Ecolinguistica: un campo inesplorato da coltivare

Un ambito interdisciplinare da esplorare

In Italia la sensibilità verso gli studi di ecologia sembra meno sviluppata che in altri paesi, anche perché resta ancora non del tutto sanata la tradizionale frattura fra discipline scientifiche ed umanistiche. Questo “anacronistico equivoco intellettuale”, per citare Odifreddi, ha creato e continua a determinare un’artificiosa barriera all’interno della universitas studiorum, spezzando l’unità della cultura e finendo col contrapporre due diverse letture del mondo. Ecco perché il connubio concettuale racchiuso nell’espressione ecolinguistica appare poco significativo alla maggioranza di coloro che pur si occupano di ecologia o di linguistica. È come se lo si considerasse uno studio d’importazione, riservato a pochi eletti, un terreno di ricerca troppo specifico ed accademico e per di più con scarse ricadute pratiche. Ebbene, credo che vada sfatato anche questo più specifico ‘equivoco intellettuale’, accordando finalmente alla ecologia linguistica più attenzione e maggiori occasioni di studio e di ricerca. L’ecologia scientifica, infatti, ha sicuramente bisogno del contributo dell’analisi ecolinguistica e sociolinguistica per comprendere i meccanismi mentali e sociali che – oltre quelli strutturali – continuano a frenare il processo di cambiamento, pur nell’accresciuta consapevolezza del disastro ambientale e delle sue cause.

Troviamo una definizione di cosa s’intende col termine ecolinguistica nella pagina d’accoglienza del sito web della I.E.A (International Ecolinguistics Association), rete universitaria che collega ben 800 ricercatori a livello mondiale.

L’ecolinguistica esplora il ruolo del linguaggio nelle interazioni che sostengono la vita degli esseri umani, delle altre specie e dell’ambiente fisico. Il primo scopo è sviluppare teorie linguistiche che vedano gli esseri umani non solo come parte della società, ma come parte di ecosistemi più vasta, da cui dipende la vita. Il secondo scopo è mostrare come la linguistica possa essere usata per affrontare questioni-chiave ecologiche, dal cambiamento climatico ed alla perdita di biodiversità fino alla giustizia ambientale. (I.E.A. Home).

Nell’introduzione ad un corso promosso dalla I.E.A. – che sintetizza il contenuto dei nove capitoli del manuale di Arran Stibbe (2015)sispiega che è compito dell’analisi ecolinguistica rivelarci le ‘storie’ che viviamo, analizzandole dal punto di vista ecologico con un fine che non è puramente teorico, in quanto vuol metterci in grado di resistere alle narrazioni che danneggiano il nostro mondo e d’inventarne di nuove, alternative.  L’ecologia linguistica ci aiuta ad inquadrare tali ‘storie’ in una determinata filosofia ecologica, un insieme di valori riguardanti le relazioni tra l’uomo, le altre specie animali e l’ambiente fisico di cui fanno parte. Si tratta di analizzare in che modo una certa cultura c’induce a pensare tali relazioni e, conseguentemente, ad agire. Verbo, è bene precisarlo, che non si riferisce all’azione in senso stretto, ma anche all’interazione linguistica, secondo una visione pragmatica della lingua, che non si limita a ‘dire’ ma è anche capace di ‘fare’. Le narrazioni della nostra realtà, infatti, sono vere e proprie ‘riserve di valori’, intessute non solo di ‘fatti’ ma intimamente caratterizzate da ideologie di fondo, metafore, valutazioni e perfino da significative omissioni.

Il manuale citato, a tal proposito, fa l’esempio di alcune narrazioni del mondo che hanno segnato il nostro rapporto con l’ambiente, relative ad alcuni concetti basilari. È il caso di parole-chiave come ‘prosperità’ – che ha promosso l’arricchimento come acquisizione di bene e di denaro – ‘sicurezza’ – che ha contribuito a sviluppare relazioni di dominio e strutture violente al loro servizio, come pure altri termini che ci presentano un mondo ridotto a materia e meccanismi, caratterizzato dalla centralità dell’uomo e dal suo assoluto dominio sulle altre specie, indiscutibile e senza limiti. Utilizzare l’analisi linguistica per rivelare le stratificazioni ideologiche dietro le nostre storie può aiutarci a capire come e quanto esse influenzino la nostra visione della realtà, alimentando un modello di sviluppo insostenibile ed iniquo. Comprendere quanto simili narrazioni possano rivelarsi distruttive da un punto di vista ecologico, inoltre, ci rende più consapevoli e capaci di cambiare rotta in senso costruttivo, anche attraverso l’impiego d’una ben diversa modalità linguistica.  Parafrasando uno dei primi studiosi di ecolinguistica, l’inglese M.A.K. Halliday (Halliday, 2003), c’è una ‘sindrome di caratteristiche grammaticali’ che contribuisce a costruire la realtà in modi che non fanno bene alla nostra salute né al nostro futuro come specie.

Nell’attuale cultura dominante, però, scarsa l’attenzione è stata riservata a questo ambito della ricerca, come se si trattasse di elucubrazioni mentaliste, mentre l’insostenibilità del nostro mondo richiederebbe interventi correttivi di stampo scientifico, tecnologico o, al massimo, economico. Il problema è che non siamo ancora del tutto consapevoli che il linguaggio non è solo rappresentazione di una realtà, ma contribuisce a costruirla e determinarne le caratteristiche.  Ecco perché studiare quella ‘sindrome di caratteristiche grammaticali’ sarebbe molto importante per liberarci dai meccanismi culturali inconsci che influenzano le nostre scelte, anche in campo ambientale.

