità, Saggezza ecologica), mentre l’altra metà attiene finalità esplicitamente socialiste e pacifiste (Democrazia partecipativa, Giustizia Sociale e Nonviolenza). Anche nella sua ultima revisione (2017), lo Statuto dei Verdi Globali così si esprime a proposito del ‘pilastro’ della giustizia sociale:

«Affermiamo che la chiave della giustizia sociale è l’equa distribuzione del sociale e del naturale risorse, sia a livello locale che globale, per soddisfare incondizionatamente i bisogni umani fondamentali e per garantire che tutti i cittadini abbiano piene opportunità di sviluppo personale e sociale. Dichiariamo che non c’è giustizia sociale senza giustizia ambientale e non c’è giustizia ambientale senza giustizia sociale. Questo richiede: una giusta organizzazione del mondo e un’economia mondiale stabile che arresti il crescente divario tra ricchi e poveri, sia all’interno che tra i paesi; un bilanciamento del flusso di risorse da Sud a Nord; l’alleviamento dell’onere del debito sui paesi poveri che impedisce il loro sviluppo; l’eliminazione della povertà, come imperativo etico, sociale, economico ed ecologico…» [xvii]

Ovviamente è molto difficile conciliare questi ambiziosi obiettivi – come anche quello della democrazia partecipativa e della nonviolenza – con la presenza dei partiti verdi più rilevanti all’interno di coalizioni di governo che perseguono programmi ben diversi, se non opposti. D’altra parte bisogna riconoscere che quelli del tutto minoritari – come nel caso dei Verdi italiani – hanno ancor meno possibilità di affermare tali principi e, per timore di perdere i già pochi consensi, sono riluttanti ad alleanze con una sinistra alternativa che, purtroppo, risulta in molte realtà altrettanto ininfluente e, in molti casi, piuttosto autoreferenziale. Resta comunque innegabile l’osservazione di Löwy sulla inconciliabilità dell’alternativa ecosocialista con un ambientalismo annacquato, adattato al sistema capitalista.

«Una politica ecologica che funzioni all’interno delle istituzioni e delle regole prevalenti della ‘economia di mercato’ non riuscirà a far fronte alle profonde sfide ambientali che ci attendono. Gli ambientalisti che non riconoscono come il ‘produttivismo’ scaturisca dalla logica del profitto sono destinati a fallire o, peggio, ad essere assorbiti dal sistema. Gli esempi abbondano. La mancanza di un coerente atteggiamento anticapitalista ha portato la maggior parte dei partiti verdi europei, in particolare in Francia, Germania, Italia e Belgio, a diventare semplici partner “eco-riformisti” nella gestione social-liberale del capitalismo da parte dei governi di centrosinistra». [xviii]

Che fare allora? La risposta è semplice, anche se oggettivamente difficile da mettere in pratica. C’è bisogno di un’alleanza strategica di tutti i movimenti che contrastino la logica capitalista e le sue terribili conseguenze sul piano del disastro ambientale, ma anche del crescente rischio di escalation dei conflitti armati e della sempre maggiore marginalità di enormi masse di un’umanità segnata dall’ingiustizia e dallo sfruttamento. Ciò significa un’apertura delle realtà socialiste che più hanno riflettuto su quest’alternativa al contributo di altri ‘ecosocialismi’’, da quello di matrice etico-religiosa (che soprattutto con papa Francesco sta assumendo connotazioni più esplicite sul terreno dell’impegno congiunto su giustizia, pace e salvaguardia del Creato) a quello ispirato dalla nonviolenza attiva dei movimenti pacifisti, comprendendo ovviamente quello che continua a provenire da organizzazioni ‘verdi’ che – come nel caso del Green Party degli Stati Uniti – in molti casi sono già alleate a livello locale con alcune realtà ecosocialiste [xix].

Un secondo obiettivo da perseguire ritengo che sia la saldatura tra ecosocialismo ed ecopacifismo, perché ogni ipotesi di sviluppo alternativo finalizzato a contrastare esclusivamente la crisi climatica non terrebbe in sufficiente conto il peso del complesso militare-industriale sulla devastazione ambientale e sul controllo delle risorse e del potere esercitato a livello globale. La stessa pandemia che ha afflitto l’umanità in questi anni, del resto, è un drammatico esempio di come l’attenzione generale sia stata strumentalmente spostata dal necessario e radicale cambiamento del rapporto uomo-ambiente su questioni apparentemente solo scientifiche, come quelle relative ad una medicina sempre più di emergenza e sempre meno di prevenzione sociale. Tutto ciò ha alimentato non soltanto il fideismo scientista nelle soluzioni ‘tecniche’ e nell’autorità indiscutibile di chi governa la sanità, ma ha suscitato di fatto anche un intollerabile controllo sulla popolazione di stampo autoritario e militarista.  

La via verso un’alternativa ecosocialista, insomma, è costellata di ostacoli e deviazioni, ma è l’unica da percorrere per impedire che la catastrofe ecologica – sia pure a livello globale – continui a colpire in primo luogo ed in misura maggiore proprio chi è già stato vittima dell’ingiustizia, dello sfruttamento e dell’oppressione. È una questione etica, ma proprio per questo profondamente politica.                                    


Note:

[i] Ermete FERRARO, “Ecosocialismo? Sì, grazie!”, Ermete’s Peacebook, (08.06.2014) >https://ermetespeacebook.blog/2014/06/08/ecosocialismo-si-grazie/

[ii] Vedi, ad es.: Arne NAESS, Dall’ecologia all’ecosofia, dalla scienza alla saggezza, in M. Ceruti, E. Laszlo (a cura di), Physis: abitare la terra, Feltrinelli, Milano 1988

[iii] Vedi, ad es.: Raymond WILLIAMS, Cultura e rivoluzione industriale, Torino, Einaudi, 1968

[iv] Vedi, ad es.: Herbert MARCUSE, Critica della società repressiva, Milano, Feltrinelli, 1968.  

[v] Donella H. MEADOWS, Dennis L. MEADOWS; Jørgen RANDERS; William W. BEHRENS III, The Limits to Growth, 1972. (trad. ital.: Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows; Jørgen Randers; William W. Behrens III, Rapporto sui limiti dello sviluppo, 1972)

[vi] Vedi, ad es.: Murray BOOKCHIN (1982), L’ecologia della libertà. Emergenza e dissoluzione della gerarchia, (trad. ital.: Milano, Elèuthera, 1986)

[vii] Murray BOOKCHIN, Per una società ecologica, Milano. Elèuthera, 1989, pp 185-187

[viii] Ibidem, p. 210

[ix]  Roberto MANCINI, Trasformare l’economia – Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche, Milano, Franco Angeli, 2014, p. 160. Vedi anche: Mohandas K. GANDHI, Teoria e pratica della Non Violenza (a cura e con un saggio introduttivo di Giuliano Pontara), Torino, Einaudi, 1975 e ss.

[x]  Cfr. Serge Latouche, cit. in https://it.wikiquote.org/wiki/Serge_Latouche#cite_note-gri-1

[xi] http://ecosocialisme.com/2013/12/17/motion-proposee-par-le-parti-de-gauche-fr-alliance-rouge-verte-dk-syriza-gr-bloco-port-die-linke-all-sur-les-questions-ecologiques/

[xii] Joseph C. KUMARAPPA (1947), cit. da Marinella Correggia in: J.C. Kumarappa, Economia di condivisione – Come uscire dalla crisi mondiale, Pisa, Centro Gandhi Edizioni, 2011 – Quad. Satyagraha n. 20, p. 183

[xiii] Jason W. MOORE, Antropocene o Capitalocene. Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria, Verona, Ombre Corte, 2017 (Prefazione all’ediz. italiana > https://www.dinamopress.it/news/lalternativa-antropocene-capitalocene-chiamare-sistema-suo-nome/

[xiv] Joel KOVEL – Michael LÖWY, An Ecosocialist Manifesto, Paris 2001 > http://environment-ecology.com/political-ecology/436-an-ecosocialist-manifesto.html  (trad. mia)

[xv] Ermete FERRARO, L’ulivo e il girasole – Manuale ecopacifista, Napoli, VAS-Verdi Ambiente Società, 2014 – citato in: Movimento Internazionale della Riconciliazione, La colomba e il ramoscello – Un progetto ecopacifista, Torino, Ed. Gruppo Abele, 2021, p. 81

[xvi] Michael LÖWY, Why Ecosocialism: For a Red-Green Future, dec. 2018 > https://greattransition.org/publication/why-ecosocialism-red-green-future#top (trad. mia)

[xvii] GLOBAL GREENS, Global Greens Charter (Liverpool 2017) > https://globalgreens.org/wp-content/uploads/2021/06/GlobalGreens_Charter_2017.pdf

[xviii]  Michael LÖWY, Why Ecosocialism: For a Red-Green Future, cit.

[xix]  Cfr. https://www.gp.org/ten_key_values  ed anche https://ecosocialists.dsausa.org/about-us/introduction/

© 2021  Ermete Ferraro

GOVERNISSIMO ME…

E così Draghi ce l’ha fatta. Tomo tomo, il Governatore per eccellenza è riuscito a mettere insieme tutto ed il contrario di tutto. Con la paterna benedizione del Presidente della Repubblica – e grazie alla genialata dell’ineffabile leader di Italia Viva e Vegeta – Draghi sta dando vita, appunto, al suo personale governissimo, con quasi tutti dentro. C’è chi lo ha chiamato di ‘salvezza nazionale’, anche se non è chiaro da chi o cosa dovrebbero salvare la nostra amata nazione tutti i partiti presenti in parlamento, che ora si affollano in maggioranza, eccezion fatta, paradossalmente, per i nazionalisti di Fratelli d’Italia. Erano mesi che ci sentivamo raccomandare che per sconfiggere il maledetto virus bisogna in primo luogo evitare gli assembramenti. Eppure a non mantenere auspicabili distanze di sicurezza e ad assembrarsi indecorosamente come ‘minions’ plaudenti, sono stati proprio quei politici che dovevano darci l’esempio…

La seconda regola anti-Covid era quella d’indossare la mascherina. In questo caso, però, non possiamo rimproverare nulla alla nostra classe politica. Bisogna ammettere che tutti quelli che hanno partecipato alle consultazioni hanno accuratamente celato il loro vero volto dietro la maschera sterile della ‘responsabilità’, facendo a gara ad esaltare la statura da statista del premier del governissimo ‘di salute pubblica’. Tutti allineati e coperti, da Salvini ai residui di quella che una volta si chiamava sinistra, rigorosamente in abito scuro e mascherina patriottica, con sovrano sprezzo del pericolo di smentirsi clamorosamente, confidando forse nella smemoratezza di quel ‘popolo’ di cui pur si riempiono la bocca.

Le norme anti-pandemia prescrivono di lavarsi le mani frequentemente. Ma, anche in questo caso, non possiamo imputare nulla ai nostri rappresentanti in parlamento, dal momento che quasi tutti se ne sono ampiamente lavate le mani. Tanto, a risolvere i nostri problemi, vecchi e nuovi, penserà comunque il prodigioso ‘Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza’. Anche se qualsiasi coperta, si sa, non può essere tirata da tutte le parti, senza finire per scoprire qualcuno. E poi non dimentichiamo che c’è pure il MES, sulla cui prossima e indispensabile venuta ogni giorno profetizzano i MESsia di turno, gridando nel deserto di qualsiasi opposizione, o quanto meno dubbio, sulla sua effettiva provvidenzialità.

E intanto Draghi, sornione eppure accattivantissimo verso gli interlocutori, si prepara a varare il suo esecutivo, lasciando intendere che decide solo lui nomi e ruoli al suo interno, mescolando tecnocrati e teste d’uovo con esponenti politici. Ovviamente qualche contentino, il professor Governissimo me, doveva pur concederlo alla folla di partiti acclamanti alle sue porte, che agitava ramoscelli d’ulivo o, nel caso di Renzi, di palma made in Arabia. Uno dei più clamorosi premi di consolazione graziosamente concessi dal premier è stata l’istituzione del ‘Ministero della Transizione Ecologica’, che ha magicamente sbloccato le resistenze del grillo straparlante e dei suoi seguaci, che hanno gridato al miracolo. Beh, se si tiene conto che a concedere questo preteso ‘presidio ambientalista’ è stato uno dei più potenti esponenti di quella economia capitalista che ha massacrato e sta ancora massacrando l’ambiente, se non di un miracolo si tratta quanto meno di qualcosa di sorprendente…

Peccato che quella stessa operazione, nella Francia macroniana abbia fatto clamorosamente fiasco, mostrandosi per quello che era: una foglia (verde, ok) posta pudicamente sopra le vergogne di uno sviluppo predatorio e di una crescita irresponsabilmente illimitata. Più che altro una penosa ‘transazione ecologica’, che può accontentare gli ambientalisti da salotto e gli im-prenditori del greenwashing, ma che non ha proprio nulla della ‘transizione’ verso un modello di sviluppo alternativo. Cosa ancora più evidente se si considera che non esiste conversione ecologica che non comprenda anche una riconversione delle spese militari in investimenti civili per risanare l’ambiente, anche per difenderlo dai suoi veri nemici: lo sfruttamento delle risorse e delle persone e la devastazione provocata dalle guerre e dalla loro folle preparazione.

