E C O S O C I A L I S M I

Ecosocialismo o barbarie?

Ho partecipato nei giorni scorsi ad un istruttivo incontro online così intitolato, organizzato e promosso da Sinistra Anticapitalista di Milano (https://www.facebook.com/events/290381306058188/?ref=newsfeed ).  Il tema trattato potrà forse risultare non del tutto chiaro, in quanto il termine ‘ecosocialismo’, pur intuendone il senso, resta ai più poco noto. È ciò che accade anche quando mi capita di parlare e scrivere di ‘ecopacifismo’, altra categoria politica che a non a tutti è chiara, per cui è sempre alto il rischio di fraintendimenti, equivoci e semplificazioni, che tendono a ricondurre quanto non si conosce sui rassicuranti binari del politicamente noto.

Già alcuni anni avevo scritto per il mio blog un articolo intitolato: “Ecosocialismo? Sì, grazie!”, col quale provavo a chiarire i termini entro i quali è riconducibile questa categoria dal punto di vista di chi, come me, non affonda le radici nel terreno della cultura marxista, bensì in quello di un ambito nonviolento ed ecopacifista. Come scrivevo allora:

«I principi fondamentali di questo approccio sono così sintetizzabili: (a) interdipendenza ed unità nella diversità; (b) decentramento e democrazia diretta; (c) centralità dell’idea di cittadinanza attiva e responsabile: (d) visione liberatrice della tecnologia; (e) impostazione sociale del lavoro; (f) visione filosofica improntata ad un ‘naturalismo dialettico’ e fondata su un’etica ecologica…». [i]

Ma l’alternativa ecosocialista al pensiero unico neoliberista non è proponibile senza chiarire le espressioni utilizzate e la loro evoluzione, per cui bene ha fatto Umberto Oreste, uno dei due relatori dell’incontro citato, a ripercorrere le tappe del pensiero ecosocialista a partire dal 1972, anno in cui alla critica del sistema economico capitalista cominciarono a sommarsi le denunce e gli allarmi provenienti dal mondo scientifico, ma anche le prime mobilitazioni ecologiste popolari. Il perseguimento di un’autentica armonia dell’uomo con la natura, d’altronde, già negli anni ‘70 era declinato secondo modalità abbastanza diverse. Si andava infatti dalla ‘ecosofia’ proposta dal filosofo della scienza norvegese Arne Naess [ii] alla contrapposizione tra “cultura e società” di cui si faceva portatore il sociologo gallese Raymond Williams [iii], passando per la filosofia di Herbert Marcuse e la sua critica alla repressività insita in una società fondamentalmente totalitaria [iv].

In tale disamina storica non potevano mancare naturalmente i riferimenti al fondamentale contributo ad una svolta ecologista costituito dal ‘rapporto sui limiti dello sviluppo’ prodotto nel 1972 dal Club di Roma, coi suoi ’10 scenari’ per uscire dalla crisi con una rivoluzione sostenibile [v], e  quelli alla nascita d’un soggetto politico ‘verde’, che materializzava la spinta verso una ecologia politica attiva, sia pure con tutte le contraddizioni registrate nei decenni successivi. Risale agli stessi anni ’80 lo stimolo del pensatore statunitense Murray Bookchin, uno degli autori fondamentali riconducibili al pensiero ecosociale e libertario, assai critico nei confronti di un’urbanizzazione antiecologica e promotore di una ‘ecologia della libertà’. [vi]

«Gli ideali di libertà oggi non mancano…e possono essere descritti con ragionevole chiarezza e coerenza. Abbiamo di fronte non solo l’esigenza di migliorare la società, o modificarla; abbiamo di fronte la necessità di ricostruirla. Le crisi ecologiche e i conflitti che ci hanno divisi in lotte che fanno del nostro il secolo più sanguinoso della storia, possono essere risolti soltanto se riconosciamo che ciò che qui viene messo in discussione è la civiltà dominante, non semplicemente un assetto sociale male organizzato […] Le soluzioni di tipo ‘eco-tecnocratico’, per così dire, comportano un livello tale di coordinazione sociale da far impallidire i più centralizzati dispotismi della storia […] Il messaggio ecologico è un messaggio di diversità, ma anche di unità nella diversità. La diversità ecologica, inoltre, non poggia sul conflitto, poggia sulla differenziazione, cioè su di una globalità che viene esaltata dalla varietà dei suoi componenti…» [vii]

Ecologia sociale e nonviolenza attiva

Questa lunga citazione di Bookchin fornisce una prima chiave di lettura del progetto ecosocialista, che egli centrava sulla critica della città e la proposta di un ‘municipalismo libertario’ a misura d’uomo, ma anche sul ripudio della mentalità consumistica e dell’agribusiness. Sono infatti pratiche che semplificano ecosistemi complessi, utilizzando tecnologie sempre più innaturali, mirando esclusivamente al profitto e producendo ‘degradazione ecologica’. Questa tensione verso una società alternativa, conforme ai principi dell’ecologia e promotrice d’una democrazia partecipativa e comunitaria, non era solo un’opzione politica, ma soprattutto etica. Nella sua visione, infatti:

«…ogni persona della comunità è un cittadino, non un individuo egoista e nemmeno il membro di un ‘collettivo particolare’ […] Un tale tipo di persona, scevro da interessi particolari perché vive in un ambiente dove tutti contribuiscono al bene della comunità, dando il meglio di se stessi e prendendo dal fondo comune quanto necessitano, darebbe alla condizione di cittadino una solidità materiale senza precedenti, superiore a quella ottenibile con la proprietà privata». [viii]

Da queste parole sembra trasparire la visione originaria, comunitaria, del cristianesimo, così come risuonano a echi dell’etica politica gandhiana, soprattutto laddove si esalta la dimensione collettiva dei piccoli centri, sintonizzati con gli ecosistemi nei quali si trovano ed in cui la tecnologia riacquista la sua caratteristica di supporto al lavoro umano. Mi riferisco in particolare ad alcuni concetti basilari del pensiero del Mahatma – e del ‘programma costruttivo’ nonviolento –  come quello di swaraj (autogoverno, autogestione) e di swadeshi  (localismo, attaccamento al proprio paese, autonomia, autosufficienza), come sottolinea Roberto Mancini.

«Il primo soggetto della pratica dello swadeshi è la comunità del villaggio, che deve provvedere all’organizzazione materiale della vita collettiva attraverso un’economia locale orientata alla sussistenza nell’equità che permette di non escludere nessuno. È il primo soggetto, non l’unico. Infatti Gandhi non è contrario a un’apertura dell’attività economica oltre i confini del villaggio; egli vuole solo impedire che ci siano modelli organizzativi che giungano a cancellare la rilevanza di questa unità territoriale per polverizzare il tessuto comunitario della società». [ix]

A questo punto – come affiorava anche dalla relazione di Umberto Oreste – viene alla mente il collegamento con un movimento che gran parte di questi obiettivi ha fatto propri, quello sulla c.d. ‘decrescita felice’, il cui principale esponente è Serge Latouche, fautore di un’economia frugale, rispettosa dei limiti ecologici, che coniughi il localismo con un modello anticrescista e conviviale.

«A questo punto il sistema non è più riformabile, dobbiamo uscire da questo paradigma e qual è questo paradigma? È il paradigma di una società di crescita. La nostra società è stata a poco a poco fagocitata dall’economia fondata sulla crescita, non la crescita per soddisfare i bisogni che sarebbe una cosa bella, ma la crescita per la crescita e questo naturalmente porta alla distruzione del pianeta perché una crescita infinita è incompatibile con un pianeta finito. […] Il nostro immaginario è stato colonizzato dall’economia, tutto è diventato economico». [x]

Le accuse più comuni rivolte ai sostenitori della ‘decrescita felice’ sono quella di anti-universalismo, di cedimento a posizioni anti-tecnologiche e perfino di romanticismo ‘primitivista’. Eppure, come confermato dallo stesso Oreste, gran parte della revisione dello stesso pensiero marxista aveva puntato a superare la sua visione ‘produttivista’ ed a contrapporre un ‘globalismo ecologico’ al tradizionale internazionalismo proletario.Come riferivo nel mio articolo precedente, inoltre, la stessa mozione sull’ecosocialismo approvata nel 2013 segnava una discontinuità con la visione tradizionale della sinistra marxista, coniugando l’anticapitalismo di fondo col pensiero ecologista e con una democrazia partecipativa.

«L’ecosocialismo, ossia la trasformazione sociale ed ecologica, si trova alla congiunzione dell’ecologia anti-capitalista con i movimenti di sinistra antiproduttivisti […] è una nuova sintesi per fronteggiare la doppia sfida delle crisi sociale ed ambientale- che hanno le stesse radici […] Esso implica il ricorso a radicalità concrete ed a misure che noi chiamiamo ‘pianificazione ecologica’, basata sulla redistribuzione delle ricchezze esistenti ed un sistema di produzione radicalmente differente, che tenga conto dei limiti ambientali, che si basi sul rigetto di ogni forma di dominazione ed oppressione, così come sulla sovranità popolare…». [xi]

Già negli anni ’40 del secolo scorso, il principale teorico del modello gandhiano, Joseph C. Kumarappa, aveva parlato di “economia della libertà” e di “economia della condivisione”, sottolineando fra l’altro il nesso fra un’economia predatoria e basata sul profitto e la conflittualità permanente, finalizzate al controllo oppressivo e violento delle risorse naturali.

«Le economie fondate sul petrolio e sul carbone portano a conflitti tra le nazioni perché questi combustibili sono limitati. […] La vera soluzione per i conflitti internazionali passa per l’autosufficienza economica, la riduzione degli standard di vita di alcune popolazioni e il riaggiustamento della vita di ogni nazione per permettere lo sviluppo delle altre…». [xii]

Ecosocialismo ed ecopacifismo per un’alternativa nonviolenta

Ovviamente l’incontro citato su “Ecosocialismo o barbarie” si è sviluppato seguendo la linea più ‘classica’ dell’ecosocialismo, e quindi in chiave prevalentemente collettivista ed internazionalista, pur aprendosi ad una globalità di stampo ecologista e ad una visione che superi il produttivismo classico. In tal senso, una recente lettura alternative è stata quella di Jason W. Moore, autore di “Antropocene o Capitalocene. Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria”, per la cui prefazione all’edizione italiana egli scriveva:                                                   

«L’Antropocene pone correttamente la questione del dualismo Natura/Società senza tuttavia poterla risolvere a favore di una nuova sintesi. Quest’ultima, a mio avviso, dipende da un ripensamento del capitalismo all’interno della rete della vita. È bene che sia ormai diffusissimo lo slogan “cambiare il sistema, non il clima”, ma bisogna fare attenzione al modo in cui pensiamo il sistema. […] L’argomento-Capitalocene, quindi, segnala una prospettiva diversa da quella comunemente in uso negli studi sul cambiamento ambientale globale […] Tale approccio contesta il materialismo volgare implicito in molti studi sul cambiamento ambientale globale, per il quale le idee, le culture e anche le rivoluzioni scientifiche sarebbero fenomeni derivati, di secondaria importanza – un problema che affligge le analisi sia radicali che tradizionali…». [xiii]

Un altro recente ed importante contributo all’apertura di un confronto a più voci sull’ecosocialismo è sicuramente quello di Michael Löwy, il sociologo brasiliano operante in Francia che nel 2001 ha scritto con Joel Kovel il Manifesto Ecosocialista, proprio per invitare ad un ‘dialogo’ che conducesse ad un auspicabile ‘internazionale ecosocialista’.

«Respingiamo tutti gli eufemismi o l’ammorbidimento propagandistico della brutalità di questo regime: tutto il greenwashing dei suoi costi ecologici, ogni mistificazione dei costi umani sotto il nome di democrazia e diritti umani […] Agendo sulla natura e sul suo equilibrio ecologico, il regime, con il suo imperativo di espandere costantemente la redditività, espone gli ecosistemi a inquinanti destabilizzanti, frammenta gli habitat che si sono evoluti nel corso di eoni per consentire il fiorire di organismi, dilapida risorse e riduce la sensuale vitalità della natura a la fredda interscambiabilità richiesta per l’accumulazione del capitale […] Crediamo che l’attuale sistema capitalista non possa regolare, né tanto meno superare, le crisi che ha messo in atto. Non può risolvere la crisi ecologica perché per farlo è necessario porre dei limiti all’accumulazione, un’opzione inaccettabile per un sistema basato sulla regola: cresci o muori! […] In sintesi, il sistema mondiale capitalista è storicamente in bancarotta. È diventato un impero incapace di adattarsi, il cui stesso gigantismo ne rivela la debolezza sottostante. È, nel linguaggio dell’ecologia, profondamente insostenibile e deve essere radicalmente cambiato, anzi sostituito, se deve esserci un futuro degno di essere vissuto […] Si tratta…di sviluppare la logica di una trasformazione sufficiente e necessaria dell’ordine attuale, e di iniziare a sviluppare i passi intermedi verso questo traguardo. Lo facciamo per pensare più profondamente a queste possibilità e, allo stesso tempo, iniziare il lavoro di riunire tutti coloro che la pensano allo stesso modo […] L’ecosocialismo…insiste…sulla ridefinizione sia del percorso che dell’obiettivo della produzione socialista in un quadro ecologico. Lo fa proprio nel rispetto dei “limiti alla crescita” essenziali per la sostenibilità della società. Questi sono abbracciati, tuttavia, non nel senso di imporre la scarsità, il disagio e la repressione. L’obiettivo, piuttosto, è una trasformazione dei bisogni, e un profondo spostamento verso la dimensione qualitativa e lontano da quella quantitativa». [xiv]

Esattamente venti anni dopo, egli ha confermato questa sua proposta in un articolo nel quale, nel ribadire la critica all’ossessione per la ‘crescita’ economica tipica del sistema capitalista, sottolinea anche come questo non soltanto esaspera il consumismo compulsivo e provoca inquinamento e devastazione ambientale, ma si ripercuote anche sulla corsa agli armamenti. Si tratta di una riflessione che, pur non esplicitamente, collega l’opzione ecosocialista a quella ecopacifista, dal momento che quel modello predatorio, energivoro ed iniquo di sviluppo deve necessariamente essere sostenuto e difeso dal braccio armato del complesso militare industriale. Come avevo puntualizzato alcuni anni fa:

«L’ecopacifismo non è una dottrina politica ma neanche una semplice strategia d’zione. Sullo sfondo della proposta ecopacifista, infatti, si delinea un ben preciso modello di convivenza e di sviluppo economico-sociale. La sua caratterizzazione ecosocialista, autogestionaria ed antimilitarista è riconducibile sia alla tradizione etico-religiosa dell’Ahimsa gandhiana, sia alla nonviolenza laica di pensatori come Capitini, sia anche alle proposte di pacifisti di matrice anticapitalista e terzomondista». [xv]

Parlare di ‘ecosocialismi’, quindi, per me è un modo per ricercare – secondo l’auspicio di Löwy – l’unità di azione di coloro che ritengono indispensabile il superamento del modello capitalista e la transizione ad una società più giusta, pacifica ed ecologica. Il rifiuto del profitto ad ogni costo, del consumismo sfrenato, dello sviluppo senza limiti e dello sfruttamento dell’uomo e della natura sono, a mio avviso, fondamentali elementi etico-politici in comune su cui bisogna costruire un’alternativa ecosocialista. Prima che sia troppo tardi per invertire la rotta e riprendere in mano il nostro futuro.

L’ecosocialismo per un “futuro rosso-verde”

In tale direzione sembra andare la sollecitazione dello stesso Michael Löwy, il quale – nell’articolo del 2021 cui facevo cenno – parlava già dal titolo di questo “Red-Green Future”.