Un campo di studi linguistici da coltivare

Nel suo libro sull’approccio ecolinguistico alla ‘analisi critica del discorso’ riguardante uomo e ambiente, Arran Stibbe stabilisce alcuni punti fondamentali cui attenersi:

a) L’attenzione si concentra sui discorsi che hanno (o potenzialmente hanno) un impatto significativo non solo sul modo in cui le persone trattano le altre persone, ma anche su come trattano i sistemi ecologici più ampi da cui dipende la vita.

b) I discorsi vengono analizzati mostrando come gruppi di caratteristiche linguistiche si uniscono per formare particolari visioni del mondo o “codici culturali” […]

c)  I criteri in base ai quali le visioni del mondo vengono giudicate derivano da una filosofia ecologica (o ecosofia) esplicita o implicita. Un’ecosofia è informata sia da una comprensione scientifica di come gli organismi (compresi gli esseri umani) dipendono dalle interazioni con altri organismi e da un ambiente fisico per sopravvivere e prosperare, sia da un quadro etico per decidere perché la sopravvivenza e la prosperità sono importanti […]

d) Lo studio mira a esporre ed a suscitare attenzione su discorsi che sembrano essere ecologicamente distruttivi […] o in alternativa a cercare di promuovere discorsi che potenzialmente possano aiutare a proteggere e preservare le condizioni che supportano la vita […]

e) Lo studio è finalizzato all’applicazione pratica attraverso la sensibilizzazione al ruolo del linguaggio nella distruzione o protezione ecologica, informando le politiche, caratterizzando lo sviluppo educativo o fornendo idee che possono essere utilizzate per ridisegnare testi esistenti o per produrre nuovi testi in futuro. (Stibbe, 2014).

Con l’espressione ’analisi critica del discorso’ (in inglese: CDA – Critical Discourse Analysis) si fa riferimento ad un approccio sociolinguistico che si è diffuso negli anni ’90, la cui matrice filosofica si ispirava a precedenti riflessioni di Michel Foucault sul potere delle parole. L’ACD si occupa di mettere in luce le relazioni che intercorrono tra il potere ed i testi finalizzati all’informazione e alla formazione delle persone e delle comunità. Si tratta di discorsi pubblici veicolati dai media, di cui la linguistica ci aiuta ad analizzare le caratteristiche testuali, come la gerarchia degli argomenti trattati, gli espedienti retorici utilizzati, il tipo di argomentazione e le caratteristiche espressive.

Il primo luogo comune da sfatare è che il linguaggio rispecchi la realtà, mentre in larga parte contribuisce a crearla, o quanto meno a determinarla. Ecco perché anche i ‘discorsi’ sulle questioni ambientali non vanno sottratti all’analisi critica, in modo da svelare valori e visioni della vita che influenzano pesantemente tali narrazioni e contribuiscono a formare la c.d. ‘opinione pubblica’.  L’approccio ecolinguistico, dunque, è fondamentale per diventare consapevoli dell’interazione tra lingua, parlanti ed ambiente (fisico e sociale) che ne costituisce il contesto e, in generale, dei rapporti tra uomini, società e natura.  

Ma se il termine ‘ecolinguistica’ è usato in senso lato, bisogna distinguere al suo interno impostazioni e finalità abbastanza diverse, in base al rapporto tra i due elementi che lo compongono. Quando le conoscenze linguistiche servono ad analizzare e demistificare le ‘storie’ relative alle problematiche ambientali, siamo più nell’ambito di una linguistica ecologista. Quando invece i principi ecologici sono applicati all’analisi dei fenomeni sociolinguistici, rientriamo maggiormente nell’ambito dell’ecologia del linguaggio.

Quest’ultima, infatti, si occupa della salvaguardia della diversità linguistica e dei rischi cui va incontro una società caratterizzata dall’omologazione linguistica, che consolida il potere delle culture dominanti, cancellando antichi patrimoni di sapere e specificità espressive.

L’ecolinguistica è quella branca della linguistica che tiene conto degli aspetti dell’interazione, tra lingue, tra parlanti, tra comunità linguistiche o tra lingue e mondo, e che, al fine di promuovere la diversità dei fenomeni e le loro relazioni, si adopera in favore del piccolo (Fill, 1993: 4)

Questo approccio risulta naturalmente più vicino alla sensibilità ecologista, in quanto applica alle lingue la stessa attenzione protettiva che le organizzazioni ambientaliste prestano alle minacce alla diversità biologica. La diversità linguistica, in tale contesto, è percepita non soltanto come valore fondamentale sul piano culturale e sociale, ma anche come fattore di equilibrio in un mondo dominato dal pensiero unico, dall’omologazione e dalla globalizzazione economica, caratteristiche che Vandana Shiva aveva efficacemente sintetizzato nell’espressione  “monoculture della mente” (Shiva, 1995).

Nel saggio “Lingue soffocate” – pubblicato nel 2004 dall’Associazione VAS Verdi Ambiente e Società –   già sedici anni fa mi ero occupato di questo problema, soffermandomi sulla crisi ecolinguistica di cui pochi – ambientalisti e linguisti – sembravano prestare attenzione. Proseguendo il discorso iniziato due anni prima sull’educazione alla tutela della diversità culturale come estensione della salvaguardia della biodiversità (Ferraro, 2002), la mia attenzione si era focalizzata sulla grave perdita di diversità linguistica provocata da un modello di sviluppo accentratore e omologatore.