Ma Supermario sa bene che cosa può concedere e cosa no. Tracciando il perimetro della sua ingombrante maggioranza e qualificandola come ‘europeista’ ed ‘atlantista’ non ha certamente parlato a caso. L’Europa carolingia che non si smentisce mai (si tratti di migranti o di esportazione di armi), sta infatti perseguendo da molti anni la visione di una ‘difesa comune’, che però non sarebbe affatto sostitutiva dei lacci onerosi che ci vincolano alla NATO, ma addirittura aggiuntiva ed integrativa dell’indiscutibile patto atlantico. In piena pandemia, ad esempio, la Germania della nostra cara Angela nel 2021 spenderà nel settore della difesa ben 53 miliardi, ossia il 3% in più dell’anno precedente. Come se il Covid si contrastasse con missili e carrarmati.

A dire il vero, anche in Italia una bella fetta del PNRR (un piano che, più che la ripresa dopo una crisi insita nell’anglicismo ‘Recovery’, sembra evocare i ‘ricoveri’ di bellica memoria…) sarà destinata – ma evitando discretamente di nominarla – proprio ad investimenti nel settore della difesa. Si tratta di 236 milioni che si aggiungono al già previsto stanziamento per il periodo 2021-2017 di oltre un miliardo e mezzo. E questo in un Paese che già spende per le forze armate più di 26 miliardi del proprio bilancio ed impegna 5.560 nostri ‘missionari armati’ in ben 34 operazioni internazionali. Peccato che di questo i media nostrani preferiscono non parlare, impegnati come sono ad elogiare Mario Draghi e il suo ‘governissimo me’.

(C) 2021, Ermete Ferraro

Fenomenologia della ‘Coke-Revolution’

“Bevi la coca cola che ti fa bene
Bevi la coca cola che ti fa digerire
Con tutte quelle, tutte quelle bollicine

Coca cola sì coca cola, a me mi fa morire
Coca cola sì coca cola, a me mi fa impazzire
Con tutte quelle tutte quelle bollicine”

VASCO ROSSI (“Bollicine”, 1983)

1. Sorprendente. Ma, a ben pensarci, neppure tanto.

È da tempo ormai che abbiamo smesso di meravigliarci di fronte a messaggi pubblicitari che ci presentano potenti multinazionali come organizzazioni alternative, quasi rivoluzionarie, impegnate a diffondere nei confronti di noi semplici mortali il verbo del cambiamento. Siamo ancora una volta di fronte al solito gioco delle parti, in questo caso invertite, in base al quale proprio coloro i quali finora hanno pesantemente condizionato i nostri consumi ed il nostro attuale stile di vita paradossalmente adesso si ergono a paladini d’un profondo cambio di paradigma. Mi riferisco alla campagna mediatica post-Covid che la potentissima Coca-Cola Company ha lanciato in  quasi tutti i paesi del mondo, affidando il suo messaggio alla voce ed al volto di un noto artista –  il rapper anglo-ugandese George Mpanga – alias George the Poet – il cui testo per il video, accompagnato da immagini efficaci e suadenti, si rivolge direttamente a ciascuno di noi, ricordandoci i veri valori ed impegnandoci a pensare e ad agire, ora, #ComeMaiPrima.  In effetti, mi sembra che la versione italiana dello stesso slogan abbia aggiunto ulteriore ambiguità a quella di fondo, espungendo l’aggettivo fondamentale del messaggio originale, il cui hashtag è infatti: #OpenLikeNeverBefore. La versione nostrana insiste sul concetto di novità, ma sottolineando il ruolo promotore dell’azienda (“Ci sarò /Ci saremo, Come Mai Prima”), mentre il claim della campagna originaria veicolava due concetti, apparentemente opposti. Il primo, racchiuso nell’aggettivo “open”, allude all’auspicata riapertura delle attività sociali ed economiche dopo la chiusura generale imposta dalla pandemia, evocando una loro ripresa che riavvii in qualche modo la situazione precedente. L’espressione “come mai prima” (“like never before”), viceversa, lancia un messaggio alternativo, improntato sì al cambiamento, ma auspicando un processo di “apertura” di tipo mentale, e quindi d’inversione rispetto alla consueta ‘normalità’.

«“Aperto Come Mai Prima” è fondato sul convincimento che non dobbiamo ‘tornare’ alla normalità. Piuttosto, possiamo tutti andare avanti e rendere il mondo non soltanto differente, ma migliore – dice Walter Susini, Vicepresidente del marketing della Coca-Cola Europa, Medio Oriente ed Africa (EMEA) – Nel momento in cui andiamo oltre la quarantena, stiamo celebrando non solo la riapertura fisica dei nostri stimati clienti, ma anche la riapertura della nostra mentalità collettiva. Noi vediamo la crisi come un’opportunità per essere più aperti e più empatici». [i]

Insomma, dopo la pandemia dovremmo evitare di fare un passo indietro, per ‘tornare’ a ciò che c’era prima. Il cuore del messaggio, invece, è che bisogna andare ‘avanti’, perché è così che si ‘migliora’ la vita, utilizzando le esperienze negative e la tremenda crisi sanitaria come stimolo a diventare più “aperti ed empatici”. Le espressioni ‘avanti’ e ‘oltre’, insomma, suggeriscono il superamento dei vecchi parametri ed un cambiamento abbastanza radicale, quasi un’evangelica ‘metànoia’, che dovrebbe indurre l’umanità tutta verso altri e più positivi valori. Tutto bene allora? Beh, andrebbe anche bene se a pronunciare queste parole ed a promuovere questo messaggio non fosse proprio la multinazionale che da 130 anni sta “rinfrescando il mondo”, vendendo centinaia di tipi di bevande, generalmente gassate, in 200 paesi e raggiungendo così un fatturato di circa 40 miliardi di dollari. Ma quale sarebbe il contenuto di questa ‘rivelazione’? Qual è esattamente il ‘verbo’ che la Coca-Cola vuole trasmetterci mediante i versi di un rapper, opportunamente trasformati in slogan pubblicitari?

2. Il testo originale in lingua inglese era un po’ diverso.

Composto e recitato da George the Poet coincide parzialmente con quello della versione italiana. Non intendo lanciarmi in un commento filologico, ma le ‘varianti’ hanno un peso nell’analisi testuale. Abbiamo già visto come perfino il titolo del ‘poem’ del rapper anglo-ugandese abbia subito una mutilazione, essendo stato cassato l’aggettivo ‘open’, che invece è un po’ la chiave di lettura del brano. Fatto sta che le versioni diffuse in Italia in realtà sono due e coincidono solo in parte. Mettiamole a confronto, precisando che nella versione più breve mancano parecchi versi, mentre ce ne sono altri (tra parentesi quadre e in grassetto) che risultano differenti o addirittura assenti in quella più lunga.

Aspetta.  [Aspetta, fermati.]   /   Chi ha detto che dobbiamo tornare alla normalità? [ tornare come prima.] / [E se la nuova normalità fosse diversa da quella a cui eravamo abituati?] / E se il più grande cambiamento fossimo tu ed io? / E se scegliessimo di aprirci al nuovo e dire: /Non dirò più che il mio lavoro è poco importante / Non dirò mai più che gli insegnanti hanno troppe vacanze / O che odio la scuola e che non vedo l’ora di finirla / E se sorridessi un po’? /Se viaggiassi meno ma apprezzassi ogni passo? / E se credessi di poter cambiare le cose con la mia cucina?  O con la mia musica? / E se facessi di tutto per non sentirmi un estraneo nella mia casa. / E se invece di farmi guidare, inseguissi i miei sogni? / E se ci fossi ogni volta che hai bisogno di un amico? / Farò valere ogni mia parola / Farò contare il mio voto, farò ascoltare la mia voce / Non dimenticherò mai che insieme siamo più forti / Lo porterò nel mio cuore per sempre / Lo abbiamo fatto [Ce l’abbiamo fatta!] / Abbiamo attraversato la tempesta / [Per questo sarò umile, felice, coraggioso, sincero, consapevole.] / Per questo ci saremo [Ci sarò] / Come mai prima. [#ComeMaiPrima].   [ii]    

«CI SAREMO COME MAI PRIMA”: COCA‑COLA PER LA RIPARTENZA […] Un messaggio positivo, un inno a guardare il mondo con occhi diversi dopo l’emergenza COVID-19. Con un lancio congiunto a livello europeo, Coca-Cola torna a comunicare con la campagna “Ci Saremo come mai prima”. Un invito ad apprezzare da una nuova prospettiva tutto ciò che abbiamo intorno a noi, trovando un’opportunità in questa “nuova normalità”. Realizzata da 72andSunny Amsterdam, la nuova campagna segna un momento di cambiamento culturale e sociale…». [iii]

Da notare che si parla di ‘ripartenza’, utilizzando un termine piuttosto comune del linguaggio politico italiano, ma banalizzando un messaggio che ambirebbe ad essere alternativo. Del resto lo stesso slogan – con una sottile operazione di orwelliano ‘bispensiero’ – mutua, capovolgendolo, quello affiorato da più parti come reazione ad una pretesa ‘normalità’ che gran parte dei guasti del nostro mondo – ambientali, socio-economici e sanitari – li ha in effetti provocati. Una cosa, infatti, è dichiarare più radicalmente: “Mai come prima”, sottolineando come la pur devastante pandemia possa e debba rivelarsi occasione per un cambiamento profondo, avendo messo in luce l’assurdità e l’iniquità del nostro modello di sviluppo.  Ben diverso, invece, è proclamare: “Mai come prima”, evocando vaghi scenari di cambiamento ‘in meglio’ ed auspicando un’imprecisata ‘diversità’, da trasformare poi in “nuova normalità”. Uno dei versi inglesi eliminati (“Per questo sarò umile, felice, coraggioso, sincero, consapevole”), però, se non altro lascia intendere in che direzione dovrebbe avviarsi tale cambiamento, che potrebbe renderci maggiormente disponibili ed ‘aperti’ al nuovo.

3. La versione italiana ha espunto molte frasi del testo di George Mpanga:

And we can’t just do what we’d formerly do. / What if I don’t wait for another crisis to embrace the love that I’ve missed? / My ears are not my earphones. What if I listen. /What if I’m missing how bright your eyes glisten. / (What if) I just smile a bit. Travel less and love every mile of it. / And what if I don’t dance, but just for you I might give in to the rhythm soon. / And I’ll learn my lesson from a bad memory, / and I’ll keep social distance from bad energy / And I’ll prove that funny beats sexy any day. / But I’m still cute, anyway. / What if my dreams never take the backseat again, / What if I’m there whenever you need a friend./ What if I celebrate my skin, my hair, my body, every day! Even Mondays. / I won’t waste another minute without you. / I’ll read you the poems that I’ve written about you. / So many come to mind. / I’ll move forward, without leaving anyone behind. / I’ll lead, like a woman / I’ll never say this city has too many tourists again. / I’ll have a family of dozens./ Give my little nephews and nieces some cousins. / I’ll stay right beside you. /I’ll say Yes, Yes, Yes, I do. / So I’ll be (humble, happy, brave, honest, mindful and) /OPEN LIKE NEVER BEFORE.

Già esaminando il testo italiano prima citato, in ogni caso, emergono interessanti spunti di analisi di quella proposta ‘alternativa’, che mi sembra opportuno sottolineare:

  • Appello ad un nuovo protagonismo (“E se il più grande cambiamento fossimo tu ed io?”)
  • Rivalutazione del lavoro, quello proprio (“Non dirò più che il mio lavoro è poco importante”) ma anche quello, spesso sottovalutato, degli altri (“Non dirò mai più che gli insegnanti hanno troppe vacanze”)
  • Invito all’ottimismo ed alla speranza (“E se sorridessi un po’? Se viaggiassi meno ma apprezzassi ogni passo? E se credessi di poter cambiare le cose con la mia cucina?  O con la mia musica?”);
  • Proposta di riappropriarsi della quotidianità domestica (“E se facessi di tutto per non sentirmi un estraneo nella mia casa?”)
  • Richiamo ad impegnarsi di più, con un atteggiamento proattivo (“E se invece di farmi guidare, inseguissi i miei sogni? […] Farò valere ogni mia parola. Farò contare il mio voto, farò ascoltare la mia voce”)
  • Esortazione a perseguire la cooperazione (“Non dimenticherò mai che insieme siamo più forti”) perché è solo così è possibile “attraversare la tempesta
  • Invito a modificare il proprio atteggiamento (“Per questo sarò umile, felice, coraggioso, sincero, consapevole”), mescolando però valori (umiltà, coraggio, sincerità) uno stato d’animo (la felicità) ed una condizione mentale (consapevolezza).