«L’ecosocialismo offre un’alternativa radicale che mette al primo posto il benessere sociale ed ecologico. Tenendo conto dei legami tra sfruttamento del lavoro e sfruttamento dell’ambiente, l’ecosocialismo si oppone sia alla ‘ecologia di mercato’ riformista sia al ‘socialismo produttivista’. Abbracciando un nuovo modello di pianificazione solidamente democratica, la società può assumere il controllo dei mezzi di produzione e del proprio destino. Orari di lavoro più brevi e un focus sui bisogni autentici rispetto al consumismo possono facilitare l’elevazione dell’ ‘essere’ rispetto all’ ‘avere’ ed il raggiungimento di un più profondo senso di libertà per tutti. Per realizzare questa visione, tuttavia, ambientalisti e socialisti dovranno riconoscere la loro lotta comune e il modo in cui si collega al più ampio “movimento di movimenti” che cercano una Grande Transizione».[xvi]

La storia del movimento internazionale dei Verdi è costellata di buoni propositi ma anche di cedimenti e compromessi, che paradossalmente lo hanno caratterizzato proprio quando il suo peso è cresciuto all’interno di alcuni stati, rendendo però il suo contributo politico sempre meno radicale ed incisivo. Sarebbe d’altra parte poco lungimirante rinchiudere il discorso ecopacifista all’interno della cerchia della new wave dei partiti comunque riconducibili alla sinistra marxista, trascurando l’apporto dei movimenti ambientalisti e dei partiti esplicitamente ecologisti proprio quando, viceversa, sarebbe necessaria una nuova sinergia di taglio ecosocialista. Come ricordavo nel mio precedente contributo, infatti, non sono state poche le organizzazioni politiche che in questi decenni si sono dichiarate esplicitamente ecosocialiste, soprattutto in Spagna (Izquierda Unida, Esquerra Unida i Alternativa), in Portogallo (Os Verdes), in Francia (Les Alternatifs), in Germania (Die Linke) ed in Grecia (Syriza). Molte di esse non sono più operative o sono confluite in organizzazioni e reti più ampie, ma è innegabile il contributo che anche il movimento dei Verdi ha dato allo sviluppo d’un pensiero ecosocialista. Basti pensare al Manifesto dei Global Greens, la rete che a livello mondiale collega oltre 100 partiti, rappresentati da più di 400 parlamentari. I sei principi fondanti (o ‘pilastri’ comuni) dei Verdi globali riguardano infatti solo per metà l’ambiente in senso stretto (Sostenibilità, Rispetto della diversità, Saggezza ecologica), mentre l’altra metà attiene finalità esplicitamente socialiste e pacifiste (Democrazia partecipativa, Giustizia Sociale e Nonviolenza). Anche nella sua ultima revisione (2017), lo Statuto dei Verdi Globali così si esprime a proposito del ‘pilastro’ della giustizia sociale:

«Affermiamo che la chiave della giustizia sociale è l’equa distribuzione del sociale e del naturale risorse, sia a livello locale che globale, per soddisfare incondizionatamente i bisogni umani fondamentali e per garantire che tutti i cittadini abbiano piene opportunità di sviluppo personale e sociale. Dichiariamo che non c’è giustizia sociale senza giustizia ambientale e non c’è giustizia ambientale senza giustizia sociale. Questo richiede: una giusta organizzazione del mondo e un’economia mondiale stabile che arresti il crescente divario tra ricchi e poveri, sia all’interno che tra i paesi; un bilanciamento del flusso di risorse da Sud a Nord; l’alleviamento dell’onere del debito sui paesi poveri che impedisce il loro sviluppo; l’eliminazione della povertà, come imperativo etico, sociale, economico ed ecologico…» [xvii]

Ovviamente è molto difficile conciliare questi ambiziosi obiettivi – come anche quello della democrazia partecipativa e della nonviolenza – con la presenza dei partiti verdi più rilevanti all’interno di coalizioni di governo che perseguono programmi ben diversi, se non opposti. D’altra parte bisogna riconoscere che quelli del tutto minoritari – come nel caso dei Verdi italiani – hanno ancor meno possibilità di affermare tali principi e, per timore di perdere i già pochi consensi, sono riluttanti ad alleanze con una sinistra alternativa che, purtroppo, risulta in molte realtà altrettanto ininfluente e, in molti casi, piuttosto autoreferenziale. Resta comunque innegabile l’osservazione di Löwy sulla inconciliabilità dell’alternativa ecosocialista con un ambientalismo annacquato, adattato al sistema capitalista.

«Una politica ecologica che funzioni all’interno delle istituzioni e delle regole prevalenti della ‘economia di mercato’ non riuscirà a far fronte alle profonde sfide ambientali che ci attendono. Gli ambientalisti che non riconoscono come il ‘produttivismo’ scaturisca dalla logica del profitto sono destinati a fallire o, peggio, ad essere assorbiti dal sistema. Gli esempi abbondano. La mancanza di un coerente atteggiamento anticapitalista ha portato la maggior parte dei partiti verdi europei, in particolare in Francia, Germania, Italia e Belgio, a diventare semplici partner “eco-riformisti” nella gestione social-liberale del capitalismo da parte dei governi di centrosinistra». [xviii]

Che fare allora? La risposta è semplice, anche se oggettivamente difficile da mettere in pratica. C’è bisogno di un’alleanza strategica di tutti i movimenti che contrastino la logica capitalista e le sue terribili conseguenze sul piano del disastro ambientale, ma anche del crescente rischio di escalation dei conflitti armati e della sempre maggiore marginalità di enormi masse di un’umanità segnata dall’ingiustizia e dallo sfruttamento. Ciò significa un’apertura delle realtà socialiste che più hanno riflettuto su quest’alternativa al contributo di altri ‘ecosocialismi’’, da quello di matrice etico-religiosa (che soprattutto con papa Francesco sta assumendo connotazioni più esplicite sul terreno dell’impegno congiunto su giustizia, pace e salvaguardia del Creato) a quello ispirato dalla nonviolenza attiva dei movimenti pacifisti, comprendendo ovviamente quello che continua a provenire da organizzazioni ‘verdi’ che – come nel caso del Green Party degli Stati Uniti – in molti casi sono già alleate a livello locale con alcune realtà ecosocialiste [xix].

Un secondo obiettivo da perseguire ritengo che sia la saldatura tra ecosocialismo ed ecopacifismo, perché ogni ipotesi di sviluppo alternativo finalizzato a contrastare esclusivamente la crisi climatica non terrebbe in sufficiente conto il peso del complesso militare-industriale sulla devastazione ambientale e sul controllo delle risorse e del potere esercitato a livello globale. La stessa pandemia che ha afflitto l’umanità in questi anni, del resto, è un drammatico esempio di come l’attenzione generale sia stata strumentalmente spostata dal necessario e radicale cambiamento del rapporto uomo-ambiente su questioni apparentemente solo scientifiche, come quelle relative ad una medicina sempre più di emergenza e sempre meno di prevenzione sociale. Tutto ciò ha alimentato non soltanto il fideismo scientista nelle soluzioni ‘tecniche’ e nell’autorità indiscutibile di chi governa la sanità, ma ha suscitato di fatto anche un intollerabile controllo sulla popolazione di stampo autoritario e militarista.  

La via verso un’alternativa ecosocialista, insomma, è costellata di ostacoli e deviazioni, ma è l’unica da percorrere per impedire che la catastrofe ecologica – sia pure a livello globale – continui a colpire in primo luogo ed in misura maggiore proprio chi è già stato vittima dell’ingiustizia, dello sfruttamento e dell’oppressione. È una questione etica, ma proprio per questo profondamente politica.                                    


Note:

[i] Ermete FERRARO, “Ecosocialismo? Sì, grazie!”, Ermete’s Peacebook, (08.06.2014) >https://ermetespeacebook.blog/2014/06/08/ecosocialismo-si-grazie/

[ii] Vedi, ad es.: Arne NAESS, Dall’ecologia all’ecosofia, dalla scienza alla saggezza, in M. Ceruti, E. Laszlo (a cura di), Physis: abitare la terra, Feltrinelli, Milano 1988

[iii] Vedi, ad es.: Raymond WILLIAMS, Cultura e rivoluzione industriale, Torino, Einaudi, 1968

[iv] Vedi, ad es.: Herbert MARCUSE, Critica della società repressiva, Milano, Feltrinelli, 1968.  

[v] Donella H. MEADOWS, Dennis L. MEADOWS; Jørgen RANDERS; William W. BEHRENS III, The Limits to Growth, 1972. (trad. ital.: Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows; Jørgen Randers; William W. Behrens III, Rapporto sui limiti dello sviluppo, 1972)

[vi] Vedi, ad es.: Murray BOOKCHIN (1982), L’ecologia della libertà. Emergenza e dissoluzione della gerarchia, (trad. ital.: Milano, Elèuthera, 1986)

[vii] Murray BOOKCHIN, Per una società ecologica, Milano. Elèuthera, 1989, pp 185-187

[viii] Ibidem, p. 210

[ix]  Roberto MANCINI, Trasformare l’economia – Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche, Milano, Franco Angeli, 2014, p. 160. Vedi anche: Mohandas K. GANDHI, Teoria e pratica della Non Violenza (a cura e con un saggio introduttivo di Giuliano Pontara), Torino, Einaudi, 1975 e ss.

[x]  Cfr. Serge Latouche, cit. in https://it.wikiquote.org/wiki/Serge_Latouche#cite_note-gri-1

[xi] http://ecosocialisme.com/2013/12/17/motion-proposee-par-le-parti-de-gauche-fr-alliance-rouge-verte-dk-syriza-gr-bloco-port-die-linke-all-sur-les-questions-ecologiques/

[xii] Joseph C. KUMARAPPA (1947), cit. da Marinella Correggia in: J.C. Kumarappa, Economia di condivisione – Come uscire dalla crisi mondiale, Pisa, Centro Gandhi Edizioni, 2011 – Quad. Satyagraha n. 20, p. 183

[xiii] Jason W. MOORE, Antropocene o Capitalocene. Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria, Verona, Ombre Corte, 2017 (Prefazione all’ediz. italiana > https://www.dinamopress.it/news/lalternativa-antropocene-capitalocene-chiamare-sistema-suo-nome/

[xiv] Joel KOVEL – Michael LÖWY, An Ecosocialist Manifesto, Paris 2001 > http://environment-ecology.com/political-ecology/436-an-ecosocialist-manifesto.html  (trad. mia)

[xv] Ermete FERRARO, L’ulivo e il girasole – Manuale ecopacifista, Napoli, VAS-Verdi Ambiente Società, 2014 – citato in: Movimento Internazionale della Riconciliazione, La colomba e il ramoscello – Un progetto ecopacifista, Torino, Ed. Gruppo Abele, 2021, p. 81

[xvi] Michael LÖWY, Why Ecosocialism: For a Red-Green Future, dec. 2018 > https://greattransition.org/publication/why-ecosocialism-red-green-future#top (trad. mia)

[xvii] GLOBAL GREENS, Global Greens Charter (Liverpool 2017) > https://globalgreens.org/wp-content/uploads/2021/06/GlobalGreens_Charter_2017.pdf

[xviii]  Michael LÖWY, Why Ecosocialism: For a Red-Green Future, cit.

[xix]  Cfr. https://www.gp.org/ten_key_values  ed anche https://ecosocialists.dsausa.org/about-us/introduction/

© 2021  Ermete Ferraro

IL MILITARISMO ETERNO

Alla ricerca dell’Ur-Fascismo…

Non vorrei che si equivocasse su ciò che sto per scrivere. Nonostante la mia lunga esperienza di pacifista ed antimilitarista, non voglio sostenere la tesi che la natura della struttura militare sia intrinsecamente fascista, ma soffermarmi su alcune considerazioni suggeritemi dalla lettura dell’opuscolo di Umberto Eco su “Il fascismo eterno”. [i]  All’inizio egli racconta che, da ragazzo, aveva “imparato che la libertà di parola significa libertà dalla retorica[ii] , per cui eviterò di cadere in questo vizio, limitandomi a confrontare le tesi di questo libello con quanto storia ed esperienza ci hanno insegnato sul militarismo.

Quando il giovane Umberto apprese dalla folla festante che la guerra era finita, la sua prima reazione fu quasi di sconcerto:

La pace mi diede una sensazione curiosa. Mi era stato detto che la guerra permanente era la condizione normale per un giovane italiano…” [iii].

Ecco un primo elemento di riflessione. La guerra come ‘normalità’, come elemento imprescindibile della storia umana, è uno dei miti che hanno alimentato per secoli la retorica nazionalista della ‘nazione in armi’, disposta a sacrificare la ‘meglio gioventù’ sull’altare del culto della bellicosità come virtù. L’analisi di Eco si sofferma sui confini tra il fascismo italiano ed altre forme di totalitarismo, per evitare semplificazioni e generalizzazioni che non aiutano a capirne la specificità, ad esempio, rispetto al nazismo, col quale pur ha sempre condiviso proprio la “liturgia militare”.

 “Il fascismo non era una ideologia monolitica, ma piuttosto un collage di diverse idee politiche e filosofiche, un alveare di contraddizioni […] L’immagine incoerente che ho descritto […] era un esempio di sgangheratezza politica ed ideologica. Ma era una ‘sgangheratezza ordinata’, una confusione strutturata. Il fascismo era filosoficamente scardinato, ma dal punto di vista emotivo era fermamente incernierato ad alcuni archetipi…”  [iv] 

Lo studioso è quindi andato alla ricerca di tali elementi fondanti, per enucleare e poi fissare le caratteristiche tipiche e strutturali di ciò che ha chiamato alla tedesca Ur-Fascismo, o ‘fascismo eterno’, mappandone una sorta di DNA. Ebbene, ritengo che alcuni di questi suoi ‘archetipi’ riguardino anche il militarismo ed i suoi ‘valori’, sebbene di recente purgati dagli aspetti più retorici e stridenti con l’assetto democratico. L’Italia non è un paese dichiaratamente militarista, ma bisogna prendere coscienza che alcuni di questi elementi autoritari, in forme certamente più subdole, non sono mai scomparsi del tutto. Dobbiamo farlo prima che sia troppo tardi per riconoscerli e per contrastarli.

Tradizione vs modernismo

I primi due aspetti messi in luce da Umberto Eco, come tipici del ‘fascismo eterno’, sono il culto della tradizione” – che rinvia a ‘rivelazioni’ senza tempo e ad autorità assolute – ed il conseguenziale rifiuto del modernismo”, da non confondere però col progresso tecnologico.

…Non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata annunciata una volta per tutte […] Il tradizionalismo implica il rifiuto del modernismo. Sia i fascisti sia i nazisti adoravano la tecnologia […] Tuttavia, sebbene il nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della modernità era solo l’aspetto superficiale di una ideologia basata sul ‘sangue’ e la ‘terra’ (Blut und Boden) …” [v]

È facile riscontrare questi due elementi caratteristici dell’U-F anche nella visione militarista. I cosiddetti “valori etico-militari”, pur adattati ai tempi nuovi, restano infatti ancorati ad un patriottismo più nostalgico dei fasti passati che proiettato verso il futuro. La persistente caratterizzazione delle forze armate come unico strumento di ‘difesa della Patria’, inoltre, si nutre proprio di quella ideologia un po’ pagana che lega tragicamente la terra al sangue.

“La Patria, la disciplina militare e l’onore militare rappresentano i pilastri dell’etica militare. Oltre questi valori fondamentali per la realtà motivazionale del militare possiamo elencarne tanti altri che non sempre sono semplice corollario ai primi […] patriottismo, spirito di sacrificio, […] aspirazione alla gloria, coraggio […] abnegazione, amor proprio, tradizioni […]  Tornando alla Patria, essa può essere ben definita come il bene supremo di tutta la collettività e può chiedere il sacrificio del singolo per il bene di tutti (‘dulce et decorum est pro patria mori’, così Orazio). [vi]

Un inveterato luogo comune del militarismo era (e nonostante tutto rimane) la convinzione che sacrificare la propria vita per la Patria sia più importante e nobile che spenderla, da vivi, contribuendo giorno per giorno al benessere di chi la abita. Essa peraltro viene considerata come una sorta di patrimonio acquisito da proteggere più che una realtà dinamica ed aperta da promuovere. Difendere la ‘tradizione’, pertanto, diventa un impegno prioritario, per conservare integro lo spirito nazionale, preservandolo da contaminazioni straniere e da insidiose tendenze moderniste.  Scriveva a tal proposito il gen. Tortora, già Consigliere del Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare:

A rendere diverse le Forze Armate rispetto al pubblico impiego in genere, elevandole al di sopra delle altre Istituzioni, è soprattutto la Tradizione […] I miti dell’eroe, del martire […] i riti delle cerimonie e delle celebrazioni militari, in cui la memoria è rispettata ed il passato costantemente riattualizzato; i simboli della bandiera, dell’uniforme, dei distintivi di grado […] gli usi, legati ad un codice di comportamento non scritto, ma non per questo meno sentito e vincolante. Quelli appena descritti sono elementi di un culto laico, compendiati in un insieme di consuetudini interiorizzate […] Seguire la tradizione, persuasi del suo valore, preserva i principi etici correlati alla vita militare, al punto che la tradizione assurge ad autonomo principio etico”. [vii]

Sono parole troppo chiare per richiedere spiegazioni o commenti, anche se forse un alto ufficiale si esprimerebbe oggi con minore enfasi retorica, pur senza rinnegare quegli alati principi… Del resto, come scriveva Eco, una cosa è la ricerca della modernità sul piano tecnologico – che per le forze armate è ovviamente un obiettivo irrinunciabile affinché il c.d. ‘strumento militare’ non risulti inefficace ed obsoleto – ; ben altro è invece l’accettazione del modernismo, percepito come Weltanshauung radicalmente opposta al tradizionalismo, ossia come un atteggiamento mentale progressista ed anticonformista, sempre alla ricerca del nuovo e del diverso.