Dopo un lungo periodo di militanza ambientalista ed ecopacifista, la consapevolezza dei rischi derivanti dalla crescente perdita di biodiversità m’induce a riproporre l’esigenza di una ‘ecologia della lingua’ che esca dalle aule universitarie e dalle stesse ricerche sul campo degli studiosi, per diventare acquisizione comune di un movimento ecologista finora poco sensibile a tali tematiche. Come nel caso dell’ecopacifismo, però, non basta sommare sbrigativamente battaglie ambientaliste sociali e culturali, ma bisogna saldare queste dimensioni, a partire dalla constatazione che […] il mantenimento della lingua fa parte dell’ecologia umana, e che la difesa della biodiversità non è una battaglia settoriale, ma l’affermazione di una filosofia di vita complessivamente alternativa. (Ferraro, 2004: 8).

L’ecolinguistica come veicolo di cambiamento

Gli studi ecolinguistici, però, non devono restare confinati in ambito accademico, come ricerche finalizzate solo alla comprensione delle dinamiche socio-ambientali esistenti e non all’impegno per cambiare l’interazione cogli ecosistemi, di cui stiamo minacciando i delicati equilibri e, con essi, la nostra stessa sopravvivenza come specie.

Sul piano della linguistica ecologista, Arran Stibbe si è soffermato sul peso che un certo modo di ‘inquadrare’ linguisticamente la realtà influisca fatalmente sulla lettura che ne diamo, perpetuando stereotipi e certezze aprioristiche che impediscono proprio quel cambiamento. L’uso del framing, appunto, ‘inquadra’ le questioni ambientali all’interno di una struttura mentale predefinita. In tal senso, sono utilizzati spesso ‘pacchetti di conoscenza generale’ per inquadrare un problema ecologico, come il riscaldamento globale, ora come questione ambientale da risolvere, ora come minaccia alla sicurezza da fronteggiare, ora come situazione spiacevole oggettiva cui dovremmo adattarci.

”La natura è una risorsa” è stata fornito come esempio di inquadramento ‘distruttivo’ poiché le risorse sono preziose solo se vengono o saranno consumate; non hanno valore se lasciate a se stesse per sempre. Ciò contraddice l’ecosofia di questo libro, che attribuisce considerazione etica alla vita e al benessere di altre specie […] l’inquadramento ‘sviluppo’, che in origine era un tentativo altruistico di alleviare la povertà nei paesi poveri, è invece finito come ‘crescita sostenuta’, cioè un tentativo di massimizzare la crescita economica nei paesi ricchi a danno dei poveri. (Stibbe, 2015)

Il parametro usato da Stibbe per classificare e valutare queste narrazioni antropocentriche ed utilitaristiche è il danno che esse provocano agli ecosistemi, per cui la loro ‘distruttività’ risulta direttamente proporzionale alla loro minaccia alle specie ed all’ambiente in genere. Sarebbe invece positivo un inquadramento linguistico alternativo di tali problematiche, che incoraggiasse atteggiamenti e comportamenti di  protezione ambientale, riportando l’attenzione sulla natura in sé, non come ‘risorsa’ da sfruttare.

L’utilizzo di un determinato codice linguistico, d’altra parte, ha fatto sempre parte dell’armamentario utilizzato dalle classi e nazioni dominanti per controllare quelle subalterne e mantenerle asservite. Valeva per le civiltà antiche – come quella greca e romana – ma è innegabile che l’utilizzo delle lingue resti tuttora uno strumento per sancire una gerarchia socio-politica che subordini alcuni soggetti sociali ad altri. Un grande scrittore distopico come George Orwell, infatti, nel suo celeberrimo ‘1984’ ha inquadrato perfettamente la decostruzione e ricostruzione del codice linguistico di una comunità come uno degli elementi cardine per realizzare e mantenere una dittatura globale e totale.

Il fatto è che l’inquietante modello unico di economia di società e di cultura profetizzato da Orwell ci si sta materializzando sempre più davanti. Non a caso quella “età del livellamento, della solitudine, del Grande Fratello e del Bispensiero” era caratterizzata dalla repressione della diversità linguistica e dalla diffusione forzata di una lingua standardizzata, ridotta all’essenziale, volutamente inespressiva. (Ferraro, 2004: 3)

Dominare il linguaggio di un soggetto collettivo significa dominarne il pensiero e le scelte, ma tale regola vale sempre e comunque anche per ciò che concerne le questioni ambientali. È dunque indispensabile occuparsi di più e meglio di come il livellamento linguistico e l’utilizzo di determinati ‘inquadramenti’ ci stiano condizionando, confermando quindi l’attuale modello di sviluppo come l’unico possibile ed auspicabile. La stessa contrapposizione tra ‘sviluppo’ e ‘protezione ambientale’ è prova di questa mistificazione logico-linguistica, che insiste ossessivamente sul concetto di ‘crescita’ come fattore di benessere cui non possiamo rinunciare. La stessa crisi ecologica, paradossalmente, è spesso affrontata come se la soluzione consistesse nel reperire maggiori e più potenti strumenti economici scientifici e tecnologici, consolidando il modello antropocentrico, scientista e tecnocratico che sta alla radice del problema.

Una seconda antitesi è tra ‘crescita’ e ‘povertà’, come se non fosse stato proprio il sistema economico capitalista ed il modello crescista di sviluppo ad allargare la frattura fra un piccolo mondo ricco e potente ed una larga parte di umanità sempre più povera, fragile e subalterna. Non è un caso che occuparsi di giustizia sociale e di uguaglianza di diritti spesso sia stato strumentalmente contrapposto alla preoccupazione dei movimenti ambientalisti per la preservazione della natura e la tutela degli ecosistemi. Ma, come ha giustamente sottolineato un ecologista sociale come Antonio D’Acunto:

Si pone ora sempre più urgente la necessità superiore non solo di rallentare la catastrofe, ma di invertire il futuro dell’umanità, con il suo modello culturale, economico, produttivo e sociale, verso il Pianeta della vita e della biodiversità, liberandolo dal cancro dello sfruttamento tra gli uomini e verso la natura. (D’Acunto 2019: 45)

In tale direzione eco-socio-linguistica va la riflessione di uno studioso argentino, Diego L. Forte, che considera l’ecolinguistica terreno per una ‘nuova lotta di classe’. Integrando strumenti squisitamente linguistici, come l’analisi critica del discorso, con quelli della sociolinguistica, egli ritiene possibile andare oltre i tradizionali parametri della lotta di classe, aprendosi a tutte le disparità sociali che nascono dall’egemonia di alcuni soggetti su altri, fra cui quelle etniche e quelle di genere.

La decostruzione e la proposta alternativa, quindi, devono nascere dal ripensamento del concetto di classe: non si può più pensare alle classi sociali come le intendeva Marx, gli oppressi non possono continuare ad agire da soli. Molti movimenti stanno prendendo coscienza della necessità di unire gli sforzi per combattere lo stesso oppressore. L’idea di un’integrazione delle lotte basata su una rielaborazione dovrebbe essere il nuovo passo per gli studi critici. […] nuovi discorsi e storie devono guidarci, ma, senza mettere in discussione i sistemi egemonici, questi cambiamenti non possono aver luogo. […] Il cambiamento delle storie è certamente la via d’uscita, ma le nuove storie non sostituiscono automaticamente quelle vecchie. I cambiamenti arbitrari derivano dalla lotta di classe e il passaggio da una narrazione all’altra implica necessariamente questa lotta, che noi sosteniamo debba essere ridefinita. Questa è la lotta cui deve partecipare l’ecolinguistica.  (Forte 2020: 13-14)

Ecologia delle lingue: una questione spinosa

Nei citati saggi del 2002 e 2004 mi ero occupato di come l’ecologia delle lingue  contrasti la perdita delle diversità linguistiche e culturali causate dalla globalizzazione, mostrandone il parallelismo con l’impegno ambientalista per difendere e promuovere la diversità biologica, minacciata da un modello di sviluppo predatorio ed iniquo.

Ecco perché, così come si parla di biodiversità a tre diversi livelli (genetica, di specie ed ecosistemica) sembra importante allargare il discorso alla salvaguardia…della diversità culturale degli esseri umani, visti come individui, come etnie e come comunità socio-politiche, adoperandosi per la salvaguardia delle varie specificità etnico-culturali, non solo come strumento contro la predominanza delle classi egemoni, ma come tutela dell’identità culturale d’intere popolazioni e come difesa dell’antropodiversità dall’azione omologante e riduttiva della globalizzazione. (Ferraro, 2002: 38-39).

Il mio impegno ecolinguistico – che scaturiva dalla necessità di realizzare quanto sancito dall’UNESCO sul diritto alla diversità linguistica, che va non solo tutelata ma ‘incoraggiata’ (UNESCO, 2000, art. 5) – si è poi consolidato, in seguito ad approfondimenti teorici ed alla militanza in un’associazione ambientalista che ha fatto propria questa impostazione. Infatti, a livello regionale furono promosse in Campania cinque edizioni della Festa VAS della Biodiversità’, con sessioni dedicate proprio alla tutela della diversità culturale, intesa come risorsa e non come problema. 

Il mio saggio “Voci soffocate” – presentato in occasione dell’edizione 2004 di quell’evento – riecheggiava nel titolo un testo fondamentale per comprendere il peso che l’ecologia delle lingue dovrebbe avere in una transizione ecologica che sappia integrare i saperi scientifici con quelli umanistici, per realizzare una società più giusta e rispettosa degli equilibri vitali.  ‘Vanishing Voices. The Extintion of World’s Languages’, saggio scritto da un antropologo e da una linguista (Nettle – Romaine, 2002), ha ispirato la mia riflessione sulle lingue che spariscono o sono comunque minacciate dall’omologazione e stanno perdendo la loro caratteristica di specchio e di veicolo di specifiche identità socioculturali.

Di fronte all’accelerazione del processo di scomparsa delle espressioni linguistiche locali – e dei saperi che esse trasmettono – linguisti, antropologi ed ecolinguisti stanno adoperandosi per preservare in ogni modo questo patrimonio, documentandolo per mezzo dei più moderni e tecnologici strumenti disponibili, studiandone le specificità glottologiche, stampandone vocabolari e testi che ne documentino le caratteristiche culturali originali. (Ferraro, 2004: 5)

Tutelare il diritto delle minoranze etnolinguistiche, nel tempo, si è rivelato più agevole che salvaguardare e garantire un futuro a lingue considerate comunque ‘minoritarie’ o ‘regionali’, che non rischiano l’estinzione bensì l’accantonamento, lo snaturamento e la corruzione sul piano lessicale, grammaticale ed ortografico. Basti pensare che in una realtà nazionale come quella italiana le disposizioni legislative a tutela di minoranze etniche hanno preceduto di mezzo secolo quelle emanate a protezione di espressioni linguistiche considerate secondarie e localistiche rispetto alla lingua nazionale. 

 Il divario fra le cosiddette minoranze ‘riconosciute’ e quelle ‘non riconosciute’ era diventato sempre più ampio, poiché le prime avevano potuto godere …di provvedimenti che andavano ad incidere positivamente sui diritti linguistici dei parlanti, le altre invece, o non avevano ricevuto nessun tipo di sostegno da parte delle istituzioni, oppure avevano potuto disporre solamente di interventi regionali di carattere culturale che, oltre a non evitare i fenomeni di assimilazione linguistica, privilegiavano spesso gli aspetti più strettamente folkloristici delle identità minoritarie. (Cisilino, 2004: 176)

Fa riflettere il fatto che il riconoscimento ufficiale dell’Italiano come lingua nazionale – non sancito nella Costituzione repubblicana – sia stato paradossalmente introdotto proprio dall’art. 1 della legge n. 482 del 1999, che dettava “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”. Da allora, grazie alla pur tardiva sottoscrizione da parte dell’Italia della Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003, ma soprattutto all’attivismo di studiosi e appassionati, sono stati fatti passi avanti, anche se in modo scoordinato e spesso con accenti che, più che ai principi d’un federalismo ecologista e verde, apparivano ispirati ad un autonomismo identitario.

Nella regione Campania, ad esempio, il Consiglio Regionale aveva registrato negli ultimi decenni la presentazione di varie proposte di legge sulla tutela della lingua napolitana. Mentre alcune di esse insistevano solo sull’aspetto identitario, con toni nazionalistici e lo sguardo nostalgicamente rivolto alla conservazione d’un illustre passato da rivalutare, altre si aprivano ad un pluralismo che non escludeva la protezione di altre espressioni linguistiche locali, per non riprodurre regionalmente il modello accentratore dell’idioma standardizzato. Per questo motivo, come accade nella dinamica dei contesti politico-istituzionali, la proposta di legge presentata in Campania dai Verdi (alla cui stesura avevo dato il mio contributo personale), ha dovuto fare i conti con un’analoga proposta della destra. Il testo approvato lo scorso anno dal Consiglio Regionale (L.R. Campania n. 19/2019) è stato pertanto frutto di un compromesso tra due visioni differenti del problema, finendo col restringere la tutela al solo patrimonio linguistico del Napolitano ed accentuando il peso del mondo accademico in questo processo, anziché aprire ad una pluralità di soggetti pur esperti in materia.

In una interessante tesi di laurea magistrale in Filologia e Letteratura Italiana, discussa nell’a.a. 2012-13 all’Università Ca’ Foscari di Venezia, si è affrontato approfonditamente il concetto di “sostenibilità linguistica”, con particolare attenzione al pluralismo linguistico ed in riferimento a differenti scuole di pensiero in ambito ecolinguistico internazionale. Dal raffronto tra vari modelli presi in esame – quello ecosociale del catalano Alberto Bastardas Boada (Bastardas Boada, 2013), quello francofilo del tunisino Claude Hagège (Hagège, 1999)  e quello anglosassone dei citati Daniel Nettle e Susanne Romaine (Nettle e Romaine, 2001) – il candidato metteva criticamente in luce alcuni aspetti contraddittori, in modo particolare nel primo caso, riferendoli poi anche al dibattito nel contesto glottologico italiano.

Quando Bastardas Boada elenca i cinque punti che dovrebbero servire da guida per la sostenibilità…sembra quasi che egli abbia in mente un mondo composto da migliaia di gruppi umani autonomi, tendenzialmente omogenei ed impermeabili verso l’esterno, che possano arbitrariamente decidere di usare la loro lingua per tutti gli ambiti […] A ciò va aggiunto l’auspicio del linguista catalano di veder riconosciuto a tutti gli idiomi minoritari lo status di lingue ufficiali. Tale proposta, se da un lato dovrebbe prevedere un minimo di standardizzazione degli idiomi in questione, dall’altro, e proprio per questo, avrebbe un effetto negativo, ad esempio, sui dialetti di quegli stessi idiomi, poiché, come afferma Hagège, standardizzare una lingua significa automaticamente screditare le sue varietà. (Perin, 2013: 113-114)

Questa osservazione, peraltro legittima, è stata ripresa in riferimento ai tentativi di diffondere in Italia un modello plurilinguistico che, si obbietta, contraddirebbe se stesso quando pretende d’istituzionalizzare solo determinati idiomi, servendosi di strumenti artificiali, come quelli legislativi. Ma è davvero così?

Ecolinguistica, ecopacifismo ed irenolinguistica

La contraddizione tra la visione multiforme e policentrica di chi sostiene il diritto ad una libera espressione linguistica e il perseguimento della ‘normalizzazione’ istituzionale di tale diritto, col rischio di proteggere e valorizzare solo alcuni idiomi a discapito di altri, è un problema che l’ecologia delle lingue deve affrontare. D’altra parte, non è accettabile che si contrappongano strumentalmente diverse ipotesi ecolinguistiche, quando esistono soluzioni intermedie cui ricorrere per garantire una effettiva ‘sostenibilità linguistica’.

Ad esempio, in uno studio citato dalla stessa tesi (Dell’Aquila e Iannàccaro, 2004), si spiega come tale ‘pianificazione linguistica’ istituzionale possa essere declinata in più modi e con diverse sfumature. Esse vanno dal Language revival (che tenta di riportare in uso lingue poco parlate), alla Language revitalization (che incrementa le funzioni di una lingua minacciata, migliorandone lo status), passando per il Reversing language shift (che dà un sostegno a livello comunitario a lingue poco praticate dalle nuove generazioni) ed arrivando al Language renewal (per garantire che almeno alcuni componenti di una comunità continuino ad apprenderle ed utilizzarle).

Tali modalità di pianificazione resterebbero comunque operazioni artificiose d’ingegneria sociolinguistica se non fossero sostenute ed accompagnate da un effettivo impegno sociopolitico e culturale per rivitalizzare il rapporto di una comunità col suo territorio e per preservarne l’integrità ambientale. Il vero conflitto, infatti, non è tanto quello tra lingue egemoni e idiomi locali relegati ad espressioni inferiori, condannate al deperimento o alla scomparsa. È lo stesso modello di sviluppo attuale che non consente il mantenimento del pluralismo culturale e linguistico, confliggendo anche con una prospettiva di economia decentrata, di sviluppo comunitario e policentrico, di equità di diritti e di protagonismo sociale. Ecco perché l’ecolinguistica non dovrebbe svilupparsi come terreno di studio a sé stante, ma andrebbe integrata in una complessiva alternativa ecologista, globale nei principi e locale nelle azioni.

In quale direzione oggi va il nostro mondo? Verso i valori della Età dell’oro – umanità, socialità, comunione dei beni naturali, pace e nonviolenza, amore per la Madre Terra […] o verso il distacco sempre più profondo da tali valori? […] Dominano l’idea e la pratica che il Pianeta è dell’uomo che vive oggi e non delle future generazioni, e – nella stessa filosofia di forza e di potere tra le specie – di quell’uomo che è più forte e potente, capace di sfruttare fino in fondo ogni risorsa. (D’Acunto, 2019: 94)

La necessaria diffusione dei principi e delle varie tecniche operative di studi di per sé interdisciplinari come quelli ecolinguistici, pertanto, andrebbe inserita in un progetto più ampio, di cui faccia parte anche l’ecopacifismo, altro aspetto piuttosto trascurato dal movimento ambientalista o banalizzato a mera alleanza tattica con quello pacifista.

In uno scritto del 2014 avevo ipotizzato una saldatura meno strumentale, partendo dalla considerazione che la logica di accumulazione e dominazione, tipica del modello di sviluppo capitalista, genera sia lo sfruttamento dei beni naturali e la devastazione ambientale, sia il sistema di militarizzazione e guerra del complesso militare-industriale.  

I. L’ecopacifismo non è la pura e semplice sommatoria di obiettivi programmatici e di azioni pratiche relative alla lotta per la difesa degli equilibri ecologici ed alla opposizione al militarismo ed alla guerra. Con questo termine andrebbe invece caratterizzata un’impostazione etico-politica ed un programma costruttivo globale, nei quali la nonviolenza si manifesti sia nella salvaguardia dell’ambiente naturale e di tutte le forme di vita, sia nella ricerca di alternative costruttive ai conflitti.  II. L’ecopacifismo non è una dottrina politica ma neanche una semplice strategia d’azione. Sullo sfondo della proposta ecopacifista, infatti, si delinea un ben preciso modello di convivenza e di sviluppo economico-sociale. La sua caratterizzazione ecosocialista, autogestionaria ed antimilitarista è riconducibile alla tradizione etico-religiosa dell’Ahimsa gandhiana, alla nonviolenza laica di pensatori come Capitini ed anche alle proposte di pacifisti di matrice anticapitalista e terzomondista.  (Ferraro, 2014: 4)

I fenomeni di marginalizzazione sociale e di controllo centralistico della società, tipici di un modello economico che ha compromesso gli equilibri ecologici per sete di conquista e di dominio, sono alla base anche della progressiva eliminazione delle diversità culturali e linguistiche. Ma il pervasivo imperialismo militarista e guerrafondaio, che si affianca a quello economico tutelandone gli interessi globali, è ugualmente un frutto di quel sistema.

Secondo un’ottica nonviolenta, i conflitti non devono essere esorcizzati né occultati, ma rivelati, analizzati e possibilmente trasformati, o meglio ‘trascesi’, mutuando l’espressione usata da Johan Galtung (Galtung 2000) per caratterizzare e diffondere il suo metodo.  Per affrontare la triade alla base di tutti i conflitti (atteggiamenti e comportamenti ostili ed interessi contrapposti), infatti, egli ipotizzava che si debba far riferimento al triangolo costruttivo empatia-nonviolenza-creatività.

Ma se l’educazione alla pace e l’azione per la pace sono finalizzate al superamento costruttivo di conflitti altrimenti distruttivi, anche in ambito sociolinguistico ed ecolinguistico si potrebbe andare nella medesima direzione. Una comunicazione nonviolenta ha bisogno di strumenti ecolinguistici – come l’analisi critica del discorso – che rendano consapevoli dei pregiudizi e degli inquadramenti ideologici che alimentano i conflitti. Deve ipotizzare anche una modalità comunicativa alternativa, che usi il potere delle parole non per distruggere, ma per costruire relazioni positive fra individui e comunità.

Anche su questo terreno, già dai primi anni ’80 avevo provato a portare un contributo, ipotizzando una ‘educazione linguistica nonviolenta’ (Ferraro, 1984) che, se da un lato svelasse e denunciasse l’uso negativo della comunicazione linguistica, per fini di contrapposizione e di dominio, dall’altro proponesse una modalità di comunicazione positiva, costruttiva e creativa. Le metafore da me utilizzate erano le finestre contrapposte alle persiane, i ponti contrapposti ai muri e le colombe contrapposte alle civette.

Le mie Otto tesi per l’Educazione linguistica nonviolenta (ELN) cercavano di far luce su funzioni e disfunzioni del linguaggio umano, utilizzabile sia in positivo sia in negativo. Il percorso proposto si basava sulle tre principali funzioni del linguaggio: cognitiva, sociale ed espressiva. […] L’ELN propone di riaprire questa finestra sul mondo, eliminando al massimo deformazioni, equivoci ed ostacoli alla comunicazione interpersonale e riaprendo il flusso di una comunicazione che, già etimologicamente, vuol dire mettere in comune idee ed emozioni […] L’ELN propone di educare i ragazzi ad usare la lingua come strumento di pace e come mezzo di scambio empatico. Il primo passo è renderli consapevoli della negatività d’una comunicazione che sottolinei le diversità, presentandole come ostacoli e non come occasione di reciproco arricchimento […] L’ELN propone di restituire alle parole la loro natura di specchio del pensiero, di espressione chiara e onesta dei sentimenti. La ‘colomba’ del linguaggio sincero e rispettoso deve sostituire la ‘civetta’ d’una comunicazione falsa, ipocrita ed opportunista. (Ferraro 2018: 191-192)

Grande successo e diffusione hanno incontrato a livello internazionale, dalla metà degli anni ’90, gli autorevoli contributi di Marshall B. Rosemberg relativi alla Nonviolent Communication – NVC ® (Rosemberg, 2015). La Comunicazione Nonviolenta, in sintesi, è una metodologia che: (a) scoraggia generalizzazioni, giudizi e tentativi d’incasellare la realtà dentro categorie rigide e prefissate, promuovendo un’analisi oggettiva delle proprie sensazioni; (b) incoraggia la libera manifestazione dei sentimenti, superando timori, blocchi e sensi di colpa attraverso l’espressione autentica di quanto proviamo; (c) propone di mettere da parte critiche, rimproveri ed aspettative verso gli altri, riscoprendo ed esprimendo i veri bisogni; (d) auspica una comunicazione empatica con gli altri, evitando le pretese ed imparando ad esprimere richieste chiare e positive.

Un approccio ancor più vicino a quello ecolinguistico, infine, è stato formulato dallo psicoterapeuta biosistemico Jerome Liss (Liss, 2016)

La Comunicazione Ecologica (C.E.) […] è l’applicazione dei principi ecologici alle relazioni umane: coltivare le risorse di ogni persona, rispettare la diversità pur mantenendo una coesione globale, agendo per un obiettivo comune […] ristabilire un equilibrio ecologico tra i bisogni individuali e la crescita della totalità. Va quindi facilitata nei gruppi una comunicazione democratica, cercando soluzioni alternative ai conflitti e superando le valutazioni negative con una “critica costruttiva“. (Ferraro,2018: 194)

L’irenolinguistica – un mio neologismo per designare la formazione ad una comunicazione nonviolenta ed ecologica – potrebbe integrare studi specificamente ecolinguistici con l’intento educativo di cui dovrebbero farsi carico non solo le famiglie e gli insegnanti, ma anche quelli che gestiscono potenti mezzi di comunicazione di massa. A partire dalla decostruzione e demistificazione di strutture mentali ed espedienti retorici che falsano strumentalmente la realtà – nello specifico quella relativa al rapporto uomo-ambiente – un’educazione linguistica che rispetti i principi ecologici e sia veicolo di pace dovrebbe dunque articolare una proposta alternativa interdisciplinare.

A tal fine, operando una sintesi tra i tre metodi di educazione linguistica prima accennati, ritengo che un linguaggio ispirato ai principi della nonviolenza debba aiutarci: (a) a riconoscere reali bisogni e sentimenti autentici; (b) ad esprimerli sinceramente, formulando richieste chiare; (c) a dialogare con gli altri in modo positivo, empatico e costruttivo; (d) a proporre soluzioni quanto più possibile concrete e condivise.

Infine, tornando al dibattito sul futuro dell’ecolinguistica, è evidente che approcci differenti e con obiettivi diversi debbano però trovare una sintesi complessiva, che evidenzi il fine comune d’un reale cambiamento del rapporto fra patrimoni naturale e saperi umani.

 Da un lato, l’ecolinguistica…aspira a cogliere le complessità della-cosa-che-chiamiamo-linguaggio e, dall’altro, cerca di andare oltre la comunità scientifica sensibilizzando sull’interdipendenza tra pratiche discorsive e devastazione ecologica. […] Finora, i linguisti più attenti all’ecologia hanno concepito le dimensioni discorsive e linguistiche della crisi ecologica in termini di una dicotomia natura-cultura. Una lezione appresa da questo stato dell’arte è che in effetti abbiamo bisogno di una riconcettualizzazione delle questioni ambientali in generale e della dicotomia natura-cultura in particolare […] L’ecolinguistica può quindi collegare la ” hard science ” e lo studio del comportamento coordinativo nelle specie che chiamiamo Homo sapiens sapiens all’analisi delle conseguenze etiche e socioculturali della ”soft science” e ai dibattiti della ”scienza critica” sulle pratiche sociali anti-ambientali e distruttive. […] Finora, il problema principale dell’ecolinguistica non è stato il disaccordo interno o le lotte per il potere, ma piuttosto la mancanza di una vera interazione tra le sue varie parti. A che serve far sbocciare mille fiori, se non riusciamo mai ad apprezzare l’intero campo? Qual è il valore di esplorare la nostra piccola isola, se trascuriamo il resto dell’arcipelago?  (Steffensen e Fill, 2013: 25)

Questa ultima considerazione m’induce a sperare che si realizzi l’auspicata interazione tra i vari approcci all’ecolinguistica e che anche in Italia si allarghi la cerchia delle persone interessate ad approfondirla, non solo a livello accademico, ma anche all’interno di movimenti ambientalisti più attenti ad un’ecologia umana e sociale. Mi auguro che il presente contributo possa risultare utile in tal senso e che, tra i vari ‘fiori’ di questo campo tutto da esplorare e coltivare, si sappiano apprezzare anche quelli di un approccio nonviolento, oltre che ecologico, alla comunicazione linguistica.