Niente male davvero, se questo innovativo messaggio non servisse principalmente a veicolare il rilancio ed il cambiamento d’immagine di un’azienda multinazionale che – secondo Greenpeace –  è stata fra i principali inquinatori dell’ambiente, considerando che nel solo 2016 ha prodotto più di 100 miliardi di bottiglie di plastica, in larghissima parte non riciclata; che consuma annualmente più di 300 miliardi di litri d’acqua, e che, infine, sfrutta massivamente tale risorsa fondamentale anche per coltivare la canna da zucchero, di cui è il maggiore consumatore mondiale. [iv]

4. Aggiungiamo le parti mancanti alla lodevole – ma ipocrita – sfilza d’intenzioni e d’impegni

Le parti del testo di George the Poet che non compaiono nella versione italiana, infatti, rendono ancora più chiaro il senso del messaggio di questa pretestuosa Coke-Revolution.

  • Richiamo a non sprecare l’occasione di recuperare il bene perduto (“E se non spettassimo un’altra crisi per abbracciare l’amore che abbiamo perso?”)
  • Rivalutazione di uno stile di vita più naturale e spontaneo (“Le mie orecchie non sono i miei auricolari. E se ascoltassi? Se solo sorridessi un po’? Se viaggiassi di meno ma apprezzassi ogni chilometro?”)
  • Assunzione di una serie d’impegni, per cambiare facendo tesoro della presente esperienza (“Imparerò la lezione da un doloroso ricordo, manterrò un distanziamento sociale pur partendo da una cattiva energia…”)
  •  Auspicio di un’esistenza alimentata da aspirazioni, slanci solidali ed apprezzamento per sé e per gli altri (“E se i miei sogni non trovassero più posto nel sedile posteriore? E se fossi lì ogni volta che hai bisogno d’un amico? E se celebrassi la mia pelle, i miei capelli, il mio corpo, ogni giorno. Anche il lunedì? Non sprecherò un altro minuto senza te […] Andrò avanti, ma senza lasciare nessuno indietro […] Avrò una famiglia numerosa […] Starò proprio accanto a te…”).

Insomma, dal ‘claim’ pubblicitario della Coca-Cola – espresso opportunamente con toni poetici e quasi profetici – emergerebbe una visione alternativa della società, in cui ogni persona sarà più consapevole, saprà apprezzarsi e autorealizzarsi, ma al tempo stesso sarà anche attenta ai bisogni degli altri, mostrandosi più solidale e collaborativa.

Il guaio è che il pubblico la Coca-Cola Company ha rivolto questo vibrante appello – milioni di clienti, prevalentemente giovani, che in tutto il mondo consumano massivamente le sue bibite, consentendole di fatturare circa 40 miliardi di dollari all’anno – non mi sembra davvero il più ricettivo in tal senso. Sorge quindi il legittimo sospetto che, utilizzando il titolo d’un vecchio film di Carlo Vanzina, l’unico commento da fare sia è: “Sotto il vestito niente”. Quale coerenza potrebbe esserci, infatti, tra il modello di chi da 130 anni produce e diffonde ovunque bevande gassate ed iperglicemiche, con slogan pubblicitari diventati quasi simbolo del consumismo, e l’attuale, accattivante, proposta di cambiamento del nostro modello di società e del nostro stile di vita?

Dopo gli slogan ormai storici’ (come“Deliziosa e rinfrescante” nel 1886, “Ridà slancio e sostiene” nel 1890, “La pausa che rinfresca” nel 1929), è dagli anni ’60 che cominciarono a comparire messaggi e più insinuanti, globali e visionari, tipo: “Tutto è meglio con Coca-Cola” nel 1963,  “Vorrei comprare una Coca al mondo” nel 1971, “La Coca aggiunge vita” nel 1976, “La vita ha un buon sapore” nel 2001, “Rendilo reale” nel 2003, “Il lato Coca della vita” nel 2007 ed “Aperta felicità” nel 2009. [v]

La verità è che – in base ai dati diffusi dall’Oxfam – la Coca-Cola è andata costantemente in tutt’altra direzione, figurando all’ottavo fra le dieci multinazionali che avrebbero comunque fatto qualche sforzo, dal 2013 al 2016, per diventare un po’ più eque ed ecologicamente sostenibili. [vi] Per la precisione, essa ha migliorato un po’ il suo impatto sulla terra (voto: 8), nei confronti delle donne, dei lavoratori e della risorsa acqua (6), ma sfrutta ancora la manodopera, restando purtroppo ancora molto indietro nel rispetto dei coltivatori (3) e della trasparenza aziendale (5). [vii] Dove sarebbe allora la dichiarata rivalutazione del lavoro, della naturalità e della solidarietà dietro il propagandistico vestito della sedicente Coke-Revolution?

5. Qualche osservazione finale e riflessione critica.

Oltre che sul tale mistificante messaggio, qualche osservazione andrebbe fatta anche sulla debolezza delle realtà effettivamente alternative – impegnate nel sociale, religiose, ambientaliste e pacifiste – che in questo difficile periodo hanno pur cercato di far sentire la loro voce, per affermare la necessità di un vero e profondo cambiamento. Mentre perfino colossi multinazionali come la Nestlé (93,4 miliardi di dollari, 42° posto in classifica) o la PepsiCo (65 miliardi di dollari, 86° posto) [viii] continuano impudentemente a blaterare di ‘sicurezza alimentare’, ‘cittadinanza globale’ e ‘sostenibilità ambientale’, in quanti hanno davvero raccolto il messaggio di tanti movimenti, associazioni ed organizzazioni non governative? Un messaggio che esse tentano con difficoltà di diffondere, improntato a valori anti-capitalistici come il rispetto del lavoro umano, la redistribuzione della ricchezza, la conversione ecologica, la decrescita felice, il rifiuto del consumismo, l’impegno per fonti energetiche pulite e rinnovabili, la liberazione dalla dittatura della finanza, l’alimentazione sana e la salvaguardia della biodiversità naturale.

Quanti sono stati effettivamente raggiunti ed influenzati dalle profonde riflessioni che – anche in ambito pacifista – hanno esortato a coniugare il contrasto del riscaldamento globale (in parte causa anche del diffondersi di devastanti pandemie), con un modello di società più giusto, decentrato, disarmato e nonviolento? [ix]  Temo che siano stati molti meno di quanti hanno apprezzato la…effervescente campagna pubblicitaria #ComeMaiPrima, illudendosi che basti guardare il video ‘visionario’ di un rapper, o che far propri alcuni slogan di sapore vagamente alternativo possa cambiare questo mondo, dominato dalla logica predatoria e violenta di un capitalismo sempre più sfrenato e senza limiti.

Quello che possiamo e dobbiamo fare, intanto, è demistificare questi messaggi pseudo-alternativi, riconducendoli alla loro natura di bollicine frizzanti ma vuote e neppure del tutto innocue. Se vogliamo fare della grave crisi sanitaria provocata dalla pandemia di Covid-19 un’occasione per cambiare davvero questa realtà, il vero slogan da adottare resta quindi: #MaiPiùComePrima, non certamente l’ambiguo #ComeMaiPrima della Coke.  Se non altro per dimostrare che non ci lasciamo incantare dalle belle parole e che a noi, la Coca-Cola…non ce la darà più a bere.  


Note

[i] https://www.coca-colacompany.com/news/coca-cola-embraces-better-normal-supports-restaurants-and-hotels-with-open-like-never-before

[ii] Guarda il video ufficiale >  https://www.youtube.com/watch?v=SukwNeHMMhQ , ma anche l’articolo di lancio sul sito di Coca-Cola Italia > https://www.coca-colaitalia.it/brands/coca-cola/open-like-never-before 

[iii] https://www.coca-colaitalia.it/brands/coca-cola/open-like-never-before

[iv] “Plastica: le colpe della Coca-Cola” > https://www.riusa.eu/it/notizie/2017-plastica-colpe-cocacola.html

[v] Cfr. “Gli slogan Coca-Cola nel corso degli anni” > https://www.coca-colaitalia.it/il-nostro-mondo/pubblicita/slogan  e “Storia degli slogan pubblicitari Coca-Cola” > http://3.227.206.37/storie/storia-degli-slogan-pubblicitari-coca-cola/

[vi] “Coca Cola, Nestlé, Danone: ecco le 10 multinazionali che inquinano di più il Pianeta” > http://www.blueplanetheart.it/2017/02/coca-cola-nestle-danone-eccole-10-multinazionali-che-inquinano-di-piu-il-pianeta-video/

[vii] Vedi la scheda sulla Coca-Cola in: Oxfam, “Behind The Brands” > http://www.behindthebrands.org/brands/coca-cola/coca-cola/

[viii] Forbes.it, “Le 100 aziende quotate più grandi del mondo” > https://forbes.it/classifica/classifica-forbes-100-piu-grandi-aziende-quotate-in-borsa-nel-mondo/

[ix] A tal proposito, v.  anche: La nonviolenza al tempo del coronavirus, a cura di Maria Elena Bertoli, Pisa, Centro Gandhi Edizioni, 2020 (quaderno Satyagraha n. 37), con vari contributi fra cui: Ermete Ferraro, Lessico virale. Voltiamo pagina. Se non ora Q.U.A.N.D.O.? (pp. 61-87)


© 2020 Ermete Ferraro

Presidiare l'emergenza?

Che cosa emerge dall’emergenza?

L’emergenza sanitaria economica e sociale innescata dalla tremenda epidemia di coronavirus sta provocando ‘effetti collaterali’ di cui sarebbe grave non tener conto. Tra le conseguenze della progressiva paralisi dell’ordinarietà nel nostro Paese ci sono quelle di cui i media ci parlano incessantemente, che vanno dalle situazioni derivanti dalla forzata inerzia di interi nuclei familiari bloccati in casa, alle difficoltà quotidiane riguardanti le fasce deboli (anziani, bambini, disabili), ma anche ai crescenti problemi economici per famiglie monoreddito o dipendenti da lavori precari.  Si parla molto della pesante crisi economica che l’arresto delle attività produttive sta innescando ma, sia pur timidamente, si sta facendo strada anche qualche riflessione sugli effetti distorcenti che un perdurante clima emergenziale potrebbe avere sulla stessa democrazia.

La stragrande maggioranza dei commentatori, ma anche dei partecipanti alle interminabili chat dilaganti sul web e sul social, sono però concentrati sulle questioni igienico-sanitarie. Si discute particolarmente sui modi per fronteggiare i rischi di contagio, oppure di quelli di alienazione per il troppo repentino cambiamento delle abitudini quotidiane, caratterizzato dalla relazionalità capovolta di una vita improvvisamente concentrata sul dimenticato binomio casa-famiglia. C’è poi chi si preoccupa che il regime emergenziale sta limitando drasticamente i consumi – contraddicendo le abituali esortazioni a rincorrere la ‘crescita’ – e chi invece, più prosaicamente, vede a rischio consumi voluttuari che creano per di più dipendenza, come alcolici, sigarette, stupefacenti e giochi d’azzardo.

C’è un aspetto, però, al quale organi d’informazione e ‘forzati della tastiera’ non sembrano dare peso o, viceversa, sul quale si esprimono in modo insistente. Mi riferisco all’utilizzo delle forze armate in situazioni di emergenza, con funzioni estranee alla loro mission originaria, come quelle di protezione civile e di pubblica sicurezza. Tale subdola ma persistente tendenza a militarizzare la società va dall’ingombrante intervento di esponenti delle forze armate nelle istituzioni scolastiche al loro quasi abituale intervento per sciagure e catastrofi naturali o con funzione di monitoraggio ambientale del territorio. Ben pochi italiani ne sono davvero consapevoli e comunque pochi ne sembrano preoccupati, preferendo considerare i soldati, piazzati con mimetiche e mitra lungo le strade o davanti a monumenti e chiese, una rassicurante presenza protettiva.

