“Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra.” (Isaia, 2:4)
Torrenti di fango e fiumi di denaro
Il drammatico disastro ambientale registrato a Casamicciola d’Ischia, oltre che ampiamente ‘annunciato’ e prevedibile, è purtroppo l’ennesima prova di una sciagurata visione della spesa pubblica, che assurdamente privilegia ciò che distrugge gli ecosistemi rispetto a ciò che dovrebbe invece proteggerli, sanarli e promuoverli.
Non sono affermazioni ‘ideologiche’ ma semplice constatazione d’un allarmante quanto innegabile dato di fatto. Al netto delle reiterate e sacrosante proteste degli ambientalisti per il saccheggio del territorio, le speculazioni edilizie incrementate dai soliti condoni e l’assenza di una vera pianificazione urbanistica, è evidente che le priorità dei governi succedutisi in questi ultimi decenni non hanno premiato coi giusti investimenti la prevenzione ed il risanamento del territorio, bensì accresciuto ulteriormente l’impatto antropico sugli ecosistemi, mascherandolo da incentivi allo sviluppo economico.
«Le risorse finanziarie stanziate dallo Stato per la spesa primaria per la protezione dell’ambiente e l’uso e gestione delle risorse naturali secondo il Disegno di legge di Bilancio ammontano a circa 6 miliardi di euro nel 2021 (cfr. Tavola 1 in Appendice), pari allo 0,9% della spesa primaria complessiva del bilancio dello Stato. Le stesse registrano una flessione nel 2022 e nel 2023 (0,8% della spesa primaria complessiva del bilancio dello Stato).» [i]
Secondo la stessa fonte, negli anni 2022 e 2023 tale spesa ambientale continua ad essere finalizzata in primo luogo alla “protezione e risanamento del suolo, delle acque del sottosuolo e di superficie” e alla “ricerca e sviluppo per la protezione dell’ambiente”, rispettivamente in misura del 38,0% e del 37,1%. Però si deduce dai dati che per questi due inderogabili impegni di uno stato civile l’Italia investe poco più di 4 miliardi e mezzo, a fronte di un impegno finanziario per la difesa armata quasi 7 volte superiore. Anche in questo caso non si tratta di illazioni personali, ma di dati ufficiali.
«Le spese finali del Ministero della difesa autorizzate dalla legge di bilancio per il 2022 sono pari a 25.956,1 milioni di euro, in termini di competenza, e rappresentano circa il 3 per cento delle spese finali del bilancio dello Stato […] Le spese autorizzate dalle varie leggi di bilancio dal 2016 in poi registrano un trend in crescita in termini assoluti, con un picco nel 2022, anno in cui le spese finali del Ministero della Difesa si avvicinano ai 26 miliardi di euro» [ii].
A scriverlo nero su bianco era l’Ufficio Studi della Camera dei Deputati, che peraltro pubblicava una tabella da cui si evinceva inoltre che la spesa per la ‘Difesa’ passerà da una percentuale sul bilancio generale del 3,3% nel 2022 al 3,4 previsto per il 2024. Si precisava inoltre che tali spese sono state incrementate nel corrente anno per quanto concerne quelle in conto capitale (22,3%), rispetto a quelle ‘correnti’ [iii]. Va precisato poi che la ‘struttura di previsione della Difesa’ è stata articolata su tre ‘missioni’, fra le quali quella denominata ‘Difesa e sicurezza del territorio’ assorbe addirittura il 93% del totale previsto (oltre 24 milioni). Da notare che di questa ingente massa di risorse la gran parte è stata destinata all’Arma dei Carabinieri, che da sola si è aggiudicata il 28,1% degli stanziamenti, a fronte del 9,3 della Marina o dell11,9 dell’Aeronautica.
’Missionari’ con elmetto e mimetica…
Ma se ai dati precedenti si aggiungono un miliardo e 397 milioni di euro – stanziati per il 2022 sul bilancio del Ministero dell’Economia e Finanze (MISE) – per le ‘missioni internazionali’[iv]si arriva già ad un totale di 27miliardi e 353,6 milioni. Però lo stesso documento ricorda infine che a carico dello stesso MISE vanno attribuiti altri stanziamenti di competenza della Difesa, ed in particolare 4 capitoli che, riferendosi al programma 5 “Promozione e attuazione di politiche di sviluppo, competitività e innovazione di responsabilità sociale di impresa e movimento cooperativo”, finanziano in effetti l’ammodernamento della flotta navale ed alcuni programmi per il settore aeronautico militare (Eurofighter, Tornado, elicotteri ecc.) e per l’esercito (elicotteri, blindo Centauro ecc.).
«Il contributo complessivo di questi capitoli per il 2022– tutti relativi a spese di investimento – supera i 3 miliardi di euro, e si tratta di un importo rilevante, considerato che il totale delle spese in conto capitale del Ministero della Difesa assomma a 5,8 miliardi di euro. Si segnala, in merito, che una parte dei principali programmi di approvvigionamento dei sistemi d’arma gestiti dalla Difesa grava sullo stato di previsione del MISE, che gestisce i contributi destinati alle imprese nazionali coinvolte in questi programmi» [v].
Basta fare due conti e siamo già arrivati ad una spesa militare complessiva che supera i 30 miliardi di euro (pari a 82 milioni al giorno). Perfino una fonte molto vicina al mondo dei militari, pur limitandosi alle cifre ufficiali spettanti al Min. Dif., ha riconosciuto senza problemi che: “per ciò che riguarda il Bilancio del Ministero della Difesa nel suo complesso, la dotazione finanziaria per il 2022 è pari a 25.956,1 milioni di euro; con un aumento 1.372,9 milioni rispetto ai 24.583,2 dello scorso anno. Praticamente, tutte le voci che la compongono risultano in crescita […] Non si ricorda nulla del genere nella storia recente…»[vi].
Per un progetto ecopacifista
Ebbene, pur volendo tralasciare il discorso di fondo dei movimenti pacifisti e antimilitaristi sulla necessità di arrestare questo fiume di denaro speso per alimentare il complesso militare-industriale e le guerre che produce, riconvertendolo per finalità civili e sociali e per il risanamento ambientale come proposto ad esempio dalla Campagna nazionale ‘Sbilanciamoci’ [vii], credo che qualche considerazione generale vada comunque fatta, se non altro da semplici cittadini italiani prima ancora che da attivisti nonviolenti.
Alimentare il vorace sistema militare italiano con una spesa totale di 30 miliardi di euro vuol dire spendere oltre 82 milioni al giorno per una ‘difesa’ esclusivamente armata e militarizzata, impermeabile alle normative e largamente aperta ad interventi di dubbia costituzionalità in ambito NATO e fuori del territorio nazionale.
Ad esempio, gli stessi 80 milioni (non per un giorno ma per l’intero anno) sono stati stanziati agli enti del terzo settore – per fronteggiare l’emergenza Covid 19. [viii]
Meno ancora di quegli 80 milioni (precisamente 77,468) sono stati previsti nel bilancio preventivo del Comune di Napoli – in tutto il 2023 – per il comparto denominato ‘Istruzione e diritto allo studio’ [ix].
Tenendo conto che il costo medio della costruzione di un ospedale oscilla tra 200 e 600 milioni di euro [x] , per realizzarli occorrerebbero quindi da 3 a 8 giorni di spesa per la ‘difesa’.
Considerando che uno dei preziosi escavatori che abbiamo visto impegnati per fronteggiare l’emergenza alluvionale di Casamicciola può costare circa 20.000 euro, è facile dedurre che con il costo di un solo blindato ‘Lince’ (quasi 1, 2 milioni di euro) se ne potrebbero acquistare ben 60, indubbiamente molto più utili e funzionali.
Non voglio insistere su questo raffronto perché credo sia già chiaro che il tragico dissesto idrogeologico e gli altri gravi problemi ambientali del nostro Paese non hanno bisogno di dichiarazioni ipocrite né di opportunistiche proposte di collaborazione da parte delle strutture militari, ma di scelte chiare per una loro urgente riconversione. Non è infatti la protezione civile a dover fruire di mezzi e risorse umane della Difesa, bensì quest’ultima a dare spazio ad una componente civile, popolare e disarmata.
«Il sistema militare rappresenta in sé una minaccia all’ambiente anche quando non è ‘operativo’. È infatti evidente che il suo enorme impatto sulle risorse energetiche, sulle condizioni dell’aria dell’acqua e del suolo, sulla sicurezza e sulla salute delle comunità locali, che di fatto va a occupare, sottraendosi ad ogni controllo e al rispetto dei vincoli normativi vigenti» [xi].
Lo scrivevamo lo scorso anno noi del M.I.R., tratteggiando il nostro progetto ecopacifista, lo riconfermiamo tanto più oggi. Lo facciamo non solo di fronte all’intollerabile devastazione ambientale provocata dalla/e guerra/e ma, nel piccolo, anche al disastro che ha colpito ancora l’isola d’Ischia, risultato dello sfruttamento irresponsabile delle sue eccezionali risorse ambientali ma anche della responsabilità di chi continua a spendere denaro pubblico per un sistema di distruzione e di morte, sottraendo peraltro denaro indispensabile per proteggere e promuovere la vita, umana e naturale e per evitare la catastrofe ecologica.
Non è stato facile, ma alla fine ci siamo riusciti. Ho finalmente davanti agli occhi il testo del protocollo d’intesa Comune-Esercito approvato dalla Giunta Comunale di Giuglianoin Campania -NA (D.G. n. 183 dell’8/11/2021), sottoscritto in pompa magna, pochi giorni dopo, dal Sindaco dott. Pirozzi e dal gen. Tota, Comandante delle Forze Operative Sud dell’Esercito Italiano. Di questa curiosa intesa tra un’amministrazione comunale e un’istituzione militare per fare educazione ambientale nelle scuole mi ero già occupato in un precedente articolo[i], sottolineando l‘assurdità (e pretestuosità) dell’iniziativa, attivata in una Città già ampiamente militarizzata, in quanto ‘ospita’ da un decennio il Comando NATO di Lago Patria per Sud Europa e Africa. I media locali avevano riportato ampiamente quella notizia, riferendo inoltre che in un Circolo didattico giuglianese già il 3 dicembre l’Esercito aveva già ‘incontrato’ trionfalmente i bambini nel corso d’un evento ispirato al suddetto protocollo[ii].
Restava però la curiosità di leggere che cosa fosse effettivamente scritto in quel documento, che stranamente non risultava allegato alla delibera che lo approvava. Consultare un documento ufficiale, si sa, non è come leggere un testo narrativo o descrittivo. Nel caso specifico, inoltre, era prevedibile che il burocratese della pubblica amministrazione, unito alla ridondanza retorica dei militari, rendesse quel testo poco scorrevole e non del tutto chiaro. In effetti, sia la delibera di giunta sia il testo del protocollo partivano da premesse generali e difficilmente contestabili (ad esempio, la volontà di “contrastare l’abbandono dei rifiuti e favorire una corretta e consapevole gestione dei rifiuti” oppure di attivare il “piano d’azione per il contrasto dei roghi dei rifiuti”), ma per motivare un’anomala intesa tra un’istituzione civica ed una militare su un terreno diverso: “un rapporto di collaborazione per la…formazione sul problema della gestione dei rifiuti”.
In un saggio precedente[iii] ho spiegato perché l’analisi critica del discorso e l’indagine sulle ‘storie’ che linguisticamente modellano la nostra realtà in senso anti-ecologico rendono l’ecolinguistica uno strumento utile per approfondire l’aspetto comunicativo del progetto ecopacifista di cui il Movimento Internazionale della Riconciliazione si è fatto promotore col suo recente libro La colomba e il ramoscello[iv].
Uno dei principali teorici dell’approccio ecolinguistico spiega che le narrazioni della realtà sono spesso viziate da elementi deformanti, come ideologie, inquadramenti, metafore, valutazioni implicite, identità, convinzioni, cancellazioni ed evidenziazioni[v]. Si tratta di espedienti comunicativi che l’analisi critica dei discorsi ci aiuta a demistificare.
Anche in questo caso mi sembra che si tratti di una ‘storia’ che merita un’analisi ecolinguistica, poiché il degrado ambientale di un territorio come la c.d. ‘Terra dei fuochi’ e lo smaltimento errato e/o abusivo dei rifiuti sono diventati il pretesto per un’operazione piuttosto ambigua, che finisce col confermare il ruolo ‘civile’ delle forze armate e la loro funzione di ‘presidio’ a tutela dell’ambiente.
È probabile che i cittadini/ed i dirigenti e docenti degli istituti scolastici di quel territorio (avvelenato per decenni dagli sversamenti illegali delle ecomafie e dalla micidiale pratica dei roghi tossici) non abbiano letto il testo integrale del protocollo. D’altra parte, anche gli articoli prodotti nel merito si saranno attenuti al comunicato che è stato diramato dal COMFOPSUD dell’Esercito[vi], sorvolando disinvoltamente su alcuni aspetti sui quali penso invece che sarebbe stato interessante soffermarsi.