“La scommessa delle forze armate è quella di mantenere una forte stabilità morale derivante dalla tradizione, senza farne un alibi per una pigra e retriva conservazione dell’esistente, bensì per mantenersi salde e unite, in un panorama mondiale sottoposto a continui rivolgimenti politici, economici e sociali “. [viii]

Il ‘mimetismo’, che nelle forze armate italiane non attiene solo alla modalità di abbigliamento dei soldati ma anche al tentativo, talvolta maldestro, di non tagliarsi fuori del tutto dalla realtà contemporanea, ha più recentemente indotto i loro vertici a correggere un po’ il tiro, come si percepisce leggendo un testo scritto nel 2010 dal generale Camporini, allora Capo di S.M. della Difesa:

“Parlare di Patria, parlare di sacrificio, e ancor più di sacrificio della vita appare oggi di un’attualità forte e, contemporaneamente, di una lontananza culturale e sociale quasi inconcepibile […] Le Forze Armate…sono state e sono tuttora ‘portatrici sane’ di quei valori etici che una parte della nostra società non dico abbia smarrito ma, forse, ha più o meno consapevolmente messo al margine dei propri comportamenti […] Ecco perché appare indispensabile coltivare e promuovere l’etica come principale fattore di coesione ed efficacia, a garanzia dell’assolvimento dei compiti propri delle Forze Armate”. [ix]

Il linguaggio si aggiorna, ma i principi fondamentali restano, confermati dal riferimento nel primo caso alla necessità di “una forte stabilità morale” e nel secondo alla ‘etica militare’ come “principale fattore di coesione” nazionale.

 Attivismo vs intellettualismo

La seconda antitesi che per U. Eco caratterizza il ‘fascismo eterno’ è quella tra l’azione, esaltata quasi come valore in sé, e l’intellettualismo. “L’arte della guerra”- per mutuare l’espressione del suo più famoso ed antico teorico, il cinese Sun-Tsu – è basata sì sulla strategia, ma l’ingrediente fondamentale resta sempre e comunque l’azione. Il fascismo, in particolare, ha insistito sulla celebrazione dell’azione bellica in contrapposizione all’atteggiamento statico dell’intellettuale, inetto e perso nelle sue astratte teorizzazioni.

“Per questo occorre molta fede e pochissime teorie […] più che dei programmi esistono dei compiti, più che delle formule esistono dei cambiamenti, più che dei filosofi si vogliono dei soldati…[x]

Il fatto è che la cultura è (o almeno dovrebbe essere) riflessione, spirito critico, ricerca di verità non stabilite una volta per tutte, confronto con ciò che è diverso e nuovo. Viceversa, nella sua esaltazione dell’omologazione (non a caso i soldati indossano l’uniforme…), il ‘militarismo eterno’ è invece proteso verso l’azione, guarda con sospetto alle differenze e considera il disaccordo un’intollerabile infrazione al codice della disciplina fondata sul quella obbedienza che, secondo il l’art. 5 del Regolamento di disciplina militare:

“consiste nella esecuzione pronta, rispettosa e leale degli ordini attinenti al servizio e alla disciplina, in conformità al giuramento prestato”. [xi]

Discutere è un verbo che mal si addice a chi milita in un’organizzazione verticistica, gerarchica e dove si giura obbedienza ai superiori. Mettere qualcosa in discussione, di conseguenza, è più che un’infrazione alla disciplina. È una forma di rottura dell’ordine costituito, una pericolosa insubordinazione e, sostanzialmente, la causa di una discordia che indebolisce l’insieme del ‘corpo’, rappresentando quindi un vero e proprio tradimento.

“la cultura è sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici […] il sospetto verso il mondo intellettuale è sempre stato un sintomo di Ur-Fascismo” […] Lo spirito critico opera distinzioni, e distinguere è segno di modernità. Nella cultura moderna, la comunità scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l’Ur-Fascismo il disaccordo è tradimento”. [xii]

Ecco perché il militarismo non richiederà mai ai suoi uomini di ‘pensare’ (compito riservato a chi comanda), bensì di limitarsi ad eseguire gli ordini ricevuti in modo pronto ed efficiente, senza se e senza ma.

“La specificità dell’ordinamento militare deriva dalle peculiari esigenze operative e strutturali delle forze armate. A differenza infatti delle altre branche dell’amministrazione dello Stato che producono soprattutto atti formali, l’organizzazione militare produce, particolarmente in caso di impiego, un’attività di carattere operativo, che come tale non è sottoponibile a veri e propri controlli giuridici di legittimità o di convenienza. […] Esistono inoltre esigenze specifiche fondamentali che l’ordinamento militare deve soddisfare, quali l’immediata esecuzione degli ordini in operazioni e il mantenimento di un’elevata coesione nell’organismo, per evitare sbandamenti nelle condizioni di tensione estrema in cui può trovarsi in combattimento. Per poter essere efficiente l’organismo militare fa ricorso a particolari valori anche simbolici – l’onore, il dovere, lo spirito di sacrificio, lo spirito di corpo e così via – e a un sistema gerarchico…” [xiii]

Nazionalismo xenofobo vs internazionalismo

Il terzo ‘archetipo’ costituente l’identità dell’Ur-Fascismo delineato da Umberto Eco è ovviamente il nazionalismo, sul quale ogni regime del genere affonda le basi ideologiche, eche legittima l’assetto militarista come legittima difesa dell’identità di un popolo da presunti attacchi alla propria autodeterminazione. È la stessa motivazione che, affondando le radici nella viscerale paura degli ‘altri’ – percepiti come ostili soprattutto se ‘diversi’ ideologicamente e culturalmente – ha consentito al militarismo di essere parte integrante delle dottrine social-nazionali e nazional-popolari.

Il ‘fascismo eterno’ – spiegava Eco – tende in genere a “far appello alle classi medie frustrate”, a disagio per le crisi economiche ma ancor più terrorizzate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni e, aggiungerei per attualizzare, dalle presunte ‘invasioni’ dei popoli del terzo mondo. Per spingere questa frustrata e provata classe media a reagire, però, c’è sempre bisogno di creare ed esaltare un’identità collettiva, da contrapporre ai ‘nemici’ della patria.

“A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. È questa l’origine del ‘nazionalismo’. Inoltre, gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l’ossessione per il complotto, possibilmente internazionale […] Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia”. [xiv]

Benché il complesso militare-industriale, soprattutto negli ultimi decenni, risulti sempre più legato ad interessi economici multinazionali, e nonostante il fatto che – al di là dei conflitti tra gli imperialismi delle superpotenze – il sistema militare abbia assunto forme organizzative sempre più inter-nazionali, come nel caso della NATO o della perseguita ‘difesa comune’ europea, il militarismo eterno resta connesso alle tradizionali ideologie nazionaliste.

“Il nazionalismo è l’ideologia dello stato nazionale, afferma che le nazioni esistono e presentano caratteristiche esplicite e peculiari, che i valori e gli interessi nazionali hanno la priorità su tutti gli altri, e che le nazioni devono essere politicamente indipendenti e sovrane. […] Nella sua versione più radicale, il nazionalismo subordina ogni valore politico a quello nazionale, pretende di essere l’unico interprete e difensore legittimo dell’interesse nazionale e considera ogni tipo di conflitto sociale o di competizione politica una minaccia per la solidarietà nazionale […] Il nazional-populismo […] sta crescendo anche in molti paesi dell’Europa centrale e occidentale come reazione ai fenomeni di spaesamento e de-territorializzazione causati dai processi di globalizzazione e di integrazione sopranazionale”. [xv]

Dai ‘fascismi’ del secolo scorso ai ‘sovranismi’ attuali, infatti, permane una costante l’impulso a far ricorso allo ‘strumento militare’ come autodifesa dalla denunciata preponderanza e/o invadenza da parte di avversari esterni. Perfino le dottrine militari più recenti, con minore enfasi retorica, non rinunciano mai ad identificare le forze armate con l’unica vera garanzia dell’indipendenza ed unità nazionale, il solo baluardo nei confronti di avversari sempre nuovi e sempre potenzialmente aggressivi. Certo, una volta si dichiarava che i soldati difendevano con la propria stessa vita i ‘sacri confini della Patria’. Oggi tali confini sono ormai diventati labili e non più legati ad un determinato territorio, per cui la nuova concezione della ‘difesa’ non è più rivolta ad un’astratta ‘terra patria’ e, più realisticamente, mira a salvaguardare, ovunque e comunque, ‘interessi nazionali’. Il sistema militare ha pertanto adattato la mission ai nuovi scenari globalizzati, come si nota anche in recenti affermazioni del nostro Ministero della difesa.

“Il fine ultimo della politica nazionale di sicurezza internazionale e difesa è la protezione degli interessi vitali e strategici dell’Italia. Tale obiettivo richiede che sia assicurata la difesa dello Stato e della sua sovranità, che sia perseguita la costruzione di una stabile cornice di sicurezza regionale e che si operi per facilitare la creazione di un ambiente internazionale favorevole. Sebbene multiformi strumenti d’azione intergovernativa potranno essere impiegati dal Governo per il raggiungimento di tali obiettivi, la capacità delle Forze armate di difendere l’Italia e i suoi interessi rimangono centrali”.[xvi]

C’è un’evidente tendenza, inoltre, a confondere il mondialismo auspicato dai pacifisti con una concezione globalizzata del mondo. Ma mondialismo non è affatto sinonimo di globalizzazione, tanto è vero che la macchina da guerra del complesso militare-industriale diventa sempre più plurinazionale e gli ‘interessi’ che si propone di difendere sono in effetti asserviti all’imperialismo economico delle finanziarie e delle multinazionali.

‘Vita per la lotta’ vs ‘lotta per la vita’

“Per l’Ur-Fascismo non c’è lotta per la vita, ma piuttosto ‘vita per la lotta’. Il pacifismo è allora collusione col nemico, il pacifismo è cattivo perché la vita è una guerra permanente […] …dal momento che i nemici debbono e possono essere sconfitti, ci dovrà essere una battaglia finale, a seguito della quale il movimento avrà il controllo del mondo. Una simile soluzione finale implica una successiva era di pace, un’età dell’oro che contraddice il principio della guerra permanente. Nessun leader fascista è mai riuscito a risolvere questa contraddizione”.

[Umberto Eco, op. cit., p.34]

Viene spontaneo, a questo punto, pensare alla Neolingua orwelliana ed al Bispensiero di cui si faceva portatrice, mediante il quale risolveva tale evidente contraddizione ricorrendo al noto quanto paradossale slogan: “La Guerra è Pace”.Del resto, quante volte abbiamo effettivamente sentito politici e militari ripeterci frasi di questo tenore, battezzando annose e costose spedizioni armate all’estero come ‘missioni di pace’ o classificando gli stessi soldati addirittura come ‘peace-keepers’? Come ponevo in evidenza in un mio precedente scritto, il pudore nel chiamare la guerra col suo nome ed il mistificante tentativo di mimetizzare le finalità delle forze armate hanno indotto gli attuali strateghi a ricorrere a contorti espedienti logici e verbali.

Se non sapessimo che si parla di come far guerra in modo più efficace, potremmo pensare che si sta trattando del core business di un’azienda e dei modi per fronteggiarne i competitors. Ma poiché il tabù costituzionale impedisce di pronunciare e scrivere quest’antica e terribile parola, ecco che si parla ipocritamente solo di ‘conflitti’, come se essi fossero tutti armati e avessero intenti distruttivi come le azioni belliche. Il secondo trucco neolinguistico è ricorrere spesso agli eufemismi, grazie ai quali si discute di ‘missioni’ per non usare il termine ‘spedizioni di guerra’; di ‘cooperazione’ anziché di alleanze militari; di ‘strumento militare’ invece che di ‘forze armate’; di ‘scenari’ piuttosto che di ambiti d’intervento armato. Il documento si sofferma ad illustrare le ‘aree di crisi’, indicando i ‘teatri operativi’ nei quali si progetta di svolgere operazioni militari, i cui targets/bersagli da tempo non sono più gli eserciti avversari, ma la popolazione civile e le infrastrutture fondamentali. È proprio questo il senso dell’enigmatica espressione fighting among the people, una delle chiavi che ci aiutano a capire come la guerra sia ormai profondamente cambiata e la sua natura diventi sempre più dirompente e pervasiva”. [xvii]

In un mondo dove gli equilibri ecologici sono in grave crisi e dove le disuguaglianze socio-economiche e socio-culturali risultano sempre più stridenti, quella che allora Eco chiamava ‘lotta per la vita’ dovrebbe essere una priorità assoluta di gran parte dell’umanità. Come si legge in un articolo, che non è stato pubblicato su un pericoloso bollettino rivoluzionario ma dal quotidiano della Confindustria, che citava il Rapporto Oxfam 2019:

A dieci anni dall’inizio della crisi finanziaria i miliardari sono più ricchi che mai e la ricchezza è sempre più concentrata in poche mani. L’anno scorso soltanto 26 individui possedevano la ricchezza di 3,8 miliardi di persone, la metà più povera della popolazione mondiale. […] Il trend è netto e sembra inarrestabile. Una situazione che tocca soltanto i paesi in via di sviluppo? No, perché anche in Italia la tendenza all’aumento della concentrazione delle ricchezze è chiara”[xviii]

Ebbene, in una realtà dove le risorse di metà della popolazione mondiale sono state accaparrate da meno di trenta individui, la lotta per la sopravvivenza è non solo una possibilità, ma perfino una necessità. In un pianeta i cui abitanti continuano irresponsabilmente a mettere a rischio la sopravvivenza stessa del genere umano   – e già da ora stanno subendo le tremende conseguenze del riscaldamento globale – anche lottare per difendere la propria esistenza, prima che sia troppo tardi, è diventato un diritto. Ma proprio il timore di una reazione di massa ad un modello di sviluppo intrinsecamente iniquo ed antiecologico induce chi invece ne beneficia spudoratamente a mobilitare le forze armate a presidio dei propri interessi minacciati. In tal modo si alimenta ancora una volta il vecchio luogo comune militarista che esalta retoricamente la ‘vita per la lotta’, ipotizzando nei fatti una non dichiarata ‘guerra permanente’ contro i nemici di turno.  In tale prospettiva, pur non potendo più credibilmente ricorrere a due degli archetipi tipici dell’Ur-Fascismo – la pagana mitologia dell’eroe ed il necrofilo culto della morte –  il militarismo non ha mai rinunciato completamente a coltivarne il senso, in alcuni contesti ammantandosi anche d’integralismo religioso, col tragico risultato che, come commentava Eco, se tali nuovi eroi si dichiarano “impazienti di morire […] gli riesce più di frequente far morire gli altri”.

Culto della tradizione, attivismo anti-intellettualista, nazionalismo xenofobo e mito eroico della ‘vita per la lotta’: ecco il triste poker di elementi che caratterizzano intimamente quell’Ur-Militarismus contro il quale è indispensabile opporre non solo una motivata obiezione di coscienza, ma anche la comune ricerca di alternative nonviolente ed ecosocialiste.

Concludo citando un classico, alcuni brani tratti da “Militarismus und Antimilitarismus”, un saggio pubblicato da Karl Liebnecht nel lontano 1907  ma che, a distanza di oltre un secolo, si rivela comunque profondamente attuale.