Del resto, presidenti di regione e sindaci – con sconcertante spirito bipartisan – da tempo stanno invocando l’utilizzo delle forze armate per far rispettare ordinanze e decreti emanati e per reprimere le violazioni di tali provvedimenti restrittivi. Dal Lombardo-Veneto alla Sicilia, passando per Campania e Puglia, si sono alzate le voci di chi auspicava più soldati per le nostre strade ed il Governo – per nulla “insensibile a questo grido di dolore” – ha effettivamente deciso in tal senso, anche se in modo un po’ pasticciato.

«Cosa dovranno fare i soldati per le strade di Roma è tuttora un rebus. Come anche quali reparti saranno impiegati e se dovranno arrivare rinforzi da altre province per assicurare il controllo del territorio nella Capitale […] rimane tuttora da capire se sarà effettivamente richiesta […] la presenza degli uomini e delle donne dell’Esercito al fianco delle forze dell’ordine anche nelle verifiche quotidiane sugli spostamenti giustificati o meno dei cittadini per l’emergenza coronavirus. […] Prima di tutto perché i soldati non potrebbero denunciare chi esce di casa senza comprovato motivo, ma dovrebbero limitarsi a identificarlo, per poi richiedere l’intervento di una pattuglia di polizia, carabinieri, vigili urbani o Guardia di Finanza per poter completare la procedura.». [i]

Regole d’ingaggio e/o regole democratiche

L’insistenza con la quale amministratori, esponenti politici e semplici cittadini hanno sollecitato l’intervento dei militari per la repressione di chi infrange i divieti imposti dallo stato di emergenza è parzialmente giustificabile con la crescente preoccupazione per le gravi conseguenze di tali inadempienze per la salute pubblica.  Un effetto collaterale del clima ansiogeno scatenato dalla reclusione forzata e dall’angoscia per le troppe vittime del virus, infatti, è stato l’aumento della diffidenza reciproca, con l’affiorare di latenti istinti aggressivi e repressivi. Dalle truculente esternazioni di ‘governatori’ alle pesanti invettive sui social non emerge solo la richiesta di far rispettare le regole, ma spesso anche un’esplosione di violenza, per ora solo verbale, verso chi non si rassegna a sottomettersi alle disposizioni restrittive. Talvolta assistiamo effettivamente a pericolose trasgressioni, comportamenti irresponsabili ed atteggiamenti di sfida delle norme di sicurezza. Però non dovrebbe sfuggire a nessuna persona con normale spirito di osservazione che tali episodi si verificano di solito in aree cittadine popolari, degradate e da sempre abbandonate a se stesse. Non dovrebbe sfuggirci neppure che sta paurosamente crescendo, e non certo da oggi, il numero dei disoccupati, degli occupati in forma precaria, dei senza fissa dimora, dei nuclei familiari costretti a convivere in condizioni del tutto inadeguate e degli immigrati che utilizzano depositi e scantinati come abitazioni Tutti soggetti cui ripetere “restate a casa” sicuramente non basta. Sappiamo poi che spesso i quartieri popolari delle nostre metropoli sono lasciati in preda all’anarchia; che certi rioni sono notoriamente off limits per le forze dell’ordine e che la situazione di alcune periferie urbane era già esplosiva.  Ma è più facile auspicare sprangate, fustigazioni, fucilazioni e stragi con lanciafiamme o col napalm, come mi è capitato di leggere tra i commenti postati su un’insospettabile pagina facebook…

L’impiego dei soldati per garantirci ‘law and order’, oltre a non suscitare reazioni allergiche sul piano democratico, è spesso considerato la vera soluzione per far rispettare la legge. Ma le cose – pur prescindendo da considerazioni di opportunità e di legittimità – stanno diversamente. Come sottolineava l’articolo citato, l’utilizzo delle forze armate con compiti di polizia non è affatto scontato e comunque dipende dalle ‘regole d’ingaggio’ stabilite per tali ‘missioni’. Quella più nota è iniziata quasi dodici anni fa ed è tuttora operativa. Secondo fonti ufficiali:

«Attualmente, risultano impiegati per l’Operazione “Strade Sicure” 7.050 donne e uomini dell’Esercito Italiano, che garantiscono una presenza capillare sul territorio nazionale contribuendo fattivamente alla realizzazione di un ambiente più sicuro. Tra gli obiettivi vigilati nell’ambito dell’Operazione rientrano siti istituzionali, luoghi artistici, siti diplomatici, porti, aeroporti, stazioni ferroviarie e della metropolitana, luoghi di culto e siti di interesse religioso, valichi di frontiera…». [ii] 

Un problema evidenziato nell’articolo è che le regole d’ingaggio per i militari impegnati in questo tipo di operazioni non li equiparano affatto ad agenti di polizia e carabinieri, che infatti spesso li affiancano. Come d’altronde precisava un documento dello stesso Ministero della Difesa:

«Al personale della Forze Armate, non appartenente all’Arma dei Carabinieri, è attribuita la qualifica di Agente di Pubblica Sicurezza, con esclusione delle funzioni di Polizia giudiziaria». [iii] 

Ciò significa che esso può fermare, identificare e nel caso denunciare, ma non arrestare chi commette un reato. Inoltre, la nostra stessa esperienza c’insegna che i contingenti militari impiegati si limitano spesso ad un presidio armato fisso accanto ai loro mezzi blindati, ma di solito non effettuano un pattugliamento attivo. La loro presenza, insomma, appare un inutile spauracchio, ma non certo un’efficace soluzione per fronteggiare le trasgressioni che tanto ci allarmano.

Se 23.000 ‘sorveglianti’ vi sembran pochi…

Uno dei più esagitati propugnatori della presenza dell’esercito con funzioni di controllo in occasione dell’attuale emergenza sanitaria, è stato il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Egli, infatti, non si è limitato a chiedere un rinforzo dei normali controlli di polizia, ma ha auspicato esplicitamente soluzioni drastiche e straordinarie:

«È arrivato il momento per chiudere tutto e militarizzare l’Italia […] Abbiamo chiesto l’invio di forze armate. Abbiamo avuto un primo risultato, 100 unità. Ancora poche. […] È indispensabile il controllo militare, con poteri eccezionali alle forze dell’ordine…» [iv]

Altri ‘governatori’ e sindaci – da regioni settentrionali alla Sicilia – hanno avanzato richieste simili, evitando almeno d’invocare lo stato di guerra, benché questa parola sia riecheggiata più volte – sia pur come metafora – per caratterizzare l’attuale emergenza sanitaria. Come scrive A. Leiss:

Ci siamo precipitati a definire la pandemia del coronavirus come una guerra, con i vocaboli derivati – la linea del fronte, gli eroi che rischiano la vita, l’esigenza di una disciplina di ferro, di un comando unico e di sanzioni severe per chi sgarra, mobilitando l’esercito. Ma abbiamo evocato un fantasma più che descritto la realtà. Un fantasma balordo. Non una cosa completamente infondata, ma rischiosa, pericolosamente imprecisa “. [v]

Ma, ritornando alla Campania, come stanno veramente le cose? Ho cercato di fare il punto della situazione a regionale, solo sommando i dati numerici disponibili in rete e questi sono i risultati.

In Campania risultavano operativi (dati 2018): ca. 4.600 unità del personale della Guardia di Finanza; ca. 9.500 appartenente all’Arma dei Carabinieri; ca. 8.500 uomini della Polizia di Stato, per un totale di ca. 22.600 operatori di polizia giudiziaria (di cui 14.100 appartenenti ai due corpi militari (GdF e CC). Inoltre, da più di 11 anni sono stati distaccati solo in Campania, per l’operazione ‘Strade Sicure’, 900 unità operative appartenenti all’Esercito Italiano, con compiti di sorveglianza. Ad essi, da pochi giorni, si sono aggiunti altri 100 militari, in risposta alle pressanti istanze di De Luca, con un totale di ben 1.000 appartenenti alle forze armate con funzioni di ‘agenti di pubblica sicurezza’.  Non dimentichiamo poi che, nel solo Comune di Napoli, nel 2019 risultavano in servizio circa 2.000 operatori della Polizia Municipale (1.560 agenti + 450 fra dirigenti, funzionari, istruttori direttivi ecc.) e che anche la Città Metropolitana di Napoli gestisce un proprio Corpo di Polizia, l’entità del cui personale non risulta però verificabile. Ebbene, calcolando grosso modo che le unità di questi contingenti destinati alla città capoluogo oscillino tra un quinto ed un sesto del totale (visto che Napoli ha ca. 1.000.000 di abitanti sui quasi 6 complessivi, ma con molti più obiettivi sensibili e problematiche rispetto ad altre aree urbane), dividendo 23.500 per 5,5 otteniamo 4.272. Se a questo notevole contingente di finanzieri, carabinieri, agenti di P.S. e militari aggiungiamo pure i circa 2.000 agenti di polizia locale, solo per Napoli raggiungiamo la ragguardevole cifra di circa 6.300 persone potenzialmente impiegabili nel controllo e nella repressione delle violazioni alla legge, in larga parte con compiti non solo di ‘pubblica sicurezza’ ma anche di polizia giudiziaria. Proviamo adesso a rapportare questo numero alla popolazione napolitana ed otteniamo una ratio di 0,007 agenti per abitante. Ripetendo la stessa operazione per due metropoli con oltre 8 milioni e mezzo di abitanti e con un personale di forze di polizia che si aggira sulle 35.000 unità, come Londra e New York City, otteniamo invece un rapporto inferiore, cioè 0,004. Ma per qualcuno è sempre troppo poco…

Uniformi per garantire…l’uniformità?

Le misure adottate per l’attuale stato di emergenza – in parte ratificato da un Parlamento ormai quasi uscito di scena, lasciando campo libero e troppe responsabilità all’Esecutivo – hanno suscitato dubbi e preoccupazioni in alcuni giuristi e costituzionalisti. Qualcuno infatti si è chiesto, ad esempio, se le vigenti restrizioni siano conformi alle norme costituzionali e se questo regime straordinario non rischi di far saltare i delicati equilibri fra diritto alla salute ed alla sicurezza e tutti gli altri diritti previsti dalla Carta. Come ha osservato l’avvocato Nicola Canestrini:

«Alcune di queste misure hanno impattato pesantemente su diritti costituzionali […] Parliamo della libertà di circolazione, soggiorno ed espatrio (articolo 16 della Costituzione); di riunione (articolo 17 della Costituzione); di esercizio dei culti religiosi (articolo 19); di insegnamento (articolo 33); su garanzia e obbligo di istruzione (articolo 34). Le misure di contenimento possono incidere poi sulla libertà di iniziativa economica (articolo 41, primo comma). Alcuni di questi diritti costituiscono senz’altro principi fondamentali dell’ordinamento, e possono quindi essere limitati ma mai abrogati […] …si ritiene che il bilanciamento dei beni costituzionalmente rilevanti abbia come parametro l’articolo 32 della Costituzione: la norma costituzionale indica la tutela della salute come “fondamentale diritto dell’individuo”, che tuttavia va in qualche modo contemperata con “l’interesse della collettività”…» [vi]

Data la delicatezza della situazione, allora, è davvero utile e legittimo l’intervento delle forze armate con compiti di tutela della salute e della sicurezza collettiva? A tal proposito, il noto penalista napolitano Domenico Ciruzzi si è espresso piuttosto criticamente:

«Mi chiedo: per quanto tempo dovremo ascoltare la cantilena mistificante che l’esercito serve per evitare che la gente scostumata esca di casa? Tutti convengono che più del 90 per cento degli italiani – e sicuramente dei napoletani – si è chiuso in casa e che i crimini sono di fatto quasi spariti. Polizia, carabinieri, Guardia di finanza sono pressoché disoccupati. Dunque, perché l’esercito? Per fare cosa? La verità è che tra uno-due mesi si temono le sommosse degli affamati […] …il governo ha il dovere istituzionale di anticipare gli eventi e non far finta di chiamare l’esercito per arginare quelli che non rispettano i divieti per poi, invece, usare astutamente i militari per sedare prevedibili rivolte…». [vii]

Non è un caso, inoltre, che un autorevole periodico come l’Espresso recentemente abbia così intitolato un suo articolo: “Coronavirus, esercito e forze dell’ordine in allarme: serve un piano contro caos e disordini[viii]. Non bisogna essere antimilitaristi per temere che una crescente militarizzazione possa preludere ad interventi repressivi, giustificandoli con lo stato di emergenza o, come qualcuno ha già iniziato a dire, di ‘guerra’ all’epidemia. La restrizione delle libertà personali, la sospensione di fatto del confronto democratico e l’adozione di misure eccezionali sono sintomi preoccupanti di una tendenza autoritaria che già da tempo stava affiorando nel nostro Paese. I patriottici richiami ad un’unità nazionale imposta 160 anni fa e mai davvero realizzata – per di più compromessa dalle tendenze centrifughe di chi reclama ‘autonomie differenziate’ per legittimare e rafforzare assurdi privilegi e diseguaglianze – sollecitano retoricamente un unanimismo nazionalista che potrebbe preannunciare l’imposizione di un pensiero unico ed un regime autoritario.

