‘SUDYAGRAHA’: per la riscossa nonviolenta del Sud

Fare rumore…conviene?

“Che fai rumore qui / E non lo so se mi fa bene / Se il tuo rumore mi conviene / Ma fai rumore, sì / Che non lo posso sopportare / Questo silenzio innaturale…”.  Le parole del ritornello della canzone cantata da Diodato, vincitrice a Sanremo, mi sono improvvisamente venute in mente al termine del Convegno che si è svolto a Portici sabato 15 febbraio, organizzato dal Coordinamento Sud di Pax Christi. Il tema dell’incontro era suggestivo quanto originale: “Italia del Nord-Italia del Sud. Storia Giustizia Nonviolenza”. Lo definisco ‘originale’ perché anche all’interno dei movimenti pacifisti e nonviolenti operanti nel nostro Paese purtroppo non è facile trovare riferimenti al conflitto esistente fra quelle due Italie cui si fa cenno nel titolo, su cui si è preferito lasciar cadere un imbarazzato silenzio. Ed è proprio quel “silenzio innaturale” che, come altri pacifisti meridionali, anch’io ormai “non lo posso sopportare”. Ecco perché mi sembra necessario “far rumore” benché, come nella canzone, molti sembrano scettici sul fatto che questo rumore “ci fa bene” e, soprattutto, che “ci conviene”. Anche nel corso dell’incontro, infatti, qualcuno ha espresso dubbi sull’apertura da parte di Pax Christi di questo nuovo fronte di conflitto, sospettando che possa risultare ‘divisivo’. Obiezione comprensibile, ma che nasce dalla mancata consapevolezza che non è possibile operare divisione laddove l’unità – contrariamente a quanto ci si è fatto credere per un secolo e mezzo – non c’è mai stata davvero.

Facciamo benissimo ad occuparci della repressione contro Curdi e Palestinesi, come di quella nei confronti dei nativi amerindi oppure dei Rohingya. È cosa buona e giusta attivarsi per tutte le minoranze oppresse e per tutte le vittime del vecchio e nuovo colonialismo, nella consapevolezza che la Nonviolenza gandhiana – fine e mezzo al tempo stesso – è nata proprio come strategia alternativa nella lotta degli Indiani per la loro indipendenza ed autonomia.  Risulta però strano che un secolo e mezzo di conquista coloniale e sfruttamento del Sud della nostra penisola abbia invece lasciato molti teorici ed attivisti dei movimenti di liberazione quanto meno silenti, se non del tutto indifferenti. Ovviamente ci sono state e ci sono nobili eccezioni, come quella di Aldo Capitini, Danilo Dolci o Giuliana Martirani. Fra l’altro, il merito del convegno di Portici è di Antonio Lombardi, che a questa problematica ha dedicato un libro e da anni si sta battendo per quella “educazione alla identità e liberazione nonviolenta del Sud” che è alla base di un processo di ‘decolonizzazione’, mentale prima ancora che economica, dei meridionali. Eppure sembra evidente che dovremmo andare oltre, passando dall’attenzione alle sporadiche voci profetiche d’un riscatto nonviolento del Sud ad una riflessione più ampia, diffusa e condivisa, dalla quale l’arcipelago dei pacifisti, antimilitaristi e nonviolenti possa trarre un progetto complessivo da portare avanti, nel nome della riconciliazione ma, prioritariamente, della verità e della giustizia che ne sono la precondizione.

«Un popolo che subisce la colonizzazione mentale e viene educato all’oblio di sé è un popolo perduto. Educare all’identità, allora, significa partecipare a una straordinaria forma di difesa nonviolenta, è afferrare una poderosa tenaglia per spezzare la catena della sottomissione […] per andare verso una comunità consapevole della propria storia e del proprio valore, pronta a lottare per la dignità e l’equità, rifiutando di collaborare con la pesante emarginazione che la opprime a partire dalla conquista del 1860.» [i]

Catene da cui liberarsi o preziosi monili ?

Ma per “spezzare le catene della sottomissione” (e soprattutto per recidere quelle che, come si osservava nel libro citato, gli stessi oppressi paradossalmente spesso considerano monili preziosi…) c’è bisogno di una preventiva maturazione della coscienza da parte di comunità che continuano a vivere la propria subalternità come colpa o condanna del fato. I due interventi che, in quel convegno, hanno preceduto quello di Antonio Lombardi erano quindi altrettanto importanti. Il primo, di Vincenzo Gulì, studioso di storia del Mezzogiorno, si occupava di tracciare la “storia di una nascita”, ossia gli eventi passati che hanno portato alla sedicente Unità d’Italia, proprio “per capire il presente”. Rileggere criticamente la storia raccontata dai vincitori, attingendo a fonti e documenti finora occultati o prudentemente ignorati, è il solo modo per cogliere logiche e meccanismi dell’annessione colonialista del Regno delle due Sicilie. Si trattava infatti di uno dei più antichi, ampi e ricchi d’Europa che, contrariamente a quanto si è pervicacemente voluto far credere, non era per nulla arretrato e sottosviluppato, per cui l’unificazione – sul cui mito retorico sono state formate diverse generazioni di Italiani – di ‘patriottico’ ha avuto molto poco, non essendo stata altro che la forzata annessione di circa un terzo del territorio della Penisola al Regno di Sardegna, di cui cambiò di fatto solo l’estensione ed il nome.

Suppongo che molti continueranno a dissentire su tale rilettura storica, accusandola di ‘revisionismo’ e di ‘secessionismo’ ma evitando di andare a verificare quanto fossero fondate le ‘certezze’ che ci hanno inculcate in un secolo e mezzo di scuola unitaria e d’informazione a senso unico. Ormai i testi che trattano questi argomenti sono molti e qualificati, oltre che ampiamente basati su documentazioni difficilmente contestabili, per cui mi limito a rinviare alla lettura dei libri di Carlo Alianello [ii], Giordano Bruno Guerri [iii],  Pino Aprile [iv],  o Giovanni Fasanella e Antonella Grippo [v]. La stessa espressione ‘questione meridionale’ – al di là delle intenzioni dei grandi meridionalisti, da Nitti a Villari, da Fortunato a Salvemini, fino a Pannunzio, Compagna e Galasso –suggerisce implicitamente una connotazione negativa, come se si trattasse di un ‘problema’, una specie di pesante croce, di cui il Centro-Nord avanzati e progressisti sarebbero stati costretti a caricarsi. Ma la verità è ben altra e, pur  non volendo turbare le intime certezze patriottiche altrui con letture storiche dissonanti dalle versioni ufficiali, è oggettivamente impossibile – o almeno dovrebbe esserlo… – chiudere gli occhi su come quella stessa secolare ed irrisolta ‘questione meridionale’ abbia dato luogo molto più recentemente ad un ulteriore capovolgimento neolinguistico della realtà, trasformandosi in ‘questione settentrionale’ ed accelerando il truffaldino processo di ‘secessione dei ricchi’, consentito dalla c.d. ‘autonomia differenziata’, a sua volta frutto della già ventennale riforma ‘federalista’ del titolo V della nostra Costituzione repubblicana. Ecco perché è stato fondamentale che i convegnisti di Pax Christi ascoltassero anche il secondo intervento, affidato ad un acuto studioso dei processi economici come Marco Esposito. Il noto giornalista del quotidiano ‘Il Mattino’ è infatti l’autore di “Zero al Sud” un saggio fondamentale per capirci qualcosa dell’ultima fase della spoliazione del Mezzogiorno d’Italia, in cui – come nella favola esopiana del lupo e l’agnello – la preda continua ad essere imputata di aver danneggiato il suo predatore.  Con la scusa del ‘federalismo fiscale’, infatti, non contenti degli 840 miliardi di euro già sottratti al Sud negli ultimi 17 anni [vi] e della truffa dei finanziamenti annunciati ma mai assegnati veramente [vii] le regioni del Centro-Nord si preparano all’ultimo scippo di risorse mascherato da ‘giustizia fiscale’.