“Militarismo! Pochi slogan sono usati così spesso nel nostro tempo, e quasi nessuno descrive qualcosa di così intricato, sfaccettato, un fenomeno così interessante e significativo nella sua origine ed essenza, nei suoi mezzi ed effetti, un fenomeno che è così profondo nell’essenza dell’ordine sociale di classe ma può tuttavia assumere forme così straordinariamente diverse anche all’interno dello stesso ordine sociale, a seconda delle particolari condizioni naturali, politiche, sociali ed economiche dei singoli stati e aree […] La storia del militarismo è allo stesso tempo la storia delle tensioni politiche, sociali, economiche e culturali generali tra stati e nazioni, nonché la storia delle lotte di classe all’interno dei singoli stati e delle unità nazionali[…] Da tutto ciò deriva la necessità non solo di combattere, ma anche di combattere specificamente il militarismo. Una struttura così ramificata e pericolosa può essere afferrata solo da un’azione altrettanto ramificata, energica, grande, audace che insegue senza sosta il militarismo in tutti i suoi nascondigli […] La storia, la conoscenza sociale e quelle esperienze parlano un linguaggio veramente chiaro quando si tratta di antimilitarismo. E il momento è giusto”. [xix]


[i] Umberto Eco, Il fascismo eterno, Roma, GEDI, 2020 (testo scritto nel 1995 e già pubblicato nel 2017 da ‘La nave di Teseo’, Milano)

[ii] Ivi, p. 10

[iii] Ivi, p. 11

[iv] Ivi, pp. 18…21

[v] Iivi, pp. 26…27

[vi] ”I valori etico-militari e la Patria” in: Etica militare, Wikipedia > https://it.wikipedia.org/wiki/Etica_militare

[vii]  Gen. Raffaele Tortora, “Eticità e tipicità dell’ordinamento militare”, Informazioni della Difesa, n.3/2008, p. 19 > https://www.difesa.it/InformazioniDellaDifesa/periodico/IlPeriodico_AnniPrecedenti/Documents/Etica_e_tipicit%C3%A0_dellordinament_18militare.pdf 

[viii] Ivi, p. 23

[ix] Gen. Vincenzo Camporini, “Riflessioni per un’etica militare”, Informazioni della difesa, n. 3/2010, p. 9 > https://www.difesa.it/InformazioniDellaDifesa/periodico/IlPeriodico_AnniPrecedenti/Documents/Riflessioni_per_unetica_militare.pdf

[x] Gamberini G., “Sistematizzare la fede”, Il Popolo d’Italia, 04.04.1928, cit. in E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 151

[xi] V. art 5 del Regolamento di Disciplina Militare – D.P.R del 11/07/1986 n. 545

[xii] U. Eco, op. cit., pp. 28-29

[xiii]  Voce “Militare, organizzazione”, di Carlo Jean, in Enciclopedia delle scienze sociali (1996), Treccani > https://www.treccani.it/enciclopedia/organizzazione-militare_%28Enciclopedia-delle-scienze-sociali%29/

[xiv] U. Eco, op. cit. p. 32

[xv] Alberto Martinelli, Torna davvero lo spettro del nazionalismo? (30.08.2019), Ispinonline.it , Milano, I.S.P.I.> https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/torna-davvero-lo-spettro-del-nazionalismo-23823

[xvi] Ministero della difesa, Libro bianco della difesa, 2015, § 54, p. 33 > https://www.difesa.it/Primo_Piano/Documents/2015/04_Aprile/LB_2015.pdf

[xvii] Ermete Ferraro, “Fenomenologia dello strumento militare” (26.05.2020), Ermete’s Peacebook > https://ermetespeacebook.blog/2020/05/26/fenomenologia-dello-strumento-militare/

[xviii] Angelo Mincuzzi, “Disuguaglianze, in 26 posseggono la ricchezza di 3,8 miliardi di persone” (21.01.2019), Il Sole-24 ore > https://www.ilsole24ore.com/art/disuguaglianze-26-posseggono-ricchezze-38-miliardi-persone-AEldC7IH

[xix] Karl Liebnecht, Militarismus und Antimilitarismus , Leipzig, 1906 >  https://www.marxists.org/deutsch/archiv/liebknechtk/1907/mil-antimil/b-05.htm

Ansie…e Gretel

E’ dagli anni ’70 che mi occupo di antimilitarismo e disarmo nucleare e dalla metà degli anni ’80 di ambientalismo ed alternative ecologiche. Ormai giunto all’età della pensione, ritengo legittimo fare un bilancio di decenni d’impegno ecopacifista, passando in rassegna le tante battaglie che mi hanno visto coinvolto direttamente o che io stesso ho contribuito a promuovere. Ebbene, pur tenendo conto che credo di aver fatto quanto era nelle mie possibilità e di aver lealmente collaborato anche con soggetti che non rispecchiavano del tutto la mia formazione di base, cristiana e nonviolenta, devo ahimé constatare che – ad oltre quarant’anni dalla mia prima scelta radicale come obiettore di coscienza – il panorama socio-culturale, economico e politico ( per non parlare di quello ambientale) appare forse ancor più fosco e preoccupante di allora.

Non si tratta della solita lamentazione delle persone anziane né dello scontento di chi prova delusione per ciò che non è riuscito a realizzare. Il mio non è tanto un senso di frustrazione o d’insoddisfazione personale quanto la semplice, eppur dolorosa, constatazione che, dopo questi anni d’impegno, gran parte degli obiettivi perseguiti purtroppo non sono stati raggiunti. Ciò mi sembra vero sia per quelli che hanno ispirato il lavoro socioculturale, iniziato come obiettore in servizio civile presso il centro comunitario della ‘Casa dello Scugnizzo’ e proseguito nei seguenti otto anni di lavoro sociale di comunità e negli altrettanti come amministratore sociale dell’omonima Fondazione, sia per quanto ho cercato di realizzare in dieci anni d’impegno politico istituzionale nei Verdi e nei successivi venti, vissuti da attivista ambientalista ed ecopacifista.

La ‘società liquida’ così ben disegnata da Zigmund Bauman – con la sua tendenza all’individualismo, al consumismo, al pensiero debole ed alla omogeneizzazione delle idee –  da parecchio tempo ha avuto la meglio sullo sforzo di coniugare l’etica con la politica, battendosi per finalità di sviluppo umano e civile e non di progresso esclusivamente tecnologico e di vorace ‘crescita’ economica.  Alla pur accresciuta consapevolezza teorica dei limiti (ecologici prima ancora che etici) che si frappongono alla corsa sfrenata dell’umanità verso quest’ultimo obiettivo, infatti, non mi sembra che abbia fatto seguito una presa di coscienza tale da arrestare questo impeto suicida, fratricida e biocida. Tale drammatica situazione, come ben sappiamo, mette in forse il futuro stesso dell’umanità, sia per la folle ripresa della corsa agli armamenti nucleari, sia per la palese incapacità dei governi di contrastare davvero i cambiamenti climatici, dovuti all’irresponsabile impatto antropico sugli ecosistemi. L’impegno dei movimenti pacifisti e di quelli ambientalisti, purtroppo, non sembra aver sortito grandi risultati né modificato in modo profondo e significativo i modelli comportamentali ed i valori morali della gente comune, spingendola a cambiare rotta in prima persona ed a negare il proprio consenso a chi non ne rappresenta da tempo gli interessi. L’auspicata ‘rivoluzione dal basso’ non ha fatto seguito al penoso disfacimento delle organizzazioni politiche tradizionali. Ne consegue che, pur registrandosi una crescita di soggetti e realtà associative impegnate ad opporsi ad un modello autoritario, iniquo ed insostenibile di società e di economia, non si è sviluppata in modo significativo l’alternativa che in tanti auspicavamo potesse contrapporle scelte improntate  ai valori della nonviolenza, della giustizia sociale e del rispetto degli equilibri ecologici.

La protesta contagiosa di Greta Thunberg

Il primo e più evidente segno di ribellione ad un paradigma socio-economico in apparenza ineluttabile – frutto del pensiero unico e della rassegnazione di soggetti passivizzati e spersonalizzati dalla massificazione mediatica – è incredibilmente venuto invece dalla risoluta battaglia ‘senza se e senza ma’ di una ragazza svedese dalle idee molto chiare e dalla testa dura. Greta Thunberg è diventata in brevissimo tempo un’icona, un simbolo, una bandiera per milioni di persone che sembravano finora rassegnate o sconfitte. Il fenomeno Greta, con la sua profonda valenza emotiva, sembrerebbe aver coinvolto paradossalmente grandi e piccoli, studenti e intellettuali, ambientalisti e sostenitori della crescita, in un liberatorio grido comune contro chi minaccia il futuro dei nostri ragazzi. Certo, gran parte di quest’ondata neo-ecologista è frutto d’un imprevedibile quanto fragile impeto mediatico ed è quindi soggetta a ritrarsi non appena dagli appelli accorati all’impegno globale si dovrà passare alle molto meno gratificanti e popolari scelte alternative hic et nunc. Non mi sembra però una ragione per minimizzare o banalizzare l’effetto dirompente del ‘grido di dolore’ partito da quella sedicenne che non crede più alle promesse dei ‘grandi’ (per età e per carica) ed invita tutti a mobilitarsi per difendere il Pianeta e chi vuole continuare ad abitarlo.

Confesso che mi ha fatto pena vedere come radicate realtà associative e partitiche di matrice ambientalista stiano ora cercando di cavalcare l’imprevedibile nouvelle vague ecologista scaturita dalla base, implicitamente confessando la propria sconfitta ma tentando di ridarsi quel ruolo trainante che, almeno in Italia, hanno perso da molto tempo. Ovviamente non c’è nulla di male nel rivendicare e rilanciare le battaglie pregresse, collegandole a mobilitazioni spontanee e finora sfuggite ad ogni organizzazione. Rivedere ovunque milioni di persone scese in piazza – molti dei quali giovani da molti di noi dati per ‘persi’ alla causa ambientalista – non può che ridarci speranza ed aprire nuove prospettive. Sappiamo bene, d’altra parte, quanto gli entusiasmi dei nostri figli spesso durino poco e quando invece dipendano da stimoli mediatici di corto respiro ed assai poco prevedibili. Le manifestazioni di massa e gli appelli, in ogni caso, non possono cadere nel vuoto e devono trovarci pronti a ripartire, possibilmente insieme e in modo coordinato, con un percorso di opposizione all’attuale modello di sviluppo, per costruire alternative concrete e credibili.

Non si tratta di sventolare le soluzioni di una spesso equivoca green economy né di accontentarsi di una ‘nicchia ecologica’ dentro la quale far confluire esperienze di coltivazione ed allevamento ‘biologici’ o di energia ‘pulita’, quasi si trattasse di lodevoli eccezioni che confermano la regola. Bisogna piuttosto creare una coscienza ambientale diffusa, alimentare ‘buone pratiche’ e stimolare i giovani a lottare per il loro futuro, ma senza fingere ipocritamente di non sapere che questo modello di produzione e consumo è frutto d’una logica ben precisa ed è controllato da equilibri politici e geo-strategici cui in tanti non sembrano disposti a rinunciare. Il vecchio slogan ‘agire localmente e pensare globalmente’ è allora quanto mai appropriato ed attuale.  Un impegno personale e collettivo dal basso appare indispensabile e nessuna mobilitazione di massa, da sola, può rimpiazzarlo. E’ altresì vero che rilanciare le battaglie ambientaliste non basta a farci uscire dall’imbuto nel quale ci siamo cacciatati, scegliendo in troppi di sostenere le ragioni di quella ristretta minoranza che ha risorse e potere per imporre violentemente il proprio dominio alla stragrande maggioranza degli esseri umani. Il fatto che le piazze si riempiano di giovani che rivendicano il loro diritto al futuro deve farci piacere, perché prelude ad una nuova stagione dell’ambientalismo ma soprattutto perché è un chiaro segnale della rivendicazione di un protagonismo per troppo tempo soffocato dallo stile di vita individualista e consumista nel quale gran parte di loro sono stati educati. La lezione di Greta è importante anche perché ricorda ai giovani come lei che si ha diritto a pretendere che gli adulti mettano finalmente in pratica decenni di promesse a vuoto, ma a patto che in prima persona si sappiano fare scelte nette e radicali, attuando il saggio monito a gandhiano ad essere noi per primi il cambiamento che vorremmo vedere nel mondo.

Copertina di ‘Apocalittici e integrati di Umberto Eco

A mio avviso, però, ci sono tre aspetti meno positivi che emergono da queste imponenti mobilitazioni globali per garantire un futuro all’umanità. Il primo (senza ovviamente prendersela con la ragazza svedese…) mi sembra l’insistenza eccessiva su una prospettiva antropocentrica da cui si inquadrano le allarmanti problematiche ambientali, confermando un’ottica che – incurante degli appelli di tanti ecologisti e dello stesso Papa Francesco – non riesce a prescindere da una morale puramente utilitaristica e strettamente umana.  Il secondo limite di questo pur entusiasmante boom d’interesse in campo ambientalista mi sembra scaturire dai ragionamenti antitetici tipici della cultura occidentale, mirabilmente evidenziato già negli anni ’60 da Umberto Eco.  La fastidiosa, quanto rituale, contrapposizione degli ‘apocalittici’ agli ‘integrati’, infatti, ci ripropone una società dove non avviene mai una sintesi ed in cui si alternano irrazionalmente spinte contrapposte. L’insistenza talvolta un po’ truce e catastrofica sulle minacce al ‘futuro’ dell’umanità ritrova infatti spazio e slancio, ma ciò avviene in una società ancora in larga parte anestetizzata dai media, inebetita dalla corsa ai consumi e mentalmente prona ad un pensiero unico che rende sempre più omologate le culture, cancellando le diversità e tacitando le coscienze. L’antitesi pura e semplice fra la rassegnazione degli integrati ed il terrore degli apocalittici, anche in questo caso, potrebbe portarci pericolosamente fuori pista. E questo non perché l sviluppo alternativo ipotizzato rivesta un carattere ‘profetico’ – aspetto invece positivo – bensì perché l’utopia deve comunque incarnarsi sempre in un contesto di realtà, offrendo strumenti concreti ed indicando vie praticabili per andare in quella direzione ‘ostinata e contraria’.

Questa insistenza sull’ansia, sul terrore per una catastrofe prossima ventura, infine, costituisce il terzo limite che credo vada superato. La paura, da sempre, non produce frutti buoni. Al contrario, alimenta talvolta spesso meccanismi di egoistica autodifesa che possono trasformarsi in reazioni irrazionali, violente ed incontrollabili.  Superare la paura del cambiamento, si sa, è un passo fondamentale per trasformare il mondo, a partire dal nostro orticello quotidiano. Cambiare solo perché si ha paura, viceversa, è un movente molto parziale, che si rivela spesso controproducente. Come osservano molti psicologi, infatti, la paura – oltre a paralizzarci – può impedirci di vedere con chiarezza ciò di cui abbiamo davvero bisogno oppure potrebbe nutrire paranoie, che sfociano nella ricerca di ‘nemici’ da combattere più che di strutture e modalità cui opporci. Nessuna rivoluzione – compresa quella ‘verde’ – sarà mai un ‘pranzo di gala’, per citare una celebre frase di Mao Zedong, in quanto richiede impegno continuo, sforzi personali, inevitabili conflittualità e pesanti sacrifici. Pensare che essa possa essere alimentata solo dal terrore della fine imminente, però,  ritengo che sia una pericolosa illusione ed un’irrazionale tentazione.

Quando cercavo un titolo da dare a questo mio scritto mi è sorta spontanea l’associazione d’idee tra il nome della ormai celeberrima sedicenne svedese che è diventata la leader del nuovo movimento contro i cambiamenti climatici e quello di una bambina che, insieme col fratello, era protagonista di una non meno celebre fiaba dei fratelli Grimm.  Chi, infatti, non conosce la cupa vicenda di Hansel e Gretel, abbandonati dai genitori in un fitto bosco e poi finiti nelle grinfie di una orribile strega, che li allevava per poi potersene cibare? Ebbene, mi è venuto spontaneo il parallelo con la Greta di oggi, che si sente altrettanto drammaticamente abbandonata dagli adulti – colpevoli ed irresponsabili – nel folto di una oscura foresta fatta d’inquinamento e piaghe ambientali, in preda alla voracità maligna di un falso sviluppo che porta alla distruzione ed alla morte. Volendo continuare nella metafora, è il caso di notare che la ‘casa’ che ospita quell’essere malefico e mortifero risulta però esteriormente attraente, fatta com’è di tanti dolciumi invitanti, proprio come invitanti sono nella realtà le seduzioni del consumismo sfrenato e della crescita senza limiti né remore.  A tutto ciò bisognerebbe allora contrapporre un vero progetto, non reazioni istintive né paure paralizzanti. La strega di un falso sviluppo – energivoro iniquo e incompatibile con gli equilibri ecologici – va combattuta ritorcendole contro le sue stesse armi. Al ‘riscaldamento globale’ del forno nel quale stanno per essere gettati, Hansel e Gretel alla fine condanneranno proprio la megera che li teneva prigionieri, annullandone così per sempre la malefica seduzione.  Si tratta di un riferimento puramente allegorico, certo, ma penso che possa comunque farci riflettere sulla necessità di lavorare insieme per uscire finalmente dalla maledizione di un finto ed allettante benessere, fondato però sulla depredazione delle risorse e sullo sfruttamento di tanti esseri umani.