Mi auguro sinceramente che nessuno pensi davvero d’imporre l’uniformità e l’obbedienza passiva ricorrendo alle uniformi militari ed a metodi repressivi eccezionali. In ogni caso – per citare ancora Canestrini – facciamo attenzione a “non abbassare le difese immunitarie della Costituzione”, restando sempre, e nonostante tutto, cittadini vigili ed attivi.


Note:

[i] Rinaldo Frignani, “Coronavirus a Roma, soldati per i controlli ma non possono denunciare”, Corriere della Sera (Roma), 21.3.2020 > https://roma.corriere.it/notizie/cronaca/20_marzo_21/coronavirus-roma-soldati-controlli-ma-non-possono-denunciare-2de8a292-6aea-11ea-b40a-2e7c2eee59c6.shtml?fbclid=IwAR18ecCDGlZw-tggU2ln8EphoIhXDmqiqNQScjAkgfwYPakHNVw60nFuES4&refresh_ce-cp

[ii]http://www.esercito.difesa.it/operazioni/operazioni_nazionali/Pagine/Operazione-Strade-Sicure.aspx

[iii] Ministero della Difesa, Operazione Strade Sicure (fonte: Forze Armate, La Difesa, UTET) > https://www.difesa.it/Content/Pagine/StradeSicure-ForzeArmate-LaDifesa.aspx

[iv] http://www.napolitoday.it/cronaca/coronavirus-decreto-regione-de-luca.html?utm_source=newsletter&utm_medium=email&fbclid=IwAR0eJAhL9PpkVgARXlEQ3na0DDI1EA4d3yi-V0HzClQQBs1oI63tk8YRpEc

[vi] Alberto Leiss, “Il fantasma balordo della guerra”, il manifesto > 24.03.2020 > https://ilmanifesto.it/il-fantasma-balordo-della-guerra/?utm_source=Iscritti+web&utm_campaign=602e49ba0d-EMAIL_CAMPAIGN_2020_03_24_05_00&utm_medium=email&utm_term=0_1006d401fe-602e49ba0d-184824111&goal=0_1006d401fe-602e49ba0d-184824111&mc_cid=602e49ba0d&mc_eid=f3a0ad9d2b

[vii] Nicola Canestrini, “Non abbassiamo le difese immunitarie della Costituzione” > https://www.ildolomiti.it/politica/2020/coronavirus-lavvocato-canestrini-quanto-detto-da-fugatti-e-errato-sia-nel-metodo-che-nel-merito-non-abbassiamo-le-difese-immunitarie-della-costituzione  ed anche: “Coronavirus  non indebolisca le difese immunitarie dello stato di diritto”>    https://www.ilfaroonline.it/2020/03/19/coronavirus-non-indebolisca-le-difese-immunitarie-dello-stato-di-diritto/326129/

[vii] Domenico Ciruzzi, “Sostegno ai poveri più che l’esercito”, la Repubblica – Napoli

[vii] Vedi: https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2020/03/13/news/coronavirus-esercito-polizia-1.345574?preview=true

‘SUDYAGRAHA’: per la riscossa nonviolenta del Sud

Fare rumore…conviene?

“Che fai rumore qui / E non lo so se mi fa bene / Se il tuo rumore mi conviene / Ma fai rumore, sì / Che non lo posso sopportare / Questo silenzio innaturale…”.  Le parole del ritornello della canzone cantata da Diodato, vincitrice a Sanremo, mi sono improvvisamente venute in mente al termine del Convegno che si è svolto a Portici sabato 15 febbraio, organizzato dal Coordinamento Sud di Pax Christi. Il tema dell’incontro era suggestivo quanto originale: “Italia del Nord-Italia del Sud. Storia Giustizia Nonviolenza”. Lo definisco ‘originale’ perché anche all’interno dei movimenti pacifisti e nonviolenti operanti nel nostro Paese purtroppo non è facile trovare riferimenti al conflitto esistente fra quelle due Italie cui si fa cenno nel titolo, su cui si è preferito lasciar cadere un imbarazzato silenzio. Ed è proprio quel “silenzio innaturale” che, come altri pacifisti meridionali, anch’io ormai “non lo posso sopportare”. Ecco perché mi sembra necessario “far rumore” benché, come nella canzone, molti sembrano scettici sul fatto che questo rumore “ci fa bene” e, soprattutto, che “ci conviene”. Anche nel corso dell’incontro, infatti, qualcuno ha espresso dubbi sull’apertura da parte di Pax Christi di questo nuovo fronte di conflitto, sospettando che possa risultare ‘divisivo’. Obiezione comprensibile, ma che nasce dalla mancata consapevolezza che non è possibile operare divisione laddove l’unità – contrariamente a quanto ci si è fatto credere per un secolo e mezzo – non c’è mai stata davvero.

Facciamo benissimo ad occuparci della repressione contro Curdi e Palestinesi, come di quella nei confronti dei nativi amerindi oppure dei Rohingya. È cosa buona e giusta attivarsi per tutte le minoranze oppresse e per tutte le vittime del vecchio e nuovo colonialismo, nella consapevolezza che la Nonviolenza gandhiana – fine e mezzo al tempo stesso – è nata proprio come strategia alternativa nella lotta degli Indiani per la loro indipendenza ed autonomia.  Risulta però strano che un secolo e mezzo di conquista coloniale e sfruttamento del Sud della nostra penisola abbia invece lasciato molti teorici ed attivisti dei movimenti di liberazione quanto meno silenti, se non del tutto indifferenti. Ovviamente ci sono state e ci sono nobili eccezioni, come quella di Aldo Capitini, Danilo Dolci o Giuliana Martirani. Fra l’altro, il merito del convegno di Portici è di Antonio Lombardi, che a questa problematica ha dedicato un libro e da anni si sta battendo per quella “educazione alla identità e liberazione nonviolenta del Sud” che è alla base di un processo di ‘decolonizzazione’, mentale prima ancora che economica, dei meridionali. Eppure sembra evidente che dovremmo andare oltre, passando dall’attenzione alle sporadiche voci profetiche d’un riscatto nonviolento del Sud ad una riflessione più ampia, diffusa e condivisa, dalla quale l’arcipelago dei pacifisti, antimilitaristi e nonviolenti possa trarre un progetto complessivo da portare avanti, nel nome della riconciliazione ma, prioritariamente, della verità e della giustizia che ne sono la precondizione.

«Un popolo che subisce la colonizzazione mentale e viene educato all’oblio di sé è un popolo perduto. Educare all’identità, allora, significa partecipare a una straordinaria forma di difesa nonviolenta, è afferrare una poderosa tenaglia per spezzare la catena della sottomissione […] per andare verso una comunità consapevole della propria storia e del proprio valore, pronta a lottare per la dignità e l’equità, rifiutando di collaborare con la pesante emarginazione che la opprime a partire dalla conquista del 1860.» [i]

Catene da cui liberarsi o preziosi monili ?

Ma per “spezzare le catene della sottomissione” (e soprattutto per recidere quelle che, come si osservava nel libro citato, gli stessi oppressi paradossalmente spesso considerano monili preziosi…) c’è bisogno di una preventiva maturazione della coscienza da parte di comunità che continuano a vivere la propria subalternità come colpa o condanna del fato. I due interventi che, in quel convegno, hanno preceduto quello di Antonio Lombardi erano quindi altrettanto importanti. Il primo, di Vincenzo Gulì, studioso di storia del Mezzogiorno, si occupava di tracciare la “storia di una nascita”, ossia gli eventi passati che hanno portato alla sedicente Unità d’Italia, proprio “per capire il presente”. Rileggere criticamente la storia raccontata dai vincitori, attingendo a fonti e documenti finora occultati o prudentemente ignorati, è il solo modo per cogliere logiche e meccanismi dell’annessione colonialista del Regno delle due Sicilie. Si trattava infatti di uno dei più antichi, ampi e ricchi d’Europa che, contrariamente a quanto si è pervicacemente voluto far credere, non era per nulla arretrato e sottosviluppato, per cui l’unificazione – sul cui mito retorico sono state formate diverse generazioni di Italiani – di ‘patriottico’ ha avuto molto poco, non essendo stata altro che la forzata annessione di circa un terzo del territorio della Penisola al Regno di Sardegna, di cui cambiò di fatto solo l’estensione ed il nome.

Suppongo che molti continueranno a dissentire su tale rilettura storica, accusandola di ‘revisionismo’ e di ‘secessionismo’ ma evitando di andare a verificare quanto fossero fondate le ‘certezze’ che ci hanno inculcate in un secolo e mezzo di scuola unitaria e d’informazione a senso unico. Ormai i testi che trattano questi argomenti sono molti e qualificati, oltre che ampiamente basati su documentazioni difficilmente contestabili, per cui mi limito a rinviare alla lettura dei libri di Carlo Alianello [ii], Giordano Bruno Guerri [iii],  Pino Aprile [iv],  o Giovanni Fasanella e Antonella Grippo [v]. La stessa espressione ‘questione meridionale’ – al di là delle intenzioni dei grandi meridionalisti, da Nitti a Villari, da Fortunato a Salvemini, fino a Pannunzio, Compagna e Galasso –suggerisce implicitamente una connotazione negativa, come se si trattasse di un ‘problema’, una specie di pesante croce, di cui il Centro-Nord avanzati e progressisti sarebbero stati costretti a caricarsi. Ma la verità è ben altra e, pur  non volendo turbare le intime certezze patriottiche altrui con letture storiche dissonanti dalle versioni ufficiali, è oggettivamente impossibile – o almeno dovrebbe esserlo… – chiudere gli occhi su come quella stessa secolare ed irrisolta ‘questione meridionale’ abbia dato luogo molto più recentemente ad un ulteriore capovolgimento neolinguistico della realtà, trasformandosi in ‘questione settentrionale’ ed accelerando il truffaldino processo di ‘secessione dei ricchi’, consentito dalla c.d. ‘autonomia differenziata’, a sua volta frutto della già ventennale riforma ‘federalista’ del titolo V della nostra Costituzione repubblicana. Ecco perché è stato fondamentale che i convegnisti di Pax Christi ascoltassero anche il secondo intervento, affidato ad un acuto studioso dei processi economici come Marco Esposito. Il noto giornalista del quotidiano ‘Il Mattino’ è infatti l’autore di “Zero al Sud” un saggio fondamentale per capirci qualcosa dell’ultima fase della spoliazione del Mezzogiorno d’Italia, in cui – come nella favola esopiana del lupo e l’agnello – la preda continua ad essere imputata di aver danneggiato il suo predatore.  Con la scusa del ‘federalismo fiscale’, infatti, non contenti degli 840 miliardi di euro già sottratti al Sud negli ultimi 17 anni [vi] e della truffa dei finanziamenti annunciati ma mai assegnati veramente [vii] le regioni del Centro-Nord si preparano all’ultimo scippo di risorse mascherato da ‘giustizia fiscale’.

La teoria dei giochi a somma…zero al Sud

In teoria dei giochi, un gioco a somma zero descrive una situazione in cui il guadagno o la perdita di un partecipante è perfettamente bilanciato da una perdita o un guadagno di un altro partecipante in una somma uguale e opposta[viii].  Se questo è vero, ad ogni perdita economica imposta al Sud corrisponde un uguale guadagno aree geografiche che già stanno molto meglio, in barba uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione, relativo alla “solidarietà politica, economica e sociale”, espressamente sancito all’art. 2.  Come scriveva già nell’introduzione al suo libro Marco Esposito:

«Il federalismo – voluto dal Nord e accettato dal Sud – sembrava una buona soluzione […] Quando però il federalismo fiscale è stato tradotto in cifre, ci si è trovati davanti a qualcosa di non previsto. Lo Stato italiano dopo complessi conteggi ha certificato che il fabbisogno dei territori privi di servizi fosse proprio zero. Esattamente zero. E quindi il nulla coincidesse con il giusto […] La medicina per curare le inefficienze del Sud, il federalismo fiscale, si è mutata in un veleno a lento rilascio, che ne accorcia l’esistenza […] E così, non avendo i soldi per dare al Sud quello che era giusto, si è intrapresa la strada opposta: si è certificato che al Sud i servizi pubblici non servono, al Sud non ce n’è bisogno, al Sud il fabbisogno è zero o è molto poco. Un furto di diritti che, per riuscire, doveva avvenire al riparo da occhi indiscreti…» [ix]

Non è certo un caso che l’iter parlamentare della cosiddetta ‘autonomia differenziata’ sia stato a lungo blindato da chi aveva interesse a farlo, con la colpevole acquiescenza di chi avrebbe dovuto tutelare gli interessi del Sud e la complice copertura di media troppo distratti.