La teoria dei giochi a somma…zero al Sud

In teoria dei giochi, un gioco a somma zero descrive una situazione in cui il guadagno o la perdita di un partecipante è perfettamente bilanciato da una perdita o un guadagno di un altro partecipante in una somma uguale e opposta[viii].  Se questo è vero, ad ogni perdita economica imposta al Sud corrisponde un uguale guadagno aree geografiche che già stanno molto meglio, in barba uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione, relativo alla “solidarietà politica, economica e sociale”, espressamente sancito all’art. 2.  Come scriveva già nell’introduzione al suo libro Marco Esposito:

«Il federalismo – voluto dal Nord e accettato dal Sud – sembrava una buona soluzione […] Quando però il federalismo fiscale è stato tradotto in cifre, ci si è trovati davanti a qualcosa di non previsto. Lo Stato italiano dopo complessi conteggi ha certificato che il fabbisogno dei territori privi di servizi fosse proprio zero. Esattamente zero. E quindi il nulla coincidesse con il giusto […] La medicina per curare le inefficienze del Sud, il federalismo fiscale, si è mutata in un veleno a lento rilascio, che ne accorcia l’esistenza […] E così, non avendo i soldi per dare al Sud quello che era giusto, si è intrapresa la strada opposta: si è certificato che al Sud i servizi pubblici non servono, al Sud non ce n’è bisogno, al Sud il fabbisogno è zero o è molto poco. Un furto di diritti che, per riuscire, doveva avvenire al riparo da occhi indiscreti…» [ix]

Non è certo un caso che l’iter parlamentare della cosiddetta ‘autonomia differenziata’ sia stato a lungo blindato da chi aveva interesse a farlo, con la colpevole acquiescenza di chi avrebbe dovuto tutelare gli interessi del Sud e la complice copertura di media troppo distratti.

«Una delle astuzie della legge 42/2009 fu stabilire che le nuove regole non si applicassero alle cinque regioni a statuto speciale […] La 42 riconobbe, com’è ovvio dovendo attuare la Costituzione, la necessità di definire i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, ma saggiamente introdusse gli ‘obiettivi di servizio’ cui dovevano tendere le amministrazioni regionali e locali […] Obiettivi di servizio e Lep, però, non furono mai approvati […] La 42 conteneva una norma finale che nascondeva in sé il conflitto tra territori: “Dalla presente legge e da ciascuno dei decreti legislativi di cui all’art. 2 e all’art. 23 non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Ogni volta che si assegnerà un euro a un Comune bisognerà togliere un euro a un altro Comune. E viceversa: ogni zero al Sud avrebbe portato maggiori risorse al Nord». [x]

Ecco come è stato attuato il citato principio del ‘gioco a somma zero’. Peccato però che le regioni meridionali, ancora una volta, ne usciranno con le ossa ancora più rotte, confermando nell’opinione comune il destino ‘cinico e baro’ del Mezzogiorno, alimentato peraltro dal “generico senso di colpa” di cui parla Esposito, col quale noi del Sud ormai da secoli continuiamo ad autoflagellarci. Eppure basterebbe trovare quanto meno il coraggio mostrato dall’agnello esopiano che, di fronte alle accuse del lupo, ha comunque cercato di controbattere coi fatti ad argomentazioni assurde e truffaldine. Ecco perché è sembrato particolarmente opportuno che a concludere il Convegno di Portici sia stato l’intervento di Antonio Lombardi – pedagogista e mediatore nei conflitti – su: “Educare alla pace: dalla colonizzazione mentale alle relazioni nonviolente”. Per dare una compiuta risposta all’interrogativo “Che fare?”, suscitato tra i partecipanti dai primi due relatori.

 Rifiorire, nonostante il vento…

Il libro di Lombardi, “Fiorire nel vento”, porta come sottotitolo “educazione all’identità e liberazione nonviolenta del Sud”. Ed è proprio questo l’approccio per un rilancio in chiave nonviolenta del meridionalismo, perché senza affermazione della verità storica il conflitto è represso, non risolto. E perché, utilizzando un linguaggio costituzionale, il vero ostacolo da rimuovere per la liberazione di un popolo è la sua subalternità culturale, prima ancora che socio-economica. Come si accennava anche in precedenza, infatti, il primo passo per riconquistare la propria identità e dignità è cancellare le pesanti stratificazioni di una vera e propria colonizzazione mentale della gente del Sud, di cui per troppo tempo i media, la scuola e la famiglia sono stati gli strumenti. Per usare le parole che descrivono la tesi sostenuta da Lombardi nel suo saggio:

«”Fiorire nel vento” propone l’educazione all’identità come pratica liberatrice nonviolenta in grado di affrontare il trauma identitario, prospettando interrogativi e obiettivi su cui costruire piani educativi strutturati e utili nell’informalità delle relazioni quotidiane: per andare verso una comunità consapevole della propria storia e del proprio valore, pronta a lottare per la dignità e l’equità, rifiutando di collaborare con la pesante emarginazione che la opprime a partire dalla conquista del 1860. Questo libro è un invito alla consapevolezza e un sussidio, affinché sbocci in tutto il suo splendore il nostro sofferente popolo meridiano, in mezzo alla tempesta che lo sta spazzando via». [xi]

La “occupazione delle coscienze” – come giustamente la chiama Lombardi – è quasi peggio di quella manu militari di un territorio. Ed è ancora più insidiosa, dal momento che impiega canali formativi come la famiglia la scuola e i mezzi di comunicazioni. Ma, proprio per questo motivo, non è impossibile adoperarli per attivare un processo diametralmente opposto, quello cioè che Mario Borrelli, a Napoli, definiva ‘coscientizzazione’, negli stessi anni Settanta in cui, in Brasile, Paulo Freire la proponeva come strumento di liberazione. Il punto di partenza, quindi, è l’attivazione di iniziative di controinformazione e di natura educativa che ci aiutino non solo a demistificare le false verità sul Mezzogiorno che ci sono state propinate finora, ma soprattutto a recuperare la dignità perduta di un popolo con millenni di storia, una cultura eccezionale e risorse territoriali ed ambientali uniche.  Decolonizzare le menti non vuol dire pretendere di essere superiori agli altri, ma diventare consapevoli che, per citare il grande Viviani, non è più possibile accettare che “avimm’a sta’ a guagliune e simmo maste”.[xii].

Il secondo passo è quello che conduce dalla consapevolezza al superamento della subalternità, attraverso una lotta nonviolenta di liberazione, proprio come quella guidata da Gandhi contro il colonialismo inglese. Non è facile seguire questa strada proprio perché alternativa alla logica dominante, ma bisogna assolutamente percorrerla, sapendo anche che molti la considereranno magari poco ‘pacifica’, sol perché mette il dito su una piaga aperta che si vorrebbe occultare. Ma, come scriveva anche Danilo Dolci, l’acquiescenza all’ingiustizia non è pace, .

«Non possiamo confondere l’impegno per realizzare la pace con la preoccupazione di mantenerci equidistanti da tutti. Ogni comportamento – individuale, di gruppo, di massa – che tende sostanzialmente a mantener la situazione come è […] non è impegno di pace. […] Non è questa la pace che ci è necessaria…». [xiii]

Da resistenza nonviolenta ad autogoverno

Il secondo passo della lotta per la liberazione del Sud, spiegava Lombardi, è utilizzare la consapevolezza raggiunta – anche valorizzando la propria memoria storica – per affrontare il conflitto nonviolentemente. Ciò significa, in primo luogo, smettere di collaborare con chi vorrebbe mantenerci nella subalternità culturale e socioeconomica, giustificando la propria sete di nuove risorse con l’incapacità dei subalterni a governarsi da soli, come hanno fatto tutte le potenze coloniali e come continua a fare l’imperialismo neocolonialista attuale. L’ahimsa – come spiegava Gandhi – non è soltanto la scelta in negativo di agire senza violenza nei confronti di qualcuno, ma una scelta positiva, attiva e proattiva per affermare la verità ed impedire il male.