È esattamente ciò che provo a fare con questo mio contributo
Incongruenze e contraddizioni comunicative
Inizio appunto analizzando un brano centrale di quel comunicato stampa.
«Lo scopo del Protocollo è educare i ragazzi, attraverso la formazione degli insegnanti negli Istituti scolastici, sul tema della gestione dei rifiuti, con particolare riferimento alla raccolta e al loro conferimento. Tale progetto si inserisce nelle attività collaterali svolte dall’Esercito nell’ambito dell’Operazione “Terra dei Fuochi”, con l’obiettivo di sensibilizzare le giovani generazioni alla prevenzione dei reati ambientali. La testimonianza diretta del personale dell’Esercito, impegnato quotidianamente nella “Terra dei Fuochi” per garantire un ambiente più sicuro e salubre per la popolazione, fornirà un importante contributo educativo per arginare il fenomeno».
Salta agli occhi la contraddizione tra il ruolo inizialmente indiretto dei militari nell’educazione degli alunni (attraverso la formazione degli insegnanti) e la successiva previsione di un loro intervento attivo nelle scuole (che affiora dall’uso del verbo “sensibilizzare” e dall’espressione “testimonianza diretta”).
La seconda incongruenza nasce dall’intenzionale sovrapposizione di finalità diverse, in quanto la formazione alla corretta raccolta differenziata ed il conferimento ordinario dei rifiuti non c’entra con la sensibilizzazione dei minori alla prevenzione di veri e propri reati ambientali (sversamenti abusivi e pericolosi, roghi tossici…). Dal comunicato del COMFOPSUD, quindi, emerge una immagine piuttosto opaca delle finalità di questa insolita ‘intesa’.
Più avanti il gen. Tota dichiarava: «…è fondamentale sviluppare la consapevolezza sulla gestione dei rifiuti nei giovani, del rispetto dell’ambiente in cui vivono, perché […] attraverso corretti comportamenti, potranno contribuire a ridurre e risolvere il problema”». Ma il progetto nato da questa inedita ‘collaborazione’ ha la pretesa di coinvolgere le scuole su un terreno che non dipende solo da “corretti comportamenti”, in quanto accrescere nei giovani la “consapevolezza sulla gestione dei rifiuti” non basta a “ridurre e risolvere il problema”, che ha tutt’altre cause e responsabilità.
Ma veniamo alle affermazioni della controparte ‘civile’ dell’istituzione militare, a partire dalla delibera della Giunta Comunale di Giugliano. Anche in questo caso appare evidente il tentativo di razionalizzare a posteriori una decisione assunta altrove. Nell’atto amministrativo, ad esempio, tre pagine di sovrabbondanti “premesse” e “considerazioni” servono a giustificare poco più di tre righe della parte deliberativa. Nella relazione istruttoria, ricordando che si tratta della famigerata ‘Terra dei fuochi’, si afferma l’intento dell’A.C. di «fronteggiare e contrastare l’abbandono dei rifiuti e favorire una corretta e consapevole gestione dei rifiuti», ma anche quello di svolgere «attività d’informazione e formazione…mirate sia all’educazione ambientale degli allievi, sia alla formazione degli insegnanti». Citando la fonte militare, si ribadisce che:
«l’Esercito Italiano…concorre al presidio del territorio del Comune di Giugliano in Campania, per prevenire e contrastare i reati ambientali, al fine di garantire un ambiente più sicuro e salubre per la popolazione». Si dichiara poi che Comune ed Esercito hanno manifestato la «volontà di avviare un rapporto di collaborazione tramite l’attivazione di un tavolo tecnico, finalizzato a promuovere un progetto condiviso di educazione ambientale».
Ma cosa c’entra il ruolo di monitoraggio e repressione dei reati ambientali con l’educazione ambientale dei bambini delle scuole elementari? Se quella formativa è una ‘attività collaterale’ dell’Esercito, perché in questo protocollo diventa così centrale
Sicurezza e salute: un binomio sospetto…
Fonte: Anteprima 24
Le forze armate ci tengono ad accreditarsi come istituzione democratica, ‘civile’ ed attenta alle esigenze del territorio e dei suoi abitanti. Tale narrazione fa parte dell’operazione di trasformismo mimetico dei militari [vii]e cerca di renderne l’immagine più accettabile e rassicurante, dando una spennellata di ‘verde’ alla mission del sistema militare, che viceversa ha una pesante impronta ecologica sull’ambiente.
La comunicazione che sostituisce la retorica bellicista con quella ambientalista tende ad accostare sicurezza e salute, come se la seconda dipendesse dalla prima e se la ‘sicurezza’ fosse quella che si garantisce con un controllo poliziesco e/o militare del territorio e delle comunità che vi abitano. Il fatto è che in questa parola si sovrappongono due concetti ben distinti nella lingua inglese: security e safety.
«La ‘security’ si riferisce alla protezione di individui, organizzazioni e proprietà contro le minacce esterne che possono causare danni […] generalmente focalizzata sull’assicurare che fattori esterni non causino problemi o situazioni sgradite all’organizzazione, agli individui e alle proprietà […] D’altra parte, la ‘safety’ è la sensazione di essere protetti dai fattori che causano danni» [viii].
Nelle ‘politiche securitarie’ ci si riferisce al primo dei due vocaboli inglesi, che sottolinea l’aspetto del controllo e della repressione anziché quello della prevenzione dei danni alla salute o all’ambiente. Ma nella delibera citata i due piani si confondono, mescolando aspetti preventivi (sensibilizzazione degli adulti e educazione ambientale dei minori) con quelli repressivi (‘presidio’ del territorio e ‘contrasto’ degli ecoreati). Un terzo aspetto – la ‘gestione’ in sé della raccolta e smaltimento dei RSU – ricade nelle specifiche responsabilità dell’amministrazione comunale e non ha niente a che fare con l’esercito.
Ma anche nel testo dello stesso Protocollo d’intesa[ix] si ha l’impressione che ci si arrampichi sugli specchi per legittimare una collaborazione abbastanza opinabile. Nelle due pagine e mezza di premesse si citano normative europee, nazionali e regionali e perfino il Codice Militare e le relative disposizioni regolamentari. Si afferma di voler «favorire l’assunzione di un ruolo attivo per la salvaguardia del territorio da parte dei cittadini» e di considerare gli insegnanti «canale preferenziale per trasferire la sensibilità ambientale ai ragazzi sul tema dell’educazione alla gestione dei rifiuti». Non manca naturalmente anche l’elogio dell’Esercito «che quotidianamente è alle prese con le problematiche connesse all’abbandono incontrollato dei rifiuti».
Questa pletorica e retorica premessa dovrebbe introdurre all’esplicitazione delle finalità del protocollo e delle azioni concrete che con esso si intende avviare, che viceversa restano assai vaghe (“problema della gestione dei rifiuti”, “necessità sempre più impellenti d’impegnarsi a fondo nelle operazioni di conferimento e nella raccolta differenziata”). Tant’è che all’art. 2 del documento hanno sentito il bisogno di aggiungere questa frase: «L’idea generale è quella di porre l’attenzione su alcuni punti del territorio con rifiuti abbandonati e quindi richiamare l’attenzione su comportamenti dei singoli che troppo spesso vengono fatti ricadere sulla P.A. che non gestisce il territorio».
Dal brusco cambio di registro espressivo – che da burocratico diventa quasi discorsivo – sembra trasparire una excusatio non petita più che un’effettiva precisazione su ambiti e limiti dell’intesa del Comune con l’Esercito. Non prendetevela con l’Amministrazione – si lascia intendere – poiché non si tratta di carenze istituzionali ma di comportamenti incivili ed irresponsabilità di singoli soggetti…
Narrazioni pseudo-ecologiche e ‘greening’ delle forze armate
Fonte: Scisciano Notizie
La frase appena evidenziata esemplifica una narrazione sulla ‘Terra dei Fuochi’ che rischia di cancellare tante inchieste ed analisi sulle responsabilità delle ‘ecomafie’ che pur si afferma di voler combattere. Soprattutto, si finisce col minimizzare l’impatto di un modello di produzione e distribuzione di per sé antiecologico, in quanto energivoro, fondato su un consumismo sfrenato e produttore di un’ingestibile mole di rifiuti, spesso tossici per l’ambiente. Comportamenti poco responsabili o addirittura illeciti dei singoli hanno sicuramente un peso sulla tragica vicenda dell’inquinamento di quel territorio. Sarebbe però una pericolosa banalizzazione della realtà se si alimentasse solo quella ‘storia’, sorvolando sulle enormi responsabilità di chi, da decenni smaltisce illegalmente rifiuti tossici e di chi non ha saputo rispondere adeguatamente ad un’emergenza ambientale e sanitaria che si è di fatto trasformata in un ‘biocidio’.
«Ne è nata una mappa di rischio nei 38 Comuni di quel circondario dove più alta è stata l’incidenza degli sversamenti illeciti. Nei centri interessati dall’indagine, che insistono su 426 chilometri quadrati e su cui è competente la Procura di Napoli Nord, sono stati individuati 2.767 siti di smaltimento illegale. Più di un cittadino su tre – nel dettaglio il 37% dei 354mila residenti nei 38 Comuni – vive ad almeno 100 metri di distanza da uno di questi siti, esponendosi a una “elevatissima densità di sorgenti di emissioni e rilasci di composti chimici pericolosi per la salute umana”.»[x]
Per quanto riguarda l’impegno delle Parti (art. 3 del Protocollo cit.), i cinque punti a carico del COMFOPSUD sono:
«a)organizzare, presso le istituzioni scolastiche che saranno indicate dal Comune di Giugliano, attività d’informazione attraverso la testimonianza diretta di personale militare impegnato nell’Operazione ‘Terra dei Fuochi’ per sensibilizzare gli studenti sul tema delle buone pratiche ambientali […]illustrare l’azione svolta dall’Esercito per il contrasto e il contenimento del fenomeno dei roghi e dello sversamento illecito dei rifiuti […] b)concorrere, mediante seminari di approfondimento, a formare gli insegnanti sulle attività educative relative alla gestione dei rifiuti…».
I tre punti successivi (c – d – e) si riferiscono ad attività collaterali dell’Esercito (compresa la ‘promozione’ del progetto attraverso i propri canali di comunicazione istituzionale).
Ebbene, leggendo il brano citato emerge ancora una volta l’ambigua sovrapposizione di due ruoli formativi ben diversi – uno diretto e l’altro indiretto – che sarebbero dovuti rimanere distinti. Da un lato, infatti, si prevede un discutibile intervento dei militari dentro le scuole, qualificato come ‘testimonianza’ ma sostanzialmente un’auto-promozione. Dall’altro si parla di ruolo nella formazione degli insegnanti, ma attraverso un soggetto terzo: tre docenti dell’Università di…Padova.
In questa Intesa il ruolo del Comune di Giugliano appare piuttosto scialbo e meramente burocratico. Si tratta d’individuare i plessi scolastici dove svolgere le attività progettuali; di promuovere la partecipazione del personale scolastico coinvolto; di diffondere tali “opportunità educative e didattiche” e le finalità del Protocollo a livello locale e, ovviamente, di partecipare al Tavolo inter-istituzionale. Compiti prevalentemente amministrativi, dai quali traspare che il progetto per il quale si è sottoscritta un’intesa con l’Esercito è calato dall’alto più che rispondente alle reali esigenze manifestate dal mondo della scuola.
Considerazioni e valutazioni ecopacifiste
Fonte: Report Difesa
Come si vede, l’analisi critica di un testo – pur poco appassionante come un protocollo d’intesa… – può comunque servire a chiarire il ‘discorso’ cui tale iniziativa sembrerebbe funzionale. Mentre l’amministrazione comunale prova ad arroccarsi in una posizione difensiva di ‘autotutela’ (come se il suo compito istituzionale fosse il semplice coordinamento dell’intervento altrui), dal documento emerge per contro il ruolo proattivo dell’Esercito, che propone una narrazione accattivante di sé, come soggetto imprescindibile nella tutela della sicurezza ambientale, in entrambi le accezioni del termine.
L’analisi critica del discorso, finalizzata ad una lettura in chiave ecolinguistica di questo specifico caso in esame, ne mette in evidenza alcuni aspetti che rischiano di essere trascurati se ci si ferma al fatto in sé. Provo quindi a sintetizzare – utilizzando le categorie tipiche dell’analisi ecolinguistica – quanto è emerso finora dall’analisi dei documenti relativi ad un’intesa apparentemente banale tra il Comune di Giugliano ed il Comando Sud dell’Esercito Italiano.
IDEOLOGIA: credo che questa operazione faccia parte d’una complessiva strategia (espressione non casuale…) che afferma la centralità dell’intervento degli organi preposti al compito di ristabilire l’ordine di far rispettare le leggi. Ma poiché in una società democratica la prevenzione e l’educazione dovrebbero prevalere sulle azioni di natura repressiva, ecco che ad occuparsi dell’aspetto formativo si propongono quegli stessi organi – giudiziari e militari – votati al presidio in armi e al law enforcement. L’idea di fondo cui s’ispirano è che l’autorevolezza dell’intervento – anche quello preventivo – sarebbe garantita solo da un soggetto in divisa, con una veste ‘ufficiale’, abilitato a passare se necessario anche alla fase due, quella repressiva.
INQUADRAMENTI: Stibbe chiama framings le narrazioni che utilizzano un ‘pacchetto di conoscenze’ relative ad un certo ambito della nostra vita per strutturare ed ‘inquadrarne’ un altro. Nel caso in esame, al tradizionale framing delle forze armate come istituzione garante della sicurezza (security) da nemici e pericoli esterno, viene sovrapposta strumentalmente la loro pretesa funzione ‘civile’ di garanti anche della sicurezza (safety) dei cittadini, nonché della salubrità del loro ambiente di vita.
METAFORE: nel comunicato stampa, nella delibera e nel protocollo d’intesa non compaiono vere e proprie metafore, trattandosi di documenti scritti con un codice politico-amministrativo e non certo narrativo. Ciò nonostante, si coglie la ricorrente immagine retorica dei militari come ‘testimoni’ diretti, impegnati quotidianamente nell’azione, e perciò stesso considerati formatori credibili e affidabili.
VALUTAZIONI: sono quasi sempre presentate in forma implicita, ma pesano molto sul discorso. Nel nostro caso, dai testi affiorano inespressi elementi valutativi riferibili sia alla popolazione locale, sia agli operatori della scuola. I cittadini, infatti, andrebbero ‘sensibilizzati’ alla corretta raccolta e smaltimento dei rifiuti, lasciando intendere che la loro sensibilità in materia sia piuttosto limitata. Nei confronti dei giovani, in particolare, si afferma che bisogna svilupparne la ‘consapevolezza’, dando quindi per scontato che essa non sarebbe ancora sufficiente. Nei riguardi degli insegnanti, infine, si sostiene la necessità della loro ‘formazione’, sottintendendo che il loro impegno nell’educazione ambientale non sarebbe abbastanza rilevante, ragion per cui necessiterebbe di ulteriori stimoli e di un ‘tutoraggio’ esterno.
IDENTITÀ: dalla cooperazione tra Comune ed Esercito ipotizzata dal Protocollo d’intesa, come si è visto, emerge piuttosto sbiadita l’immagine identitaria del primo come garante istituzionale della salute e dell’igiene della comunità amministrata, laddove invece risulta sottolineata l’identità ‘civica’ e ‘verde’ del secondo, cui si riconosce di fatto un ruolo centrale anche nella difesa della sanità pubblica, peraltro già ampiamente esaltata dall’emergenza pandemica.
CONVINZIONI: nell’analisi ecolinguistica si tratta di convincimenti radicati, che strutturano ‘storie’ secondo le quali “una particolare descrizione del mondo è vera, incerta oppure falsa”[xi]. Essi sono generalmente impliciti, come quello secondo il quale chi è impegnato in prima persona in azioni rischiose come quelle militari lo fa solo per spirito di servizio alla collettività, per cui va ascoltato e rispettato. Un secondo convincimento insidioso, ma purtroppo diffuso, è che la responsabilità dei danni ambientali vada ascritta allo scarso civismo di tante persone, in secondo luogo alle intenzioni criminali di alcuni delinquenti e, solo per ultimo, ad un modello economico dato come imprescindibile, che si basa sullo sfruttamento delle risorse ambientali ma di cui si preferisce condannare solo la negatività degli ‘eccessi’.
CANCELLAZIONI: le ‘storie’ che ci vengono propinate da chi detiene il potere e condiziona pesantemente la comunicazione pubblica sono viziate anche dalla tendenza ad espungere strumentalmente alcuni aspetti ‘scomodi’. Nel caso del complesso militare-industriale, ad esempio, si sottace che è uno dei maggiori inquinatori a livello globale e che la sua impronta ecologica – in guerra come in pace – è semplicemente disastrosa. Però il fatto che uno dei principali autori della devastazione ambientale si presenti come garante della salute e dell’integrità ambientale sarebbe inaccettabile, per cui si preferisce ‘cancellare’ quelle storie di distruzione ed inquinamento, per contro esaltando retoricamente l’improbabile ruolo ‘ambientalista’ dei militari.
EVIDENZIAZIONI: sono l’altra faccia della medaglia. L’insistenza dei documenti citati su verbi come ‘formare’, ‘prevenire’, ‘sensibilizzare’ e ‘testimoniare’ fa da ovvio contraltare al colpevole silenzio su aspetti assai meno edificanti della presenza delle forze armate, come la crescente militarizzazione del territorio, l’elusione dei controlli sul rispetto delle norme ambientali ed il pesante inquinamento dell’aria, del suolo, dei mari e perfino dell’etere. Per non parlare della sottrazione di risorse utilizzabili per finalità collettive e della pretesa di sostituirsi (o comunque sovrapporsi) ad istituzioni civili in funzioni di natura non militare.
Concludendo, va precisato che la vicenda illustrata in questo mio contributo non è certo un caso isolato né una storia più assurda e paradossale di altre, caratterizzate dalla progressiva invasione militare di terreni una volta solo ‘civili’, col risultato di una strisciante militarizzazione della società e della cultura. L’intervento sempre più frequente di esponenti delle forze armate dentro le istituzioni – come pure la tendenza di molte autorità scolastiche ad autorizzare ‘visite didattiche’ egli allievi/e a basi militari, caserme ed impianti comunque di natura bellica – è uno degli aspetti più riprovevoli di questa pesante impronta militare.
La Campagna Nazionale ‘Scuole Smilitarizzate’[xii] – rilanciata nel 2020 dal Movimento Internazionale della Riconciliazione e da Pax Christi Italia – si propone appunto di denunciare e contrastare l’invadenza delle realtà militari. Ma senza la collaborazione attiva del mondo della scuola ciò sarà molto difficile. Ecco perché partire dall’analisi linguistica e dalla comunicazione può essere un importante stimolo in tal senso.
Ecco perché partire dall’analisi linguistica e dalla comunicazione può essere un importante stimolo in talsenso, contrapponendo al suo interno programmi di educazione alla pace e veri percorsi di educazione ecologica.
Uno dei passi fondamentali della
Bibbia – quello da cui sembra derivare indirettamente la tremenda catena di
violenza e sopraffazione che ha caratterizzato l’Umanità dai tempi più antichi
– è il racconto dell’uccisione di Abele da parte di suo fratello Caino.
Nell’Antico Testamento, infatti, si fa risalire il primo omicidio alla furiosa vendetta
del primogenito di Adamo ed Eva, “lavoratore
della terra”, geloso nei confronti del secondogenito, “pastore di greggi”, i cui doni sarebbero stati graditi da Dio,
contrariamente a quelli dell’agricoltore Qàyin.
Il fratricidio – di cui questi nel
brano mostrava di non essersi affatto pentito – porterà sì alla maledizione
divina nei confronti di Caino, condannato a vagare “ramingo e fuggiasco”, ma anche all’affermazione solenne che
nessuno avrebbe però avuto il diritto di ucciderlo, allungando la catena della
vendetta e delle morti violente.
Ovviamente questo testo biblico [i] va letto ed interpretato
come metafora di qualcos’altro rispetto ad una semplice, sebbene drammatica,
rivalità tra i primi fratelli della storia, così come anche l’apparentemente
immotivata predilezione del Signore per l’allevatore nomade Hèvel nonandrebbe certo presa alla lettera, ma esegeticamente compresa [ii].
Ebbene, vorrei utilizzare questo
nodale episodio della narrazione veterotestamentaria per risalire alle radici
antropologicamente più remote del nesso inscindibile fra uccisione dell’altro
ed inquinamento-distruzione della terra, ossia fra omicidio e biocidio.
« [9] Allora il Signore disse a Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?». Egli rispose: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?». [10] Riprese: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! [11] Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. [12] Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra». [13] Disse Caino al Signore: «Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono? [14] Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere. [15] Ma il Signore gli disse: «Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!». Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato». [iii]
A prescindere dalle ovvie interpretazioni
storico-antropologiche sul conflitto fra le originarie civiltà nomadi e
pastorali e quelle, più evolute, agricolo-stanziali, ciò che più colpisce di
questo racconto biblico è il rapporto di causa-effetto tra l’avvenuta
soppressione della vita d’un fratello e la ‘maledizione’ del suolo sul quale ne
è stato sparso il sangue innocente.
«Si osservi come nel racconto il rapporto con il fratello sia considerato perno del rapporto con
Dio e con il suolo…Tutta la civiltà porta il peso della colpa di Caino: la città (4,17), la vita pastorale (20), la musica (21) e la metallurgia (22). Non significa che tutto sia opera di violenza. Ma l’ombra della violenza si stende su tutta l’opera della civilizzazione umana. L’idea di civilizzazione e di progresso portano con sé una ambiguità di fondo che le connota talvolta come attività guidate dal pretto desiderio (del mangiare, o del sopraffare)». [iv]
Il seme velenoso della violenza,
insomma, avrebbe da allora inquinato e compromesso non solo le relazioni
interpersonali ma anche il rapporto tra la discendenza di Adàm e la Terra da cui è stato generato (in ebr.: ‘adamàh).
Ecco perché bisogna ribadire che tra
la guerra, madre di tutte le violenze, e lo sfruttamento predatorio ed iniquo
delle risorse del nostro Pianeta sussiste un legame antico e profondo, che
richiede una visione più ampia e complessiva di ciò che dovremmo fare per uscire
dalla quell’atavica ‘maledizione’ (ebr.: ‘arar)
e per ristabilire la compromessa pace tra uomo e natura.
«Uno dei punti qualificanti, più volte ribadito da Papa Francesco nella sua enciclica “ Laudato sì’ ”, è proprio il concetto di interconnessione fra le varie sfere riguardanti i comportamenti umani, e quindi tra la violenza sulla natura e quella sull’uomo. “La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi.” [5]. Egli ci parla quindi dell’“intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta”, esprimendo “la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso [6]…» [v]
Combattere la guerra. Fermare il
biocidio.
Mai come in questi giorni avvertiamo
quanto il richiamo al più elementare buon senso possa venire dai più piccoli.
Negli anni ’80 fu la decenne Samantha Smith a denunciare la minaccia della
guerra atomica; poi c’è stato il grande discorso all’ONU della tredicenne
Malala Yousafzai in difesa dei diritti umani ed ora a far discutere ed a
smuovere gli animi è l’accorato appello della quindicenne svedese Greta
Thumberg, che ci esorta a mobilitarci contro i cambiamenti climatici.
Di fronte ad un’umanità sempre più
irresponsabile e figlia di Caino – e
che, sul suo esempio, si ostina irresponsabilmente ed arrogantemente a
ribattere: “Non sono mica il custode di
mio fratello!” (Gen 4:9) – le voci di queste ragazze si sono alzate con una forza e
un’incidenza impressionante, richiamandoci al dovere di ‘custodire’ la terra che ci è stata affidata e di proteggere i
fratelli dalla violenza di chi pensa di esserne il padrone incontrastato, non
esitando sia a mettere in pericolo la vita stessa, sia a calpestare senza
scrupoli i diritti di quelli che ha la pretesa di dominare.
Mai come in questi giorni, d’altra
parte, si avverte anche quanto sia stato – e sia ancora – del tutto insufficiente
limitarsi ad una generica protesta o a un impegno parziale (solo pacifista o
solo ecologista), non riuscendo a cogliere l’intima connessione tra la violenza
bellica, perpetuata dal complesso militare-industriale, e quella che coinvolge
gli equilibri ambientali, mietendo sempre più vittime e compromettendo il
futuro stesso del genere umano.
Ecco perché è indispensabile che
finalmente si realizzi la saldatura tra ecologismo e pacifismo, chiamando a
raccolta tutte le forze che si oppongono non solo alla devastazione del Pianeta
ma anche alla persistente logica di sfruttamento delle sue risorse ambientali
ed umane. Eppure c’è ancora chi pensa che si possa perseguire la liberazione
delle persone dal bisogno e dall’ingiustizia dal sistema capitalista senza
invertire radicalmente il paradigma economico ed ecologico che giustifica ed
esalta quel tipo di ‘sviluppo’. Allo
stesso modo, c’è anche chi s’illude di contrastare (o, peggio ancora, di
‘mitigare’) le drammatiche conseguenze ambientali di una visione predatoria e
accentratrice delle risorse della Terra senza mettere in discussione il
‘sistema’ che garantisce politicamente – e difende militarmente – quel modello
economico, a costo di farci ripiombare nell’incubo di una guerra da cui nessuno
potrebbe uscire vincitore.
La semplicità sconcertante con cui
ragazze come Samantha, Malala ed ora Greta hanno affrontato a muso duro i
grandi della terra e condannato la loro follia omicida ci stimola dunque a
prendere coscienza di quanto poco noi adulti abbiamo fatto finora per
salvaguardare il diritto dei nostri figli ad avere un futuro meno oscuro e
minaccioso. Non tutto è compromesso, anche se siamo decisamente arrivati
sull’orlo del baratro, ma è giunto il momento di riprendere in mano quel pezzo
di potere che ci consente, insieme, di essere ‘custodi’ dei nostri fratelli e
della nostra madre Terra.
Il termine ‘biocidio’ – dal nostro osservatorio di meridionali – ci riporta
alla mente le lotte della gente comune (madri, contadini, pastori, imprenditori
responsabili…) contro l’inquinamento del suolò, dell’acqua e dell’aria causato
dal micidiale connubio tra speculazione, sfruttamento e criminalità
organizzata, non a caso realizzato proprio nei territori socialmente fragili, oggetto
da secoli di occupazione manu militari
e di espropriazione della sovranità della gente locale.
Nei vocabolari della lingua italiana
il termine ‘biocidio’ è banalmente
spiegato come “strage di animali”[vi], ma ovviamente si tratta
di molto più e di ben altro rispetto ad un semplice inquinamento ambientale da
sostanze chimiche e biologiche ‘sterilizzanti’, che dovrebbero svolgere
un’azione tossica solo nei confronti di microrganismi dannosi. [vii]
Ad essere stati minacciati, infatti, non sono stati funghi o batteri nocivi, bensì la sicurezza e la salute degli esseri umani, compromesse da un inquinamento massiccio di terre una volta fertili a causa dello smaltimento criminale di enormi quantità di veleni generati dal nostro assurdo modello di sviluppo. In questo senso, proprio come “distruzione della vita” il lemma ‘biocide’ lo troviamo ad esempio tra i significati riportati dall’Oxford Living Dictionary[viii]. Ancor più esplicita è la spiegazione offerta da un altro sito inglese, nel quale si trova scritto che:
«Biocidio può anche riferirsi alla distruzione della vita, una specie di ‘omnicidio’ che colpisce ogni realtà vivente, non solo gli esseri umani; chi si augura che ogni cosa nel mondo intero o universo rischi l’estinzione è definito ‘biocida’, o persona portatrice di ideologie ‘biocide’». [ix]
Ma quale biocidio è più disastroso di
una guerra, soprattutto se è condotta utilizzando armi chimiche, batteriologiche
o nucleari? Che senso ha, allora, condannare severamente come criminali
irresponsabili coloro che inquinano e devastano i nostri territori ma non fare
lo stesso con chi – uccidendo per mestiere e progettando strumenti bellici
sempre più letali – incarna lo spirito di Caino e ne riversa la ‘maledizione’
su tutta la Terra?
Mobilitarsi contro il cambiamento climatico,
ma per cambiare modello di sviluppo
«La lotta per la giustizia ambientale e climatica sta diventando uno strumento di ricomposizione per molte delle vertenze che caratterizzano il nostro paese: dalle grandi opere alla devastazione dei territori; dai presidi in difesa della sanità pubblica alle lotte per un welfare universale che non crei più la falsa dicotomia tra diritto alla salute e diritto al lavoro; fino ai movimenti contro la guerra, intesa come regolamento di conti all’interno delle élites dominanti e strumento di predazione di risorse…». [x]
Questo corposo e significativo periodo
apre il manifesto lanciato dalle organizzazioni che hanno convocato
un’assemblea nazionale a Napoli, in preparazione del corteo che si terrà a Roma
il prossimo 23 marzo. Non posso fare a meno di condividere questa impostazione,
sperando che si riesca finalmente a collegare in una rete virtuosa ed attiva
tutti i soggetti che si oppongono agli scempi ambientali ma anche ai ricatti
occupazionali ed alla minaccia di chi usa la guerra per assicurare il proprio
controllo su risorse viste come mero oggetto di sfruttamento.
E’ pur vero, d’altra parte, che
sussiste il rischio di portare avanti un’opposizione fondata sui doverosi NO a
devastazione speculazione e violenza, senza però offrire una chiara alternativa
a quel sistema di cui un po’ tutti ormai facciamo parte e che, anche
inconsapevolmente, contribuiamo quotidianamente a mantenere in piedi.
«…al controllo sulla vita imposto ai lavoratori e alle lavoratrici, schiacciati dal nostro sistema produttivo, si affianca la messa a morte delle comunità confinate ai margini della produzione. L’altra faccia del controllo biopolitico sul lavoro è la necropolitica del capitalismo armato a Sud. Diciamolo meglio: il capitalismo è il virus che oggi infetta le nostre comunità; il biocidio è la malattia che si contrae a contatto con quel virus; è lo sviluppo patologico del capitalismo laddove esso sia in diretta contraddizione con la vita; il cambiamento climatico è il più trasversale dei sintomi di questa malattia».[xi]
Sono affermazioni altrettanto sottoscrivibili,
in quanto individuano la causa prima delle politiche biocide nel modello capitalista di produzione e di consumo. Anche
in questo caso, però, bisogna stare attenti a non oggettivare troppo la radice
di tutti i mali, equiparandola ad un ‘virus’
che produce di per sé conseguenze patologiche, così come la Bibbia faceva con
il fratricidio di Caino, considerato sorgente di ogni futura violenza e
sopraffazione.
Il cambiamento climatico – si diceva –
è solo il ‘sintomo’ più evidente, preoccupante e trasversale di una ‘malattia’
che ha ridotto l’uomo e la natura a merce e che ha sottoposto ogni relazione –
da quelle interpersonali a quelle internazionali – alla logica del profitto e
del dominio. Contrastare questo fenomeno, allora, è sicuramente prioritario –
così come lo è lottare contro la preoccupante escalation degli armamenti nucleari – ma non sufficiente. Bisogna
proporre una vera alternativa, che contrapponga lo sviluppo umano alla crescita, invertendo il paradigma
antropocentrico e predatorio e mettendo in primo piano il rispetto degli
equilibri ecologici. Ed è proprio alle leggi della natura – come la
biodiversità e la simbiosi – che l’umanità dovrebbe ispirarsi, per stabilire un
modello di società attento alla reciprocità, alla solidarietà ed alla
valorizzazione delle diversità.
«Non può esserci progresso e crescita culturale e sociale, economica e produttiva che non abbia al centro l’ecologia […] e contestualmente non è pensabile una tutela della natura, della biodiversità , della storia, della cultura e dei suoi valori che non sia strettamente legata alla realizzazione di un mondo di equa distribuzione delle risorse, di pace, di solidarietà…». [xii]
Rifondare la società su principi e
valori alternativi è sicuramente molto più impegnativo che cercare di arginare
o contrastare i cambiamenti climatici. Ma senza affrontare alla radice il
modello di produzione e consumo e quello di approvvigionamento e distribuzione
dell’energia non andremo molto lontano.
Ecopacifismo ed antimilitarismo per opporsi
alla violenza istituzionalizzata
Nella nostra cultura politica questi
due termini hanno una diffusione molto limitata e troppo spesso vengono
interpretati in maniera poco corretta. Oltre un secolo di mobilitazioni contro
la tragedia della guerra, a quanto pare, non è bastato a far superare, da un
lato, il concetto del tutto insufficiente di ‘pace negativa’ (nel senso di mera
assenza di conflitti armati) e, dall’altro, l’interpretazione del rifiuto del
sistema militare come rivendicazione di un diritto civile o affermazione di un’obiezione esclusivamente etica.
Non parliamo poi del termine ‘ecopacifismo’ che, nel migliore dei casi, è considerato semplice sommatoria d’un impegno in campo ambientale col perseguimento di obiettivi di pace e disarmo. Nel citato documento troviamo scritto che:
«Sono i governi… a decidere le priorità d’investimento nel paese, ma possiamo essere noi a cambiare la scala gerarchica dettata dalle grandi lobby, facendo rete, lottando e resistendo dal basso» [xiii]
E’ un’affermazione condivisibile ma, a
mio avviso, ogni resistenza dal basso
alle gerarchie imposte da chi comanda deve necessariamente tener conto che gli
equilibri (o meglio, gli squilibri…)
economici e sociali a livello globale sono assicurati proprio da un complesso
militare-industriale che li difende. Allo stesso modo, non si dovrebbero
sottovalutare i danni ambientali e sociali della militarizzazione del
territorio e, soprattutto, deve essere chiaro che le guerre – in particolare
quelle condotte tecnologicamente – sono di per sé una minaccia continua alla
sicurezza, alla salute ed alla stessa sopravvivenza d’intere popolazioni.
Già otto anni fa, a proposito
dell’esigenza di saldare le lotte ambientaliste con quelle pacifiste, avevo
scritto:
«Non ha quindi senso…perseguire un’astratta eco-sostenibilità dell’economia, se essa continua ad essere assoggettata alla logica d’un capitalismo globalizzato e pervasivo, che ricorre sempre più spesso alla strategia bellica quando l’aggressione ‘pacifica’ e neocolonialista del mercato non basta più. Allo stesso modo, mi sembra evidente che non basta manifestare contro guerre ed invasioni armate se non ci si sa opporre anche ad un modello di sviluppo predatorio, nemico della natura e dei suoi equilibri almeno quanto lo è della giustizia e della pace. Sarebbe una vera follia pensare che – come sottolinea uno studioso catalano – ci si possa opporre ad un’aggressione militare o a dittature pensando che ciò non abbia a che fare con la battaglia per modelli più sostenibili di energia oppure con un’agricoltura non più dominata dalle monoculture e dall’accentramento delle risorse alimentari del nostro pianeta».[xiv]
La “triade” ambiente/sviluppo/attività militari – di cui aveva parlato il peace researcher Johan Galtung già negli
anni ’80 [xv]– avrebbe richiesto una
strategia unitaria, sì da contrapporre al modello violento di economia e società
uno sviluppo equo, ecocompatibile e nonviolento. In quel mio saggio, poi,
ricordavo interessanti impostazioni ed esperienze del movimento verde ed alcune
proposte di “ecologia sociale”, diffuse nei decenni scorsi in ambito europeo ed
anche italiano.
«Ecologismo sociale e pacifismo hanno (o dovrebbero avere) molti elementi in comune: la difesa della coerenza fra mezzi e fini; la pace come via per la sostenibilità; l’antibellicismo e l’antimilitarismo; il ricorso all’azione diretta nonviolenta e alla disobbedienza civile; il perseguimento della giustizia sociale, la difesa della democrazia partecipativa...» [xvi]
Un approfondimento sul concetto di
‘ecopacifismo’, oltre che nel saggio citato, ho cercato di farlo in un
successivo ‘Manuale’, pubblicato nel 2014 come referente nazionale di V.A.S. ,
cui rinvio. [xvii]
Ciò che vorrei sottolineare, però, è che
occorre accrescere e diffondere la consapevolezza dello stretto legame fra la devastazione
ambientale, dovuta ad un sistema economico ingiusto e non sostenibile, e la
minaccia costituita non solo dai conflitti bellici in atto e dalla criminale
corsa agli armamenti atomici, chimici e batteriologici, ma anche dalla crescente
militarizzazione del territorio, che impone un modello autoritario e violento, espropria
la sovranità delle comunità locali e ne mette a repentaglio la salute e la
sicurezza.
Ecco perché ritengo che il pacifismo
ecologico non possa fare a meno della componente antimilitarista, che si oppone
fermamente alla struttura militare in quanto gerarchica, nemica della
democrazia ed asservita agli interessi dominanti, come ribadisce il filosofo
Fernando Savater.
«L’antimilitarismo è una forma di intervento politico che pretende di farla finita con l’attuale predominio del militare sul civile, come primo passo di una mutazione essenziale dello Stato contemporaneo e di una radicalizzazione efficace della democrazia. I suoi obiettivi immediati comprendono movimenti nonviolenti di pressione sociale – anche se non sempre legali – contro la corsa agli armamenti, la politica dei blocchi militari, la proliferazione delle armi atomiche, le intenzioni di espansione bellica e, in generale, qualsiasi crescita del potere e della influenza delle istituzioni militari della vita pubblica […] In ultima analisi, considerato che il sistema militare appoggia e si appoggia, sostiene ed è sostenuto dalla disuguaglianza economica, dallo sfruttamento del lavoro dei più da parte dei meno, etc. … l’antimilitarismo si confronta anche con l’incistamento cronico dell’ingiustizia sociale». [xviii]
L’assemblea nazionale di Napoli del 3
marzo e la grande manifestazione a Roma del successivo 23 possono essere un
primo passo per cominciare ad operare questa indispensabile sintesi politica
tra le tante lotte contro speculazioni e saccheggio dei singoli territori ed
una complessiva proposta di alternativa ecologica, economica e sociale
all’attuale modello di sviluppo.
Può essere anche, ce lo auguriamo,
un’occasione per cominciare ad operare una saldatura tra movimenti contro le
devastazioni ambientali ed il biocidio e quelli che si battono contro la guerra
e la militarizzazione del territorio, in un’ottica ecopacifista ed
antimilitarista.
[xii] Antonio D’Acunto, “Rifondare l’Utopia”
(2014), in Alla ricerca di un nuovo
umanesimo – Armonia tra uomo e natura nella lotta politica, Napoli, la
Città del Sole, 2016, pp. 269
[xiii] ”Per la giustizia climatica e ambientale”, cit.
La Repubblica italiana è l’unico stato con un ‘generale a cinque stelle’. Normalmente, infatti, i gradi degli ufficiali superiori delle forze armate si fermano alle quattro stellette, che accompagnano la classica ‘greca’. Però il generale dei carabinieri Sergio Costa – già comandante per la Campania del Corpo Forestale dello Stato – sembra fare eccezione, visto che le ‘cinque stelle’ egli non le porta più cucite sulle mostrine o le controspalline, ma direttamente sul cuore. Non è un caso, infatti, che il nome di Costa come membro del Governo sia stato subito anticipato dal ‘capo politico’ del M5S, pronostico regolarmente confermato dalla sua nomina a Ministro dell’Ambiente del neo-esecutivo pentastellato-leghista, presieduto dal premier Giuseppe Conte. Ebbene, come scrivevo già nel precedente articolo sul mio blog [i], questa è la sola scelta che mi lascia soddisfatto nel contesto della compagine governativa cosiddetta giallo-verde, probabilmente perché si tratta dell’unico segnale di svolta ambientalista all’interno di un assai poco confortante quadro politico di stampo reazionario. Non ripeto qui le mie perplessità – per adoperare un eufemismo – su un esecutivo che sta innegabilmente virando a destra, in senso populista ma soprattutto seguendo una deleteria visione securitaria, nazionalista e xenofoba, strizzando un occhio alla Russia putiniana e l’altro alla ‘America First’ trumpiana.
Per quanto molti, anche fra amici e compagni, intessano lodi o manifestino speranzose aperture nei confronti di tale ‘governo del cambiamento’, io non posso farci niente: lo strano ‘presepio’, messo insieme in modo raffazzonato dal duo Salvidimaio, proprio “nun me piace”. Lo so, qualcuno obietterà, proprio come faceva Luca Cupiello: «Come si può dire: ‘Non mi piace’, se quello non è finito ancora? ». [ii] Prendendo in prestito le battute di Nennillo, rispondo: «Ma pure quando è finito non mi piace […] Ma guarda un poco, quello non mi piace, mi deve piacere per forza?» [iii] Ciò premesso, devo ammettere che, pur in questo spiacevole scenario, la ‘statuina’ di Sergio Costa mi convince, dal momento che egli porta al Ministero dell’Ambiente sia la sua qualificazione di laureato in Agraria, con un master in Diritto dell’Ambiente, sia la sua profonda competenza in materia d’investigazioni ambientali, che lo hanno portato a svolgere un ruolo centrale nella tragica vicenda della ‘terra dei fuochi’, facendolo giungere meritoriamente ai vertici della Forestale e poi dei Carabinieri per l’Ambiente [iv]. Personalmente, ho avuto il piacere di conoscerlo e di apprezzarne la professionalità, la dirittura morale e la disponibilità ad approfondire segnalazioni e denunce. Credo quindi che si possa accogliere con soddisfazione la sua scelta come responsabile di un Dicastero dove dovrebbe imprimere una netta svolta, dopo anni d’incuria che hanno fatto degenerare vecchi problemi ambientali e spuntare nuove aggressioni all’integrità del nostro territorio. Eppure…
Five Stars General ?
Eppure questo stimabile ‘generale a 5 stelle’ non potrà prevedibilmente capovolgere – almeno da solo – la logica deleteria che ha subordinato finora i diritti dell’ambiente agli interessi economici, leciti ed illeciti, che lo hanno di fatto devastato. Sfruttare le sue indubbie capacità di contrasto degli abusi e degli ecoreati è cosa buona e giusta, ma non basta. Scoprire e denunciare con decisione comportamenti fuori legge in tali ambiti è solo il primo passo, ma rischia di farci dimenticare che l’intero modello di sviluppo da noi caparbiamente perseguito è di fatto incompatibile con il rispetto degli equilibri ecologici, con la salvaguardia della biodiversità e con la pur auspicata inversione di tendenza in ambito energetico. Non ho alcun dubbio che questo esperto investigatore ambientale nel suo nuovo incarico saprà dare – come ha dichiarato – la priorità al controllo delle discariche, all’inquinamento atmosferico, alla tante ‘emergenze’ ed agli abusi di ogni genere che stanno distruggendo le meraviglie del nostro Paese. Dove forse si sbaglia è quando dichiara: « L’ambiente è una cosa seria, centrale, e appartiene a tutti. Non c’è maggioranza o opposizione nella salvaguardia delle nostre terre». [v]E non certamente perché io non condivido la prima parte del ragionamento, ma perché non sono affatto convinto che sulla salvaguardia dell’ambiente siano tutti, naturalmente, concordi. La verità è che chi continua a perseguire dichiaratamente la ‘crescita’ e l’assurdo miraggio di uno sviluppo illimitato non sa che farsene della ‘salvaguardia delle nostre terre’. Chi sta irresponsabilmente formando intere generazioni a comportamenti consumistici ed energivori è di fatto un nemico dell’ambiente. Chi antepone la legge del profitto e della speculazione a quella del bene comune non è, e non sarà mai, un alleato di chi al contrario vuole impedire che le nostre terre (e la Terra più in generale) si trasformino in una discarica, che non riuscirà mai a smaltire ciò che la società dello spreco e del rifiuto produce ogni santo giorno.
Ovviamente faccio i migliori auguri di buon lavoro a Sergio Costa, un illustre Napoletano ed un grintoso ambientalista piazzato in prima linea dal governo penta-leghista, dal quale sono certo che riceveremo presto segnali positivi. Però, lo ripeto, questo non può bastare. Delle ‘cinque stelle’ da cui prende nome il Movimento che lo ha fortemente voluto all’Ambiente – come ho già osservato nel mio precedente commento – temo che alcune possano già essere definite ‘cadenti’. Se si pensa che esse si riferivano originariamente ad: acqua, ambiente, trasporti, sviluppo ed energia [vi], è impossibile non notare quanto quella formazione politica si sia già discostata da quella ‘carta degli intenti’ di soli nove anni fa [vii] . Le priorità del Movimento attuale, di lotta e di governo, si direbbero ben altre, visto che alle questioni ambientali il ‘Contratto’ sottoscritto dal duo Di Maio-Salvini è dedicato solo un capitoletto, peraltro di tono astrattamente dichiarativo più che concretamente programmatico. Certo, si parla ancora di: ‘buone pratiche’, ‘economia circolare’, ‘azioni contro lo spreco’, ‘rischio idrogeologico’, ‘processi di sviluppo economico sostenibili’, ‘produzione da fonti rinnovabili’ e via lodevolmente enunciando. [viii] Da quelle tre paginette e mezza, però, non emergono impegni precisi, obiettivi chiari anche se limitati, scelte prioritarie, quelle cioè che ci si aspettava da un documento che si autodefiniva, appunto, come un ‘contratto’.
« Potrebbe sembrare un bel libro dei sogni, se dietro quest’elenco non si giocasse il futuro del Paese in tema di progresso sostenibile, tutela della salute dei cittadini e sopravvivenza delle future generazioni. E comunque, al di là del contratto, l’azione politica non potrà prescindere dalla “Strategia Nazionale sullo Sviluppo Sostenibile”, il documento di riferimento degli impegni italiani sottoscritto nei consessi internazionali, dal quale partire per implementare le politiche ambientali. Politiche che saranno improntate, certamente, ad un sano pragmatismo che al neo Ministro gli viene dall’esperienza maturata in questi anni sul campo…»[ix]
Ecco, appunto: un “bel libro dei sogni”. Eppure nelle rimanenti 54 pagine del ‘Contratto’ si prospettano in genere soluzioni, azioni e risposte più nette, anche se spesso appartenenti all’armamentario ideologico della destra reazionaria più che ad una forza progressista. E poi: quale “sano pragmatismo” ci aspettiamo dal nuovo ministro? Quello di chi è consapevole che il mondo non si cambia in un giorno, oppure quello che ha connotato la parola sostenibilità nel senso ambiguo dell’ambientalismo ‘che ci possiamo permettere’, senza turbare troppo gli equilibri economici e le compatibilità finanziarie nazionali ed internazionali?
Sono certo che, nel caso di Costa, il pragmatismo del politico non tradirà i convincimenti ambientalisti della persona. Sta di fatto, comunque, che egli si trova a far parte di un esecutivo che esprime ben altre scelte e priorità, a cominciare da quella – martellante – delle politiche di respingimento dei migranti e di tutela degli ‘interessi nazionali’. Beh, se una cosa avrebbe dovuto insegnarci l’esperienza ultratrentennale dei Verdi – intesi come soggetto politico nato per superare l’ambientalismo settoriale e per configurare un progetto globale ed alternativo di società e di sviluppo – era proprio che un vero ecologismo non può mai essere ridotto a scelte auspicabili, ma comunque settoriali. Essere ‘verdi’ – secondo i ‘quattro pilastri’ del movimento a livello internazionale – dovrebbe risultare dall’integrazione di dimensioni strettamente correlate fra loro: “Saggezza ecologica, Giustizia sociale, Democrazia dal basso e Nonviolenza” [x]. Ebbene, questo governo, assai impropriamente definito dai media “giallo-verde”, non può farci credere che una svolta ambientalista si possa reggere solo su uno di questi pilastri, buttando giù gli altri tre. Siamo di fronte infatti ad uno dei governi più destrorsi di sempre, che continua a cavalcare il populismo più becero, fiutando l’aria di una più generale svolta autoritaria, nazionalista e militarista sia a livello europeo, sia sul piano globale. E’ vero che, per citare l’amara canzone di Gaber, ormai non distinguiamo più “cos’è la destra e cos’è la sinistra” [xi], però non ci si può chiedere di ingoiare i bocconi amari di politiche poliziesche e muscolari in nome della lotta alle ecomafie. Non si può pensare di farci chiudere gli occhi sulla cancellazione di ogni principio di progressività fiscale, di rifiuto dell’invasività ambientale delle grandi opere o di tutela dei diritti fondamentali sol perché ci si promette, un po’ vagamente, di sostenere le energie alternative.
«Generale, queste cinque stelle, / queste cinque lacrime sulla mia pelle / che senso hanno dentro al rumore di questo treno, / che è mezzo vuoto e mezzo pieno /e va veloce verso il ritorno…» [xii] Così cantava Francesco de Gregori giusto 40 anni fa. Ebbene, faccio i miei auguri e saluto cordialmente il ‘generale a 5 stelle’ Sergio Costa (anche se, da antimilitarista, eviterò di mettermi sugli attenti…), ma non posso fare a meno di chiedermi anch’io “che senso hanno [quelle cinque stelle] dentro al rumore di questo treno” sul quale è salito. Un treno che sembra andare “veloce verso il ritorno” ad un’Italia nazionalista, poliziesca e militarista, piena di paure e diffidenze, che speravamo di esserci lasciati alle spalle.
Oggi, 2 giugno 2018, uno dei primi atti ufficiali e pubblici degli esponenti del nuovo governo giallo-nero all’indomani del suo insediamento è certamente la partecipazione alla tradizionale parata militare per la Festa della Repubblica. E’ vero: sono decenni che i pacifisti protestano contro questa retorica e costosa esibizione militarista, ricordando che oggi si festeggia, appunto, la nascita della nostra Repubblica (democratica, fondata sul lavoro e che ripudia la guerra) e non di certo le Forze Armate che ne rappresenterebbero semmai solo l’aspetto ‘difensivo’ e che, fra l’altro, la loro ‘festa’ già l’hanno celebrata sette mesi fa. Niente. Nessuno ha mai ascoltato questo accorato appello del movimento per la Pace, un po’ perché la retorica da parata evidentemente un po’ ci aggrada (il ventennio fascista qualche traccia, anche simbolica, l’ha lasciata…), un po’ perché la voce della frammentata realtà antimilitarista e nonviolenta del nostro Paese è talmente flebile che, forse, noi stessi ci meraviglieremmo se qualcuno ci stesse davvero a sentire…
Quest’anno, poi, la solita ‘parata’ romana del 2 giugno sembra assumere un significato particolare, sia in considerazione del fatto che la figura del Presidente della Repubblica, dopo il travagliato parto governativo, è emersa con maggiore rilievo e peso, sia perché l’immagine del nuovo Esecutivo a trazione pentastellato-leghista appare oggettivamente caratterizzata dal ritorno del nazionalismo e delle sue parole d‘ordine. Non dimentichiamo, poi, che tra le Autorità nella tribuna d’onore della Parata ci sarà anche la nuova ministra della Difesa, la prof.ssa Elisabetta Trenta, esperta di sicurezza e di ‘intelligence’. Come si fa a non notare che il c.d. ‘governo del cambiamento’ – che alla componente femminile ha finora riservato solo cinque posti – ha sostituito l’ex ministra Pinotti (laureata in lettere ed ex educatrice dell’AGESCI) sì con un’altra donna, però molto più ‘qualificata’ in campo militare?
« Nel suo cv si segnala l’incarico di vicedirettore del master in Intelligence e sicurezza dell’Università Link Campus di Roma. L’esponente 5 Stelle è stata “ricercatrice in materia di sicurezza e difesa presso il Centro Militare di Studi Strategici”. E per nove mesi, su incarico del Ministero degli Affari Esteri, “è stata Political Advisor dei Comandanti della Itjtf in Iraq. Ha rivestito anche il ruolo di esperta in governance nell’Unità di assistenza alla Ricostruzione di Thi Qar”. Dal 1998 – si legge sempre nella sua scheda – Trenta “è stata responsabile di molti progetti di sviluppo e assistenza alla governance sia in Italia che all’estero, dove ha coordinato interventi come quello per l’assistenza ai City Council della provincia di Thi Qar (Iraq) o quello per il rafforzamento delle competenze del Ministero dell’Interno in Libano”. E’ stata inoltre “Country Advisor per la Missione Leonte in ambito Unifil in Libano nel 2009 e ha partecipato ad attività militari e civili, in Italia e all’estero, su incarico del Ministero della Difesa”.[i]
Non c’è che dire: un eccellente curriculum. Peccato che abbia a che fare più con le competenze militari che con quelle di natura sociale, civile ed ambientale che dovrebbero caratterizzare un’organizzazione politica di base, fondata nel 2009 sulle cinque priorità: “acqua, ambiente, trasporti, sviluppo ed energia” [ii]. Ebbene, confesso che la metamorfosi da Movimento 5 Stelle a Movimento 5 Stellette mi preoccupa non poco. Piazzare alla Difesa una docente specializzata in “intelligence and security” non mi sembra una svolta nel ministero chiave per una riconversione civile della spesa militare. Mandare al Palazzo Baracchini di via XX Settembre una ricercatrice del Centro Militare di Studi Strategici, impegnata peraltro in varie ‘missioni’ in Libano ed in Iraq, non appare per niente un segnale di discontinuità con la nostra tradizionale politica di subalternità ai ‘comandi supremi’ USA e NATO, bensì la conferma dei finanziamenti alle nostre spedizioni militari in giro per mondo, fra le quali alcune risalgono addirittura al 1948 (Palestina), al 1978 (Libano), 1979 (Egitto-Sinai), al 1999 (Kosovo) ed al 2005 (Cipro). Queste sono solo le ‘neverending missions’ per conto dell’ONU, ma non bisogna dimenticare quelle tuttora in corso di natura diversa, , come: Libano (dal 2006) ed Afghanistan (dal 2015). [iii] Ebbene sì: siamo un paese di santi, poeti e navigatori ma sicuramente anche di ‘missionari’, non più con l’abito bianco e la croce ma con la mimetica e l’elmetto. Basta leggere un esauriente articolo di qualche mese fa – con relative infografiche – per comprendere che il nostro impegno militare all’estero era (e a quanto pare è) destinato a crescere, con gli annessi oneri finanziari e con conseguenze politiche facilmente immaginabili.
«Come confermato dal ministro della Difesa Roberta Pinotti in un’intervista a Repubblica l’obiettivo per il 2018 è di rafforzare l’impegno nel continente. Il 15 gennaio il ministro, parlando alle commissioni riunite Difesa ed Esteri di Senato e Camera ha presentato il progetto del governo spiegando che si è deciso di “rimodulare l’impegno nelle aree di crisi geograficamente più vicine e che hanno impatti più immediati rispetto ai nostri interessi strategici” e in questo senso il Sahel, ha aggiunto, rappresenta “una regione di preminente valore strategico per l’Italia”. E infatti a ben vedere nel futuro dell’Italia non c’è solo il Niger. Ma ben altri sette Paesi, alcuni dei quali sono partner di lunga data come Libia, Egitto, Gibuti e Somalia, mentre altri sono vere e proprie new entry: Sahara occidentale, Tunisia, Repubblica centrafricana e Niger appunto.» [iv]
Solo per le prossime spedizioni è prevista una spesa aggiuntiva di quasi 83 milioni di euro, ma non c’è da dubitare che la nuova ministra – forse per onorare il suo cognome – ritenga anche lei che si debba proseguire su tale strada, visto che “Abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno”, come si suol dire, citando senza saperlo un’arguta espressione di Pio X, riferita alla sua nomina di nuovi cardinali. [v] Eppure è proprio questo il nodo: se ormai i cinquestelle hanno “fatto Trenta” non sembra proprio il caso di insistere in questa direzione, soprattutto se, sull’altra faccia della medaglia della militarizzazione della società e del territorio, ci ritroviamo la faccia barbuta di Matteo Salvini, leader della Lega Nord, come Ministro degli Interni.
Niente da eccepire, per carità. Che un leader politico che si è sempre riempito la bocca di parole come ‘sicurezza’, strizzando l’occhio alle ‘forze dell’ordine’ ed auspicando che abbiano finalmente mano libera, approdasse al Viminale era ovvio, perfino scontato. Ciò che preoccupa chi non segue gli stessi parametri securitari, militaristi ed autoritari della destra, modello ‘law and order’ , è però che le priorità del nuovo responsabile degli Interni sono fin troppo chiare: chiusura dei campi rom, espulsione degli immigrati irregolari e blocco dei flussi, rimpatrio degli occupanti di case abusivi e, naturalmente, aumento per le forze di Polizia. [vi] Non dimentichiamo poi che nel Contratto di Governo, sottoscritto dalla strana coppia giallo-nera e che adesso il premier Conte dovrà attuare – oltre alle previsioni di nuove dotazioni per le forze dell’ordine, (fra cui quelle pistole ‘taser’ denunciate da Amnesty come a rischio di violazione dei diritti umani [vii]) – c’è anche un paragrafo nel quale si conferma il principio della legittimità comunque dell’autodifesa del proprio domicilio, da sempre invocata dalle destre, sullo spicciativo modello ‘fai-da-te’ dei soliti pistoleri americani:
«In considerazione del principio dell’inviolabilità della proprietà privata, si prevede la riforma ed estensione della legittima difesa domiciliare, eliminando gli elementi di incertezza interpretativa (con riferimento in particolare alla valutazione della proporzionalità tra difesa e offesa) che pregiudicano la piena tutela della persona che ha subito un’intrusione nella propria abitazione e nel proprio luogo di lavoro.» [viii]
Con poche parole, a quanto pare, si stanno per cancellare secoli di garanzie di rispetto dei diritti umani civili e sociali, avviando rapidamente la nostra Italia verso un’ulteriore militarizzazione della società ed una visione poliziesca della sicurezza. Ma tutto questo, ci ha assicurato il capo politico M5S, “non è né di destra né di sinistra”, e noi non possiamo fare a meno di credergli, mutuando la celebre espressione dell’Antonio scespiriano: “…perché Di Maio è uomo d’onore”. [ix] Abbiamo, del resto, un Parlamento pieno di questi nuovi “onorevoli” – pentastellati e leghisti – e non possiamo non credere a priori alla loro voglia di ‘cambiamento’, anche se ci deve concedere di nutrire qualche dubbio sul senso in cui esso sta dirigendosi…
Certo, qualcuno potrebbe chiedersi anche come mai un governo definito “giallo-verde” ed il cui co-leader Di Maio è capo d’un movimento che ispirava a materie ‘ecologiche’ ben 4 delle sue 5 stelle, abbia invece speso poco più di tre paginette sulle cinquantotto del famoso ‘Contratto per il governo del cambiamento’. Il suo capitolo 4, infatti, ha un titolo molto promettente (“Ambiente, green economy e rifluti zero”), ma – a parte le premesse iniziali di sapore ecologista e qualche precisazione un po’ didascalica sul concetto di ‘risorsa rinnovabile’ e di ‘economia circolare’ – gli impegni veri e propri sono abbastanza circoscritti. Riguardano in particolare; a) la riduzione e raccolta differenziata dei rifiuti, con una loro gestione ‘a filiera corta’; b) un programma di mappatura e bonifica dei siti a rischio amianto; c) la manutenzione ordinaria e straordinaria del suolo, come prevenzione dei disastri idro-geologici e riduzione dei rischi sismici; d) la lotta allo spreco di suolo e l’impegno per la ‘rigenerazione urbana’; e) il contrasto al cambiamento climatico mediante interventi che spingano sul risparmio energetico e le fonti rinnovabili; f) provvedimenti specifici, infine, sono individuati per zone a rischio ambientale come la pianura Padana (?!), le aree metropolitane e l’ILVA di Taranto, in quest’ultimo caso senza indicare quali provvedimenti s’intenda effettivamente adottare né sciogliere il dilemma che contrappone la salvaguardia ambientale e della salute alla salvaguardia dell’occupazione ed al ventilato “sviluppo industriale del Sud”. [x]
Beh, non ci resta allora che stare a vedere cosa ci aspetta nei prossimi mesi o anni, sperando che almeno in questo settore l’inserimento nella squadra di governo di Sergio Costa – stimabile ed esperto comandante napoletano della Forestale poi promosso a generale dei Carabinieri per l’Ambiente della Campania – costituisca almeno una garanzia di serietà nella lotta alle ecomafie ed agli sporchi affari di chi gioca con la salute della collettività e l’integrità del territorio. Espresso questo apprezzamento da ambientalista, come ecopacifista consentitemi però di sottolineare la scellerata follia di chi nel 2016 decretò l’assorbimento d’un Corpo – autonomo e civile – di polizia ambientale all’interno dell’Arma dei Carabinieri, di fatto militarizzandone e burocratizzandone in modo irresponsabile le insostituibili funzioni operative di presidio del territorio. Basterà un integerrimo ufficiale come Costa promosso a Ministro per dare credibilità al piuttosto vago programma ambientale del governo Conte? Dobbiamo augurarcelo, ma non dimentichiamo che da oggi – festa della Repubblica nata dalla Resistenza – comincia un periodo in cui siamo tutti/e chiamati a vigilare sugli esiti democratici e sociali di questo ambiguo ‘ cambiamento’. Se non altro per evitare che, fatto Trenta, cerchino di fare anche trentuno…
Il quotidiano IL MATTINO ha recentemente dedicato un’intera pagina all’analisi che Antonio Menna ha fatto dell’imbarazzante flop dell’impiego delle forze armate in compiti di pattugliamento e controllo della cosiddetta Terra dei fuochi. [1] Eppure fino a pochi mesi fa gran parte dei media avevano accolto entusiasticamente – talora con un pizzico di militaresco orgoglio – la notizia di una sorta di “spedizione armata” contro le forze oscure che avvelenano con discariche abusive e roghi tossici l’ex Campania Felix. Sta di fattoche, giunti ad un primo consuntivo, essa si è rivelata una mission impossible, una battaglia persa, un grottesco buco…nel fuoco.
Già lo scorso febbraio ho pubblicato un post con stesso titolo di questo, per denunciare l’assurdità di uno stato che – non riuscendo ad impedire che centinaia di migliaia di suoi cittadini siano avvelenati ed uccisi impunemente dalla pratica di sversamenti e incendi di rifiuti, legali e illegali, in un territorio presidiato in armi dalla camorra – pensava di risolvere un problema di tale portata inviandovi qualche centinaio di soldati in assetto di guerra. Al di là della mia scarsa simpatia per qualunque operazione militare e per qualsiasi forma di militarizzazione del territorio, l’idea che cercavo di manifestare in quella nota era che si trattava comunque di un’operazione costosa ed inutile, e quindi di un piano destinato a fallire miseramente.
Orbene, il citato articolo del principale quotidiano del Mezzogiorno, a distanza di quasi cinque mesi, in effetti conferma ciò che già da allora era prevedibile. Al tempo stesso, però, si guarda bene dal prendere le distanze da una decisione governativa rivelatasi palesemente sballata e deviante, limitandosi a commentare che “non bastano esercito e leggi, i piromani sono immigrati”. Opperbacco! Ma davvero le teste d’uovo dei ministeri dell’Interno e della Difesa erano convinte che l’invio di Sturmtruppen con blindati e pattugliamenti stile Bagdad avrebbe consentito l’arresto in fragranza di reato di qualche boss locale? Dice: hanno arrestato solo polacchi, africani, armeni, rom, perfino afghani mentre appiccavano il fuoco a cataste di rifiuti. Beh, chi diavolo si aspettavano che i nostri solerti soldatini potessero beccare con le mani nei fiammiferi, se non i soliti poveracci e disperati che per quattro soldi farebbero qualsiasi cosa? Come al solito, insomma, anche questa volta “volano gli stracci”, mentre in realtà ben poco è cambiato in quella Terra dei Fuochi che indica un’area di quasi 1100 chilometri quadrati, con 57 comuni ed una popolazione di due milioni e mezzo di abitanti, a cavallo tra la provincia di Napoli e quella di Caserta.
Adesso questi dati vengono sì ricordati, ma solo per giustificare l’esito di un’operazione fallita, cui finora però quasi tutti avevano applaudito, come se non ne conoscessero la portata e le oggettive difficoltà. E, soprattutto, come se non si rendessero conto che in un Paese dove già operano ben cinque corpi nazionali di polizia giudiziaria (con l’aggiunta di quelli di polizia provinciale e municipale), l’ultima cosa da fare sarebbe stata proprio impiegare per tali funzioni le Forze Armate, ovviamente da coordinare con tutte le altre sotto il comando congiunto di Questure, Prefetture e del 2° Comando Forze di Difesa, con sede a S. Giorgio a Cremano (NA).
Certo, i dati snocciolati dai giornali sono significativi: in tre mesi ci sarebbero stati la bellezza di 1878 pattugliamenti (25 pattuglie al giorno, per 7 giorni su 7 e per 24 ore su 24), che hanno portato a controllare ben 7000 persone ed a fermarne 43 per sversamenti e/o roghi di rifiuti. Però ugualmente i conti non tornano. Quando l’apposito decreto fu varato si parlava di 850 militari che sarebbero stati impegnati in questa operazione, stanziando a tal fine ben 2 milioni di euro, quasi uno a testa per ogni abitante di quell’area. Ora invece ci si riferisce a solo un centinaio di soldati (appartenenti al Reggimento «Cavalleggeri Guide» di Salerno ed alla Brigata «Garibaldi», già responsabile del Raggruppamento Campania per l’operazione «Strade Sicure»), sottolineando tra le righe la sproporzione tale forza e l’enormità del territorio da presidiare. Da un articolo dello scorso aprile del“Corriere del Mezzogiorno”, però, forse si riesce a capire qualcosa di più: «I militari, appartenenti ai reparti della Brigata «Garibaldi», sono giunti in rinforzo agli oltre 540 soldati del 19 reggimento già impegnati sulle territorialità delle città di Napoli e Caserta per la lotta alla malavita e da oggi per completare il contingente a disposizione delle Prefetture contro i reati ambientali…»[2] E’ vero che 100 più 540 non fa 850, ma se non altro ci avviciniamo alla reale consistenza di questa italiota “strafexpedition”, che avrebbe dovuto reprimere e perfino prevenire la tragica catena di interramenti e roghi di rifiuti ma è riuscita solo a far arrestare pastori afghani, zingari di varie etnie, braccianti africani senza lavoro ed altri esemplari di bassa e malpagata manovalanza al servizio dei soliti noti. Essi sono solo l’ultimo anello di una catena criminale che parte da una diffusa e radicata economia parallela – ovviamente illegale e controllata da chi detta legge in ben altro modo su quel territorio – ma a quanto pare questa constatazione non aveva avuto alcun peso nella decisione di mobilitare le forze armate per fronteggiare un obiettivo sbagliato nel modo sbagliato.
E’, in fondo, ciò che spiega, nell’intervista a Il Mattino, il Com. Sergio Costa: « Ci sono più facce nella vicenda Terra dei fuochi, ci sono i rifiuti interrati, che avvelenano la terra e le falde acquifere, e ci sono i roghi, che appestano l’aria. Sono fenomeni diversi ma hanno un elemento comune, si tratta dell’economia illegale del territorio. Perché si dà fuoco ai rifiuti? Come nasce un rogo tossico? Non si tratta di teppisti o di piromani, salvo qualche raro caso. Il rogo è l’elemento finale di una catena di interessi. L’area tra Napoli e Caserta, non a caso, è nota per essere la capitale del tarocco[…]. Qui c’è una economia diffusa, sommersa, che sfugge al fisco e a qualunque norma. I rifiuti industriali di una economia illegale possono essere smaltiti legalmente? Certo che no. Allora si attiva lo smaltimento clandestino, che ha come ultimo anello l’interramento o il rogo».[3]Le osservazioni del comandante per la Campania del Corpo Forestale dello Stato non fanno una piega, ma non mi si venga a raccontare che queste cose non si sapessero benissimo anche prima! Egli stesso, fra l’altro, osserva che era prevedibile che le uniche persone colte ad appiccare fuochi sarebbero state «…le ultime ruote del carro. Gente disperata, spesso vagabonda […]Un rom, un immigrato, un barbone. Uno che non ha nulla da perdere e che,m per dieci euro, lancia un fiammifero e scappa. Ha senso scagliarsi contro l’ultimo ingranaggio e non elaborare una strategia d’insieme per attaccare il fenomeno alla radice? »[4]
Ecco, appunto: che senso può avere il fatto che, insieme con quei roghi di rifiuti, si siano bruciati anche un paio di milioni di euro per giocare a far la guerra alla malavita organizzata, col brillante risultato di arrestare solamente qualche disgraziato? Che razza di Stato è quello che ricorre a centinaia di militari in assetto di guerra – trasformando quella che una volta chiamavano Terra di Lavoro in una specie di Afghanistan nostrano – sovrapponendoli alle forze di polizia senza neppure a cavare un ragno dal buco? Forse è il caso di ricordare ancora una volta che il territorio interessato – quei circa 1200 chilometri quadrati compresi tra le province di Caserta e di Napoli – è lo stesso che nel mio precedente articolo chiamavo Campania Bellatrix: una delle zone già più militarizzate d’Europa, nel quale insistono già 8 installazioni militari non italiane (fra NATO e US Navy), in aggiunta alle 5 dell’Aeronautica Militare, alle 50 dell’Esercito Italiano, ivi compreso anche un bel porto militatizzato e nuclearizzato.[5] Quei due milioni di euro, allora, non sarebbero stati più utili per rafforzare l’attività ordinaria dei preesistenti organi di polizia giudiziaria – e soprattutto della Forestale – anziché consolidare l’immagine della Campania come una terra di frontiera?
«Chi poteva pensare che bastassero cento soldati per controllare efficacemente una zona vastissima, di proporzioni sterminate, con aree interne nascoste?Si tratta di misure insufficienti…» commenta invece sconsolato il notista de Il Mattino. Bene, bravo! Ma allora che cosa pensa che si dovrebbe fare? Inviare in loco un contingente di Alpini, come il Libano, o forse sarbbe meglio impiegare i nostri marines della Brigata San Marco? Magari li si potrebbe far sbarcare coi loro mezzi anfibi sulla spiaggia di Baia Domizia, oppure si potrebbero impiegare addirittura gli uomini del Comando Sud-Europeo della NATO di Lago Patria per un blitz interforze denominato Waste Dumping Endeavour… Ma allora perché non mobilitare anche i boy scout, i vigilantes che presidiano le banche o i gruppi paramilitari della “Serenissima” ? L’importante che vestano una divisa e soprattutto che girino armati, perché – come tutti ben sanno – l’economia illegale e la criminalità organizzata hanno notoriamente paura delle uniformi e sono debellate con i fucili…
Ma forse è meglio che mi fermi qui. C’è il rischio che qualcuno, incapace di cogliere l’ironia, mi prenda sul serio e presenti in Parlamento un nuovo decreto legge.
Ci risiamo. Ogni volta che si profila un’emergenza sulla quale l’opinione pubblica comincia a manifestare segni d’intolleranza e d’indignazione, ecco che puntuale arriva il provvedimento risolutivo di tutti i problemi: attivare le prefetture ed impiegare l’esercito.
A parte il fatto che la stragrande maggioranza delle nostre “emergenze” ambientali non sono affatto tali, ma il frutto malsano di decenni di abusi, speculazioni ed altri persistenti reati contro la nostra terra, appare comunque evidente che gran parte della nostra classe politica resta ipocritamente ancorata alla formula magica secondo la quale ordinanze prefettizie e presidi di soldati in mitra e tuta mimetica sarebbero capaci di sconfiggere illegalità diffusa ed agguerrite ecomafie.
Certo, il c.d. decreto sulla “terra dei fuochi” prevede anche un controllo sanitario gratuito per i residenti in quella zona, introduce il reato penale di ‘combustione illecita di rifiuti’ e stanzia fondi per bonificare le aree inquinate. Ma, aggiungono i fautori del decreto, c’è anche la necessità d’un “controllo di sicurezza del territorio”, lasciando intendere che l’impiego delle forze armate sia lo strumento più ovvio a tutela della legalità e stanziando a tal fine 2 milioni di euro.
Ovviamente, però, nessuno dice né scrive che quello stesso territorio è già uno dei più intensamente militarizzati a livello europeo. Come avevo già puntualizzato in un mio precedente articolo dal titolo “Campania Bellatrix”:infatti:
<<Se disegniamo una rudimentale figura, che abbia come lati: (A) Bagnoli – Licola (20 km); (B) Licola – Gricignano (35 km); (C) Gricignano – Lago Patria (35 km); (D) Lago Patria – Capodichino (30 km); (E) Capodichino – Bagnoli (15 km), il perimetro del nostro “Pentagono” campano misura 135 chilometri….ipotizzando un lato medio di 27 km (135:5) ed applicando la formula relativa, scopriamo che l’area circoscritta dal perimetro di questa occupazione militare è di circa 1.254 kmq, ossia la decima parte dell’intero territorio regionale. Eppure il fatto che ben 8 installazioni non italiane presidino ed occupino militarmente un decimo della Campania – sommandosi alle 50 dell’Esercito Italiano, alle 5 dell’Aeronautica Militare ed a ben due porti militari e nucleari – non sembra costituire un problema per la maggior parte dei suoi cittadini….>>
A protestare contro l’ennesimo provvedimento che fa finta di affidare ai militari la salvaguardia del territorio a quanto pare sono rimasti in pochi, fra cui il Movimento Cinque Stelle, che ha dichiarato fra l’altro, attraverso la senatrice Paola Nugnes: “L’impiego dell’esercito senza nessuna funzione investigativa e strutturale è solo un tamponamento, una soluzione emergenziale che i nostri territori non vogliono”. Eppure è palesemente inutile e fuorviante almeno questo aspetto del decreto – approvato a maggioranza da un Parlamento che, ogni volta che si tratta di spese militari, di missioni all’estero o d’interventi di ordine pubblico, non si sottrae mai all’ossequio nei confronti di una Difesa diventata ormai un’istituzione tuttofare, capace quindi di sostituire le forze di polizia, la protezione civile, la croce rossa e – perché no? – anche i pompieri ed i vigili urbani…
Eppure, in quest’ultimo ventennio, si direbbe che quasi nessuno si sia accorto dei frequenti traffici illeciti di rifiuti tossici; del proliferare di discariche abusive e di strani ‘laghetti’ che spuntavano un po’ ovunque; delle patologie diffuse e del palese deterioramento degli stessi terreni. Nessuno – ad eccezione di alcuni ambientalisti rompiscatole e di qualche comitato locale – sembra essersi reso conto del terribile disastro ambientale che si stava preparando. In questi lunghi anni, quindi, in tanti avevano sotto gli occhi le situazioni ma non se ne rendevano conto; guardavano, ma non vedevano.
Ma adesso tutto cambierà – ci fa sapere il Governo – perché ora ci penseranno le “stellette” degli 850 soldati inviati a guardare – ed a salvaguardare . la nostra “Campania Infelix” …
Sono le stesse “Sturmtruppen” già spedite a presidiare assurdamente discariche ed inceneritori e che troviamo ancora nelle piazze di Napoli, cui conferiscono un certo tocco mediorientale. Però chi ha redatto ed approvato il decreto sulla c.d. “Terra dei Fuochi” sembra convinto che si tratti della mossa giusta e che una delle cose di cui non si può assolutamente fare a meno, anche in questo caso, è il dispiegamento esemplare d’un bel contingente in armi…
Eppure, come spiegavo prima, proprio nel Giuglianese di militari – soprattutto ‘alleati’ – non si avvertiva affatto la mancanza. Con la realizzazione e l’apertura in località Lago Patria del nuovo Comando NATO per il Sud Europa e la regione mediterranea, infatti, era prevista la presenza in loco di 2.500 unità di personale residente e d’una quantità pari di persone orbitanti intorno a quel quartier generale, che si estende su una superficie di ben 330.000 mq, di cui 60.000 edificati. Ebbene, ad oltre un anno dall’inaugurazione del Mega-comando, l’impatto di questa nuova – ed assai particolare – comunità si è fatto sentire, sia per quanto riguarda l’incremento del traffico veicolare sia per quanto attiene produzione e smaltimento dei rifiuti solidi urbani e residui fognari.
In un mio articolo del settembre 2012 (“Far Waste”: anche la NATO produce munnézza”) , a tal proposito, mi ero soffermato sui costi del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti del quartier generale JFC Naples di Lago Patria, desunti dal bando della gara d’appalto prodotto dalla NATO, per un importo di 1.450.000 euro totali nel quinquennio. Dal confronto con l’appalto relativo all’analogo servizio svolto per il Comune di Giugliano in Campania – nel quale ricade il territorio occupato dal complesso militare alleato – emergeva una strana discrepanza di costi digestione, ovviamente a danno di quest’ultimo. E’ invece di pochi giorni fa un articolo (“Personale NATO getta rifiuti fuori orario a Lago Patria”) nel quale alcuni cittadini giuglianesi lamentavano modi di fare decisamente poco ‘urbani’ da parte di alcuni appartenenti al personale di quel Comando, stigmatizzando: “…un comportamento che lascia basiti perché messo in atto da “chi è solo ospite” nel nostro territorio che quindi, in conseguenza di ciò, dovrebbe mostrarsi massimamente rispettoso degli orari di conferimento e dei posti in cui gettare il rifiuto. Invece, come dimostrano le foto allegate, tutto ciò non avviene. Per cui non solo il comune di Giugliano deve sopportare un “quartier generale” delle forze Nato che ha una falsa ricaduta economica sul territorio, ma anche la maleducazione di chi “fa il padrone” in una terra straniera che li ospita.”
Sarebbe interessante sapere come si comporterebbero i nostri soldati inviati a presidiare nel caso in cui sorprendessero dei loro omologhi ‘alleati’ mentre stanno sversando abusivamente rifiuti lungo le strade. Li saluterebbero militarmente con deferenza oppure contesterebbero un reato ambientale?
Da parte loro, poi, gli stessi militari americani di stanza nel menzionato “pentagono della guerra” – il territorio compreso fra le installazioni militari USA e NATO di Licola, Lago Patria, Gricignano d’Aversa, Bagnoli e Capodichino – non hanno mancato di lamentarsi del degrado ambientale di questa vasta area della Campania e dell’inquinamento che ne è derivato. Era infatti dello scorso novembre 2013 l’agghiacciante copertina de l’Espresso, il cui titolo (“Bevi Napoli e poi muori”)ha fatto scandalo, risuonando come un’ulteriore gogna mediatica per una regione già martoriata da quello che è stato giustamente chiamato un “biocidio”. Il fatto è che l’approfondita ricerca svolta dalla N.S.A. (Naval Support Actrivity) della Marina statunitense risaliva al giugno 2010, e quindi a più di 3 anni fa, ma tanto è bastato perché si creassero ulteriori – quanto inutili – allarmi sulla potabilità dell’acqua e sulla salubrità dell’area in questione. L’indagine trattava 9 aree distinte – comprese tra Capodichino e Casal di Principe- nelle quali erano comprese 117 residenze di militari americani di stanza in quella zona. Gli studi scientifici ed epidemiologici risalivano a circa 3 anni fa e definivano il rischio ambientale in termini molto severi. Ma come mai tutto ciò non ha impedito affatto che nell’area già militarizzata di Lago Patria s’insediasse uno dei più grandi ed affollati centri di comando della NATO? D’altra parte, il suo personale – oltre a sentirsi sottoposto al suddetto rischio sanitario ed ambientale – difficilmente potrebbe essere considerato estraneo al problema in sé, visto l’indiscutibile impatto della nuova comunità residente su quel territorio.
Ecco perché l’idea che a presidiarlo, per scongiurare ulteriori inquinamenti e per garantire le operazioni di bonifica, siano contingenti delle forre armate italiane non mi sembra particolarmente brillante, soprattutto se inserita in un decreto che presenta altri aspetti deboli e contraddittori. In tal modo la disgraziata “terra dei fuochi” rischia di diventare ancor più la terra delle armi da fuoco e delle aree sottratte al già controllo delle autorità civili, a loro volta assediate da ben altre ‘forze armate’. Ma si sa, queste sono solo le fisime dei soliti pacifisti…
Pirámide del Sol è il nome dato dai Messicani alla costruzione sacra che da 1900 anni si erge maestosa a Teotihuacan, a 45 km dall’attuale Città del Messico. Alta quasi 71 metri e con un perimetro alla base di quasi 94 metri, questa piramide a scaloni è stata costruita dagli Aztechi nel II secolo d.C. per concentrare su di sé l’energia cosmica, in una città che – nell’antica lingua nahuati – significava non a caso “luogo degli dei”.
Il riferimento un po’ blasfemo ad una delle costruzioni più sacre agli Aztechi ci è venuto in mente mentre stavamo discutendo sul destino delle profanissime e maleodoranti “piramidi della munnézza”, costituite da 3 milioni di tonnellate di c.d. ecoballe di rifiuti, stivate da molti anni nel Giuglianese e in parecchi altri siti della Campania . Una delle meraviglie della follia umana, cui perfino Le Mondeha dedicato in questi giorni un servizio, sottolineando l’assurdità di quella “discarica d’Italia”, che l’autorevole quotidiano francese ha definito “un disastro ecologico e sanitario”. E’ stato durante quella discussione che ci si è accesa in testa la classica lampadina delle idee geniali. Chiarisco che coi pronomi “noi” e “ci” mi riferisco a quella banda di visionari, di cui faccio parte, che ha voluto fortissimamente una legge popolare che rendesse la Campania la prima regione a proclamarsi “solare” e ad agire di conseguenza, riuscendo perfino a farla approvare dal Consiglio Regionale più inerte d’Italia. Ed è stato proprio in una delle riunioni della nostra Rete Campana per la Civiltà del Sole e della Biodiversità (RCCSB) che abbiamo ipotizzato di trasformare quei criminali monumenti all’insipienza umana e agli interessi di pochi in un luogo di produzione di energia solare pulita, senza limiti e per tutti. Col passar del tempo quell’idea, ancora vaga, è diventata sempre più concreta, grazie all’eccellente lavoro di squadra degli ingegneri della Rete, che hanno realizzato – in poco tempo e quasi senza risorse – un progetto di massima esaltante, con tanto di dati relativi a costi e benefici.
Il fatto è che, con buona pace degli antichi abitanti del Messico e delle teorie astrologiche degli Aztechi e dei Maya, le “piramidi del sole” che noi abbiamo immaginato sui siti di stoccaggio delle famigerate ecoballe potrebbero davvero diventare una centrale di energia rinnovabile. Una centrale ecologica alternativa all’inceneritore, che ne costerebbe la metà e creerebbe in loco preziose occasioni di lavoro e di sviluppo eco-sostenibile. 800.000 mq sul milione disponibili nel solo sito di “Taverna del re”, infatti, basterebbero a creare al di sopra delle piramidi di spazzatura una struttura leggera di sostegno ai pannelli fotovoltaici necessari a realizzare un eccezionale impianto solare. Esso potrebbe produrre annualmente 200 milioni di KWh, facendo risparmiare 35.000 tonnellate di petrolio equivalente (TEP) all’anno ed impedendo in tal modo d’immettere nell’aria – nello stesso periodo – ben 100.000 tonnellate di micidiale anidride carbonica….
Sogni, fantasie? Niente di tutto ciò, solo calcoli, certamente ancora approssimativi ma che partono da una constatazione ancora più semplice ed evidente. In Europa ed anche in alcune regioni italiane si sta diffondendo la tendenza ad ovviare alla evidenti carenze di combustibili fossili lanciandosi speculativamente e senza regole sulle rinnovabili. Il business del solare e dell’eolico, in particolare, ha suggerito ai soliti noti che è possibile mettere le mani su vaste aree agricole, sottraendole alla loro funzione produttiva o comunque ambientale tappezzandole a proprio piacimento di pannelli fotovoltaici o costellandole di pali eolici. Ma questo è proprio quanto la RCCSB vuole evitare che accada, diffondendo sì la cultura e la pratica delle energie rinnovabili, ma entro regole ben precise e stando attenti a salvaguardare la biodiversità dei luoghi e la preziosità del territorio.
Ebbene, uno dei principi suggeriti dalla nostra Rete a chi, istituzionalmente, dovrà elaborare i “piani energetici solari comunali” (PESC) previsti dalla legge approvata quasi un anno fa è non a caso, la tutela dell’ambiente dalle speculazioni, anche quelle pseudo-ecologiche. Il vero pericolo per l’affermazione di quella che abbiamo chiamato “Civiltà del Sole” , infatti, sono spesso gli “eco-ballisti” che spacciano le loro misere speculazioni come operazioni di rilievo ambientale. Oppure quelli che continuano a parlare di “termovalorizzatori” per addolcire la pillola amara degli inceneritori che bruciano rifiuti che invece potrebbero essere per tre quarti riciclati. Contrastare questi signori sarà possibile solo se le regioni e gli enti locali stabiliranno che per la realizzazione d’impianti energetici alternativi dovranno essere utilizzate solo aree già compromesse o degradate sotto il profilo ambientale, cercando in ogni caso – ad esempio nelle aree urbanizzate – di garantire un uso plurimo del suolo, coniugando più attività produttive sullo stesso sito.
A noi questo sembra un principio chiaro e soprattutto sensato. Il guaio è che gli interessi personali e di gruppo vanno in tutt’altra direzione, rallentando o addirittura boicottando l’applicazione di quella che dall’inizio del 2013 è innegabilmente una legge-quadro della Regione Campania. Eppure questo stesso Ente ha già cercato vergognosamente di rinnegare, emendare e sterilizzare tale normativa, per la prima volta proposta e promossa dagli stessi cittadini. Anche la nostra proposta progettuale delle “Piramidi del Sole” ci sembra chiara, semplice ed economica, con un vantaggioso rapporto costi-benefici. Eppure si stenta a farla circolare, mentre i media fanno finta di non accorgersi della sua rivoluzionaria potenzialità e le istituzioni che dovrebbero farsene carico – dal Comune di Napoli alla stessa Regione – sembrano refrattari agli stimoli che la Rete non ha mai smesso di fornire.
L’ultimo esempio è stata la presentazione pubblica del progetto, tenuta il 19 dicembre scorso dalla RCCSB in una sala di quel Consiglio Comunale di Napoli che sette mesi prima aveva dichiarato all’unanimità di “aderire e sostenere” la legge popolare sul Solare in Campania. I termini della proposta sono stati illustrati ai cittadini presenti – fra cui quelli provenienti dal Giuglianese – ed in quella occasione mi è sembrato giusto, introducendo chi presentava i dati più tecnici, sottolineare che la prima energia alternativa è quella di chi, come noi, non ha mai smesso di andare avanti, caparbiamente, pur sapendo di avere contro le potenti lobbies dei combustibili fossili ma anche gli “ecoballisti” che lucrano sui disastri ambientali oppure fingono di abbracciare la causa delle energie rinnovabili, pensando in realtà solo gli affari che esse comportano, soprattutto se si continuerà a procedere senza regole né principi.
Però durante quell’incontro abbiamo potuto verificare che di energie ‘pulite’ ce ne sono ancora tante, ricche come noi di entusiasmo e di voglia di cambiare le cose. Lavorando in sinergia con quei movimenti ed ascoltando la gente che abita in quei territori sarà possibile trovare la soluzione migliore per un progetto di enorme portata. Esso potrà trasformare la “discarica dell’Italia” stigmatizzata da Le Monde in una delle più significative esperienze di sperimentazione d’un modello di partecipazione della popolazione alle decisioni sul futuro del suo territorio. Un futuro non più condizionato dagli sporchi traffici di chi lavora di nascosto contro gli interessi della gente e dell’ambiente, ma caratterizzato da un protagonismo popolare, alla luce del Sole.