PSY…OPS! Quando la guerra si fa con le parole.

stemma del gruppo operativo PSYOPS dell’Ohio

Dal Grande Fratello orwelliano alla guerra psicologica

In un suo recente intervento, Alessandro Marescotti (www.peacelink.it ) ha giustamente messo in evidenza, a proposito di quanto sta accadendo in Siria, che le varie fonti d’informazione si ritrovano stranamente nel definire “disertori” quelli che, a rigor di logica e di vocabolario, dovrebbero essere chiamati “insorti” o partecipanti ad una “sedizione” militare. Questa osservazione gli dà lo spunto per una riflessione sull’uso propagandistico degli strumenti informativi e sulla preoccupante diffusione – dal secondo dopoguerra ad oggi – di una vera e propria strategia di manipolazione del pensiero e del linguaggio, come strumenti di guerra psicologica.

Il riferimento d’obbligo, in questo caso, è l’incredibilmente profetico romanzo di George Orwell “1984” (Nineteen Eighty-Four), quello che – tanto per intenderci – ha avuto, suo malgrado, la sventura di dar origine alla fin troppo nota espressione “Grande Fratello”. E’ questa, infatti, la traduzione di “Big Brother”, il “deus ex machina” che controlla e dirige come automi telecomandati tutti coloro che vivono sotto il regime assoluto e totalitario guidato dal partito chiamato Socing/Engsoc”.

E’ davvero incredibile come Orwell sia riuscito ad avere, già nel 1948, una visione talmente netta e dettagliata di quella realtà – massmediatica prima ed informatica poi – dalla quale milioni di esseri umani sarebbero stati sempre più condizionati, se non asserviti del tutto, grazie ad una sottile revisione del pensiero e dell’espressione linguistica, che lo veicola e ne è l’ovvio interfaccia.

Mi sono ricordato allora di un mio vecchio scritto – datato non a caso 1984…- nel quale analizzavo questa manipolazione logica (“Bispensiero/Doublethink”) e linguistica (“Neolingua/ Newspeak”), suggerendo anche una strategia per opporsi, nonviolentemente, ad entrambi. Ecco uno dei brani del romanzo che citavo:

“Se si vuole comandare e persistere nell’azione di comando, bisogna anche essere capaci di manovrare e dirigere il senso della realtà… […] Bispensiero sta a significare la capacità di condividere simultaneamente due opinioni palesemente contraddittorie ed accettarle entrambe […] La Neolingua era intesa non ad estendere ma a diminuire la possibilità di pensiero; si veniva incontro a questo fine, indirettamente, col ridurre al minimo la scelta delle parole…”  (questa e le successive citazioni erano tratte dall’ediz. italiana, Milano, Mondadori,1983).

Rileggere, oggi, questi brani del romanzo orwelliano fa venire i brividi. Come non restare  stupiti, poi, di fronte alla constatazione che questi due processi di “addomesticamento” e massificazione del pensiero e del linguaggio, mediante un’accurata programmazione della mente umana, erano stati previsti dall’autore intimamente legati all’uso delle tecnologie informatiche?

Programmare un linguaggio-macchina, sottolineava già negli anni ’70 il cibernetico Silvio Ceccato, comporta l’eliminazione di ogni forma di originalità biologica e culturale, allo scopo di perseguire una “oggettività” ed “universalità” comunicativa, sì da “…sopprimere i contenuti del pensiero-linguaggio che fanno riferimento alla personalità dei parlanti…”  (S. Ceccato, La terza cibernetica. Per una mente creativa e responsabile, Milano, Feltrinelli, 1975)

Tornando alla cronaca di quanto sta accadendo oggi in Siria – ma è da poco accaduto in molti altri paesi arabi del Mediterraneo – è evidente che l’informazione ha fatto largo uso di tutte le tecniche neo-linguistiche per indirizzare subdolamente le menti di lettori, ascoltatori, telespettatori e cybernauti nella direzione voluta da chi ha deciso da anni chi sono i buoni ed i cattivi, facendo derivare da questo assioma tutte le altre considerazioni.

“Il 4 aprile 1951, il presidente statunitense Truman istituì lo Psychological Strategy Board (PSB), il primo organismo statale destinato a pianificare, coordinare e condurre operazioni di controllo psicologico di massa. I primi manipolatori psicologici compresero che quando si vuole agire su una quantità enorme di soggetti, bisogna “trasformare la realtà”. E il modo più efficace e rapido per cambiare la realtà a nostro piacimento è cambiare le parole con cui descriviamo la realtà. “La sostituzione di una sola parola – scriveva William Nichols (direttore di “This week magazine” – può aiutare a mutare il corso della storia”.

Noi comuni mortali, ovviamente, ignoriamo che alle nostre spalle e sulle nostre teste migliaia di persone siano state accuratamente formate alla manipolazione del pensiero e del linguaggio, in modo da far giungere al nostro cervello solo le informazioni gradite, escludendo le altre che, guarda caso, sono spesso proprio quelle vere… Eppure, ricorda Marescotti, già nel 2002 “…il New York Times riportò che l’Office of Strategic Influence (OSI) del Pentagono stava “elaborando dei progetti per divulgare notizie, magari anche false, a beneficio dei media stranieri nell’ottica di influenzare l’opinione pubblica e i decisori politici di paesi amici e non”.

Quando però i militari della NATO si resero conto che la sigla “PSYOPS” ( Psycological Operations) era troppo esplicita, in una nota ufficiale il Tenente Colonnello Steve Collins – a capo della struttura omonima con sede presso il Comando Supremo in Belgio – corresse il tiro, scrivendo che sarebbe meglio “…”utilizza(re) una terminologia più vaga, evitando termini come operazioni psicologiche e optando per quelle che alcuni consideravano delle espressioni più accettabili come “operazioni di  informazione”. (vedi: http://www.nato.int/docu/review/2003/issue2/italian/art4.html )

La “verità” confezionata dai militari

Siamo di fronte ad un’abituale applicazione del “Newspeak” che caratterizza ormai il linguaggio dei media, contrassegnato da espressioni “polically correct”o, comunque, capaci di non impressionare negativamente il lettore-ascoltatore-spettatore.  Chiamare “operazioni informative” quelle che nascono invece come manipolazioni psicologiche è di per sé una mistificazione. Nello stesso Dizionario dei Termini Militari e di quelli Associati, a cura del Dipartimento della Difesa USA  ( JP 1-02 DOD Dictionary of Military and Associated Terms) troviamo scritto, infatti, che: “Le Operazioni Psicologiche sono operazioni pianificate  per veicolare informazioni ed indicatori selezionati ad un pubblico straniero, per influenzare le loro emozioni, motivazioni, ragionamenti oggettivi e, in ultimo, il comportamento dei governi stranieri, come di organizzazioni, gruppi ed individui.”

Queste operazioni – che si integrano con quelle di “intelligence” e di “guerra psicologica” – vengono perfino designate con un colore diversificato, a seconda del grado di mistificazione raggiunto. Quelle “bianche”, infatti, sono azioni attribuite al loro effettivo autore (i servizi informativi della Difesa o, comunque, del Governo. Quelle “grigie” sono “deliberatamente ambigue” ed attribuibili a fonti non-ufficiali. Le operazioni “nere”, infine, sono addirittura attribuite a fonti abitualmente ostili alla politica governativa, e sono utilizzate come un supporto segreto e “coperto” ai piani strategici “scoperti” dei militari.

Dal 1985 (anno significativo…) la sede dell’USA-CAPOC (U.S. Army Civil Affairs and Psycological Operation Command (http://www.usacapoc.army.mil/ ) si trova a Fort Bragg (North Carolina) e comprende due Unità Operative dedicate alle PSYOPS, una nell’Ohio e l’altra in California. Ho notato che lo stemma del primo Gruppo riporta una fiaccola (simbolo del sapere) che s’incrocia in basso con due saette, convergenti sul cartiglio col motto latino “veritas”. L’altra unità è contrassegnata da uno stemma con la stessa fiaccola, questa volta però affiancata a sinistra da una penna d’oca e a destra da una spada ricurva. Le stesse insegne ufficiali ed i distintivi del CAPOC rappresentano poi il “cavallo” degli scacchi, circondato dal motto: “Persuadere-Cambiare-Influenzare” (fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/USACAPOC ).

Il guaio è che la principale vittima di questi corpi militari scelti è proprio quella “verità” di cui essi vorrebbero farsi scudo ma che, per essere tale, non può né deve essere sottoposta ad un trattamento finalizzato a persuadere la gente, a cambiare i fatti e ad influenzare le opinioni. Non pensiamo, d’altra parte, che questa specie di “psycological warfare” riguardi esclusivamente i militari statunitensi ed il Pentagono. L’Italia, infatti, non ha mai smesso di far parte di quell’Alleanza Atlantica alla quale resta tuttora vincolata in tutti i sensi, al punto che la sua stessa sovranità nazionale me risulta pesantemente limitata ed il territorio ed il mare italiani sono costantemente sottoposti al ferreo controllo della NATO.

Un articolo di A. Scarpitta del marzo 2010, poi, ci informa sulle “psyops” italiane in Afghanistan  con queste parole: “La comunicazione operativa si prefigge lo scopo di far conoscere, in maniera adeguata e credibile, il fine dell’impegno militare italiano e alleato in Afghanistan, modificando positivamente la percezione di tale impegno presso la popolazione locale, grazie alla capacità di accentrare, controllare e gestire le informazioni” […]. Lo scopo è poter influenzare le percezioni, le suggestioni ed il comune sentire dei civili attraverso l’analisi dell’impatto psicologico delle operazioni ed orientare tali sentimenti a favore del nostro operato. […]In questo contesto, le comunicazioni operative debbono fornire e gestire le notizie in termini coerenti con le necessità delle operazioni e con le finalità del nostro impegno militare, contribuendo a creare un clima generale favorevole al buon esito della missione…”. (http://www.loccidentale.it/articolo/enduring+freedom.+le+psy+ops+italiane+in+afghanistan+.00873809 )

Apprendiamo dal citato articolo che, per studiare e divulgare a loro volta queste interessate “elaborazioni” della verità fattuale, così da meglio asservirla alle finalità delle operazioni militari e per giustificarle agli occhi dell’opinione pubblica, i nostri bravi militari seguono degli appositi corsi. Essi si addestrano a queste tecniche, col supporto di specialisti informatici, giornalisti, psicologici ed altri compiacenti “tecnici”, presso una struttura nazionale, ma anche in dotti corsi accademici all’estero.

“Questi compiti fuori dal comune sono affidati al 28° Reggimento Comunicazioni Operative “Pavia”, un assetto specialistico pregiato del nostro esercito di recentissima costituzione basato a Pesaro […] La Sezione Corsi, inserita nell’Ufficio OAI (Operazioni Addestramento Informazioni). Il “Pavia” è infatti sia unità di impiego che addestrativa, provvedendo direttamente alla formazione del proprio personale. […] A questo si aggiunge, per gli aspetti più marcatamente militari, la stretta collaborazione con forze alleate che già dispongono di esperienze consolidate nel settore delle operazioni psicologiche, come il Civil Affairs/Psychological Operations Command (CAPOC/A) statunitense, che assicura corsi e seminari tenuti a Fort Bragg o a domicilio da istruttori molto qualificati, o la Scuola di Intelligence britannica.[…] A tal fine alcuni elementi qualificati vengono inviati presso enti e comando alleati all’estero, come lo SHAPE o la NATO School di Oberammergau.”(vedi art.cit.).

Ebbene, adesso sapete che, quando ascoltate un notiziario TV, leggete un quotidiano oppure  navigate in Internet – il vero “Grande Fratello” è sempre presente, con la sua preoccupante capacità di controllare e di orientare il pensiero, anche attraverso il linguaggio quotidiano. Nel caso della politica, poi, siamo di fronte a quelle che qualcuno ha efficacemente definito “armi di disinformazione di massa”.

L’intenzione, spiegava Orwell, è quella di rendere ogni discorso “….indipendente il più possibile da una corrente di pensiero operante…”, facendo della Neolingua – asettica, omologata e ambivalente – il codice ideale per impedire ai nostri cervelli di svolgere il loro pericoloso compito di comprensione,di analisi e di valutazione della realtà.

Ormai resi ottusi, massificati ed istupiditi, vivremmo forse più tranquilli, però avremmo smarrito del tutto la nostra scienza e coscienza, come c’insegnava già 250 anni fa il saggio Voltaire:

“Non avete vergogna ad essere infelice, dal momento che alla vostra porta c’è un vecchio automa che non pensa a nulla e che vive contento?” “Avete ragione – mi rispose – cento volte mi son detto che sarei felice se fossi stupido come la mia vicina, e tuttavia non saprei che farmene di una felicità così…” (Voltaire, Il bianco e il nero ed altri racconti, 1764 ).

© 2012 Ermete Ferraro

TELE-COMANDO – REMOTE CONTROL

Se qualcuno mi domandasse qual è, a mio parere, l’oggetto-simbolo delle nuove generazioni, non avrei dubbi nel rispondere: il telecomando. Sì, parlo proprio di quell’oggetto scuro, oblungo, costellato di tasti con numerini e letterine bianche, abbastanza piccolo da impugnarsi con la mano della quale, peraltro, sembra esser diventato una specie di prolungamento elettronico. Se la mia vi sembra una definizione troppo elementare, basta che consultiate l’inesauribile oracolo dei nostri tempi, chiamato Wikipedia, per vedervi snocciolare illustrazioni e spiegazioni molto più precise. Un utile esercizio – linguistico ma anche socio-culturale – che vi consiglio è quello di leggere articoli corrispondenti in lingue diverse dall’italiano, per apprezzarne le sottili sfumature. Nel caso del nostro telecomando, lo troviamo definito in italiano come: “dispositivo elettronico che consente d’inviare… segnali ad un dispositivo situato a distanza”. La versione inglese descrive il remote control come: “componente di un’apparecchiatura elettronica…usato per manovrare senza fili un televisore, da una breve distanza visiva”.  La formulazione francese è più ampia e parla di un: “…dispositivo, generalmente di taglia ridotta, che serve a manipolarne un altro a distanza…..e interagire con giochi, apparecchi audiovisivi…la porta di un garage…di vetture…etc.”. Quella  spagnola del mando a distancia ribadisce che si tratta di: “un dispositivo elettronico usato per realizzare un’operazione a distanza su una macchina…”. La definizione tedesca, più puntigliosa, distingue, infine, tra il Fernbedienung – “dispositivo elettronico portatile che può essere usato per operare su brevi e medie distanze (all’incirca da 6 a 20 metri)” ed il Funkfernsteuerung (ossia: radiocomando), usato per il “controllo” a distanze maggiori.

Ma non è di questo specifico apparecchio che volevo parlarvi. Le sue definizioni, comunque, ci aiutano a centrare il nucleo della sua funzionalità. Verbi come “inviare segnali”, “operare su-”, “controllare”, “manipolare”, “comandare” mi sembrano, infatti, particolarmente significativi del valore simbolico di quella scatoletta nera che usiamo tutti i giorni per inviare ordini a distanza, con un semplice click. La nostra epoca è stata spesso definita “digitale” e nella visione comune – visto che non tutti sanno che in inglese digit vuol dire “cifra” – questo termine è stato non a caso identificato con l’utilizzo delle dita per schiacciare gli svariati pulsanti e tasti dei quali, a quanto pare, non sappiamo più fare a meno… Ammettiamolo: viviamo in un’era definibile “digitale” soprattutto perché le agili dita, ed in particolare i velocissimi polpastrelli dei nostri figli e nipoti sono continuamente in esercizio, per tele-comandare i molteplici apparecchi domestici, ma anche, indirettamente, la nostra vita.  Le nuove generazioni sono ormai talmente abituate a martellare su quei tasti che sembrano convinte di avere in pugno la bacchetta magica dei nostri tempi, con la quale possono decidere cosa fare e come farlo, in base a proprie scelte, valutazioni e desideri.

Ecco che il telecomando non è solo quel che appare – cioè un dispositivo elettronico che usa i raggi infrarossi o altre tecnologie di trasmissione dati ad apparecchi e congegni più o meno distanti – ma piuttosto un segno, un oggetto simbolico, una riedizione moderna dell’ermetico caduceo, della prodigiosa wand di maghi, fate e streghe, lo scettro magico del potere sugli altri. In questo senso, la pervasiva presenza di telecomandi ed apparecchi similari (dai telefoni cellulari agli i-phone) rappresenta una nota caratteristica del nostro tempo, un marchio che caratterizza il modo di vedere le cose dei nostri ragazzi e di porsi di fronte alla realtà. Una realtà che, per loro, è sempre manipolabile, modificabile, influenzabile grazie ad un congegno, tenuto saldamente in mano. Un mondo sul quale – in base alla diffusa mentalità indotta dal meccanismo dei riflessi condizionati – sarebbe sempre possibile intervenire, condizionando situazioni ed eventi a nostro favore, per realizzare aspirazioni, impulsi o decisioni. Questo psicotico delirio di onnipotenza, che caratterizza troppi giovani e giovanissimi, finisce col renderli apparentemente sicuri di sé, ma in realtà molto insicuri e fragili, intolleranti di ogni proibizione e di qualsiasi fallimento o frustrazione che la vita non manca mai d’infliggere.

“Comandare a bacchetta” si usava dire una volta. Beh, oggi si crede di poter telecomandare il mondo con un semplice click , illudendosi che quel dito ultraveloce possa davvero manipolare la realtà. Basta auto-convincersi che sia sufficiente collegarsi con chiunque, dovunque si trovi, per provare la  straordinaria sensazione dell’onnipresenza e l’ebbrezza del potere di chi riesce a ‘manovrare’ a distanza cose e persone…  Purtroppo – o, forse, per fortuna…. – le cose non vanno esattamente così e questo non può che procurare traumi psicologici ed ammaccature fisiche a chi  fosse convinto di disporre d’una bacchetta magica universale e di non avere alcun tipo di limiti. Alle nuove generazioni abbiamo, colpevolmente, lasciato credere che il telecomando della loro esistenza fosse in loro pugno, mentre avremmo dovuto fargli acquisire il senso del limite e, al tempo stesso, aiutarli ad avere abbastanza fiducia in se stessi per affrontare, consapevolmente, avversità e sfide della vita quotidiana.  Non abbiamo certo fatto il loro bene, a mio avviso, e soprattutto li abbiamo esposti ad una serie di prevedibili scacchi, col rischio di mandare in frantumi le loro false sicurezze e di creare sbandati e frustrati, che si credono “perdenti” solo perché non riescono a far girare il mondo esattamente come vorrebbero.

Credo però che siamo ancora in tempo per cercare di ovviare ai nostri sbagli. Sia da genitori sia da educatori, quindi, cerchiamo di limitare le conseguenze deleterie di questo irragionevole modo di pensare ed agire, aiutando i nostri ragazzi a guardare in faccia la realtà e ad affrontarla con la loro testa, non con le loro dita. Anche l’intelligenza è una forma di prontezza, che non richiede polpastrelli ultrarapidi bensì esercitate capacità di ascoltare, parlare, leggere e scrivere. Ci vogliono anche capacità logiche ed espressive, abilità tecniche e competenze complesse, ma soprattutto strumenti di analisi e di risoluzione dei problemi, anche con molte incognite, come quelli che ci presenta ogni giorno la nostra esistenza, qui e ora. I telecomandi ,ovviamente, continuiamo pure ad usarli, ma solo come raffinati ed utili strumenti tecnologici e non come prolungamenti magici delle nostre mani e del nostro pensiero che, se ben coltivato, è più potente di migliaia di computer ed altri aggeggi elettronici.

 © 2012 Ermete Ferraro