«…come un’espressione positiva di amore, della volontà di fare il bene anche di chi commette il male. Ciò non significa tuttavia aiutare chi commette il male a continuare le sue azioni immorali o tollerare queste ultime passivamente. Al contrario, l’amore, espressione positiva dell’ahimsa, richiede che si resista a colui che commette il male dissociandosi da lui, anche se questo può offenderlo o arrecargli dei danni fisici […] La non-collaborazione non è qualcosa di passivo, è qualcosa di estremamente attivo, di più attivo della resistenza fisica e della violenza». [xiv]

Non-collaborazione, come le altre forme di disobbedienza civile, significa quindi affermare nonviolentemente la verità, rendendo palese l’ingiustizia ed opponendovi una ferma resistenza. I modi in cui si può attuare questa lotta nonviolenta sono molteplici e Gandhi ce ne ha insegnati personalmente tanti, dallo sciopero al digiuno, dal rifiuto di prestare obbedienza al boicottaggio, dall’opposizione collettiva alla costruzione di organi di governo paralleli ed alternativi. Nel suo precedente libro “Satyagraha[xv], lo stesso Antonio Lombardi aveva già indicato compiutamente quali sono i mezzi cui può fare ricorso chi non accetta di sottomettersi e di avallare l’ingiustizia, ma allo stesso tempo rifugge da ogni azione violenta. La difesa popolare nonviolenta – cui bisogna addestrarsi preventivamente – non è però solo opposizione all’esistente, bensì attuazione di un ‘programma costruttivo’ già elaborato e realmente alternativo, nei fini e nei mezzi, a ciò cui ci si oppone. L’alternativa all’imposizione forzata ad un popolo d’un ruolo subalterno, cancellandone anche l’identità culturale e linguistica, è una sola: l’autogestione. Il Mahatma Gandhi la chiamava col termine indiano swaraj, che racchiudeva in sé non solo il desiderio d’indipendenza, ma un processo economico e politico autogestionario, fondato su un modello di sviluppo diverso da quello imposto, ecosostenibile e profondamente decentrato. Quello che il nostro Aldo Capitini definì ‘omnicrazia’, cioé il potere di tutti. [xvi]

Qualcuno forse giudicherà eccessivo confrontare la lotta di liberazione dell’India dal giogo inglese con quella della gente del Sud nei confronti d’un Nord egemone e dominante. Ma la verità è che un movimento per la pace non può più permettersi di sottovalutare il peso che un secolo e mezzo di subalternità ha avuto su un assetto sociale ed economico iniquamente unitario, e che un’ancor più iniqua violazione dei più elementari principi costituzionali rischia ora di portare al punto di rottura. Per mutuare una felice espressione di Giuliana Martirani [xvii], se il Nord si mostra sempre più Surd, è dunque necessario che il Sud non si rassegni a restare Nud ed affermi finalmente i propri diritti, recuperando la sua dignità ed il suo effettivo peso.


Note

[i]  Antonio Lombardi, Fiorire nel vento. Educazione alla identità e liberazione nonviolenta del Sud, Magenes, 2019 ( https://www.libreriauniversitaria.it/fiorire-vento-educazione-identita-liberazione/libro/9788866491934  )   

[ii] Carlo Alianello, La conquista del Sud, Il Risorgimento nell’Italia meridionale, Rusconi,1972 (https://www.amazon.it/conquista-del-Sud-Carlo-Alianello/dp/8884742374  )

[iii] Giordano Bruno Guerri, Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio, Mondadori, 2017 ( https://www.ibs.it/sangue-del-sud-antistoria-del-libro-giordano-bruno-guerri/e/9788804680475  )

[iv] Pino Aprile, Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali, Piemme, 2013 (https://www.amazon.it/Terroni-quello-italiani-diventassero-%C2%ABmeridionali%C2%BB/dp/8868366061  ); Idem, Giù al Sud, Piemme, 2011 ( https://www.amazon.it/Sud-Perch%C3%A9-terroni-salveranno-lItalia/dp/8856619938  )

[v]  Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, 1861, La storia del Risorgimento che non c’è nei libri di storia, Sperling & Kupfer, 2010 (  http://mimmobonvegna1955.altervista.org/la-storia-del-risorgimento-che-non-ce-sui-libri-di-storia/  ).

[vi] Fonti: https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/analisi/1203992/tolti-al-sue-e-dati-al-nord-840-miliardi-di-euro-in-17-anni.html ; https://www.quotidianodelsud.it/laltravocedellitalia/due-italie/2019/11/06/operazione-verita-in-tv-anche-report-scopre-lo-scippo-al-sud ; https://www.quotidianodelsud.it/laltravocedellitalia/due-italie/2020/02/08/il-sud-perde-170-milioni-milioni-al-giorno-le-promesse-non-bastano-piu ; https://www.vesuviolive.it/ultime-notizie/economia/323187-eurispes-2020-nord-sud-840-miliardi/

[vii] Fonti: https://www.ilsole24ore.com/art/patti-il-sud-speso-meno-2percento-AB5tUFdB ; https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/06/23/fondi-per-il-sud-chi-li-spende-davvero/5275196/

[viii]  Vedi: https://it.wikipedia.org/wiki/Gioco_a_somma_zero

[ix] Marco Esposito, Zero al Sud, Rubbettino, 2018, pp. 5-6

[x]  Ivi, pp. 24-25

[xi]  A. Lombardi, op. cit. > https://www.ibs.it/fiorire-nel-vento-educazione-alla-libro-antonio-lombardi/e/9788866491934 . Vedi anche: Ermete Ferraro, Identità e llibberazzione d’ ’o Sud, articolo in napolitano sul quotidiano “napoli”, 24.06.2019

[xii] Raffaele Viviani, Campanilismo (1931) tratta da “Poesie” , ed. Guida, Napoli, 1977, pagg. 198 e 199 > https://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-vernacolari/poesia-13559

[xiii] Danilo Dolci, Esperienze e riflessioni, Laterza. 1974, p. 229

[xiv] Mohandas K. Gandi, Teoria e pratica della non violenza, Einaudi, 1973, pp. 169-170 (brano tratto da Young India – 1920)

[xv] Antonio Lombardi, Satyagraha – Manuale di addestramento alla difesa popolare nonviolenta, Dissensi, 2014

[xvi]  Aldo Capitini, Il potere di tutti, La Nuova Italia, 1969

[xvii] Giuliana Martirani, Viandante Maestoso, Ed. Paoline, 2006 (p. 182)

GUERRA DI…LIBIERAZIONE?

Emanuele Filiberto Duca d'AostaFino ad un paio di giorni fa, sulle pagine dei nostri quotidiani regnava il silenzio sulla ‘missione’ militare in Libia che l’Italia si appresta non solo a svolgere con grande zelo, ma addirittura a dirigere sul piano operativo. Solo alcuni giornali, come Secolo XIX e Corriere della Sera, ci hanno informato in merito a questa operazione – segreta ma non troppo – raccogliendo più che altro le indiscrezioni trapelate grazie ad un articolo del Wall Street Journal. Un generale americano, comandante delle forze speciali in Africa, infatti, sosteneva in un’intervista che “…è già operativo a Roma un Coalition Coordination Center, in sigla CCC, un comitato di coordinamento della coalizione che combatte l’Isis. Il CCC è una «war room» in piena regola dove si pianifica l’intervento, dove si fanno simulazioni, e da dove, in futuro, si guideranno le azioni.[i]   Naturalmente i vertici politici si sono affrettati a smentire che si aspetta solo l’ok dell’ONU, dopo che il governo libico (quale?) avrà formalizzato una richiesta di aiuto militare alla coalizione, di fatto già presente da tempo sul territorio libico e comprendente anche francesi, inglesi americani e, forse, olandesi. Lo stesso Ministro degli esteri Gentiloni, d’altra parte, confermava che: «Il livello di pianificazione e di coordinamento è a un livello molto avanzato e va avanti da parecchie settimane» [ii], così come risulta chiaro il senso del recente accordo fra Italia ed USA sull’utilizzo dei droni armati di stanza alla base aerea siciliana di Sigonella.