© 2019 Ermete Ferraro   

Oftalmologia politica

Quanto più passa il tempo tanto più avverto la sensazione non solo di un’evidente degenerazione del confronto politico, ma anche della perdita del senso stesso del concetto di ‘politica’. Non credo di essere affetto dalla pur frequente sindrome del vecchio brontolone, ma che si tratti di una semplice constatazione.

Pur volendo tralasciare la classica distinzione anglosassone fra policy e politics (che sottolinea la differenza fra l‘agire concreto – spesso spregiudicato – dei politici ed il pensiero politico nell’accezione più alta, cioè come ideologia, visione globale della società), mi sembra evidente che il XXI secolo ci ha messi di fronte ad una concezione profondamente diversa dell’azione politica.

D’altronde, in più di quarant’anni d’impegno diretto – di movimento, istituzionale e di tipo associativo – ho sperimentato in prima persona che neanche l’agire per motivazioni ‘civili’ e al di fuori delle istituzioni è risultato del tutto indenne dai difetti e dalle problematiche registrabili nelle dinamiche politiche istituzionali, o comunque partitiche. Il guaio è che spesso anche la ‘militanza’ politica di base riproduce, in scala minore, i vizi attribuiti di solito ai ‘palazzi’ da cui chi la pratica ha voluto prendere le distanze. 

Ma si tratta di un mero contagio, dovuto alla necessità di rapportarsi comunque ai ‘politici’ allo scopo di perseguire i rispettivi obiettivi associativi, oppure di un fenomeno più profondo e complesso, che investe il comportamento sociale ed gli stessi fondamenti morali dell’essere umano?  

Io propenderei per questa seconda possibilità, in quanto la ‘scala’ più o meno ridotta in cui si agisce e lo stesso contesto dell’azione mi sembrano importanti, ma non determinanti.

Basta guardarsi intorno per accorgersi di quanto, a tutti i livelli della convivenza civile,  risulti sempre più difficile valutare una situazione, discernere i suoi elementi positivi e negativi e, conseguentemente, prendere poi una decisione nel merito. 

Infatti, se solo riflettiamo sulle nostre quotidiane esperienze (familiari, di lavoro, da condomini o da semplici cittadini…) ci rendiamo conto di quanto il nostro agire sia condizionato da tanti elementi esterni alle questioni che dovremmo affrontare e risolvere.

Sono elementi che attengono alla sfera emotiva ed utilitaristica più che a quella razionale e che di tali questioni ci fanno vedere, sentire e capire ciò che ci piace o ci fa comodo, anziché i dati di fatto. Ma se i filosofi antichi auspicavano razionalisticamente una ‘adequatio rei ed intellectus’, pur volendosi accontentare di molto meno della perfetta corrispondenza tra realtà e pensiero, ho l’impressione che il mondo della politica sempre più ci stia mettendo di fronte ad una scissione radicale tra questi due termini.

Non mi sembra il caso di allargare troppo l’ambito di questa mia riflessione, per cui mi limito a constatare quanto l’agire politico sia viziato da alcuni, diciamo così, difetti di percezione, nella misura in cui i suoi più comuni difetti somigliano molto a quelli della vista.

Le mie esperienze personali, infatti, mi hanno confermato nell’idea che il confronto su dati che dovrebbero essere oggettivi è spesso compromesso da fenomeni legati appunto alla percezione che ciascuno ne ha. Proverò quindi a proporre una sintetica rassegna delle patologie relative al contesto che nel titolo ho chiamato ‘oftalmologia politica’.

MIOPIA POLITICA

 «Difetto della vista che consiste in una rifrazione dell’occhio, per cui gli oggetti distanti appaiono sfocati, mentre si vedono meglio le cose molto vicine».[i] 

Da altra fonte apprendiamo che: «La miopia è un’ametropia o un’anomalia refrattiva, ossia una patologia oculistica a causa della quale i raggi luminosi provenienti da un oggetto posto all’infinito non si focalizzano correttamente sulla retina, ma davanti a essa. La conseguenza è che gli oggetti osservati tendono ad apparire sfocati e la visione migliora con la riduzione della distanza a cui si guarda».[ii]

Ebbene, anche in politica ho spesso la sensazione che giudizi, valutazioni e decisioni siano assunti da persone affette da tale patologia oculistica. Secondo la Treccani, la ‘miopia politica’ sarebbe caratterizzata, in senso figurato, dalla: «mancanza di perspicacia, cortezza di vedute, grettezza intellettuale…» [iii].

Effettivamente, una visione politica viziata dall’assenza di profondità si rivela riduttiva, limitata e parziale. Chi “non riesce a guardare oltre il proprio naso” è di fatto condannato ad assumere decisioni ancorate al qui e ora, senza una vera prospettiva. Chi è politicamente miope agisce di solito in modo personalistico se non meschino, senza tener conto delle esigenze collettive, del bene comune e, soprattutto, delle conseguenze nel tempo e nello spazio delle proprie decisioni.

Anche il comportamento dell’attuale classe politica si direbbe soggetto ad una visione dei problemi (si tratti del fenomeno migratorio, dei conflitti armati o delle risposte da dare alla disoccupazione) che denota la mancanza di una visione a medio-lungo termine. Il risultato è l’assunzione di provvedimenti emergenziali, di corto respiro, viziati dalle contingenze elettorali e che non tengono conto né delle esperienze passate né delle prospettive future.

Ma anche i comportamenti estranei alla politica istituzionale risentono spesso di questa spiacevole incapacità di guardare lontano. Qualunque problema una realtà associativa o di movimento si trovi ad affrontare, infatti, andrebbe inquadrato in un contesto più ampio e visto in una proiezione temporale maggiore. Eppure, proprio a causa della miopia politica, la ricerca del risultato a breve prevale sul perseguimento di risultati più stabili e sulla condivisione delle battaglie con altri soggetti. Il guicciardiniano ‘particulare’, insomma, fa perdere di vista la visione d’insieme e talora insterilisce le lotte, finalizzandole al mero perseguimento di un qualche risultato, di cui attribuirsi orgogliosamente la paternità.

IPERMETROPIA POLITICA

«In oculistica, anomalia dell’occhio, generalmente dovuta alla brevità dell’asse anteroposteriore del globo oculare, per cui le immagini si formano dietro la retina e pertanto sono sfocate. …». [iv].

In ambito politico anche questo difetto della visione risulta piuttosto frequente, sia pur molto meno che in passato. Una volta la caratteristica di guardare lontano, di mirare ad obiettivi remoti, si attribuiva ai sognatori, ai ‘profeti’ della politica, a quelli nei quali la prospettiva ideologica prevaleva sulla concretezza fattuale. Ma questo, per certi aspetti, era un pregio e non un limite.

Oggi, più banalmente, si ha piuttosto l’impressione che molti politici – a livello istituzionale ma anche di movimento – si rifiutino di guardare in faccia la realtà e i suoi problemi concreti, cui non sanno – o non possono – offrire risposte reali ed efficaci. Succede allora che ci si rifugi nelle visioni di lunga portata, nelle questioni strategiche e a livello globale o nella pur innegabile complessità delle questioni. Il risultato che ne segue è frequentemente la retorica parolaia, che serve solo a coprire la rinuncia ad agire nell’immediato, non assumendo decisioni concrete, con le relative responsabilità.

In altri termini, se gran parte delle azioni politiche cui assistiamo sono evidentemente condizionate dalla miopia di chi guarda il dito e non la luna, ci sono molte altre situazioni che lasciano pensare che chi fa politica si stia limitando a guardare la luna, ignorando il dito di chi segnala quel problema, che vive concretamente, qui e ora, sulle proprie spalle.

E’ la ben nota sindrome del ‘benaltrismo’, per la quale un intervento pratico, immediato e strettamente attinente la questione in oggetto viene sovente bollato come ‘di corto respiro’, in quanto i veri problemi sarebbero ben più ampi, strutturali e complessivi. Affermazione questa banalmente vera, ma che non implica affatto che le azioni dirette e dal basso siano inutili.

Per esempio, ai comitati di base, creati proprio per affrontare e dare soluzione a vicende o vertenze specifiche e concrete – in termini amministrativi, politici o anche giudiziari – spesso si imputa con aria di sufficienza il fatto di occuparsi di ‘quisquilie’ e di non affrontare i veri problemi di fondo che, ovviamente, sono sempre… ‘ben altri’.

ASTIGMATISMO POLITICO

«A causare l’astigmatismo può essere un’alterazione della curvatura della cornea che, anziché avere una forma normalmente sferica ha un profilo ellissoidale. In questo caso i raggi di luce provenienti dagli oggetti vengono proiettati in maniera disuguale nei vari punti della retina. L’occhio astigmatico vede male sia da lontano sia da vicino, gli oggetti possono apparire sfocati ma anche sdoppiati». [v]

Questa “aberrazione dei sistema ottico[vi] – dovuta ad una visione deformata più che viziata dall’errata ‘messa a fuoco’ degli oggetti – mi sembra ugualmente applicabile all’ambito dell’azione politica. Nel caso dei politici astigmatici, dunque, la criticità non risiede nella difficoltà d’inquadrare i problemi immediati in un contesto più ampio e lungimirante, o viceversa nella tendenza a perdere di vista la concretezza delle questioni in nome di astratte visioni ideologiche e fumose prospettive future.

Il difetto, in questo caso, è riscontrabile nella loro visione confusa e talora ‘sdoppiata’ delle questioni che sono chiamati ad affrontare. A Napoli, con efficace sintesi, si usa dire di questo genere di persone che: “addò vedono e addò cecano”, sottolineando con ironia che agiscono in modo diverso, se non opposto, a seconda dei casi e degli interlocutori.

Di solito i diretti interessati attribuiscono tale comportamento a “sano realismo”, ma di rado riescono a dissipare la sgradevole sensazione che le loro contraddizioni siano piuttosto frutto di opportunismo, doppia morale o meschino calcolo personale.

Il guaio è che ci stiamo sempre più assuefacendo a ciò che il profeta Orwell chiamava ‘Bispensiero’ (nell’originale: Doublethink) [vii], per il quale lo ‘sdoppiamento’ delle immagini concettuali può giungere a negare ogni nesso logico tra i concetti, affermando al tempo stesso tutto ed il contrario di tutto. “E’ il ‘populismo, bellezza!” avrebbe affermato qualcuno.

«Questa è la forma della politica contemporanea: la coesistenza degli opposti, la capacità di affermare formalmente l’esistenza di un Bene che, tuttavia, coincide materialmente con il suo opposto: lo sfruttamento, l’oppressione fino alla contraddizione che consiste nella cancellazione della stessa idea di contraddizione […] L’equivalenza tra gli opposti è la formula magica del populismo. In questa ideologia non si tratta di scegliere se essere di destra o di sinistra, ma di affermare entrambe – contemporaneamente, in maniera coordinata, uno dopo l’altro, in una logica ricorsiva. L’obiettivo è coprire tutto l’arco della rappresentanza politica, fingere di rappresentare tutti alla luce del buon senso e del senso comune».[viii]

PRESBIOPIA POLITICA

«Il potere di accomodazione, massimo nell’infanzia […] si riduce progressivamente con l’età […] e si esaurisce del tutto tra i sessanta e sessantacinque anni. Questa progressiva perdita del potere di accomodazione è nota come presbiopia , essa è dunque dovuta al fatto che il cristallino non è più in grado di modificare la sua curvatura a causa del suo progressivo indurimento e ingrossamento».[ix]

Ammettiamolo: nelle nostre critiche alla maniera corrente di fare politica c’è talvolta una buona dose di presbiopia politica. Quelli che hanno vissuto esperienze ben diverse ed in periodi abbastanza lontani nel tempo, infatti, sono naturalmente portati a rimarcare solo gli elementi che considerano una ‘degenerazione’ della vera Politica.

Io stesso, considerandomi ormai tra questi, ammetto che faccio non poca fatica a seguire le acrobazie verbali e comportamentali degli attuali politicians. Ritengo che molte delle riserve espresse da noi ‘vecchietti’ sono effettivamente motivate e solidamente fondate nella realtà dei fatti. E’ pur vero, d’altronde, che anche in questo campo il ‘potere di accomodazione’ del nostro intelletto a situazioni e contesti, insospettabili fino ad un decennio fa, condiziona inevitabilmente il giudizio che ne diamo. La ‘sclerosi’ dell’agire politico, con la conseguente incapacità di comprendere fenomeni nuovi e stili diversi, va considerata un rischio oggettivo, cui occorre contrapporre rimedi adeguati, proprio come negli altri casi affrontati in precedenza.

STRABISMO POLITICO

«Questo difetto visivo è spesso causato da uno squilibrio dei muscoli responsabili dei movimenti del bulbo oculare. Il parallelismo degli assi dello sguardo risulta così disturbato, in maniera saltuaria o permanente. Lo strabismo può essere convergente, divergente o verticale e interessare un occhio o entrambi gli occhi». [x] 

Come nel caso dell’astigmatismo, una visione strabica delle vicende politiche può condurre ad arbitrari giudizi, valutazioni contrastanti e stridenti contraddizioni.

Se in politica difetta la percezione binoculare, la stereopsi , i risultati sono quasi sempre negativi, per cui l’azione che ne deriva risulta fatalmente viziata falsata e reprensibile. D’altro canto, mi sembra che sia abbastanza diffusa anche una certa tendenza a giustificare la parzialità dei politici, o quanto meno a considerarla, in qualche modo, un’inevitabile componente di quella specie di gioco delle parti.

Del resto, un pensiero sdoppiato, nutrito dalle contraddizioni azzerate con un codice verbale che assomiglia molto alla Neolingua orwelliana, porta inevitabilmente a una visione strabica della realtà, che confonde le cause con gli effetti, oppure considera normale ciò che fino a poco tempo prima aveva vivacemente riprovato nel comportamento altrui.

Indubbiamente i politici ‘di lotta e di governo’ non sono una novità; però, avrebbe commentato Totò, “qui si esagera, perbacco!” e si direbbe che quelli attuali  sottovalutino che, per citare ancora il Principe, “ogni limite ha una pazienza”…

Insomma, mutuando un efficace aforisma di Oscar Wilde, potremmo concludere che:

«L’amore (ma anche l’apprezzamento politico…) non è cieco ma presbite: prova ne sia che comincia a scorgere i difetti a mano a mano che s’allontana». [xi]

Sarebbe bene che chi fa politica tenesse nel debito conto questo saggio avvertimento…


Note

[i] Voce “Miopìa” in: Sabatini Coletti, Dizionario della lingua italiana > http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/M/miopia.shtml

[ii] Voce “Miopia” in: Wikipedia > https://it.wikipedia.org/wiki/Miopia

[iii] Voce “Miopia’ in: Vocabolario Treccani > http://www.treccani.it/vocabolario/miopia/

[iv]  Voce “Ipermetropia” in: Vocabolario Treccanihttp://www.treccani.it/vocabolario/ipermetropia/

[v]   “Astigmatismo” > https://www.humanitas.it/malattie/astigmatismo

[vi]  Voce “Astigmatismo” in:  Sabatini Coletti, Dizionario della lingua italiana > https://www.humanitas.it/malattie/astigmatismo

[vii] Cfr  Ermete Ferraro, “Neolinguistica applicata” (12.05.2016) , Ermete’s Peacebook blog  >   https://ermetespeacebook.blog/2016/05/12/neolinguistica-applicata/ ; vedi anche  la voce “Doublethink” in Urban Dictionary > https://www.urbandictionary.com/define.php?term=doublethink

[viii] Roberto Ciccarelli, “Il populismo è un bispensiero”, Ribalta.infohttp://www.ribalta.info/il-populismo-e-un-bispensiero/

[x] “Lo strabismo”, Essilor Italia. com > https://www.essiloritalia.it/La-tua-vista/I-difetti-visivi/Strabismo

[ix] “I difetti ottici dell’occhio”, Benessere.com > http://www.benessere.com/salute/disturbi/presbiopia_ipermetropia_miopia_astigmatismo.htm

[xi] Vedi in: https://aforismi.meglio.it/frasi-difetti.htm

© 2019 Ermete Ferraro

LA LINGUA ‘GENIALE’

Il napolitano di una comunità marginale 

Uno dei principali meriti della trasposizione televisiva della prima parte della saga narrativa di Elena Ferrante è aver fatto scoprire a noi italiani – oltre che ai telespettatori statunitensi – la potenza eccezionale della lingua napolitana. Una lingua geniale nel vero senso della parola, nelle accezioni riportate dal vocabolario Treccani: “Che è conforme al proprio genio, cioè all’indole […] che ha finezza e vivacità”. [i] In effetti sono stati i produttori americani che hanno voluto che sugli schermi, dietro i sottotitoli inglesi o italiani, la sonorità dei dialoghi fosse quella, d’un Napolitano verace, ben diverso dal miscuglio linguistico indistinto e bastardo che ancora risuona per le vie della nostra Città. Ritengo che sia stata una scelta opportuna, non dettata solo dal prevedibile intento di ‘colorire’ la narrazione in senso deteriormente folklorico, ma probabilmente anche dall’esigenza di superare una sorta di tabù comunicativo.

Ci voleva il salutare scossone d’una sceneggiatura televisiva largamente scritta in napolitano – che tradisce la scelta fatta da colei che quei romanzi aveva scritto, evocandolo ma non esibendolo – per metterci di fronte al vero tradimento, quello cioè che di quest’antica e geniale lingua ha fatto chi ha voluto o dovuto scartarla, come uno strumento vecchio inadeguato e volgare. Certo, il discorso è più complesso e richiederebbe un’analisi sociolinguistica più approfondita di quella che si limita ad assegnare colpe e responsabilità allo stesso popolo di Napoli o a chi ne ha scientemente voluto annientare l’identità culturale e  linguistica con un violento processo di sapore coloniale. Il problema, in effetti, è fino a un certo punto ‘di chi è la colpa? , ma piuttosto come si possa – qui ed ora – partire dall’attuale situazione per recuperare i valori autentici del Napolitano, impedendone il progressivo decadimento e valorizzandone le eccezionali potenzialità.

L’idea di affrontare questo particolare aspetto dei libri della Ferrante (e dello sceneggiato da essi ricavato) mi è stata ispirata, oltre che da un ventennale impegno di napolitanofilo e napolitanologo, dall’inaspettato contatto da parte di una docente di letteratura in un istituto superiore di New York, che intende farne oggetto di ricerca e mi ha chiesto la disponibilità ad un confronto. Sono rimasto piacevolmente sorpreso dal fatto che in un prestigioso liceo della grande mela si rifletta sul rapporto tra la nostra lingua ed il contesto sociale della Napoli post-bellica che la Ferrante ha mirabilmente saputo evocare. Ad un simile interesse per tale questione fa invece riscontro l’insensibilità e la sordità di gran parte del mondo accademico e scolastico italiano per un problema che va ben oltre le sorti di quelli che ci si ostina a chiamare ‘dialetti’. Molti media anglo-americani – oltre agli studiosi – hanno approfondito la dimensione linguistica del fenomeno letterario Ferrante, con una sensibilità che sembra difettare dalle nostre parti. Non si tratta di cavalcare battaglie identitarie di retroguardia o di rinnegare l’importanza di uno strumento linguistico unitario. La questione è in che modo e per quali motivi si è giunti all’attuale situazione e che cosa si può realisticamente fare per evitare che la forzata italianizzazione prima, e la massificazione mediatica poi, cancellino il mondo d’idee, percezioni ed emozioni di cui il napolitano è geniale espressione.

Il nocciolo del problema suscitato dalla ricercatrice newyorkese è il rapporto tra lingua e potere, pssia il ruolo dell’Italiano come elemento indispensabile ai ceti marginali per integrarsi nella società e scalarne faticosamente i gradini, rinunciando però alla loro espressione linguistica naturale, stigmatizzata come inadeguata e volgare. Questo mi ha portato con la mente e col cuore alla lontana esperienza del mio impegno – prima in servizio civile e poi come lavoro sociale volontario e professionale –  presso il Centro Comunitario Materdei della ‘Casa dello Scugnizzo’. Mi sono ricordato soprattutto delle acute analisi sociologiche ed antropologiche che già negli anni Sessanta il suo fondatore, il mitico Mario Borrelli, aveva fatto del contesto sottoproletario napolitano e del suo immaginario collettivo, che in quel linguaggio unico al mondo trovava un eccezionale veicolo espressivo ma, al tempo stesso, la cristallizzazione di secoli di subalternità culturale. [ii]

Lingua: specchio e/o generatrice della realtà

Jean Noel Schifano, Dizionario appassionato di Napoli, Napoli, Il mondo di Suk, 2018

«Dobbiamo essere grati a Elena Ferrante – ha scritto Ciro Pellegrino – per una cosa che non ha fatto e a Saverio Costanzo, il regista della trasposizione televisiva de L’Amica Geniale per una cosa che non ha preso dal primo libro della tetralogia che racconta la vita di Elena Greco e Lila Cerullo. […] Anche per la serie tv Gomorra è avvenuto lo stesso, ma non si tratta dello stesso napoletano. La lingua partenopea dei dialoghi dell’Amica è ricercata, sintatticamente corretta, è figlia del periodo storico in cui è ambientato il racconto (gli anni Cinquanta) ed è straordinariamente ricca di vocaboli e riferimenti, senza bisogno di metafore ardite o del cupo valore impresso dai camorristi della serie ispirata al libro di Roberto Saviano…» [iii]

Il precedente esperimento di sceneggiatura in napolitano – quello del citato serial ‘Gomorra’ – ha diffuso infatti un’immagine stereotipata di questa lingua, privandola della sua duttilità espressiva ed incupendone i toni. La lingua dello sceneggiato tratto dai romanzi della Ferrante, pur restando aderente al contesto socioculturale misero e marginale della Napoli del dopoguerra, ne coglie comunque più sfumature e tonalità, mettendoci però di fronte ad un codice espressivo prevalentemente violento, talvolta spietato nella sua crudezza. Niente a che vedere col napolitano melodioso e dolce delle celebri canzoni o con quello arguto e piccante delle farse e delle ‘macchiette’. Dai dialoghi dello sceneggiato, che la Ferrante aveva filtrato con un Italiano che ne attenuava il ruvido realismo popolare, risulta chiaro come una lingua duttile e geniale come il napolitano – al tempo stesso rassicurante cordone ombelicale e vincolante catena – fosse vissuto dai membri di una comunità periferica come una gabbia espressiva, un condizionamento da cui cercare di fuggire. Il dosaggio di italiano col ‘dialetto’ nelle conversazioni delle due ragazze appare quindi l’indice del loro progressivo distacco da un ambiente senza futuro né speranza, dal quale devono sradicarsi, a costo di sacrificare una parte di se stesse.                                                              

«…Il regista Saverio Costanzo […] ha sviluppato la serie in napoletano ed è forse riuscito a far sprigionare, nella veemenza dei dialoghi quell’energia spaventosa e straripante che l’autrice, nei suoi libri, ha cercato di esorcizzare con l’italiano. […] Una lingua scarna, dura, spaventosa, resa ancor più terribile dagli occhi di una bambina, vissuta in un mondo difficile, dove non c’è spazio per la dolcezza, per l’attenzione verso l’infanzia; un mondo dove ai bambini non viene risparmiata la vista di un male che non possono comprendere, se non metabolizzandolo nella fantasia. L’emozione senza mediazione, l’energia primigenia e distruttrice di una lingua calda e viscerale, intensa e violenta. […] Un groviglio di significati, che un napoletano ha il privilegio di poter comprendere appieno, e che, anche per i più giovani, può rievocare il ricordo sopito delle epoche difficili, della vita cruda, vissuta dalla gente semplice di Napoli e del nostro Sud, tra i contraccolpi di eventi storici incomprensibili che non li hanno mai visti protagonisti, ma sempre vittime inermi, ad arrangiarsi da soli e, senza aiuti, ricostruire le proprie vite e la propria immaginazione». [iv] 

Queste acute osservazioni di Teresa Apicella, e l’analisi socio-antropologica che ne traspare, ci riportano al quesito iniziale: una lingua è soltanto lo specchio di una comunità oppure è capace di forgiarne le sensibilità, le capacità espressive, le caratteristiche culturali e, perché no, i destini?  E’ in fondo la vecchia questione del rapporto tra contenuto e forma, significante e significato, tra la realtà e il codice che la rappresenta. Una relazione che mi è sempre sembrata biunivoca, nel senso che una certa visione del mondo e la fattualità degli eventi contribuiscono a generare il mezzo espressivo più adeguato, ma è altrettanto vero che il medium utilizzato è pragmaticamente capace di plasmare pensieri e azioni di un gruppo sociale, imprimendogli un particolare carattere.

Nel romanzo della Ferrante lo stretto rapporto tra linguaggio e specificità socioculturale mi sembrava già fondamentale, ma la trasposizione cinematografica del testo ha conferito maggiore evidenza a questa relazione. L’aspetto più evidente è la caratterizzazione della lingua come segnale di promozione sociale, strumento per acquisire importanza e gratificazione all’interno di una comunità chiusa ed impermeabile alla evoluzione esterna. Il passaggio dal napolitano all’italiano, conseguentemente, ha finito col costituire un termometro della mobilità sociale. Il teatro, più ancora che la narrativa, ha spesso rimarcato questa brusca e forzata trasformazione, in cui i sottoproletari cercano in ogni modo di omologarsi ai ceti borghesi, che a loro volta si sforzavano di assomigliare a quelli aristocratici, con accenti ora farseschi e caricaturali (alla Totò, per intenderci), ora decisamente più drammatici (come nelle commedie di Eduardo De Filippo).  Ma su tali aspetti dell’Amica Geniale su cui direi che pochi in Italia hanno approfondito mentre, paradossalmente, interessanti analisi ci giungono dal mondo anglosassone ed americano, come quella di Amy Glynn.

«Bene, il linguaggio è tutto in questo libro, e intendo sia la straordinaria prosa di Ferrante sia il fatto che all’interno della storia, le lingue sono dispositivi di trama, designatori di caratteri e stenografia per argomenti molto importanti di classe, educazione e mobilità, senza i quali c’è relativamente poca storia […] Sia che i personaggi del libro parlino in ‘corretto’ italiano oppure in napoletano, c’è un indicatore di appartenenza, una dichiarazione politica, una storia implicita sulla posizione del personaggio in una gerarchia spesso brutale e violenta. […] (‘L’amica geniale’) è anche una storia di formazione sulla lingua in sé, sul linguaggio vernacolare e sulle ’lingue comuni’ e sul notevole potere di trasformazione delle parole imbrigliate, su come le nostre lingue ci definiscono come persone, come comunità, come tribù». [v]

Rifiuto del dialetto e resistenza del dialetto

Lenù in una na scena da ‘L’amica geniale’

Il difficile viaggio di Lenù verso una realtà diversa da quella ‘tribale’ in cui aveva vissuto la sua infanzia s’identifica allora con la sua volontà di uscire dagli schemi comunicativi del gruppo sociale da cui intendeva distaccarsi, lasciandosi alle spalle un doloroso destino di insuccessi e frustrazioni, quotidiane meschinerie e violenze. Tutta presa dal suo innamoramento per “la lingua dei fumetti e dei libri”  [vi] – vissuta come veicolo di riscatto sociale – è lei stessa a confessare amaramente:

«Non ho nostalgia della nostra infanzia […] La vita era così e basta, crescevamo con l’obbligo di renderla difficile agli altri prima che gli altri la rendessero difficile a noi» [vii]

Un altro bell’articolo che affronta l’importanza della lingua nel romanzo della Ferrante e nella sceneggiatura televisiva da esso ricavata è stato scritto da Justin Davidson – critico musicale e vincitore di un Pulitzer – che già dal titolo richiama la nostra attenzione sul “significato nascosto dietro il dialetto de L’Amica Geniale”. Dopo aver opportunamente premesso che «L’Italia è un’invenzione del XIX secolo unificata da una lingua ufficiale che, fino al XX secolo, la maggior parte degli italiani non parlava» [viii], Davidson torna sul rapporto tra romanzo e sceneggiato, sottolineando sia la valenza personale e comunicativa del non utilizzo del ‘dialetto’ da parte della Ferrante, sia l’intento neorealista del regista dello sceneggiato, che ha voluto renderci in modo brutalmente diretto lo scarto socio-culturale fra la chiusa e cupa comunità del periferico rione popolare e l’altra Napoli, quella elegante e borghese del centro.

«La traiettoria di Elena è la storia di una donna che cambia il suo modo di parlare, e con essa il tranello della classe, della famiglia, della brutalità e della lealtà. […] Costanzo, però, va oltre qualcosa di molto più strutturato e profondo dell’autenticità o del colore locale: usa le gradazioni del dialetto per delineare la classe, rivelare la psicologia dei personaggi e portare avanti la trama. […] le uniche presenze di quartiere che parlano il vero italiano sono insegnanti e bibliotecari. Ma pure tra i proletari anche le forme più dure di dialetto si piegano alle circostanze. […] Il grado del dialetto denota ben più della classe sociale; allude anche alla lealtà del relatore. Un capo del crimine locale giura per la famiglia e parla il gergo locale. Un aspirante studioso parla italiano, ha pensieri sulla politica nazionale e non vede l’ora di sfuggire ad un tenace Sud provinciale. Dopo la seconda guerra mondiale, l’Italia ha dovuto riformarsi da sola, ricucendo culture disparate in una traballante idea di nazione. Il servizio militare obbligatorio è stato utile. Così hanno fatto la televisione e le scuole. Ma è stata l’economia fiorente che ha fatto di più per legare insieme le fortune di cittadini che altrimenti non avrebbero avuto nulla a che fare l’uno con l’altro. Stefano Carracci capisce che ci sono soldi da fare e clienti da corteggiare oltre i pochi isolati che chiama a casa, ed è pronto a parlare la loro lingua…» [ix]

L’alternativa che si presentava alle due amiche era restare vincolate ad un destino di miseria e degrado – economico ma anche culturale ed affettivo – oppure rompere definitivamente con la propria comunità di appartenenza, con la sua violenza inevitabile e quasi fatale e col suo gergo amaro, adoperato come un’arma per rendersi reciprocamente la vita difficile. Paradossalmente, come acutamente nota il critico statunitense, dello stesso dialetto, nella sua forma più aspra, si serve il fratello di Lenù proprio per rivendicarne il diritto ad evadere da quel contesto deprivato:

«Nel mondo di Ferrante, tale insieme di tensioni – tra il rione e la nazione, la famiglia e l’istruzione, la pistola e la mente – si manifestano nelle sottigliezze del discorso. Quando i genitori di Lila decidono di strappare la ragazza dalla scuola e metterla al lavoro, suo fratello maggiore Rino (già evasore scolastico) difende il suo diritto all’istruzione – in un dialetto virulento e inimitabile. L’ironia è intenzionale: egli usa il napolitano per cercare di spingerla fuori dall’orbita della famiglia che parla napolitano» [x]

E’ lo storico paradosso della cultura subalterna dei ‘vinti’ che si sforza di uscire da tale subalternità rinnegando se stessa ed omologandosi al modo di vivere ed esprimersi che considera ‘vincente’. Il pesante prezzo da pagare è il doloroso abbandono di una parte di se stessi (come nel caso di Elena), ma anche lo schizofrenico sovrapporsi in Raffaella di un’impalcatura culturale costruita con la lingua ‘dei fumetti e dei libri’ alla sua istintiva  vitalistica aggressività plebea. Con la differenza che, mentre la prima si sente un po’ inadeguata in entrambi i contesti, la sua geniale amica sembra sempre a suo agio, sicura di sé. Lenù vive costantemente, e con intima sofferenza, il suo rapporto di dipendenza da Lila, ma si convince che questo dislivello non è frutto d’una maligna ricerca della superiorità. L’amica sembra piuttosto seguire tenacemente il proprio filo logico, inseguire il suo progetto, come quando Elena le parla della sua fantastica avventura col padre nella Napoli ‘bene’, ma sente la sua foga gelarsi di fronte alla apparente indifferenza di lei, restandone ‘dispiaciuta’.