Riferimenti

BASTARDAS BOADA, Albert (2013) “Sociolinguistics: Toward a Complex Ecological View”, in: Massip-Bonet e Bastardas Boada, Complexity perspectives on language, communication and society, Springer (pp. 15-34)

CISILINO, William (2004) ”L’evoluzione della legislazione linguistica nella repubblica italiana: analisi del caso friulano”, Revista de Llengua i Dret, n. 42/2004 (pp.173-202)

D’ACUNTO, Antonio (2019) Alla ricerca di un nuovo umanesimo, a cura di Francesco D’Acunto, Amazon. [Ristampa di: D’Acunto, Antonio (2016) Alla ricerca di un nuovo umanesimo. Armonia tra uomo e natura nella lotta politica, Napoli,La Città del Sole]

DELL’AQUILA, V. e IANNACCARO, G. (2004) La pianificazione linguistica. Lingue, società e istituzioni, Roma, Carocci

FERRARO, Ermete (1984), Grammatica di Pace, Otto Tesi per l’Educazione Linguistica Nonviolenta (E.L.N.), Torino, Satyagraha (Quaderno n.11 degli Insegnanti Nonviolenti)

FERRARO, Ermete (2002) “Tutela e diversità”, in “Biodiversità a Napoli”, suppl. a Verde Ambiente, a. XVIII, n. 2, Roma, Editoriale Verde Ambiente (pp. 38-42)

FERRARO, Ermete (2004) Voci soffocate… L’ecologia linguistica per opporsi alla perdita delle diversità linguistiche e culturali, Napoli, autoprodotto da VAS -Verdi Ambiente e Società di Napoli e pubblicato nel 2007 dalla rivista online Filosofia Ambientale

FERRARO, Ermete (2014) L’Ulivo & il Girasole – Manuale di Ecopacifismo V.A.S., Napoli, Verdi Ambiente e Società – Campania (scaricabile come e-book da ISSUU (https://issuu.com/ermeteferraro/docs/manuale_ecopacifismo_vas_2_83d43f9735930d )

FERRARO, Ermete e DE PASQUALE, Anna (2018), “Una grammatica della pace, per comunicare autenticamente e senza violenza”, in: Saffioti R. (a cura di), Piccoli Comuni fanno grandi cose!  Pisa, Centro Gandhi Edizioni (Quaderno Satyagraha – pp.187-198)

FILL, Alwin (1993) Ökolinguistik: eine Einführung, Tübingen, Gunter Narr Verlag

FORTE, Diego L. (2020) “Ecolinguistics: The battlefield for the new class struggle”, Language & Ecology 2019-20, ecolinguistics-association.org  

GALTUNG, Johan (2000), La trasformazione nonviolenta dei conflitti. Il metodo Transcend, Torino, Ed. Gruppo Abele (tit. orig.: Conflict Transformation by Peaceful Means (The Transcend Method)

HAGEGE, J. Claude (1995) Storie e destini delle lingue d’Europa, Firenze, La Nuova Italia

HALLIDAY, Michael K. (2003) On Language and Linguistics, (ed. by J. Webster), London-New York, Continuum

IEA (The International Ecolinguistics Association), Visita sito web > http://ecolinguistics-association.org/

LISS, Jerome K (2016), La comunicazione ecologica – Manuale per la gestione dei gruppi di cambiamento sociale, Bari, La Meridiana

NETTLE, Daniel e ROMAINE, Suzanne (2001), Voci del silenzio (Vanishing Voices) Sulle tracce delle lingue in via d’estinzione, Roma, Carocci

PERIN, Silvia (2013), Il concetto di sostenibilità linguistica (tesi di laurea magistrale in Filologia e Lett. Italiana, Rel. Prof. Lorenzo Tomasin – Venezia Università Cà Foscari

ROSEMBERG, Marshall B. (2015) Nonviolent Communication. A Language of Life, Puddle Dancers

SHIVA, Vandana (1995) Monoculture della mente. Biodiversità, biotecnologia e agricoltura ‘scientifica’, Torino, Bollati Boringhieri

STEFFENSEN, Sune Vork e FILL, Alwin (2013) “Ecolinguistics: the state of the art and future horizons”, Language Science, 41 A (pp. 6-25)

STIBBE, Arran (2014) “An Ecolinguistic Approach to Critical Discourse Studies”, Critical Discourse Studies, 11 (1), London, Routledge

STIBBE, Arran (2015) Ecolinguistics Language, Ecology and the Stories We Live By, London, Routledge

© 2020 Ermete Ferraro

2 commenti su “Ecolinguistica: un campo inesplorato da coltivare

  1. E ora per il verde Ermete, storico eco-pacifista napoletano, non resta, partendo da queste riflessioni, che ricavare un libro cartaceo! Sono temi troppo impegnativi da lasciare solo su un blog. Il Centro Gandhi si offre di pubblicarlo ! Non tutti i mali vengono per nuocere. La chiusura da pandemia ci può spingere a un maggior studio e scrittura. Andiamo avanti!

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