Qualcuno, sicuramente, si sarà chiesto come diavolo è possibile che ci stiamo di fatto preparando ad intervenire militarmente in Libia senza uno straccio di ratifica da parte del Parlamento, custode della sovranità popolare? E’ vero che in questi ultimi tempi è stato molto occupato a discutere di unioni di fatto ed adozioni non di diritto, ma come mai nessuno ha ritenuto ancora che esso avesse qualcosa di dire anche sulle pericolose unioni militari di fatto e sulle nostre illegittime ‘adozioni’ degli equilibri politici d’un altro stato? La risposta è nelle precisazioni di Fiorenza Sarzanini che, in un articolo di qualche giorno fa sul ‘Corriere’, ci spiegava che il nocciolo della questione sono i c.d.”decreti missione”, grazie ai quali l’Italia si tiene le mani libere da fastidiosi passaggi parlamentari.   “Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, lo ha ribadito ieri nel corso del Consiglio supremo di difesa, sollecitando anche la rapida approvazione del decreto che ogni anno finanzia e fornisce copertura giuridica alle missioni all’estero. Le norme già varate consentono infatti di evitare il voto delle Camere, prevedendo esclusivamente un’informativa del governo alle commissioni Esteri e Difesa. Il tempo stringe, gli alleati sono già sul campo, Roma ha assicurato che «farà la propria parte» nella guerra ai terroristi dell’Isis. E dunque schiererà le navi già in attività di perlustrazione del Mediterraneo, un aereo cisterna, i Tornado di stanza a Trapani, anche due sommergibili. E potrà contare sulle basi militari del Sud, compresa Pantelleria dove da tempo sono insediati numerosi militari statunitensi”. [iii]

E chi se ne frega se la Costituzione della nostra Repubblica, all’art. 11, recita che: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…” , sancendo poi, all’art. 52, che: “L’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica…” ? L’escamotage è stato facilmente trovato, per cui la sovranità del Parlamento è ancora una volta aggirabile coi giochi di parole in Neolingua di chi sembra propenso a ripudiare la Costituzione più che la guerra. Le operazioni in Libia, conseguentemente, sono state coperte dal segreto militare e dietro il centro di coordinamento italiano della coalizione è più volte spuntata la sigla dell’A.I.S.E (Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna), quella ‘intelligence de Noantri’ su cui mi sono già soffermato a proposito della fiction televisiva che ne rivelava ai più l’esistenza.[iv]  Il Sole 24 Ore – ripreso dal quotidiano britannico The Guardian , peraltro, aveva già rivelato che ormai da settimane erano stati inviati in Libia 40 agenti segreti ed una cinquantina di ‘forze speciali operative’. Sta di fatto, comunque, che il piano di smantellamento della Costituzione avviato da Renzi aveva già previsto – per ridurre fastidiosi intralci alle decisioni governative – che anche l’art. 78 (“Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari” ) fosse modificato dalla previsione che tale dichiarazione spetti esclusivamente alla Camera dei Deputati Dal 3 marzo, però, sugli organi d’informazione si è ricominciato a parlare dell’intervento militare italiano in Libia, complice un’intervista all’ambasciatore USA che lodava il governo Renzi e lo esortava ad investire di più su questa ‘missione’, riconoscendo all’Italia la richiesta leadership ma, al tempo stesso, accollandogliene gli oneri che ne derivano. Questa esternazione ha molto infastidito il nostro premier , che – pur fiero dell’ investitura a condottiero d’un intervento armato in nord Africa senza precedenti – si è sentito tirare palesemente per la giacca, per cui si è affrettato a gettare acqua sul fuoco.

Ma intanto quotidiani come la Repubblica avevano già rotto l’imbarazzato silenzio mediatico, rivelando la portata straordinaria di questa sconcertante avventura bellica del nostro Paese.  In un articolo di Gianluca Di Feo, infatti, si squadernavano i dati relativi a piani segreti ma non troppo, informandoci che: “Di sicuro, si prepara un’operazione massiccia, la più grande mai realizzata dal 1943. Da mesi gli stati maggiori stanno elaborando piani su piani, ipotizzando un vertice italiano che gestirà uno schieramento di forze europee. La previsione minima è di 3mila militari, la massima supera i 7 mila. I due terzi saranno forniti dal nostro Paese. L’allestimento richiede circa un mese. Ma un primo contingente potrebbe muoversi nel giro di dieci giorni per prendere il controllo di un aeroporto. In ogni caso, la fase iniziale sul campo sarà interamente affidata a truppe italiane.[v]   Altro che operazione di polizia internazionale! Non sembra, del resto, che gli stessi servizi segreti siano riusciti a mantenere segreta quest’ ingombrante spedizione che, a distanza di 105 anni, ci riporta tristemente all’Italietta colonialista di Giolitti, schierata contro l’Impero Ottomano. Ed infatti è difficile nascondere operazioni che prevedono l’invio di portaelicotteri coi marò del San Marco, con al seguito altre navi per rifornimenti . E’ difficile anche negare che gli aeroporti meridionali siano da tempo stati allertati per la partenza di cacciabombardieri e che la base di Pantelleria, come conferma l’articolo di Repubblica : “servirà come scalo per il ponte aereo di elicotteri e cargo.” [vi] . Sarà pur vero che noi Italiani ci siamo abituati a tutto, compresi i blindati coi militari in assetto di guerra nelle nostre piazze. Ma far passare l’invio in Libia di 5.000 soldati come una normale operazione  è poco credibile, né può passare inosservato lo schieramento di mezzi aeronavali che poco hanno a che fare con l’ipotesi di un semplice ‘presidio’ di quei territori.  Ecco perché uno stizzito Renzi – di fronte alle notizie riportate dai giornali – ha dichiarato che: Su questo terreno ci vuole prudenza. Nessuna fuga in avanti. La situazione è troppo delicata perché ci si lasci prendere da accelerazioni “ [vii]

Certo, ci vuole prudenza. Peccato però che lo stesso Renzi stia scalpitando da mesi per ottenere la guida italiana di questa spedizione bellica, cercando di sottrarsi ad un confronto con un Parlamento peraltro fin troppo disattento in proposito. Peccato poi che l’Italia risulti palesemente preoccupata del futuro dei propri affari in Libia più di quanto lo sia di andarsi a cacciare nell’ennesima, pericolosissima, avventura militare, in barba alla Costituzione e ad un secolo di storia che a quanto pare non ci ha insegnato nulla. Non bisogna fare ‘fughe in avanti’, d’accordo. Ma questo non significa che il governo debba proseguire indisturbato a giocare alla guerra o al ‘piccolo 007’, mentre i media non devono fare troppo rumore su tali operazioni, solo per non disturbare il manovratore. Sulla stessa ‘Stampa’, fra l’altro,  è stato pubblicato un articolo che “fa i conti” sull’intervento italiano in Libica, con l’aiuto di ‘analisti militari indipendenti’ , che appaiono piuttosto perplessi nel merito. Infatti l’autore, Luigi Grassia, si chiede prudentemente: “Se l’Italia dovesse fare la guerra in Libia, o per dirla in modo più accettabile: mandare un corpo di stabilizzazione che rischia anche di dover combattere contro l’Isis, quante forze potrebbe mettere in campo? “ [viii]. La risposta è che questa eufemistica ‘stabilizzazione’  ci costerebbe cara, anche se uomini e mezzi ci sarebbero pure. Per cui l’articolista, con una punta di scetticismo, conclude: “… qui si tratta solo di numeri, di potenzialità. Che poi questi numeri possano tradursi in un intervento militare in Libia è tutta un’altra questione”. [ix]  Ebbene, fra clangori di guerra e dichiarazioni più o meno diplomatiche e prudenti di politici ed ‘analisti’, cosa dicono e cosa fanno i pacifisti di fronte a quest’ultima minaccia del complesso militare-industriale che rischia di coinvolgerci in prima persona in un conflitto bellico senza precedenti? E, soprattutto, come reagiscono gli Italiani, di fronte ai quali si è agitato a lungo lo spettro della minaccia ISIS unita a quella della pretesa ‘invasione’ da parte dei profughi? In questo campo, in particolare, la mistificazione è stata massiccia, visto che – come ci ricorda un articolo de ‘il Manifesto’, nel 2015 l’Italia ha speso 800 milioni di euro per accogliere i rifugiati, a fronte di 1 miliardo e mezzo spesi per inutili e dannose ‘missioni’ all’estero.[x]