«Lei…mi ascoltò senza curiosità e lì per lì pensai che facesse così per cattiveria, per togliere forza al mio entusiasmo. Ma dovetti convincermi che non era così, aveva semplicemente un filo di pensiero suo che si nutriva di cose concrete, di un libro come di una fontanella […] Il mio racconto, per lei, era in quel momento solo un insieme di segnali inutili da spasi inutili. Se ne sarebbe occupata, di quegli spazi, solo se le fosse capitata l’opportunità di andarci». [xi]

Riscatto sociale: fuga o impegno?

Un’altra scena da ‘L’amica Geniale’

Il conflitto tra ‘bellezza’ e ‘violenza’ segna profondamente il romanzo, contrapponendo un mondo ‘civile’ di sapere, gentilezza e relazioni paritarie all’ambiente tribale del rione periferico, caratterizzato da ignoranza, sopraffazione e disparità perfino tra soggetti marginali. La stessa lingua napolitana si direbbe il veicolo espressivo obbligato di quest’ultima realtà, eppure – come era già stato notato – all’interno del ‘dialetto’ della sceneggiatura affiorano significative varianti. Un idioma frutto di quasi tremila anni di stratificazioni culturali, del resto, non può essere confinato al linguaggio ‘basso’, capace di esprimere solo impulsi primari e ruvida aggressività. La ricchezza semantica del napolitano, la sua inimitabile arguzia e la sua dolcezza musicale non devono essere ridotti a lingua di quella plebe da cui la maestra Oliviero esortava Elena a fuggir via, perché ‘era una cosa molto brutta’.  Del resto sono molti i passi del romanzo in cui l’autrice  sottolinea che lo stesso ‘dialetto’ veniva parlato con modalità espressive diverse, che vanno da quelle più intime delle confidenze tra adolescenti a quelle aspre e volgari dei furiosi litigi. Il loro rione è sì un microcosmo, ma rispecchia personalità diverse e spesso contrapposte, a partire proprio dalle due amiche. Mentre Elena persegue il suo riscatto sociale disancorandosi sempre più dal proprio contesto, Raffaella, grazie alla sua intelligenza ed ostinazione, cerca invece di portare il ‘progresso’ dentro la comunità, senza rinnegare se stessa ed il proprio linguaggio, che invece impara a modulare secondo registri e tonalità differenti a seconda delle circostanze.

«Il suo spirito è mosso dalla ricerca del miglioramento: per sé, per il rione, per quelle persone che lei riconosce come suoi pari, per quanto meno brillanti o più sfortunate. Se Lenù è motivata da un forte spirito di rivalsa, che la porta a cercare altrove le sue radici e la sua essenza, Lila è ancorata fortemente al rione, da cui si distacca con difficoltà. È legata a quegli affetti che fanno parte della sua esistenza, nonostante la miseria e la crudeltà. Per questo Lila cerca soluzioni ai problemi, cerca di migliorare il suo rione. […] Don Achille e i Solara sono i rappresentanti di un sistema brutale, una civiltà di vergogna e violenza, che Lila si propone di abbattere con il suo esempio, arricchendo la sua famiglia, smuovendo l’economia con una produzione locale di artigianato di qualità. I suoi sono progetti ambiziosi, che devono purtroppo scontrarsi con l’avidità e la noncuranza di chi le sta a fianco». [xii]

Inutile dire che la mia simpatia propende verso la caparbia determinazione di Raffaela Cerullo. Sono stato per dieci anni operatore educativo e socio-culturale nell’unico centro comunitario operante in un rione sottoproletario del centro storico di Napoli e per altri vent’anni docente d’Italiano in una scuola media prima dell’area periferica della città e poi di uno dei suoi  contesti più ‘plebei’ come quello della Vicaria. Ho conosciuto tante ragazzine come Lenù e Lila, così come ho vissuto in prima persona sia l’ostilità sorda di famiglie che non riuscivano a scorgere un destino diverso per i propri figli, sia l’ambizione di chi pensava che la scuola fosse uno strumento per riscattarsi dalla miseria più che dall’ignoranza. Per i bambine e le bambine che ho incontrato in quei trent’anni d’insegnamento il percorso verso l’evoluzione espressiva è stato spesso faticoso e talvolta frustrante. Io però ho sempre cercato di non usare l’insegnamento dell’Italiano come un arnese per spiantarne le radici culturali e linguistiche ed operare una trasformazione che prevedesse il ripudio della loro identità ed autenticità espressiva. Ispirandomi a don Milani, ho provato piuttosto ad aiutare i miei alunni a padroneggiare la lingua per non esserne dominati. A conquistare l’uso della parola come “chiave fatata che apre ogni porta” , per capire ed essere capiti appieno e riuscire così ad esplorare liberamente le meraviglie del sapere.

«Le parole racchiudono percorsi formativi, sono strumenti per interagire con la realtà. La padronanza delle parole libera l’allievo consentendogli di avere un rapporto immediato con la vita, dominare le parole, estremizzare i significati consente a ciascuno di diventare cittadino attivo e non subalterno. Ecco perché, a Barbiana, si puntava non sulla quantità del tesoro chiuso nella mente e nel cuore dei ragazzi, ma su ciò che si colloca sulla soglia, fra il dentro e il fuori, sulla parola». [xiii]

E’ così che dieci anni fa ho iniziato pionieristicamente ad affiancare all’insegnamento istituzionale della lingua italiana quello extracurricolare del Napolitano, come strumento di consapevolezza della ricchezza e nobiltà di un’espressione considerata povera e volgare, oltre che come rivendicazione della dignità di una cultura millenaria quanto ‘geniale’. Ed è per questo stesso motivo che ho apprezzato la sceneggiatura ‘vernacolare’ de ‘L’Amica geniale’, assaporando accenti ormai banditi dalla scuola ma anche dai media che, dopo aver omologato il modo di parlare e scrivere degli Italiani, ci stanno assuefacendo ad un’anglicizzazione forzata, spesso immotivata e inopportuna, della comunicazione formale e perfino informale. Viceversa non ho apprezzato che nella prosa italiana della Ferrante il dialetto, evocato ma esorcizzato al tempo stesso, riaffiorasse solo in occasione dello scambio d’invettive feroci, come osserva Andrea Villarini, docente all’Università per Stranieri di Siena. Dalla sua analisi emerge anche che nel romanzo si fa ricorso all’italiano per ‘escludere’ qualcuno dalla conversazione e che l’italianizzazione di Elena, laureata alla Normale di Pisa, le comporta una dolorosa autoesclusione dal dialogo con la stessa madre.

«Solo in pochissime situazioni il dialetto irrompe in superficie tra le righe dell’opera. Avviene quando si tratta di trascrivere i momenti nei quali i protagonisti si lanciano insulti tra di loro […] La cosa interessante è vedere come anche in questi frangenti la Ferrante non trascriva l’intera frase in dialetto, ma esibisca solo le singole parole insultanti. […] L’alternanza degli usi linguistici tra italiano e dialetto non è caotica, ma è governata da regole sociolinguistiche ben precise. […] Una di queste regole è quella che potremmo definire dell’inclusione e dell’esclusione, ed è una tipica risorsa che noi parlanti utilizziamo per coinvolgere o escludere qualcuno da una conversazione […] Per la prima volta [sua madre] messa di fronte a una figlia che ce l’ha fatta (diciamo così), si rende conto che la lingua con la quale si è espressa da sempre non aiuta. È la scoperta di un’alterità linguistica che pone il dialetto in condizione succube. Troviamo qui una delle funzioni cardine che gli italofoni hanno compiuto tra le masse dialettofone. Far loro percepire che il dialetto, sino a quel momento lingua onnipotente, non è più buono per tutte le occasioni. Fino ad allora questa stessa funzione era stata svolta dalla burocrazia, la lingua dello Stato, laddove il cittadino si trovava nelle condizioni di non poter comprendere norme e leggi, ma qui siamo in presenza di un rapporto tra familiari e quindi di una spinta verso l’italiano che, essendo esercitata dal dover comunicare con un proprio caro, è molto più forte».[xiv]

Sviluppo o semplice metamorfosi?

L’effetto collaterale di tale trasformazione – come quella di Lenù in Elena – è spesso lo straniamento di chi sente di aver perso la propria identità ma non ha ancora acquisito dimestichezza col suo nuovo sé. Per il radicale cambiamento del suo codice linguistico, infatti, ella ammette il disagio di chi sente la sua stessa voce quasi estranea e le parole pronunciate dissonanti dai propri pensieri. Elena insomma – come tantissimi giovani spiantati dal loro contesto socioculturale – avverte l’imbarazzo e la frustrazione di quello sradicamento.

«Arrivai al collegio piena di timidezze e di goffaggini. Mi resi subito conto che parlavo un italiano libresco che a volte sfiorava il ridicolo, specialmente quando, nel bel mezzo di un periodo fin troppo curato, mi mancava una parola e riempivo il vuoto italianizzando un vocabolo dialettale» [xv]

Si ripropone qui il divario tra un cambiamento come sviluppo, che dovrebbe servire a liberare potenzialità ed espressività di un individuo dai condizionamenti ambientali, ed una metamorfosi che, pur nella sua radicalità, gli sovrapponga nuovi condizionamenti e ne alimenti ulteriori frustrazioni. Ovviamente solo il primo cambia davvero gli individui, consentendo loro di assumere coscienza della propria situazione e di prendere il futuro nelle proprie mani. Andrebbe invece evitato un cambiamento forzato dagli eventi, la brusca ‘metamorfosi’ di chi deve acquisire una personalità ed un linguaggio imposti dall’esterno. L’unico modo per salvarsi dalla condanna ad una nuova subalternità sarebbe far parte di quel processo collettivo e liberatorio di ‘comunicazione e coscientizzazione’, su cui si era soffermato Mario Borrelli nel suo già citato saggio del 1975.

Non è certo un caso che uno dei suoi ex scugnizzi – brillantemente affermatosi nei decenni successivi sul piano culturale e professionale – abbia recentemente voluto raccontare la sua personale metamorfosi in un libro scritto in terza persona. La lettura della sua coraggiosa autobiografia si  è intrecciata con le mie riflessioni sull’Amica geniale. Di quella storia inventata, in effetti, Tore avevacondiviso con impressionante somiglianza il lungo e faticoso processo di cambiamento, partendo dalla precarietà esistenziale del sottoproletario napoletano degli anni ’50 per giungere al travagliato ma soddisfacente raggiungimento dei propri obiettivi.

«I suoi primi cinquant’anni lo costrinsero a continue trasformazioni, nel tentativo di somigliare alle  figure che, di volta in volta, divennero il suo riferimento. Fu, dunque, più persone mentre cresceva, portandosi dietro sempre ‘o figlio d’’o Mullunaro, facendo grandi sforzi per mantenere sopito il sottoproletario che aveva dentro. Il nuovo secolo lo costringerà a misurarsi con altri cambiamenti, con successi e fallimenti e quando, all’improvviso, cambierà tutto, avrà la sensazione di aver corso senza essere riuscito ad imparare a camminare…» [xvi]

La vicenda di Salvatore – sospeso fra la voglia di fuggire di Lenù e l’ambizione ostinata di chi, come Lila, vuole anche contribuire al cambiamento della sua comunità – mi sembra un buon esempio di chi ha intravisto che il suo futuro avrebbe dovuto essere ‘fuori’ del suo rione ed ha seguito testardamente il suo sogno. Lo ha fatto senza rinnegare le proprie radici, ma cercando nella scuola prima e poi nella politica gli strumenti per costruire il proprio futuro non da solo ma insieme con gli altri. E non è poco.

© 2019 Ermete Ferraro


[i]   Cfr. Vocabolario online Treccani > http://www.treccani.it/vocabolario/geniale/

[ii]  Tra le sue tante opere rivestono particolare importanza su questo versante: Mario Borrelli, Unearthing the Roots of the Sub-Culture of the South Italian Sub-Proletariat, Londra, 1969 (paper) – in italiano: A caccia della sottocultura del sottoproletariato del Sud Italia; Idem, “Scuola e sviluppo capitalistico in Italia”, in Social Deprivation and Change in education, Atti del convegno internazionale di York, Nuffield Teacher Enquiry, York University, 1972 ;  Idem, Socio-Political Analysis of the Sub-Proletarian Reality of Naples of Intervention for the Workers of the Centre, Londra, 1973 (paper). In italiano: Analisi socio-politica della realtà di Napoli e linee d’intervento per gli Operatori del Centro

[iii] Ciro Pellegrino, “Diciamo grazie all’Amica Geniale che ci ha fatto riscoprire la lingua napoletana” (19.12.2018) Fanpage > https://napoli.fanpage.it/amica-geniale-dialetto-napoletano/

[iv]  Teresa Apicella, “Il napoletano crudo dell’Amica Geniale ci ha convinti…” (27.11.2018), Identità Insorgenti > https://www.identitainsorgenti.com/lingua-geniale-il-napoletano-crudo-de-lamica-geniale-ci-ha-convinti-ma-la-voce-narrante-no/

[v]  Amy Glynn, “Elena Ferrante, HBO’s My Brilliant Friend, and the ‘Unadaptable”’ Novel” (16.12.2018), Paste magazine > https://www.pastemagazine.com/articles/2018/11/elena-ferrante-hbos-my-brilliant-friend-and-the-un.html (trad. mia)

[vi]  Elena Ferrante, L’Amica geniale (A.G.), Edizioni e/o, 2011, p. 99

[vii]  Ferrante, A.G. ,  p. 33

[viii]  Justin Davidson, “The Hidden Meaning Behind My Brilliant Friend’s Neapolitan Dialect” (03.12.2018), Vulture > https://www.vulture.com/2018/12/my-brilliant-friend-hbo-neapolitan-dialect.html

[ix]  Ibidem

[x]    Ibidem

[xi]  Ferrante, A.G. , p. 135

[xii]  Oriana Mortale, “L’A.G. di Elena Ferrante: una storia napoletana” (09.09.2018), la COOLtura > https://www.lacooltura.com/2018/10/lamica-geniale-di-elena-ferrante/

[xiii] Domenica Bruni, “Lingua e ‘rivoluzione’ in don Milani”, Quaderni di Intercultura  dell’Univ. di Messina,  Anno IV/2012, p. 2 > http://cab.unime.it/journals/index.php/qdi/article/viewFile/810/619

[xiv]  Andrea Villarini, “Riflessioni sociolinguistiche a margine de L’amica geniale di Elena Ferrante” (21.02.2017), Arcade Literature, the Humanities & the World  (Stanford University > https://arcade.stanford.edu/content/riflessioni-sociolinguistiche-margine-de-l%E2%80%99amica-geniale-di-elena-ferrante-0

[xv] Elena Ferrante, Storia del nuovo cognome (S.N.C.), Ediz. e/o,  pp. 331-332

[xvi]  Salvatore Di Maio, Nato il 4 luglio a Napoli. Le metamorfosi di uno scugnizzo, Napoli, La Citttà del Sole, 2018, p. 180

Ma Oz è il padre dei Wiz ?

Un Mago più influente di Harry Potter

Non avrei mai pensato che il vecchio e un po’ farlocco Mago di Oz fosse tanto importante ed autorevole. Eppure, di recente, mi è giunta notizia della classifica dei film ‘più influenti’ di tutta la storia del cinema, realizzata da due ricercatori italiani, che hanno utilizzato un loro specifico algoritmo per condurre in porto quest’indagine.