«Una delle astuzie della legge 42/2009 fu stabilire che le nuove regole non si applicassero alle cinque regioni a statuto speciale […] La 42 riconobbe, com’è ovvio dovendo attuare la Costituzione, la necessità di definire i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, ma saggiamente introdusse gli ‘obiettivi di servizio’ cui dovevano tendere le amministrazioni regionali e locali […] Obiettivi di servizio e Lep, però, non furono mai approvati […] La 42 conteneva una norma finale che nascondeva in sé il conflitto tra territori: “Dalla presente legge e da ciascuno dei decreti legislativi di cui all’art. 2 e all’art. 23 non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Ogni volta che si assegnerà un euro a un Comune bisognerà togliere un euro a un altro Comune. E viceversa: ogni zero al Sud avrebbe portato maggiori risorse al Nord». [x]

Ecco come è stato attuato il citato principio del ‘gioco a somma zero’. Peccato però che le regioni meridionali, ancora una volta, ne usciranno con le ossa ancora più rotte, confermando nell’opinione comune il destino ‘cinico e baro’ del Mezzogiorno, alimentato peraltro dal “generico senso di colpa” di cui parla Esposito, col quale noi del Sud ormai da secoli continuiamo ad autoflagellarci. Eppure basterebbe trovare quanto meno il coraggio mostrato dall’agnello esopiano che, di fronte alle accuse del lupo, ha comunque cercato di controbattere coi fatti ad argomentazioni assurde e truffaldine. Ecco perché è sembrato particolarmente opportuno che a concludere il Convegno di Portici sia stato l’intervento di Antonio Lombardi – pedagogista e mediatore nei conflitti – su: “Educare alla pace: dalla colonizzazione mentale alle relazioni nonviolente”. Per dare una compiuta risposta all’interrogativo “Che fare?”, suscitato tra i partecipanti dai primi due relatori.

 Rifiorire, nonostante il vento…

Il libro di Lombardi, “Fiorire nel vento”, porta come sottotitolo “educazione all’identità e liberazione nonviolenta del Sud”. Ed è proprio questo l’approccio per un rilancio in chiave nonviolenta del meridionalismo, perché senza affermazione della verità storica il conflitto è represso, non risolto. E perché, utilizzando un linguaggio costituzionale, il vero ostacolo da rimuovere per la liberazione di un popolo è la sua subalternità culturale, prima ancora che socio-economica. Come si accennava anche in precedenza, infatti, il primo passo per riconquistare la propria identità e dignità è cancellare le pesanti stratificazioni di una vera e propria colonizzazione mentale della gente del Sud, di cui per troppo tempo i media, la scuola e la famiglia sono stati gli strumenti. Per usare le parole che descrivono la tesi sostenuta da Lombardi nel suo saggio:

«”Fiorire nel vento” propone l’educazione all’identità come pratica liberatrice nonviolenta in grado di affrontare il trauma identitario, prospettando interrogativi e obiettivi su cui costruire piani educativi strutturati e utili nell’informalità delle relazioni quotidiane: per andare verso una comunità consapevole della propria storia e del proprio valore, pronta a lottare per la dignità e l’equità, rifiutando di collaborare con la pesante emarginazione che la opprime a partire dalla conquista del 1860. Questo libro è un invito alla consapevolezza e un sussidio, affinché sbocci in tutto il suo splendore il nostro sofferente popolo meridiano, in mezzo alla tempesta che lo sta spazzando via». [xi]

La “occupazione delle coscienze” – come giustamente la chiama Lombardi – è quasi peggio di quella manu militari di un territorio. Ed è ancora più insidiosa, dal momento che impiega canali formativi come la famiglia la scuola e i mezzi di comunicazioni. Ma, proprio per questo motivo, non è impossibile adoperarli per attivare un processo diametralmente opposto, quello cioè che Mario Borrelli, a Napoli, definiva ‘coscientizzazione’, negli stessi anni Settanta in cui, in Brasile, Paulo Freire la proponeva come strumento di liberazione. Il punto di partenza, quindi, è l’attivazione di iniziative di controinformazione e di natura educativa che ci aiutino non solo a demistificare le false verità sul Mezzogiorno che ci sono state propinate finora, ma soprattutto a recuperare la dignità perduta di un popolo con millenni di storia, una cultura eccezionale e risorse territoriali ed ambientali uniche.  Decolonizzare le menti non vuol dire pretendere di essere superiori agli altri, ma diventare consapevoli che, per citare il grande Viviani, non è più possibile accettare che “avimm’a sta’ a guagliune e simmo maste”.[xii].

Il secondo passo è quello che conduce dalla consapevolezza al superamento della subalternità, attraverso una lotta nonviolenta di liberazione, proprio come quella guidata da Gandhi contro il colonialismo inglese. Non è facile seguire questa strada proprio perché alternativa alla logica dominante, ma bisogna assolutamente percorrerla, sapendo anche che molti la considereranno magari poco ‘pacifica’, sol perché mette il dito su una piaga aperta che si vorrebbe occultare. Ma, come scriveva anche Danilo Dolci, l’acquiescenza all’ingiustizia non è pace, .

«Non possiamo confondere l’impegno per realizzare la pace con la preoccupazione di mantenerci equidistanti da tutti. Ogni comportamento – individuale, di gruppo, di massa – che tende sostanzialmente a mantener la situazione come è […] non è impegno di pace. […] Non è questa la pace che ci è necessaria…». [xiii]

Da resistenza nonviolenta ad autogoverno

Il secondo passo della lotta per la liberazione del Sud, spiegava Lombardi, è utilizzare la consapevolezza raggiunta – anche valorizzando la propria memoria storica – per affrontare il conflitto nonviolentemente. Ciò significa, in primo luogo, smettere di collaborare con chi vorrebbe mantenerci nella subalternità culturale e socioeconomica, giustificando la propria sete di nuove risorse con l’incapacità dei subalterni a governarsi da soli, come hanno fatto tutte le potenze coloniali e come continua a fare l’imperialismo neocolonialista attuale. L’ahimsa – come spiegava Gandhi – non è soltanto la scelta in negativo di agire senza violenza nei confronti di qualcuno, ma una scelta positiva, attiva e proattiva per affermare la verità ed impedire il male.

«…come un’espressione positiva di amore, della volontà di fare il bene anche di chi commette il male. Ciò non significa tuttavia aiutare chi commette il male a continuare le sue azioni immorali o tollerare queste ultime passivamente. Al contrario, l’amore, espressione positiva dell’ahimsa, richiede che si resista a colui che commette il male dissociandosi da lui, anche se questo può offenderlo o arrecargli dei danni fisici […] La non-collaborazione non è qualcosa di passivo, è qualcosa di estremamente attivo, di più attivo della resistenza fisica e della violenza». [xiv]

Non-collaborazione, come le altre forme di disobbedienza civile, significa quindi affermare nonviolentemente la verità, rendendo palese l’ingiustizia ed opponendovi una ferma resistenza. I modi in cui si può attuare questa lotta nonviolenta sono molteplici e Gandhi ce ne ha insegnati personalmente tanti, dallo sciopero al digiuno, dal rifiuto di prestare obbedienza al boicottaggio, dall’opposizione collettiva alla costruzione di organi di governo paralleli ed alternativi. Nel suo precedente libro “Satyagraha[xv], lo stesso Antonio Lombardi aveva già indicato compiutamente quali sono i mezzi cui può fare ricorso chi non accetta di sottomettersi e di avallare l’ingiustizia, ma allo stesso tempo rifugge da ogni azione violenta. La difesa popolare nonviolenta – cui bisogna addestrarsi preventivamente – non è però solo opposizione all’esistente, bensì attuazione di un ‘programma costruttivo’ già elaborato e realmente alternativo, nei fini e nei mezzi, a ciò cui ci si oppone. L’alternativa all’imposizione forzata ad un popolo d’un ruolo subalterno, cancellandone anche l’identità culturale e linguistica, è una sola: l’autogestione. Il Mahatma Gandhi la chiamava col termine indiano swaraj, che racchiudeva in sé non solo il desiderio d’indipendenza, ma un processo economico e politico autogestionario, fondato su un modello di sviluppo diverso da quello imposto, ecosostenibile e profondamente decentrato. Quello che il nostro Aldo Capitini definì ‘omnicrazia’, cioé il potere di tutti. [xvi]

Qualcuno forse giudicherà eccessivo confrontare la lotta di liberazione dell’India dal giogo inglese con quella della gente del Sud nei confronti d’un Nord egemone e dominante. Ma la verità è che un movimento per la pace non può più permettersi di sottovalutare il peso che un secolo e mezzo di subalternità ha avuto su un assetto sociale ed economico iniquamente unitario, e che un’ancor più iniqua violazione dei più elementari principi costituzionali rischia ora di portare al punto di rottura. Per mutuare una felice espressione di Giuliana Martirani [xvii], se il Nord si mostra sempre più Surd, è dunque necessario che il Sud non si rassegni a restare Nud ed affermi finalmente i propri diritti, recuperando la sua dignità ed il suo effettivo peso.


Note

[i]  Antonio Lombardi, Fiorire nel vento. Educazione alla identità e liberazione nonviolenta del Sud, Magenes, 2019 ( https://www.libreriauniversitaria.it/fiorire-vento-educazione-identita-liberazione/libro/9788866491934  )   

[ii] Carlo Alianello, La conquista del Sud, Il Risorgimento nell’Italia meridionale, Rusconi,1972 (https://www.amazon.it/conquista-del-Sud-Carlo-Alianello/dp/8884742374  )

[iii] Giordano Bruno Guerri, Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio, Mondadori, 2017 ( https://www.ibs.it/sangue-del-sud-antistoria-del-libro-giordano-bruno-guerri/e/9788804680475  )

[iv] Pino Aprile, Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali, Piemme, 2013 (https://www.amazon.it/Terroni-quello-italiani-diventassero-%C2%ABmeridionali%C2%BB/dp/8868366061  ); Idem, Giù al Sud, Piemme, 2011 ( https://www.amazon.it/Sud-Perch%C3%A9-terroni-salveranno-lItalia/dp/8856619938  )

[v]  Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, 1861, La storia del Risorgimento che non c’è nei libri di storia, Sperling & Kupfer, 2010 (  http://mimmobonvegna1955.altervista.org/la-storia-del-risorgimento-che-non-ce-sui-libri-di-storia/  ).

[vi] Fonti: https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/analisi/1203992/tolti-al-sue-e-dati-al-nord-840-miliardi-di-euro-in-17-anni.html ; https://www.quotidianodelsud.it/laltravocedellitalia/due-italie/2019/11/06/operazione-verita-in-tv-anche-report-scopre-lo-scippo-al-sud ; https://www.quotidianodelsud.it/laltravocedellitalia/due-italie/2020/02/08/il-sud-perde-170-milioni-milioni-al-giorno-le-promesse-non-bastano-piu ; https://www.vesuviolive.it/ultime-notizie/economia/323187-eurispes-2020-nord-sud-840-miliardi/

[vii] Fonti: https://www.ilsole24ore.com/art/patti-il-sud-speso-meno-2percento-AB5tUFdB ; https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/06/23/fondi-per-il-sud-chi-li-spende-davvero/5275196/

[viii]  Vedi: https://it.wikipedia.org/wiki/Gioco_a_somma_zero

[ix] Marco Esposito, Zero al Sud, Rubbettino, 2018, pp. 5-6

[x]  Ivi, pp. 24-25

[xi]  A. Lombardi, op. cit. > https://www.ibs.it/fiorire-nel-vento-educazione-alla-libro-antonio-lombardi/e/9788866491934 . Vedi anche: Ermete Ferraro, Identità e llibberazzione d’ ’o Sud, articolo in napolitano sul quotidiano “napoli”, 24.06.2019

[xii] Raffaele Viviani, Campanilismo (1931) tratta da “Poesie” , ed. Guida, Napoli, 1977, pagg. 198 e 199 > https://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-vernacolari/poesia-13559

[xiii] Danilo Dolci, Esperienze e riflessioni, Laterza. 1974, p. 229

[xiv] Mohandas K. Gandi, Teoria e pratica della non violenza, Einaudi, 1973, pp. 169-170 (brano tratto da Young India – 1920)

[xv] Antonio Lombardi, Satyagraha – Manuale di addestramento alla difesa popolare nonviolenta, Dissensi, 2014

[xvi]  Aldo Capitini, Il potere di tutti, La Nuova Italia, 1969

[xvii] Giuliana Martirani, Viandante Maestoso, Ed. Paoline, 2006 (p. 182)

Ansie…e Gretel

E’ dagli anni ’70 che mi occupo di antimilitarismo e disarmo nucleare e dalla metà degli anni ’80 di ambientalismo ed alternative ecologiche. Ormai giunto all’età della pensione, ritengo legittimo fare un bilancio di decenni d’impegno ecopacifista, passando in rassegna le tante battaglie che mi hanno visto coinvolto direttamente o che io stesso ho contribuito a promuovere. Ebbene, pur tenendo conto che credo di aver fatto quanto era nelle mie possibilità e di aver lealmente collaborato anche con soggetti che non rispecchiavano del tutto la mia formazione di base, cristiana e nonviolenta, devo ahimé constatare che – ad oltre quarant’anni dalla mia prima scelta radicale come obiettore di coscienza – il panorama socio-culturale, economico e politico ( per non parlare di quello ambientale) appare forse ancor più fosco e preoccupante di allora.