La verità è che per reagire efficacemente – al di là di comunicati e prese di posizione –  il movimento per la pace italiano deve ritrovare la forza per superare antiche divisioni che ne frammentano l’azione. Ciò non significa affatto chiudere gli occhi davanti alle differenze nelle analisi o nelle strategie di azione. Dico soltanto che è arrivato il momento di andare oltre la politologia teorica – che ci fa sentire appagati dalla comprensione delle dinamiche in corso – per manifestare in piazza e gridare chiaro e forte non solo il nostro dissenso, ma anche la nostra proposta antimilitarista e nonviolenta. Da un secolo le alternative alla guerra esistono e sono senz’altro più efficaci, come dimostrano vari studi accademici in proposito. Bisogna però far capire alla gente che pacifismo non è passività, bensì resistenza nonviolenta, accompagnata da educazione alla pace e concreta azione per la pace, in tutte le sue dimensioni. Ecco perché condivido ciò che scrive Mao Valpiana sull’urgenza di offrire risposte alternative a quest’assurda avventura militare in Libia: Bisogna intervenire, ma con obiettivi, strategia e mezzi giusti. Esistono altre strade. Il caos libico non accetta scorciatoie. Occorre agire per mettere in sicurezza vite umane, spegnere il fuoco, ma senza produrre ulteriori vittime. Sono tante le cose da fare: la ricostruzione dell’assetto statuale libico, sostenendo con la diplomazia e la politica l’iniziativa per un accordo tra le parti e per un’azione internazionale sotto egida Onu di contrasto all’Is; la valorizzazione e la partecipazione della società civile; il coinvolgimento della Lega araba e dell’Organizzazione degli stati africani, anche al fine di mettere alle strette Qatar e Arabia saudita che finanziano le guerre in corso; bloccare le fonti di finanziamento del terrorismo, la vendita delle armi, lo sfruttamento dei disperati; garantire da parte dell’Europa assistenza umanitaria ai profughi; mettere in campo un’operazione di salvataggio”. [xi]  L’Italia ripudia la guerra e francamente credo che pochi Italiani – nonostante il martellamento mediatico sul pericolo ISIS – credano davvero che quella che si sta preparando sia una guerra di… libierazione. Ma ripudiare la guerra non può significare starsene con le mani in mano seguendo alla televisione l’evolversi degli eventi. Bisogna quindi obiettare con forza al militarismo che invade le nostre strade e penetra fin nelle scuole dei nostri figli e proclamare che la forza collettiva e diffusa della nonviolenza è l’unica via per uscirne.

NOTE _____________________________________________

[i]  F. Grignetti, “A Roma la war room anti-Isis che guiderà le azioni alleate in Libia” , Il Secolo XIX 02.03.2016) http://www.ilsecoloxix.it/p/italia/2016/03/02/ASqQmFoB-guidera_azioni_alleate.shtml

[ii]  Ivi

[iii] Fiorenza Sarzanini, “Intervento il Libia: ok a missioni segrete dei corpi speciali” , Corriere della Sera 16.02.2016) http://www.corriere.it/esteri/16_febbraio_25/intervento-libia-ok-missioni-segrete-nostri-corpi-speciali-ccd07350-dc03-11e5-b9ca-09e1837d908b.shtml

[iv]  Ermete Ferraro, Ragion di Stato…Maggiore, http://ermetespeacebook.com/2015/01/16/ragion-di-stato-maggiore/

[v]  Gianluca Di Feo, “Libia, nuclei d’assalto e sostegno dal mare: Italia pronta all’intervento”, la Repubblica 04.03.2016  http://www.repubblica.it/esteri/2016/03/04/news/il_dossier_il_primo_contingente_potrebbe_muoversi_entro_10_giorni_ma_restano_i_dubbi_sul_quadro_legale_e_sugli_obiettivi-134727115/

[vi]  Ivi

[vii] Fabio Martini, “Renzi sceglie la prudenza: ‘Il Libia niente fughe in avanti”, La Stampa 04.03.2015 https://www.lastampa.it/2016/03/04/italia/politica/renzi-sceglie-la-prudenza-in-libia-niente-fughe-in-avanti-yz4nLVtxDSmrIuGy9Xue0H/pagina.html

[viii] Luigi Grassia, “Intervento in Libia: gli analisti fanno i conti” , La Stampa, 04.03.2015 https://www.lastampa.it/2016/03/04/esteri/intervento-in-libia-gli-analisti-fanno-i-conti-dOXIk5FNBsAbGKfuwtvV9L/pagina.html

[ix]  ivi

[x]  Ignazio Masulli, “Le due guerre dell’Europa”, il Manifesto 03.03.2016, p. 5 (cfr. http://ilmanifesto.info/edizione/il-manifesto-del-03-03-2016/ )

[xi]  Mao Valpiana, “Il Libia la storia si ripete ma un’altra difesa è possibile”, Huffington Post 04.03.2016  http://www.huffingtonpost.it/mao-valpiana/in-libia-la-storia-si-ripete-ma-unaltra-difesa-e-possibile_b_9381754.html

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© 2016 Ermete Ferraro ( http://ermetespeacebook.com  )

#sereniunaccidente!

cielo serenoL’etimologia dell’aggettivo “sereno” risale all’antica radice sanscrita svar-, indicante il cielo luminoso e quindi lo stesso sole (greco: seír; seírios = splendente). Si è così passati dal significato letterale (cielo privo di nuvole) a quello metaforico, che caratterizza in una persona l’assenza di preoccupazioni, la tranquillità di spirito.

In questi ultimi tempi l’aggettivo sereno più che alla condizione del cielo, ci fa pensare all’ormai proverbiale frase di Matteo Renzi,, che invitò il suo predecessore, ancora in carica, appunto a “stare sereno”. Ormai tutti sappiamo quanto il povero Enrico Letta potesse fidarsi di simili rassicurazioni, provenienti da chi si stava preparando a succedergli, per cui si sono poi sprecate nei commenti politici le citazioni ironiche della famigerata frase renziana. D’altra parte, tutto ciò che il nostro giovane premier fa e dice suona come una continua esortazione agli Italiani a stare sereni, a non preoccuparsi, a fidarsi di chi li sta così abilmente e celermente guidando verso le auspicate riforme. Il precedente citato, però, non ci tranquillizza affatto. Ci sia consentito allora di nutrire qualche dubbio sulle “magnifiche sorti e progressive” che ci attenderebbero e di preoccuparci per ciò che il carro armato dell’ottimismo della volontà del governo Renzi sta calpestando sotto i suoi cingoli, in quanto ostacolo alla marcia trionfale di chi ha deciso – a tutti i costi – di “cambiare verso”. Per carità: cambiamento e volontà di decidere non sono di per sé delle brutte parole, anzi. Però la storia c’insegna che c’è da diffidare quando un leader si autoproclama salvatore della patria e comincia a scambiare il proprio progetto politico con l’obiettivo del Paese e la propria tabella di marcia con le tappe della palingenesi dello Stato.