«Livio Bioglio e Ruggero G. Pensa, due informatici dell’Università di Torino [hanno] stilato la classifica delle pellicole cinematografiche di maggior successo dopo aver valutato quelle più citate tra le oltre 47mila contenute nella banca dati di Amazon (Internet MovieDatabase, IMDb).[…] ‘Il Mago di Oz’ è il film più influente della storia del cinema […] Il podio è completato, nell’ordine, da ‘Star Wars’ e ‘Psycho’…». [i]

Non ho la minima idea di come il loro algoritmo li abbia portati a giungere a tali conclusioni, che però mi sembrano condivisibili se teniamo conto dell’enorme popolarità raggiunta nel tempo da queste tre ‘colonne’ della filmografia e delle loro innumerevoli citazioni in altri film. Mi ha però sorpreso che il primo posto su questo ‘podio’ informatico sia stato tributato alla pellicola diretta nel 1939 daVictor Fleming [ii]che, seppure gradevolissima e d’indubbio successo, resta una fiaba piuttosto datata e rivolta principalmente ai bambini, essendo ispirata al noto libro dello scrittore statunitense L. Frank Baum “Il meraviglioso mago di Oz”, dato alle stampe la bellezza di 118 anni fa.[iii] 

Il secondo aspetto un po’ sorprendente di questa classifica è il climax registrabile analizzando le preferenze del pubblico e degli addetti ai lavori, dal momento si nota una gradualità discendente dalla visione luminosa, ottimistica, onirica e fiabesca del primo classificato al tono bellicoso ed avveniristico del fantascientifico ‘Guerre Stellari’, sprofondando infine nell’atmosfera oscura, terrificante e malata del mitico giallo diretto da Alfred Hitchcock. E poi, che cosa hanno in comune questi tre film per avere influenzato così profondamente i gusti della gente? Soprattutto, come mai in un mondo ipertecnologico, cinico e poco attratto dai ‘sogni’ è stata prescelta una storia fiabesca e zuccherosa come quella della piccola Dorothy che aiuta i suoi tre fantastici amici ad ottenere ciò che più desiderano?

In effetti, anche la saga cinematografica di ‘StarWars’, realizzata da George Lucas a partire dal 1977, pur appartenendo ovviamente al genere fantascientifico, presenta elementi fantasy e ci ripropone il classico, eterno, scontro fra le forze del bene e quelle del male. Certo, non si tratta di potenti maghi e di streghe cattive, bensì dei Jedi, che mantengono ordine e pace nella Galassia, opponendosi ai malvagi Sith. Del resto, fu lo stesso Lucas ad osservare che il suo stile era ben diverso da quello della classica narrazione da science-fiction, dal momento che: 

«Da bambino leggeva molta fantascienza, ma, invece di leggere autori tecnici e di fantascienza hard come Isaac Asimov, era interessato a HarryHarrison e a un approccio fantastico, surreale al genere…». [iv]

Assai più difficile, invece, è stabilire un parallelismo tra la fiaba di Dorothy, nuova Alice nel Paese delle Meraviglie del magico regno di Oz, e la Marion protagonista di ‘Psyco’, coinvolta in una tormentata storia d’amore che la porterà a finire tragicamente i suoi giorni nel terrificante motel di un giovane omicida schizofrenico. Qui, infatti, il conflitto tra buoni e cattivi è già tutto insito nella psiche malata di Norman Bates, col suo ‘doppio’ femminile materno, alimentando un horror-thriller dove Eros e Thanatos s’intrecciano in una sceneggiatura cupa e disperata. [v]

Insomma, se nel primo film prevaleva l’ottimismo dello happy end e nella saga di ‘Star Wars’ la contesa tra Bene e Male restava comunque aperta,  ‘Psyco’ , viceversa,  era dominata da una pulsione negativa e mortale. In tutti i tre casi, peraltro, ci riferiamo a ‘classici’ piuttosto stagionati (rispettivamente, del 1939, 1977 e 1960). Il fatto che oggi i tre film siano stati selezionati come i più  ‘influenti’, però, lascerebbe pensare ad un inconscio tentativo di sfuggire alla violenza psicopatica che caratterizza la nostra realtà attuale, rifugiandosi in un mondo dove una bambina riesce a sconfiggere le forze del male ed a restituire ai suoi compagni di viaggio la speranza e la fiducia in se stessi.

Il viaggio onirico di Dorothy ed i suoi simbolismi

Dorothy coi suoi amici: lo Spaventapasseri, l’Uomo di Latta ed il Leone codardo

Ricordo che, da piccolo, la lettura de ‘Il Mago di Oz’ mi affascinò molto ma, al tempo stesso, mi lasciò sconcertato. Fatto sta che del libro di Baum risulta più difficile tentare di una lettura metaforica, cosa sicuramente più agevole per quello di Carroll. Eppure ritengo (e non sono il solo) che anche la fantastica avventura di Dorothy si presti ad interpretazioni meno banali di quella fiabesca. Un significato simbolico, infatti, affiora abbastanza evidentemente se solo riflettiamo alle caratteristiche dei protagonisti della storia, mettendo per un attimo da parte gli antagonisti magici della bambina e dei suoi strani amici. Una loro lettura psicologica, infatti, ci fa scoprire che quei personaggi, al termine del racconto, non si ‘trasformano’ magicamente in qualcosa di diverso da ciò che erano già, ma piuttosto prendono coscienza di se stessi e delle proprie potenzialità, mortificate dalla paura e dall’insoddisfazione. Mi sembra di scorgere, quindi, la metafora della ‘liberazione’ dall’infelicità di chi va cercando fuori di sé ciò che in effetti già possiede, di cui il sedicente Mago di Oz non è l’autore, semmai l’involontario facilitatore. La stessa Dorothy acquista coscienza di quanto siano preziosi quelli che la circondano nella sua fattoria nel Kansas solo dopo aver compiuto il suo simbolico‘viaggio’ in una dimensione avventurosa, grazie alla quale scopre e valorizza le sue indubbie capacità.

Anche altri hanno tentato un’interpretazione psicologica del fairy tale di Baum, individuando alcuni elementi significativi chevanno ben oltre la lettura meramente fiabesca della storia.

«Il Regno di Oz, dal quale Dorothy cerca di andar via per tornare a casa, può rappresentare quel luogo intimo dove ogni uomo rielabora le esperienze personali solo con se stesso […] Oz inoltre è il simbolo dell’oncia, unità di misura, per cui Il Regno di Oz è anche il luogo in cui si dà un peso, in cui si misura e si dà un valore, dove si distingue tra bene e male, dove si riflette su ciò che è stato per arricchirsi di un nuovo peso per affrontare e misurare ciò che sarà. Possiamo dire che è il luogo della coscienza». [vi]

In questa impegnativa chiave di lettura, i buffi personaggi che Dorothy incontra – e coi quali si reca nel Regno di Smeraldo a chiedere aiuto a quello che tutti credono un potente Mago – rappresentano tre simbolici esempi di ‘carenza’, cioè di mancanza di qualcosa da cui di solito gli esseri umani fanno derivare la loro insoddisfazione ed infelicità, senza rendersi conto che ciò di cui vanno incerca lo hanno già dentro di sé.

« Lo spaventapasseri che vorrebbe avere un cervello rappresenta la leggerezza di pensiero e d’azione, l’uomo di latta che vorrebbe avere un cuore rappresenta l’incapacità di amare, di provare passioni e di interessarsi; mentre il leone che vorrebbe avere più coraggio rappresenta l’incapacità dell’uomo di saper cogliere a proprio favore le situazioni, di “rischiare” o provare realizzando il pensiero in azioni,l’incapacità di cogliere la vita come una occasione (ob-cadere cadere avanti). Solo alla fine del “viaggio” queste tre peculiarità dell’uomo possono dirsi realizzate». [vii]

Ecco allora cheil racconto acquista una luce diversa e, proprio come i suoi protagonisti, ci rivela aspetti nascosti ed inconsapevoli del suo messaggio. Dietro la fantasticheria di Baum arriviamo a scorgere un significato più profondo, che rinvia all’esigenza che ogni persona segua un percorso che la porti alla consapevolezza di ciò che è, superando il limite frustrante del desiderio di ciò che si vorrebbe essere, e magari scoprendo alla fine che le due cose coincidono. Il desiderio, appunto. Un’innegabile e potente fonte di tensione per la realizzazione delle proprie potenzialità, ma anche un limite doloroso da superare, per non restare inchiodati all’aspirazione di qualcosa che resta fuori di noi e tende costantemente a sfuggirci.

«La figura di Dorothy come l’Anima […] realizza, nel senso di presa di coscienza, il suo stato di meccanicità nei tre“corpi” Gurdjeffiani: corpo mentale (spaventapasseri), corpo emozionale/astrale(uomo di latta) e corpo fisico (leone). Questi tre, non appena compaiono nel cammino, sono infatti infelici dell’essere incapaci di “utilizzarsi […] Il percorso giunge a termine quando Oz […]  fa realizzare ad ognuno di essi che in realtà loro già possedevanole stesse qualità che cercavano: altro profondo insegnamento spirituale». [viii]

Un’interpretazione simile è riscontrabile in un altro articolo, dove però si sottolinea anche che la fiabesca avventura narrata da Baum possa essere letta come il percorso educativo attraverso il quale ogni individuo arriva a sviluppare le sue tre fondamentali competenze personali e sociali (cognitiva, emotiva e pragmatica).

«Chi conosce la storia del Mago di Oz,ricorderà perfettamente che il Mago non regala nulla che i bizzarri personaggi non abbiano già in sé. Nel corso delle peripezie per raggiungere la Città di Smeraldo dove risiede il Mago, lo Spaventapasseri dimostra di avere un intuito fine ed efficace, il Boscaiolo di Latta mostra solidarietà e compassione per i suoi amici e il Leone Codardo affronta con grande valore molti pericoli. Insomma, la formazione accompagna a risvegliare, stimolare e riscoprire abilità e competenze che abbiamo dentro di noi…» [ix]

Un mondo nuovo ‘oltre l’Arcobaleno

“Somewhere, over the Rainbow…”

Ritengo però che, andando oltre un’interpretazione in chiave psicologica o pedagogica, si possa tentare una lettura ‘sociologica’ di questo libro/film che, secondo la ricerca citata, è stato addirittura valutato “il più influente di sempre”. E’ la nostra stessa società, a mio avviso, che presenta le carenze lamentate da quei quattro personaggi in cerca di Mago. Ad essere messo in discussione mi sembra pertanto l’attuale modello di sviluppo, caratterizzato da un crescente materialismo e consumismo che, paradossalmente, diventano sempre più fonte d’infelicità. Le nostre ‘sviluppatissime’ comunità, infatti, sembrano afflitte dall’incalzante peso proprio di queste tre dimensioni negative: l’incapacità di pensare criticamente la realtà, di provare sentimenti empatici e di affrontare con determinazione le sfide del nostro tempo. L’attuale società, insomma, sembra aver perso il cervello il cuore ed il coraggio che sarebbero invece necessari ad invertire la rotta, prima che sia troppo tardi. La stessa Dorothy può essere allegoricamente interpretata come l’esigenza di sfuggire ad una realtà limitata ma, al tempo stesso, di recuperare il valore del ‘ritorno a casa’, ai valori essenziali, dopo essere diventati più consapevoli e sicuri di sé.

Il nostro personaggio-chiave,il ‘wonderful Wizard of Oz’, mi sembra incarnare invece il simbolo di un’autorità esterna dalla quale la gente attende fideisticamente la soluzione dei propri problemi, salvo poi scoprire che dietro la rutilante scenografia magica si cela nient’altro che un ometto insignificante e vile, impotente ad esaudire i desideri degli altri, ma  ben attento a difendere la propria posizione ed a conservare il potere. A questo punto, non è difficile scorgere dietro quel Mago fasullo il prototipo dell’uomo politico, alla cui ben costruita apparenza ed autorità non corrisponde né un’effettiva capacità né una reale autorevolezza. L’immagine, insomma, di un personaggio pubblico, il leader, dal quale tutti si aspettano che escogiti soluzioni ‘magiche’ a beneficio degli altri, scoprendone viceversa la grettezza morale e la ricerca del proprio esclusivo interesse. 

Tale lettura,a mio avviso, potrebbe esserci utile a prendere coscienza che un vero cambiamento non può essere frutto di alchimie di vertice, ma solo dell’assunzione diretta di responsabilità, di scelte personali e collettive che sappiano portare avanti la società (il latino: pro-gredior). Ma ciò è possibile solo a condizione che ciascuno sappia tirare fuori di il meglio di sé, liberandosi da quanto che ne impedisce la realizzazione (sviluppo vuol dire scioglimento dei legami che ci avviluppano, che ci avvolgono, da cui l’inglese development e lo spagnolo desarollo). Andare oltre il mito scientista ed illuminista del progresso come naturale ed irreversibile percorso evolutivo dell’umanità, a questo punto, mi sembra un primo passo verso uno sviluppo autentico. Perché esso si realizzi, infatti, dobbiamo diventare consapevoli dei limiti e condizionamenti che ci tengono ‘avviluppati’, trovando dentro di noi la forza di cambiare le cose, senza ostinarci a cercarla in formule magiche esterne, di natura economica o politica che siano. In questo senso, riflettere su una narrazione fiabesca come ‘Il Mago di Oz’  si rivela un modo per maturare la nostra coscienza e per aiutarci a costruire, insieme con gli altri, un mondo con più cervello, più solidarietà e più coraggio.

« Se al termine della sua avventura Dorothy ritrova casa e perfino un po’ se stessa, di identità riconquistate, o “maschere” infine portate con orgoglio, il film resta pieno. Sono quelle insicurezze o carenze umane celate sotto fattezze “animali” o irreali, nascoste dietro la consistenza di materiali in apparenza freddi (latta) o apparentemente deboli (paglia), di creature ancora ignare delle reali potenzialità e di uomini più autentici dei maghi che impersonano. Un racconto per bambini certamente, ma rivolto anche a tanti adulti non “maturati” o magari ancora in cerca di se stessi. Un’allegoria “infantile” che all’epoca segnava il cuore dei più piccoli ma corroborava in egual modo i grandi negli anni bui del dopo depressione, facendo loro ritrovare fiducia nel “colore” poco prima che un nuovo “grigio” (stavolta bellico) si abbattesse su tutti». [x]

Anche i nostri tempi ci appaiono sempre più bui e cupi, dobbiamo dunque diventare consapevoli che tocca anche a noi ridare alla vita il colore della fiducia, della speranza e dell’amore. Certo, non basta introdurre alcune scene colorate in un pellicola che resta in bianco e nero. Bisogna diventare  capaci di sognare un mondo realmente diverso e di trarre da dentro di noi la vera luce, andando quindi ‘oltre l’arcobaleno’, di cui essa è solo la scomposizione. E questo perché, concludendo colla celeberrima frase della nota canzone cantata nel film da Judy Garland-Dorothy:

“Somewhere over the rainbow / Skies are blue / And the dreams that you dare to dream really do come true” [xi].

© 2018 Ermete Ferraro


[i] “Secondo un algoritmo, Il Mago di Oz è il film più influente di sempre” (30.11.2018), Skytg24 > https://tg24.sky.it/tecnologia/2018/11/30/mago-oz-film-piu-influente.html

[ii]  Vedi: “The Wizard of Oz”, in Wikipedia   > https://en.wikipedia.org/wiki/The_Wizard_of_Oz_(1939_film)

[iii]  Vedi: “L. F. Baum”, in Wikipedia > https://it.wikipedia.org/wiki/L._Frank_Baum

[iv] “George Lucas Interview Circa April 1977”, originaltrilogy.com, 16 dicembre 2010 , in: https://it.wikipedia.org/wiki/Guerre_stellari

[v]  Cfr. Antonio Pettierre,  ‘Psyco di Alfred Hitchcock’ , Ondacinema  >  http://www.ondacinema.it/film/recensione/psyco_hitchcock.html

[vi] Francesco Scatigno, “Il simbolismo de Il Mago di Oz’ (22.11.2008), Il Mago di Oz – Controinformazione per la Consapevolezza sociale > http://www.magozine.it/simbolismo-de-il-mago-di-oz/ 

[vii] Ibidem

[viii] Fabrizio Angeloro, commento all’articolo precedente, ivi

[ix]  Antonella Bastone, “I doni del Mago di Oz per la formazione”, Tesionline-Psicologia> https://psicologia.tesionline.it/psicologia/article.jsp?id=27125

[x]  Andrea L., “75 anni di Oz” (05.12.2013), Blogo > http://www.cineblog.it/post/347089/75-anni-di-oz

[xi]Over the Rainbow (anche nota con il titolo Somewhere Over the Rainbow) è una canzone scritta da Harold Arlen con testi di E.Y. Harburg. La versione originale è cantata da Judy Garland per il film Il mago di Oz del 1939. Il titolo significa letteralmente “Oltre l’arcobaleno”. “ > https://it.wikipedia.org/wiki/Over_the_Rainbow