Non si tratta della solita lamentazione delle persone anziane né dello scontento di chi prova delusione per ciò che non è riuscito a realizzare. Il mio non è tanto un senso di frustrazione o d’insoddisfazione personale quanto la semplice, eppur dolorosa, constatazione che, dopo questi anni d’impegno, gran parte degli obiettivi perseguiti purtroppo non sono stati raggiunti. Ciò mi sembra vero sia per quelli che hanno ispirato il lavoro socioculturale, iniziato come obiettore in servizio civile presso il centro comunitario della ‘Casa dello Scugnizzo’ e proseguito nei seguenti otto anni di lavoro sociale di comunità e negli altrettanti come amministratore sociale dell’omonima Fondazione, sia per quanto ho cercato di realizzare in dieci anni d’impegno politico istituzionale nei Verdi e nei successivi venti, vissuti da attivista ambientalista ed ecopacifista.

La ‘società liquida’ così ben disegnata da Zigmund Bauman – con la sua tendenza all’individualismo, al consumismo, al pensiero debole ed alla omogeneizzazione delle idee –  da parecchio tempo ha avuto la meglio sullo sforzo di coniugare l’etica con la politica, battendosi per finalità di sviluppo umano e civile e non di progresso esclusivamente tecnologico e di vorace ‘crescita’ economica.  Alla pur accresciuta consapevolezza teorica dei limiti (ecologici prima ancora che etici) che si frappongono alla corsa sfrenata dell’umanità verso quest’ultimo obiettivo, infatti, non mi sembra che abbia fatto seguito una presa di coscienza tale da arrestare questo impeto suicida, fratricida e biocida. Tale drammatica situazione, come ben sappiamo, mette in forse il futuro stesso dell’umanità, sia per la folle ripresa della corsa agli armamenti nucleari, sia per la palese incapacità dei governi di contrastare davvero i cambiamenti climatici, dovuti all’irresponsabile impatto antropico sugli ecosistemi. L’impegno dei movimenti pacifisti e di quelli ambientalisti, purtroppo, non sembra aver sortito grandi risultati né modificato in modo profondo e significativo i modelli comportamentali ed i valori morali della gente comune, spingendola a cambiare rotta in prima persona ed a negare il proprio consenso a chi non ne rappresenta da tempo gli interessi. L’auspicata ‘rivoluzione dal basso’ non ha fatto seguito al penoso disfacimento delle organizzazioni politiche tradizionali. Ne consegue che, pur registrandosi una crescita di soggetti e realtà associative impegnate ad opporsi ad un modello autoritario, iniquo ed insostenibile di società e di economia, non si è sviluppata in modo significativo l’alternativa che in tanti auspicavamo potesse contrapporle scelte improntate  ai valori della nonviolenza, della giustizia sociale e del rispetto degli equilibri ecologici.

La protesta contagiosa di Greta Thunberg

Il primo e più evidente segno di ribellione ad un paradigma socio-economico in apparenza ineluttabile – frutto del pensiero unico e della rassegnazione di soggetti passivizzati e spersonalizzati dalla massificazione mediatica – è incredibilmente venuto invece dalla risoluta battaglia ‘senza se e senza ma’ di una ragazza svedese dalle idee molto chiare e dalla testa dura. Greta Thunberg è diventata in brevissimo tempo un’icona, un simbolo, una bandiera per milioni di persone che sembravano finora rassegnate o sconfitte. Il fenomeno Greta, con la sua profonda valenza emotiva, sembrerebbe aver coinvolto paradossalmente grandi e piccoli, studenti e intellettuali, ambientalisti e sostenitori della crescita, in un liberatorio grido comune contro chi minaccia il futuro dei nostri ragazzi. Certo, gran parte di quest’ondata neo-ecologista è frutto d’un imprevedibile quanto fragile impeto mediatico ed è quindi soggetta a ritrarsi non appena dagli appelli accorati all’impegno globale si dovrà passare alle molto meno gratificanti e popolari scelte alternative hic et nunc. Non mi sembra però una ragione per minimizzare o banalizzare l’effetto dirompente del ‘grido di dolore’ partito da quella sedicenne che non crede più alle promesse dei ‘grandi’ (per età e per carica) ed invita tutti a mobilitarsi per difendere il Pianeta e chi vuole continuare ad abitarlo.

Confesso che mi ha fatto pena vedere come radicate realtà associative e partitiche di matrice ambientalista stiano ora cercando di cavalcare l’imprevedibile nouvelle vague ecologista scaturita dalla base, implicitamente confessando la propria sconfitta ma tentando di ridarsi quel ruolo trainante che, almeno in Italia, hanno perso da molto tempo. Ovviamente non c’è nulla di male nel rivendicare e rilanciare le battaglie pregresse, collegandole a mobilitazioni spontanee e finora sfuggite ad ogni organizzazione. Rivedere ovunque milioni di persone scese in piazza – molti dei quali giovani da molti di noi dati per ‘persi’ alla causa ambientalista – non può che ridarci speranza ed aprire nuove prospettive. Sappiamo bene, d’altra parte, quanto gli entusiasmi dei nostri figli spesso durino poco e quando invece dipendano da stimoli mediatici di corto respiro ed assai poco prevedibili. Le manifestazioni di massa e gli appelli, in ogni caso, non possono cadere nel vuoto e devono trovarci pronti a ripartire, possibilmente insieme e in modo coordinato, con un percorso di opposizione all’attuale modello di sviluppo, per costruire alternative concrete e credibili.

Non si tratta di sventolare le soluzioni di una spesso equivoca green economy né di accontentarsi di una ‘nicchia ecologica’ dentro la quale far confluire esperienze di coltivazione ed allevamento ‘biologici’ o di energia ‘pulita’, quasi si trattasse di lodevoli eccezioni che confermano la regola. Bisogna piuttosto creare una coscienza ambientale diffusa, alimentare ‘buone pratiche’ e stimolare i giovani a lottare per il loro futuro, ma senza fingere ipocritamente di non sapere che questo modello di produzione e consumo è frutto d’una logica ben precisa ed è controllato da equilibri politici e geo-strategici cui in tanti non sembrano disposti a rinunciare. Il vecchio slogan ‘agire localmente e pensare globalmente’ è allora quanto mai appropriato ed attuale.  Un impegno personale e collettivo dal basso appare indispensabile e nessuna mobilitazione di massa, da sola, può rimpiazzarlo. E’ altresì vero che rilanciare le battaglie ambientaliste non basta a farci uscire dall’imbuto nel quale ci siamo cacciatati, scegliendo in troppi di sostenere le ragioni di quella ristretta minoranza che ha risorse e potere per imporre violentemente il proprio dominio alla stragrande maggioranza degli esseri umani. Il fatto che le piazze si riempiano di giovani che rivendicano il loro diritto al futuro deve farci piacere, perché prelude ad una nuova stagione dell’ambientalismo ma soprattutto perché è un chiaro segnale della rivendicazione di un protagonismo per troppo tempo soffocato dallo stile di vita individualista e consumista nel quale gran parte di loro sono stati educati. La lezione di Greta è importante anche perché ricorda ai giovani come lei che si ha diritto a pretendere che gli adulti mettano finalmente in pratica decenni di promesse a vuoto, ma a patto che in prima persona si sappiano fare scelte nette e radicali, attuando il saggio monito a gandhiano ad essere noi per primi il cambiamento che vorremmo vedere nel mondo.

Copertina di ‘Apocalittici e integrati di Umberto Eco

A mio avviso, però, ci sono tre aspetti meno positivi che emergono da queste imponenti mobilitazioni globali per garantire un futuro all’umanità. Il primo (senza ovviamente prendersela con la ragazza svedese…) mi sembra l’insistenza eccessiva su una prospettiva antropocentrica da cui si inquadrano le allarmanti problematiche ambientali, confermando un’ottica che – incurante degli appelli di tanti ecologisti e dello stesso Papa Francesco – non riesce a prescindere da una morale puramente utilitaristica e strettamente umana.  Il secondo limite di questo pur entusiasmante boom d’interesse in campo ambientalista mi sembra scaturire dai ragionamenti antitetici tipici della cultura occidentale, mirabilmente evidenziato già negli anni ’60 da Umberto Eco.  La fastidiosa, quanto rituale, contrapposizione degli ‘apocalittici’ agli ‘integrati’, infatti, ci ripropone una società dove non avviene mai una sintesi ed in cui si alternano irrazionalmente spinte contrapposte. L’insistenza talvolta un po’ truce e catastrofica sulle minacce al ‘futuro’ dell’umanità ritrova infatti spazio e slancio, ma ciò avviene in una società ancora in larga parte anestetizzata dai media, inebetita dalla corsa ai consumi e mentalmente prona ad un pensiero unico che rende sempre più omologate le culture, cancellando le diversità e tacitando le coscienze. L’antitesi pura e semplice fra la rassegnazione degli integrati ed il terrore degli apocalittici, anche in questo caso, potrebbe portarci pericolosamente fuori pista. E questo non perché l sviluppo alternativo ipotizzato rivesta un carattere ‘profetico’ – aspetto invece positivo – bensì perché l’utopia deve comunque incarnarsi sempre in un contesto di realtà, offrendo strumenti concreti ed indicando vie praticabili per andare in quella direzione ‘ostinata e contraria’.

Questa insistenza sull’ansia, sul terrore per una catastrofe prossima ventura, infine, costituisce il terzo limite che credo vada superato. La paura, da sempre, non produce frutti buoni. Al contrario, alimenta talvolta spesso meccanismi di egoistica autodifesa che possono trasformarsi in reazioni irrazionali, violente ed incontrollabili.  Superare la paura del cambiamento, si sa, è un passo fondamentale per trasformare il mondo, a partire dal nostro orticello quotidiano. Cambiare solo perché si ha paura, viceversa, è un movente molto parziale, che si rivela spesso controproducente. Come osservano molti psicologi, infatti, la paura – oltre a paralizzarci – può impedirci di vedere con chiarezza ciò di cui abbiamo davvero bisogno oppure potrebbe nutrire paranoie, che sfociano nella ricerca di ‘nemici’ da combattere più che di strutture e modalità cui opporci. Nessuna rivoluzione – compresa quella ‘verde’ – sarà mai un ‘pranzo di gala’, per citare una celebre frase di Mao Zedong, in quanto richiede impegno continuo, sforzi personali, inevitabili conflittualità e pesanti sacrifici. Pensare che essa possa essere alimentata solo dal terrore della fine imminente, però,  ritengo che sia una pericolosa illusione ed un’irrazionale tentazione.

Quando cercavo un titolo da dare a questo mio scritto mi è sorta spontanea l’associazione d’idee tra il nome della ormai celeberrima sedicenne svedese che è diventata la leader del nuovo movimento contro i cambiamenti climatici e quello di una bambina che, insieme col fratello, era protagonista di una non meno celebre fiaba dei fratelli Grimm.  Chi, infatti, non conosce la cupa vicenda di Hansel e Gretel, abbandonati dai genitori in un fitto bosco e poi finiti nelle grinfie di una orribile strega, che li allevava per poi potersene cibare? Ebbene, mi è venuto spontaneo il parallelo con la Greta di oggi, che si sente altrettanto drammaticamente abbandonata dagli adulti – colpevoli ed irresponsabili – nel folto di una oscura foresta fatta d’inquinamento e piaghe ambientali, in preda alla voracità maligna di un falso sviluppo che porta alla distruzione ed alla morte. Volendo continuare nella metafora, è il caso di notare che la ‘casa’ che ospita quell’essere malefico e mortifero risulta però esteriormente attraente, fatta com’è di tanti dolciumi invitanti, proprio come invitanti sono nella realtà le seduzioni del consumismo sfrenato e della crescita senza limiti né remore.  A tutto ciò bisognerebbe allora contrapporre un vero progetto, non reazioni istintive né paure paralizzanti. La strega di un falso sviluppo – energivoro iniquo e incompatibile con gli equilibri ecologici – va combattuta ritorcendole contro le sue stesse armi. Al ‘riscaldamento globale’ del forno nel quale stanno per essere gettati, Hansel e Gretel alla fine condanneranno proprio la megera che li teneva prigionieri, annullandone così per sempre la malefica seduzione.  Si tratta di un riferimento puramente allegorico, certo, ma penso che possa comunque farci riflettere sulla necessità di lavorare insieme per uscire finalmente dalla maledizione di un finto ed allettante benessere, fondato però sulla depredazione delle risorse e sullo sfruttamento di tanti esseri umani.

© 2019 Ermete Ferraro   

NA-POLI DI SVILUPPO

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Da sx: Ermete Ferraro, Aldo Pietrosanti, Stefano De Falco e Amedeo Colella

Ho recente partecipato alla presentazione – nella libreria ‘Iocisto’ di Napoli – d’un libro molto originale e stimolante, scritto da Stefano De Falco, brillante ingegnere e ricercatore universitario. Già il titolo (VESUVIUS VALLEY: Perché Napoli è la città più innovativa al mondo!? [i] ) incuriosisce e provoca il lettore, sfidandolo a cercare nelle pagine interne quanto è vero ciò che suggerisce anche la vivace immagine di copertina di Lello Esposito, dove campeggia un eruttante Vesuvio che lancia in aria una rossa mela annurca. In  effetti, come scrive Amedeo Colella nell’introduzione: «…questo libro smonta i luoghi comuni legati alla neapolitan way of life restituendo valore e dignità a quelle che vengono da molti considerate icone folkloristiche […] Anzi gli oleografici luoghi comuni della napoletanità nel libro divengono i veri volani di innovazione.» [ii]

L’uso da parte dell’autore, fin dal titolo, di svariati punti interrogativi ed esclamativi lascerebbe pensare ad una tesi che, pur argomentata con dovizia di ragionamenti e documenti, racchiude comunque una sfida al lettore, invitato a collegare dati di per sé eterogenei per verificare un’ipotesi di lavoro suggestiva ma niente affatto scontata. Non a caso si tratta di un’applicazione ‘in corpore neapolitano’ della teoria ideata da uno  studioso statunitense, Richard Florida, secondo il quale i nuovi parametri fondanti dello sviluppo locale e dell’innovazione sarebbero creatività, multiculturalità e tecnologia, riassunte nella formula delle 3T (Talent – Technology – Tolerance).[iii]  In base al ‘teorema Florida’ e smentendo clamorosamente stereotipi e convinzioni dure a morire, Napoli rappresenterebbe quindi fucina di cambiamento e polo d’attrazione per chi ritiene che un ‘creative people climat’ sia un’irrinunciabile precondizione per proporre progetti innovativi.

Da ambientalista di formazione eco-sociale, ammetto che questo rimescolamento di carte da parte degli economisti mi lascia perplesso, poiché v’intravedo il rischio della strumentale razionalizzazione d’una situazione di fatto, ‘indorando la pillola’ del mancato sviluppo mediante il ricorso a fattori altri. In una società post-industriale e sempre più svuotata della protezione sociale da parte del welfare state, ad esempio, credo sia innegabile che faccia comodo riscoprire ‘valori’ come il vicinato, la solidarietà e l’interazione a livello locale, rinominandoli magari con accattivanti nomi inglesi come social street o social networks,  Lascia ugualmente dubbiosi, poi, la nuova tendenza a riabilitare come ‘creativo’ ciò che per decenni è stato invece tacciato come prodotto di sottocultura, sottosviluppo, cioè come bieco folklore.  Non c’è dubbio che riscoprire la tradizionale ‘arte di arrangiarsi’ dei Napoletani come manifestazione di ‘creatività’ rappresenti un compenso morale rispetto alla costante denigrazione cui essi sono stati sottoposti, ma non mi sembra che questa tardiva ‘conversione’  cambi la sostanza d’una condizione di marginalità e subalternità cui Napoli, e l’intero Mezzogiorno, sono stati condannati a permanere per oltre un secolo.

Fa quindi sicuramente piacere questa ventata elogiativa nei confronti del vulcanico talento e dell’accogliente tolleranza della gente di Napoli. Risulta altrettanto stimolante il ricorso a  tradizionali topoi come il bar e la piazza per evocare nuovi crocevia di coesione sociale, di comunicazione e di sviluppo locale. Rimane però l’interrogativo sulla reale efficacia di questi nuovi aspetti ai fini della proposta d’un modello di sviluppo che sia davvero alternativo. Mi riferisco cioè ad una modalità di produzione e consumo radicalmente diversa, che tenga conto degli equilibri ecologici, esca dalla scala macro e dalle distorsioni della globalizzazione  ed utilizzi parametri diversi da quelli capitalisti, a misura d’uomo e rispettosi di valori fondamentali come il benessere, l’equità e la solidarietà. Per dirla con Roberto Mancini:  «Non nasciamo per competere, produrre, lavorare, accumulare e poi morire, non è questo il destino umano. Se mi convinco profondamente di ciò non accetto più un’economia capitalista e allora cambiano gli stili di vita, le scelte quotidiane.» [iv]

17343052_10210865028854006_651149864055031409_n Il depauperamento del meridione, la preoccupante crescita delle disuguaglianze ed il calo degli investimenti e dei consumi al Sud, in verità, non lasciano intravedere un futuro roseo per chi vive dalle nostre parti. Lo ammette onestamente lo stesso De Falco, anche se opportunamente sottolinea che l’Unione Europea – con piano Junker – sta puntando su settori strategici nei quali il Mezzogiorno d’Italia potrebbe viceversa svolgere un ruolo centrale, come ad esempio: ambiente, energia, infrastrutture sociali, trasporti e ricerca. A tal proposito, ad esempio, cita l’esempio del ‘Patto territoriale per il Miglio d’Oro’, nel quale storia ed arte (le splendide ville vesuviane) hanno già saputo  coniugarsi felicemente con la ricerca tecnologica avanzata (pensiamo a strutture come l’ENEA ed a centri di ricerca come l’IMAST e l’IMCB). Il terzo aspetto di questo sviluppo locale, oggetto specifico del Patto, sarebbe dovuto intervenire su altri aspetti più critici – quali mobilità, efficienza della P.A., valorizzazione delle risorse artistico-ambientali ed imprenditorialità – ma proprio su questi terreni sta procedendo molto più lentamente.

Non a caso, infatti, fra i cinque indicatori di creatività (le 5C) di cui ci parla De Falco, quelli che costituiscono le weaknesses di un piano di sviluppo locale nel Sud si riferiscono al ‘capitale istituzionale’ (sistema giuridico e tasso di corruzione), a quello ‘umano’ (il livello d’istruzione dei lavoratori) ed a quello ‘sociale’ (la fiducia nelle istituzioni e la cooperazione).  I punti di forza, viceversa, sono correlati  a quel ‘ciclo della creatività’ che è un’effettiva caratteristica della gente del Sud – e dei Napoletani in particolare – con ritorni di tipo sia economico sia non economico. Anche in questo caso, precisa Stefano de Falco, per realizzare quella che è stata definita ‘economia della conoscenza’ occorre però stimolare aspetti che esulano dal puro e semplice talento creativo, appartenendo piuttosto alla sfera della socialità e dell’organizzazione.

«L’indice di creatività generalmente impiegato nella Silicon Valley è orientato a rilevare il valore delle infrastrutture culturali e sociali, a rilevare il grado di partecipazione degli individui  alla vita culturale ed è orientato a valutare l’azione delle politiche culturali e gli investimenti stanziati per promuovere e sostenere la creatività.» [v]

Pur condividendo in gran parte questa analisi, credo che lo stesso termine ‘economia della conoscenza’ ed i parametri ad essa correlati (flessibilità del lavoro, specializzazione flessibile dei prodotti e rapporto qualità-costo) restino comunque all’interno di un modello di sviluppo convenzionale e tecnicista, dove l’elemento umano e comunitario  sono fattori qualitativi importanti, ma non centrali.
Il libro di De Falco, d’altra parte, ci apre nuovi orizzonti, non limitandosi a segnalare gli ambiti in cui Napoli ha svolto e svolge un ruolo già innovativo e trainante (come il polo aerospaziale, tessile ed agro-alimentare), ma ipotizzando una nuova stagione d’investimenti in settori nuovi, come quello delle tecnologie informatiche (vedi il caso della Apple) e dell’alta moda (con marchi come Dolce e Gabbana). Altri aspetti sicuramente positivi in tal senso sono le progettualità riferite alla realizzazione di smart cities ed alla eccezionale diffusione di esperienze di start-up, per le quali Napoli occupa il 5° posto in Italia. Altro fattore di sviluppo per Napoli resta poi la gastronomia tipica, dove si coniuga tradizione ed innovazione,  valorizzando l’alta qualità delle materie prime con la ben nota sapienza artigiana.

sole«Il Vesuvio, la pizza, il caffè, il mandolino, sono elementi che concorrono al carattere innovativo della città di Napoli, non devono essere ritenuti né alternativi perché folkloristici né, però, sostitutivi.  Due esempi a caso tra i tantissimi che se ne possono fare: le botteghe artigianali di San Gregorio Armeno dove si creano i pastori presepiali e il centro Cesma dell’Università Federico II, nel quale ci sono tra le attrezzature più avanzate d’Europa, coesistono e devono coesistere quali fattori complementari di un unico sistema urbano che vede così Napoli città innovativa.»[vi]

Oltre ad offrire anche una ricca bibliografia, il libro di Stefano de Falco costituisce perciò una preziosa risorsa per riscoprire ed approfondire molti aspetti eccezionali d’una Città che non ha mai smesso di stupire per la sua capacità innovativa e spettacolare. Che si tratti di risorse ambientali, storiche, artistiche o tecnico-scientifiche,  infatti, Napoli ha infatti lasciato una traccia indelebile nella sua lunga storia, pur tra mille contraddizioni e gravata da due pesanti limiti strutturali. Da un lato lo sfruttamento e la marginalità cui è stata sottoposta quando ha perso la sua autorevolezza e centralità di ‘faro’ del Mediterraneo, dall’altro l’incapacità di reagire a decenni  di malgoverno e sottosviluppo grazie ad un modello economico alternativo: sostenibile, creativo, auto centrato e comunitario.

«Dunque il dibattito non è economia di mercato sì o economia di mercato no. Diversamente , il dibattito deve incentrarsi su quale ruolo debba essere attribuito al mercato e quale fisionomia dargli. […] Deve occuparsi di ciò che non intacca la dignità umana e deve essere fortemente regolamentato, affinché non entri mai in rotta di collisione  con le priorità sociali, con le esigenze ambientali, con i diritti dei lavoratori e dei consumatori. Deve essere trasparente e fortemente ancorato all’economia locale…» [vii]

Il merito di De Falco, dunque, è aver fatto riscoprire a tutti noi quanto Napoli ha già saputo dare e fare e quanto ancora abbia da dare e fare, grazie alle sue tante risorse ed alla vulcanica creatività dei suoi abitanti. Saperle indirizzare nel senso giusto è compito di chi ci amministra, ma anche di una comunità sempre più consapevole, innovativa ed attiva.

N O T E ———————————————————————————————–

[i]  Stefano De Falco (2016), VESUVIUS VALLEY – Perché Napoli è la città più innovativa al mondo!?, Napoli, Cultura Nova Edizioni

[ii]  Amedeo Colella, Introduzione , in: De Falco, op. cit., p.15

[iii]  Per maggior notizie su R. Florida visita: https://en.wikipedia.org/wiki/Richard_Florida  –  http://www.creativeclass.com/ –  http://www.citylab.com/authors/richard-florida/

[iv]  Roberto Mancini (2015), Trasformare l’economia. Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche, Milano, Franco Angeli

[v] De Falco, op. cit., p. 116

[vi]  Ivi, p.197

[vii]  Franco Gesualdi (2005), Sobrietà. Dallo spreco di pochi ai diritti di tutti, Milano, Feltrinelli, p. 122

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© 2017 Ermete Ferraro ( https://ermetespeacebook.com/ )