Eppure basta visitare sul sito web di Matteo Renzi la pagina dedicata agli slogan scelti alle primarie del PD dello scorso dicembre per rendersi conto dell’indubbia forza mediatica che scaturisce dalla semplificazione concettuale tra fautori del cambiamento e quelli che rappresenterebbero il vecchio modo di fare politica. I manifesti della sua fortunata campagna “Cambia verso” rappresentano icasticamente questa contrapposizione, rozza ma efficace, tra un mondo vetusto e marcio – caratterizzato da: raccomandazioni, lamentele, paura, conservazione, burocrazia, arroccamento nel palazzo. chiusura e tendenza a perdere bene…-  ed il Brave New World di cui egli si fa profeta e paladino. Un mondo positivamente connotato da termini come: bravura, cambiamento, coraggio, futuro, semplicità, strada, apertura e vittoria…

Si capisce allora che, proprio grazie alla semplificazione logica e terminologica tipica dell’orwelliana Neolingua, diventa difficile opporsi a tale scoppiettante programma di cambiamento senza sentirsi etichettare come persone che cercano biecamente di mettere i bastoni tra le ruote del carro del progresso. Se le riforme renziane sono l’incarnazione di questa svolta epocale, la manifestazione concreta dell’apertura al cambiamento ed al futuro, chi mai potrebbe opporsi ad esse senza passare per fautore di una politica timorosa e conservatrice, schierata in difesa degli interessi consolidati della casta politica, di quella burocratica o di entrambi?

Ecco perché sull’allegorico carro del carnevale renziano, a poco alla volta, ci stanno salendo in tanti, cedendo alle sirene del suo indubbio successo – mediatico ed elettorale – ma anche alla paura di restare isolati nella contestazione di una svolta che appare al tempo stesso decisa e rapida.

Il guaio è che non bastano gli inviti a stare sereni per dissipare la sgradevole sensazione che la irresistibile ascesa dell’astro renziano stia spazzando via non soltanto le resistenze di pavidi e conservatori, ma anche le regole del gioco democratico ed il concetto stesso di riforma.

Cambiare non significa di per sé migliorare. Innovare vuol dire far cose nuove, non necessariamente cose giuste. Svoltare è un verbo altrettanto neutro, limitandosi ad indicare un cambio di direzione, senza offrire garanzie sul fatto che quella nuova sia auspicabile.

Il brillante entusiasmo e l’attivismo scoutistico del nostro presidente del consiglio – che non a caso in testa alla sua biografia cita una frase di Baden Powell – sono senz’altro lodevoli, soprattutto se vanno a sconvolgere una realtà politica innegabilmente stagnante e deludente. Non possono però sostituire la chiara indicazione di dove si vuole andare, del perché e del modo in cui s’intende farlo, cioè del reale orientamento di una svolta che è necessaria, ma non sufficiente.

Ecco perché io – e con me tanti amici e compagni – non ci sentiamo affatto sereni né, d’altra parte,  vogliamo lasciarci rasserenare, metaforicamente parlando, dall’assunzione dei tipici farmaci tranquillanti della propaganda. E’ sereno un cielo sgombro da nuvole, mentre noi non riusciamo a capire perché dovremmo restare buoni e tranquilli mentre un governo non eletto, frutto di una maggioranza bastarda, possa sentirsi autorizzato a mettere pesantemente le mani sull’assetto costituzionale della nostra repubblica, sconvolgendo composizione e compiti del parlamento, scippando alle regioni le competenze loro affidate e profilando un modello di stato in cui il potere risulterebbe sempre più accentrato e tendente al presidenzialismo.

Non riusciamo a comprendere neppure perché mai dovremmo restare sereni quando si varano disinvoltamente decreti che snaturano profondamente il concetto di ‘reato ambientale’ o che alzano il tiro dell’opposizione alle energie rinnovabili, proprio mentre aumentano gli scempi contro l’ambiente e, in altri paesi, si scommette invece sul solare.

Non ci sentiamo per niente tranquilli, nonostante le esortazioni renziane, mentre in Italia la politica continua ad inseguire il mito di una crescita che, a nostro parere, non solo non sarebbe una cura della crisi, ma rischierebbe di trasformarsi in proliferazione tumorale nel già compromesso tessuto sociale di un paese profondamente spaccato in due.

Ancor meno ci lascia sereni la strisciante militarizzazione del territorio e della società civile, che si riflette anche in folli scelte di riarmo (vedi capitolo F 35) e nelle preoccupanti conferme della posizione leader della nostra Italia che “ripudia la guerra” proprio nel campo della produzione ed esportazione di micidiali sistemi d’arma.

Non capiamo, infine, per qual motivo dovremmo accettare tranquillamente, nel nome delle cosiddette riforme, lo smantellamento progressivo dell’organizzazione dello stato, le privatizzazioni in ogni campo, le liberalizzazioni selvagge, la solita politica delle grandi opere, la riduzione delle garanzie sindacali, la codificazione del lavoro precario e la pericolosa tendenza alla deregulation.

Con queste grosse nuvole che si addensano sulle nostre teste, caro Renzi, non puoi proprio aspettarti che restiamo serenamente a guardare mentre la tua gioiosa macchina da guerra passa come un rullo compressore sulle prevedibili resistenze di chi non vuol cambiare affatto, ma anche sulle legittime aspettative di chi chiede rispetto per le garanzie costituzionali e giusta attenzione per i temi sensibili di una sinistra degna di questo nome.

Le nubi oscure del centralismo, del decisionismo presidenzialista, dell’intolleranza sprezzante per le critiche non ci consentono una serenità che, comunque, sarebbe pericolosa per qualsiasi cittadino che non voglia affidare acriticamente una delega in bianco a chi lo governa o amministra, smettendo di sentirsi un soggetto attivo e responsabile.  La foschia di una visione europeista che – austerità a parte – accetta tutto del modello attuale e cerca solo di cavalcarlo, inoltre, non ci fa scorgere nessuna prospettiva nuova nella nostra partecipazione ad un’Unione Europea che conferma la sua vocazione mercantile e burocratica, anziché aprirsi alle esigenze delle persone e delle comunità.

I cirro-cumuli di una politica estera italiana che resta schiacciata sull’indiscutibile leadership USA e sulla sovranità limitata riservata ai paesi membri della NATO, infine, ci rendono assai poco sereni anche sulle prospettive di coesistenza pacifica nel bacino del Mediterraneo, in Medio Oriente ed ora anche nell’Europa orientale.

Più che continuare a chiedere agli Italiani di “cambiare verso”, Matteo Renzi dovrebbe finalmente spiegarci verso cosa va il suo cambiamento. Ce lo faccia capire, magari smettendo l’aria tra arrogante e supponente che lo caratterizza e stando a sentire un po’ di più i suoi interlocutori. Se non altro quelli che non si sentono ormai talmente sereni da aver smesso di ragionare, di farsi domande e di proporre alternative.

© 2014 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

LA SOSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA

costituzione RIUno dei tanti, scoppiettanti, giochi di parole dell’ottimo Alessandro Bergonzoni mi ha ispirato questo titolo come sintetica fotografia di quello che ci sta capitando, ma di cui forse non ci stiamo rendendo veramente conto.  Del resto, quella di sostituirci sotto gli occhi con qualcosa di profondamente nuovo e diverso ciò cui siamo abituati – e che magari ci fa anche quotidianamente brontolare – non è proprio una novità nel nostro Belpaese. Sono anni, infatti, che i nostri politici stanno giocando spericolatamente – e spudoratamente – con le parole, destituendole del loro significato ordinario per attribuirgli un senso del tutto differente, se non opposto, a quello iniziale.

Ecco, ad esempio, che questa orwelliana “Neolingua” ha sostituito un vocabolo oggettivamente sgradevole come “guerra” col tranquillizzante e buonista “missione di pace”. Ecco che si può tranquillamente tacciare come “conservatori” coloro che cercano di proteggere dall’aggressione ciò che resta dell’ambiente naturale, nel mentre si qualificano “riforme” una serie di provvedimenti che, un pezzo alla volta, stanno smantellando quel che resta dello Stato Sociale e delle conquiste civili degli ultimi sessanta anni. Il fatto è che, in quest’ottica capovolta e perversa, le parole sono messe al servizio d’un ben preciso progetto di s-naturamento, che non riguarda solo il nostro ambiente di vita, ma anche il senso profondo di ciò che ci succede intorno, quello che una volta i filosofi chiamavano Weltanshauung (“visione del mondo”).

Per ovvi motivi, a questa subdola operazione non si poteva sottrarre quello strumento fondamentale del nostro riconoscerci come cittadini di uno stato, che è la Costituzione. Tale termine, come quello usato in precedenza, cioè ”Statuto”, ha non a caso la stessa radice di “Stato” e di “istituzioni”, richiamando i principi primi su cui poggia la convivenza civile in un certo contesto socio-politico. Principi che, manco a dirlo, dovrebbero comunque mantenersi “stabili”, anche se un democrazia non può mai essere “statica” in assoluto. Tutto, in effetti, può essere legittimamente sottoposto a “ri-forma”, a patto che le modifiche intervengano davvero sulla “forma” delle cose e non sulla loro sostanza che, etimologicamente, è quanto sta “sotto” e ne costituisce il fondamento.

Nel corso di questi ultimi decenni la classe politica italiana ha già fatto troppi danni, che sono sotto gli occhi di tutti, ed abbiamo anche già assistito alla grottesca pretesa che proprio chi ha provocato i guai si presenta, senza ritegno, come “salvatore della patria” e “riparatore dei torti”. Non ci fa più specie, ormai, che i media continuino a farci sfilare sotto gli occhi ministri, massimi dirigenti dello Stato e grandi industriali che ci spiegano come e qualmente andrebbero risolti gli annosi problemi dell’Italia, come se loro non c’entrassero per nulla e fossero solo dei severi osservatori esterni.  Non riusciamo più neanche a indignarci quando chi ci sta ingannando da anni si presenta nuovamente a chiederci il voto, in nome del rinnovamento e della lotta alle caste.

Però dovrebbe esserci un limite alla spudoratezza, ed è quello della salvaguardia di quei pochi punti fermi che credevamo e speravamo restassero indiscutibili della nostra Carta costituzionale. Così però non è stato e, alla luce della riforma prevista dall’ultimo disegno di legge del governo Renzi, dobbiamo quindi preoccuparci dei sostanziali stravolgimenti cui sta per essere sottoposta. La verità è che un mix di forze palesi ed occulte non solo ci stanno scippando violentemente non solo decenni di conquiste dovute alla partecipazione democratica, ma ci stanno anche cambiando radicalmente lo Stato sotto gli occhi.

La “Sostituzione della Repubblica Italiana”, sebbene in atto da un bel po’ in modo latente, sta ora venendo prepotentemente alla luce a causa del convulso ed arrogante attivismo del nostro attuale Presidente del Consiglio, cui va riconosciuto peraltro di non aver neppure tentato di nascondere le proprie effettive intenzioni, pur se condite dai rutilanti fuochi d’artificio della sua autopropaganda. Sarebbe comunque sciocco attribuire a Renzi la “contro-riforma” costituzionale che adesso sta assumendo una fisionomia chiara, se non altro perché un simile progetto centralista, presidenzialista e decisionista risale quanto meno agli anni ’80 del secolo scorso. A quei tempi, chi come Craxi provò a cambiare bruscamente le regole del gioco dovette però fronteggiare veti contrapposti e sensibilità ideologiche molto più accese. Oggi invece sembra che ormai “tutto fa brodo”, come si diceva una volta, per cui temo che siano diminuiti enormemente coloro i quali si preoccupano davvero che il nostro Paese resti di sana e robusta Costituzione”, anziché scimmiottare maldestramente le istituzioni altrui e gli altri sistemi elettorali. Soprattutto, temo che non siano rimasti in molti quelli che sono disposti ad opporsi senza se e senza ma a chi vorrebbe omologarci al  pensiero unico che ci sta colonizzando da troppi anni, asservendoci così ad un “nuovo ordine mondiale” deciso al vertice da chi vuol continuare a spadroneggiare incontrastato sul nostro povero pianeta.

Allora, più che davanti ad una “revisione costituzionale”, ci troviamo di fronte ad un vero golpe anti-costituzionale che, più che dare solidi e chiari fondamenti di equità e vera partecipazione democratica al confuso ed equivoco federalismo su cui si è estenuantemente dibattuto negli ultimi anni, sceglie di cancellarlo con un colpo di spugna, riportandoci al centralismo più bieco in nome della “razionalizzazione” della macchina statale e burocratica e dell’immancabile spending review.

Beh, non c’è nulla di male a combattere sprechi e malgoverno, anzi si tratta di una precondizione per qualsiasi seria riforma. Ciò che non va, in questo caso, è che sembra proprio che si consideri la stessa democrazia come uno “spreco” che non possiamo più concederci il lusso di conservare…  Dietro il savonaroliano zelo del fiorentino Renzi, che afferma di scagliarsi contro le resistenze delle varie caste che impediscono il rinnovamento, affiora più che altro la spicciativa tendenza a dare un bel calcio a tutti gli ostacoli alla “de-forma” autoritaria della nostra Repubblica. Con lo stesso tono efficientista e decisionista con cui egli ha voluto dimezzato i metri quadrati delle stanze dei dirigenti pubblici, ad esempio, ha cercato di dimezzare anche…le Camere del nostro Parlamento. Con la stessa grinta con cui ci ha spiegato che possiamo fare benissimo a meno delle province, vorrebbe ora farci credere che, in fondo, potremmo forse fare a meno delle stesse regioni, le cui competenze sono, non a caso, massicciamente ridotte nel suo disegno di legge.

Parole inglesi prima di moda come devolution, ma anche concetti più italianamente pregnanti come quello di “sussidiarietà”, sembrerebbero essere stati ricoperti dal polverone mediatico di chi – sommando il ruolo di leader di partito a quello di premier – sta proseguendo come un panzer la sua crociata laica per “restringere” lo stato, facendo fuori partiti, istituzioni ed altre realtà di un tessuto sociale assai più complesso di quello che vorrebbe farci credere.  Termini come “semplificazione” , peraltro, non da ora sono stati sbandierati come pretesto per preoccupanti manovre di ben altra sostanza politica, ma adesso appare sempre più chiaro che il “Bispensiero” e la “Neolingua” profetizzati sessant’anni fa da Orwell nel suo “1984” sono diventati il pane quotidiano della nostra attuale politica.  Alla base del Newspeak imposto dal regime del Big Brother orwelliano, non a caso, c’era proprio questo meccanismo di riduzione, abbreviazione e pretesa semplificazione del linguaggio, per sterilizzarlo da ogni idea e meglio controllare la comunicazione. Non è un caso neppure che il Double-Thinking (Bispensiero) cui s’ispirava la lingua dell’Ingsoc/Socing fosse fondato proprio sulla capacità di espellere ogni dissonanza fra forma e contenuto delle parole, introducendo corrispondenze prima improponibili tra il loro significante e significato, consentendo che la propaganda sostituisse il ragionamento e l’assurdo la logica. La verità è che, con la scusa di “semplificazioni”, “razionalizzazioni” e “standardizzazioni”, stanno anestetizzando le diversità culturali e politiche, cercando di addormentare lo spirito critico e la razionalità. Ma, come scriveva il grande Goya già alla fine del XVIII secolo “el sueño de la razòn produce monstruos”….

Vi sembra che sto esagerando? Beh, basta leggere con un po’ di attenzione il testo del DdL costituzionale del governo Renzi presentato alla Camera dei Deputati (che porta la data del 12 marzo ma è stato poi modificato il 31 marzo) per rendersi conto di cosa ci stanno preparando. Ovviamente l’attenzione finora è stata focalizzata quasi interamente sulla de-forma del Senato, prima spazzato via, poi trasformato in Assemblea di secondo livello degli enti locali ed infine restituito al rango di “Senato delle Autonomie”. Bene, bravi! Dopo più di mezzo secolo abbiamo finalmente eliminato il c.d. “bicameralismo perfetto” e lasciato spazio alle autonomie. Peccato che, nel frattempo, alla devolution sia nel frattempo succeduta l’attuale “de-devolution”, in nome di un rinato centralismo che guarda con sospetto alle autonomie locali, considerandole un fastidioso impatto allo “sviluppo”.  In buona sostanza, comunque, quello che esce dal disegno legislativo a firma Renzi è una Repubblica che per ora  resta sì “parlamentare”, ma dove il Parlamento è stato ridotto alla Camera dei Deputati – il vero organo legislativo ed il solo che rappresenti gli elettori – con l’integrazione di un’assemblea di secondo livello, che può decidere di esaminare o meno le leggi approvate dalla Camera. Ma laddove essa decida di discutere ed eventualmente modificarne alcune che ricadano in una casistica particolare (dettagliata all’art. 70 del DdL), non è neanche detto che la Camera debba attenersi a questi atti, visto che può procedere comunque  con la loro definitiva approvazione a maggioranza assoluta. In una Repubblica in cui i Deputati faranno le leggi (votando la fiducia al governo, il bilancio, la ratifica dei trattati internazionali e la dichiarazione di guerra…) il Senato resterebbe poco più d’un organo consultivo e di mera rappresentanza di enti locali e regioni.  Ciò prefigura un parlamento sempre più single, incalzato da un Governo sempre più decisionista e protagonista anche del processo legislativo, attraverso proposte e decreti, che dovrebbero essere discusse in tempi ridotti. Nel caso del Senato, addirittura, essi si riducono a 30 giorni dalla presentazione del testo alla Camera, con un periodo massimo di altri 10 giorni per deliberare eventuali modifiche (nel testo iniziale di parlava esclusivamente di “pareri”…).

Dice: sì, però così le autonomie locali assumono un maggior peso e viene loro rinosciuta una maggior rappresentanza a livello nazionale. Beh, non è così. A prescindere dal fatto che Presidenti delle Regioni e Sindaci dei Comuni Capoluogo saranno impegnati un bel po’ a Roma per le sedute del c.d. “Senato delle Autonomie” (situazione che mi ricorda vagamente il richiamo forzato a Parigi dai propri feudi della nobiltà, voluto da quel grande decentratore del Re Sole…), la mazzata più pesante il piano-Renzi l’ha data infatti proprio alle Regioni ed alla loro effettiva autonomia.

L’articolo 117 della Costituzione Italiana, anche se troppo poco se ne parla in giro, è stata infatti la principale vittima della de-devolution prossima ventura. Il testo ancora in vigore prevedeva che la distribuzione delle competenze tra Stato centrale e Regioni fosse scandita secondo tre livelli: ambiti di esclusiva potestà dello Stato; materie in cui era possibile una competenza di entrambi e, conseguentemente, una “legislazione concorrente”; ed infine questioni di competenza regionale, cioè materie cui la Costituzione non avesse già attribuito la competenza allo Stato.  Nel secondo caso, quello oggettivamente più controverso, la ratio era la seguente: “Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.”. Ebbene, il governo ha ritenuto che anche in questo caso fosse opportuno “semplificare” ed ha quindi decapitato di netto questa seconda possibilità, avocando a sé tutte le competenze fondamentali, con buona pace del decentramento e della sussidiarietà !  Il fatto che i punti dell’art. 117 della nuova “Sostituzione della Repubblica Italiana” in cui si elencano le competenze esclusive dello Stato vadano dalla lettera “a” alla “z” è di per sé già sintomatico. Possiamo quindi ritenerci fortunati che l’alfabeto italiano non comprenda anche le lettere “j”, “k”, “w”, “x” e “y”, altrimenti la potestà statale avrebbe potuto ulteriormente debordare, invadendo perfino territori di ambito strettamente territoriale e locale…

Con l’approvazione del DdL Renzi, quindi, alle Regioni – oltre la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato” (espressione che comunque dice tutto e niente)  resterà assai poco su cui deliberare e legiferare, il che renderà ancora più vuoti ed inutili i loro carrozzoni burocratici e clientelari, ma spazzerà via anche ogni traccia, più che di federalismo, di puro e semplice decentramento.  Uno Stato che si riprende in mano il commercio con l’estero, la sicurezza del lavoro, l’istruzione e la formazione professionale, la ricerca scientifica e tecnologica, la tutela della salute e della protezione civile, i beni culturali e tanti altri ambiti di gestione del territorio è, oggettivamente, un’entità antistorica e mostruosa, generata certamente dal “sonno delle Regioni” ma soprattutto dal delirio di onnipotenza di chi da tempo vagheggia una repubblica presidenziale e per niente federativa.

La reconquista del dominio incontrastato su “produzione, trasporto e distribuzione dell’energia (punto “v” del nuovo testo dell’art. 117) costituisce uno degli ambiti-chiave della “sostituzione repubblicana”, un fondamentale settore strategico che viene sottratto alla dialettica democratica ed alla scelte degli stessi cittadini. Sono anni, peraltro, che i governi cercano di riprendersi le competenze in materia energetica, in modo da poter fornire le opportune garanzie alle potentissime lobbies delle fonti fossili, che hanno finora impedito all’Italia di portare avanti una vera svolta, non solo nel senso di quella che siamo abituati a sentir chiamare green economy, ma soprattutto nella direzione della consapevolezza di quanto l’autonomia energetica sia legata anche al rispetto del territorio e ad uno sviluppo decentrato, rendendo protagoniste e più responsabili le comunità locali. Invece di procedere a grandi passi verso la “civiltà del sole” e la rivoluzione dal basso delle “rinnovabili”, i nostri governanti vogliano inchiodarci a scelte energetiche che non sono solo scellerate sul piano ambientale, ma anche subalterne a logiche tipiche di un modello di sviluppo iniquo e predatorio.  Noi della Rete Campana per la Civiltà del Sole e della Biodiversità abbiamo sperimentato in prima persona che cosa significa cercare di rompere gli equilibri e gli ordini costituiti per restituire alle regioni ed agli enti locali il potere di decidere in modo davvero autonomo delle loro risorse energetiche. La legge regionale d’iniziativa popolare su “Cultura e diffusione dell’energia solare in Campania” – che noi abbiamo promossa e per la quale abbiamo raccolto circa 20.000 firme di cittadini – è infatti l’unico esempio di legislazione regionale in materia energetica che nasca dalla volontà popolare e non da alchimie partitiche consiliari. Non a caso, infatti, una volta approvata all’unanimità dal Consiglio Regionale della Campania, la L.R. n. 1 del 18.02.2013 è stata subito boicottata dalla stessa Giunta Regionale, che ne determinò dopo poco più di un mese la modifica con diversi emendamenti, mentre il Governo cercava di far risultare addirittura anticostituzionale una legislazione regionale in materia.  Ecco perché, se da un lato non ci meraviglia che il potere centrale stia di nuovo cercando di esautorare gli enti locali, privandoli con legge costituzionale di ogni competenza in ambito energetico, dall’altro siamo convinti che bisogna alzare forte la voce contro questo ennesimo colpo alla partecipazione democratica. Come il Marchese del Grillo, il governo si rivolge ancora una volta ai cittadini italiani con la sprezzante frase pronunciata dal bravissimo Alberto Sordi nel film di Monicelli : “Ah, me dispiace. Ma io so’ io, e voi nun siete un c…o!”. Beh, è arrivato il momento di dimostrare a Lorsignori che anche noi…siamo noi e che non ci lasceremo imbavagliare da nessuno! In caso contrario, daremo ragione a chi, per dirla con Pino Daniele, è convinto che anche la Costituzione Italiana “…é ‘na Carta sporca, e nisciuno se ne ‘mporta”….

© 2014 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )