La Domenica delle Palme, ancora una volta, ci ha proposto il racconto di quanto accadde 2023 anni fa a Gerusalemme al rabbi nazareno Yehoshua, passato nel giro di poche ore dalle grida osannanti e festanti alle urla feroci della folla che assediava il pretorio. La cronistoria di quell’inverosimile processo sommario, culminato nella condanna a morte senza una chiara imputazione di colui che fino a poche ore prima era stata ritenuto un profeta ed un guaritore, risulta estremamente realistica ed efficace, pur con alcune varianti stilistiche nei tre evangeli sinottici.
Un passo particolarmente toccante e significativo è quello che narra la dolorosa sensazione di smarrimento, abbandono, delusione e tristezza provata dal Maestro nel giardino degli ulivi, circondato da discepoli stanchi, sfiduciati e quasi incapaci di comprenderne davvero le parole. Ed è proprio quella stanchezza – sia mentale sia fisica – che si era impadronita di loro che li aveva portati ad addormentarsi, anziché vegliare e pregare come invece era stato loro raccomandato.
«Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» [i].
Nel testo originale in greco di questo brano («Οὕτως οὐκ ἰσχύσατε μίαν ὥραν γρηγορῆσαι μετ᾽ ἐμοῦ. γρηγορεῖτε καὶ προσεύχεσθε ἵνα μὴ εἰσέλθητε εἰς πειρασμόν· τὸ μὲν πνεῦμα πρόθυμον ἡ δὲ σὰρξ ἀσθενής» spicca il verbo γρηγορέω (grigoréo), reso in italiano con “vegliare”. Il Maestro, infatti, aveva chiesto loro di restare svegli e vigilanti, ma essi si erano comunque addormentati, in lingua greca καθεύδοντας, dal verbo καθεύδω(kathèudo). Il prefisso preposizionale katà (giù, in basso, sotto) evoca il cadere nel sonno (in inglese si dice “to fall asleep”), metafora del conseguente “cadere in tentazione”, da cui Gesù pur li aveva esortati a guardarsi. L’espressione in greco, però, suona un po’ diversa: “μὴ εἰσέλθητε εἰς πειρασμόν” in quanto, più che al ‘cadere’ passivamente, allude al movimento attivo di chi si avvicina, va in direzione di qualcosa o qualcuno, entrando in un certo luogo (éis = in/dentro + érchomai =andare).
Ebbene, se innegabilmente l’opposto di addormentarsi, cedere al sonno, è ‘vegliare’, sarebbe forse utile approfondire quel verbo, che usiamo abitualmente ma di cui non sempre conosciamo il significato originario. D’altra parte non basta non dormire per ‘vegliare’, come ci suggerisce il verbo parallelo vigilare, identico in latino, che però suggerisce significati aggiunti.
«V. intr. e tr. [dal lat. vigilare, der. di vigil -ĭlis «vigile»] (io vìgilo, ecc.). – 1. intr. (aus. avere) a. letter. Vegliare, stare sveglio […] b. Stare attento, usare molta attenzione perché qualche cosa avvenga nel modo voluto […] 2. tr. Sorvegliare, seguire con attenzione e controllare lo svolgimento di un’azione, il modo di comportarsi di una o più persone, di gruppi o di enti, o anche il funzionamento di impianti e macchinarî, per poter intervenire rapidamente ed efficacemente se necessario…» [ii].
Insomma, non è sufficiente rimanere svegli per essere davvero ‘vigili’, aggettivo che suggerisce un’attenzione specifica verso qualcuno/qualcosa (ad-tendere), una ‘intenzionalità’ (in-tendere) che può essere originata solo da una salda motivazione. Il verbo greco γρηγορέω[iii] suggerisce peraltro un’accezione un po’ differente, che è quella del correre, dell’andare di fretta, ma sostanzialmente quella dell’essere svelti in quanto svegli (aggettivo che rinvia al verbo ἐγείρω = essere sveglio). Insomma, quella raccomandata dal Maestro ai suoi discepoli era una ‘vigilanza’ che non si limitasse a non cedere al sonno (che è comunque un allontanamento dalla realtà), ma li motivasse ad esercitare un’attenzione particolare, soprattutto in un momento critico come quello che avrebbe preceduto la cattura, il processo e la condanna.
Oggi il termine ‘vigile’ continua ad applicarsi a coloro i quali svolgano un ruolo professionale di vigilanza, spesso quando il resto della comunità è da tempo ‘caduta’ nel sonno, per assicurare un controllo sui beni comuni e sulla sicurezza delle persone. Però, mentre dalle nostre strade vanno progressivamente scomparendo i tradizionali ‘vigili urbani’ (termine da tempo sostituito da quello più vago ed anodino di ‘agente di polizia locale’), proliferano viceversa le agenzie di vigilanza privata, diurna e notturna, a salvaguardia dei beni e degli interessi di singoli, condomini, aziende ed esercizi commerciali. In una società dove l’avere domina incontrastato sull’essere, questi parapoliziotti (non a caso chiamati spesso alla spagnola vigilantes) sono quindi chiamati a ‘vegliare’ e ‘sorvegliare’, ma solo per evitare che qualcuno ‘entri nella tentazione’ di portar via i nostri preziosi averi…
Che dire? Se dell’evangelica raccomandazione a “vegliare e pregare” non è rimasto molto, anche al desueto invito alla “vigilanza politica” non si direbbe ormai che siano molti ad aderire, poiché la maggioranza delle persone sembrano anestetizzate dal pensiero unico e tutt’altro che attente a ciò che accade intorno a loro. Ma è proprio per questo che dovremmo finalmente svegliarci dal questo torpore sonnolento, ricordando che, etimologicamente, vigilare e vegliare sono verbi “che dipendono dal verbo vigeo: essere vivo, vigoroso: rad.*vig-“ [iv].
Vigilare, infatti, è il modo migliore per dimostrare di essere davvero “vivi e vegeti”...
Ci voleva la pandemia di Covid-19 per scoprire che le parole ‘quarantena’ e ‘quaresima’ sono sovrapponibili.
La loro etimologia è la stessa, provenendo entrambi dall’aggettivo numerale ordinale latino quadragesima (quarantesima), a sua volta derivato dal cardinale quadraginta (quaranta). In realtà i lunghi e monotoni giorni che tutti noi stiamo trascorrendo in questa surreale sospensione della vita ordinaria sono di più, ma sarebbe strano non coglierne la coincidenza col periodo quaresimale che precede la Pasqua cattolica (12 aprile), che precede quella ortodossa (19 aprile) e rientra nella settimana che caratterizza la Pesach ebraica (8-16 aprile).
Quaranta, si sa, è un numero sacro, con un’enorme valenza simbolica, soprattutto nelle culture che hanno attinto alla tradizione sapienziale biblica, prendendo spunto dalla sua interpretazione cabalistica e gematrica della realtà. Come altri numeri ‘speciali’, infatti, più che indicare una quantità aritmeticamente precisa e definita, allude a qualcosa di più profondo: un periodo di attesa, di purificazione, di rinnovamento. Indica il tempo della ‘conversione’, della decisione di cambiare idea (in greco: metànoia) e quindi anche strada, rappresentando quindi il tempo della transizione a qualcosa di veramente nuovo.
«Il primo riferimento al numero 40 si trova nel libro della Genesi. Dio dice a Noè: “Tra sette giorni farò piovere sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti; sterminerò dalla terra ogni essere che ho fatto” (Genesi 7, 4) […] Nel libro dei Numeri troviamo ancora il numero 40, questa volta come tipo di penitenza e punizione imposta al popolo di Israele per aver disobbedito a Dio. Il popolo ha dovuto errare nel deserto per 40 anni perché una nuova generazione potesse ereditare la Terra Promessa […] Nel libro di Giona si legge che “Giona cominciò a percorrere la città, per un giorno di cammino e predicava: ‘Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta’….” (Giona 3, 4-5). […] Il profeta Elia, prima di incontrare Dio sul monte Oreb, viaggiò per quaranta giorni: “Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb” (1 Re 19, 8). […] Prima di iniziare il suo ministero pubblico, Gesù “fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo. E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame” (Matteo 4, 1-2)….». [i]
Per gli Ebrei, 40 rappresentava sostanzialmente il tempo di una generazione, ma perciò stesso il passaggio (pesach) ad una nuova vita, ad una ciclica ri-generazione, ad una ri-nascita. Per comprendere il simbolismo di questo ed altri numeri nella tradizione culturale e religiosa del popolo d’Israele, però, bisogna tener conto del fatto che essi erano indicati utilizzando le lettere dell’alfabeto ebraico, considerate a loro volta sacre e dense di significati. Nel caso del numero 40, il segno che lo contraddistingue corrisponde alla tredicesima delle sue 24 lettere, la Mem/Mim, che può essere scritta in forma sia aperta sia chiusa e che a sua volta derivava dal grafema fenicio Mem, indicante l’acqua, simbolo di purificazione.
«La lettera (ebraica) MEM oltre al numero 40 indica con la sua forma il ventre materno e anche una sorgente di acqua. I quaranta giorni così rappresentano un periodo determinato che racchiude un avvenimento o un’esperienza che si prolunga nel tempo, ma che è aperto alla vita[…]40 giorni e 40 notti Mosè rimase sul monte (Es. 24,18); Elia camminò per 40 giorni e 40 notti nel deserto per sfuggire all’ira della regina Gezabele (1 Re,19,8) […] 40 sono il massimo dei colpi di verga per le punizioni corporali (Deut. 25, 3). Nel Nuovo Testamento il numero 40 si trova 22 volte…[ii]
Queste divagazioni numerologiche ci portano anche al significato della parola ‘quarantena’, intesa come periodo di purificazione da un male fisico:
«Periodo di segregazione e di osservazione al quale vengono sottoposti persone, animali e cose ritenuti in grado di portare con sé o trattenere i germi di malattie infettive, spec. esotiche; così detto dalla durata originaria di quaranta giorni, che in passato si applicava rigorosamente soprattutto a chi (o a ciò che) proveniva per via di mare, in tempi moderni è stato ridotto a seconda delle varie malattie, in rapporto al relativo periodo d’incubazione e alle pratiche di disinfezione…» [iii]
Questa parola è risuonata talmente tante volte in questi giorni che ci è diventata familiare, evocando periodi bui della nostra storia, segnati tragicamente da guerre, pestilenze ed altri eventi funesti, alla cui fine d’altronde sembra alludere, riportandoci al senso della ‘quaresima’ come duro esercizio di conversione e di rigenerazione. In un articolo di otto anni fa, sottolineavo i due pilastri biblici sui quali poggia la ricostruzione di una vita purificata e quindi rinnovata: il pentimento (ebr.:nacham) e la conversione (ebr: shuw). Certo, sarebbe arbitrario utilizzare il riferimento a questi due ingredienti del cammino etico che segnano il passaggio (pesach) alla rinascita (cristianamente parlando, alla Resurrezione) come chiave di lettura dell’epidemia che sta affliggendo quasi metà della popolazione mondiale. D’altra parte, se non vogliamo essere miopi, faremmo bene ad impiegare un po’ del tempo che si sta improvvisamente dilatando davanti ai nostri occhi per riflettere di più su questa strana ‘Quaresima di quarantena’. E non certamente per far riecheggiare deprecabili visioni pseudo-religiose, evocanti catastrofi e punizioni divine, per ricondurre questa penosa esperienza collettiva ad un proprio assunto di base. bensì per cogliere le opportunità che ci dà questa inopinata e tremenda interruzione della nostra ‘normalità’ . Non voglio cadere nella stessa tentazione, perciò non intendo offrire spiegazioni né trarre edificanti insegnamenti da quanto stiamo vivendo. Sarebbe però un vero peccato se lo stravolgimento del nostro comune modo di vivere, di produrre, di consumare e di relazionarci non ci spingesse ad interrogarci su ciò che in esso vi è di profondamente sbagliato. Non per forza in senso strettamente morale, ma quanto meno di mancato raggiungimento delle stesse finalità iniziali, di ‘errore’ appunto.
Quei parametri del ‘progresso’ sono talmente radicati
che quasi non riusciamo più a scorgerne i pur evidenti limiti intrinseci. Parlo di uno ‘sviluppo’ unidirezionale, e praticamente illimitato, verso un ‘avanti’ tanto assoluto quanto indefinito (pro-gredior). Una visione antropocentrica più che autenticamente umanistica che, sebbene smentita da tante negative esperienze storiche, non sembra aver intaccato la smisurata fiducia nella Scienza, che avrebbe dovuto cancellare i dogmi della fede ma li ha solo sostituiti con altri assiomi indiscutibili. Un modello di riferimento caratterizzato da due sole dimensioni: aumento, come accumulazione quantitativa, cioè una corsa verso l’alto, e crescita, intesa come corsa in avanti). Esso presuppone un’aspra conflittualità reciproca (il plautino prima che hobbesiano “homo homini lupus”) ed un insanabile conflitto con la ‘natura’, percepita come limite da superare più che come madre cui affidarsi, con rispetto e devozione. Lo aveva ben compreso l’ecopacifista Alex Langer, che già nel 1990 scriveva:
«Serve una vera e propria “conversione ecologica” per rendere compatibile la nostra presenza e il nostro impatto sul pianeta con le basi naturali della vita. Si tratta di riequilibrare equilibri profondamente turbati. Forse bisognerebbe passare dal “modello olimpico” (“citius, altius, fortius”) oggi prevalente, che si nutre di competizione, a forme di sviluppo duraturo, sostenibile, equilibrato (sobrietà, rigenerabilità). Ci occorre, insomma, il contrario del “motto olimpico”: lentius, profundius, levius. […] Non si tratta di mettere una nuova scienza sul trono […] Piuttosto ci occorre un nuovo sapere e una nuova determinazione per limitare i danni. Forse è più urgente un non-fare, più che suggerimenti su cosa fare […] Il “limite”, oltre che naturale, è storico e culturale: dove/come fissarlo e come riempire lo spazio da qui al limite, è scelta politica, sociale, etica, culturale. Non l’Utopia, ma le tante “utopie concrete” (parziali, sperimentali, correggibili)».[iv]
che quasi non riusciamo più a scorgerne i pur evidenti limiti intrinseci. Parlo di uno ‘sviluppo’ unidirezionale, e praticamente illimitato, verso un ‘avanti’ tanto assoluto quanto indefinito (pro-gredior). Una visione antropocentrica più che autenticamente umanistica che, sebbene smentita da tante negative esperienze storiche, non sembra aver intaccato la smisurata fiducia nella Scienza, che avrebbe dovuto cancellare i dogmi della fede ma li ha solo sostituiti con altri assiomi indiscutibili. Un modello di riferimento caratterizzato da due sole dimensioni: aumento, come accumulazione quantitativa, cioè una corsa verso l’alto, e crescita, intesa come corsa in avanti). Esso presuppone un’aspra conflittualità reciproca (il plautino prima che hobbesiano “homo homini lupus”) ed un insanabile conflitto con la ‘natura’, percepita come limite da superare più che come madre cui affidarsi, con rispetto e devozione. Lo aveva ben compreso l’ecopacifista Alex Langer, che già nel 1990 scriveva:
Oggi, trent’anni dopo, la pandemia di Covid-19 ha drammaticamente posto tanti e pesanti limiti alla nostra frenetica ed incurante ‘crescita’. Ha frenato bruscamente la nostra smania di ‘fare’, costringendoci a cambiare i nostri tempi e luoghi di vita. Ci ha imposto ciò che avrebbe potuto – e forse dovuto- diventare una nostra scelta, facendoci provare, nostro malgrado, ritmi esistenziali più lenti, inducendoci a riflettere in modo più profondo sulla realtà che ci circonda ed imponendoci modalità e relazioni meno formali e più leggere.
Ma proprio perché non scaturisce da una nostra decisione consapevole, questo cambiamento ci risulta a mala pena tollerabile, una ‘quaresima’ da sopportare più o meno pazientemente. Una fastidiosa pausa, in attesa di riprendere prima possibile la nostra ‘normalità’, magari ancor più velocemente, puntando più in alto e con maggior forza e determinazione. Penso che sarebbe un ulteriore ‘peccato’ (sbaglio di direzione), un’altra sconfortante prova di quanto poco abbiamo imparato da questa tragedia mondiale. Non dovremmo infatti mettere in ‘quarantena’ la nostra smania di andare avanti e in alto ad ogni costo, ma cambiare davvero strada, come ci ha suggerito Papa Francesco nella sua memorabile riflessione, in una piazza San Pietro deserta e spazzata dalla pioggia:
«In questo nostro mondo, che Tu Signore ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato». [v]
Che questa Quaresima di Quarantena ci aiuti a prendere coscienza che i valori da perseguire non sono quelli che si contrattano in Borsa, ma tutto ciò che arricchisce davvero la nostra comune umanità, di cui questa epidemia ci ha già mostrato alcuni positivi esempi.
[iv] Alex Langer, LA “CURA PER LA NATURA”: DA DOVE SORGE E A COSA PUÒ PORTARE. 9 TESI E ALCUNI APPUNTI (1990), https://www.alexanderlanger.org/it/148/465 Vedi anche: Alexander Langer, Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, Sellerio, Palermo 2011
Si sa: la festività che i Cristiani chiamano Pasqua – e gli anglofoni Passover – deriva il suo nome della maggiore festività ebraica: la Pésah.Essa celebrava, e celebra tuttora, il passaggio degli Ebrei oltre la schiavitù degli Egiziani, oltrepassando prodigiosamente, grazie alla guida e protezione divina. anche l’ostacolo del Mar Rosso.
In effetti, storicamente parlando, la Pésah aveva origini assai più antiche, risalendo ad antichi riti delle popolazioni nomadiche e pastorali (nel senso di una “transumanza” stagionale da un territorio ad un altro, propiziata dal sacrificio di un agnello), ma anche a riti cananei di origine contadina (cui sarebbe ispirata la tradizione delle focacce azzime, cioè non lievitate).
Per i Cristiani, poi, si tratta di ben altro passaggio: quello dalla passione e morte del figlio incarnato di Dio alla sua gloriosa Resurrezione, grazie al quale l’umanità può finalmente passare dalla schiavitù del peccato alla salvezza universale, apportata da Gesù Cristo.
L’ingresso della stagione primaverile, del resto, è sempre e ovunque stata un’occasione per celebrare il magico passaggio dalla morte alla vita, dal freddo al caldo, da una natura addormentata ad un risveglio vitale. L’esistenza umana rappresenta un continuo passaggio da un’età all’altra, da una condizione all’altra. Le stesse leggi naturali, del resto, ci mostrano chiaramente che nulla si crea né si distrugge, visto che tutto si trasforma, oltrepassando uno stato per raggiungerne un altro.
Fatta questa dotta e interdisciplinare premessa, consentitemi però di divagare brevemente su ben altri passaggi, suggeriti dall’attualità, che appaiono indiscutibilmente un po’ meno elevati ma molto più sconcertanti.
1.La gravissima crisi finanziaria, che ha colpito duramente le economie occidentali, sembrava almeno preludere ad una necessaria riflessione sul modello di sviluppo imperante e sulle sue assurde contraddizioni, per un graduale passaggio ad una visione alternativa dello stesso concetto di sviluppo, da non identificare più con quello di “crescita”. A distanza di tempo, vi sembra che la pesante mazzata subìta abbia fatto rinsavire chi dovrebbe finalmente farci cambiar strada? L’unico passaggio visibile mi sembra quello da una certa austerità iniziale ad una rinnovata tendenza al consumismo sprecone ed energivoro.
2.A proposito di energia, pareva che la crisi petrolifera e quella ambientale ci avessero spinto ad una seria revisione della quantità di energia da consumare e ad una maggiore attenzione alle modalità di produzione dell’energia stessa, ricorrendo finalmente a fonti rinnovabili ed alternative. Ebbene, a parte qualche lodevole eccezione, la “novità” degli ultimi tempi sembrerebbe essere diventato invece lo sbandierato passaggio dalle fonti energetiche fossili all’energia nucleare! Dagli USA di Obama all’Italietta berlusconiana, infatti, sembra preannunciarsi una specie di riscossa di quello che Homer Simpson profeticamente chiamava “nuculàre”, alla faccia dei bandi precedenti e degli irrisolti problemi, non solo ambientali, ma anche sociali ed economici, derivanti da questa folle “alternativa”.
3.Un’altra propagandata novità di questi ultimi tempi sarebbe poi la “storica” intesa per ridurre congiuntamente gli arsenali atomici di USA e Russia, contrabbandata come una tappa fondamentale, anche se un po’ tardiva, del disarmo bilaterale delle due ex-superpotenze. Fatto sta che questo rivoluzionario e propagandistico passaggio non riduce affatto il rischio complessivo, dal momento che non c’importa più di tanto se il potenziale atomico sia capace di ora distruggere due o cinque volte il nostro povero pianeta, peraltro afflitto da centinaia di guerre tradizionali che sembrano non aver mai fine.
4.Mentre da noi ci si lamenta costantemente degli alti costi del sistema sanitario nazionale – dei suoi sprechi ma anche della sua pesante incidenza sui bilanci regionali – negli USA di Yes-We-Can Obama sembrerebbe essersi avverato finalmente lo storico passaggio all’assistenza sanitaria estesa a quasi tutti i cittadini. Peccato però che non si tratti di un vero e proprio servizio sanitario pubblico, ma solo della – peraltro costosissima – copertura pubblica del servizio garantito dalle solite e potenti assicurazioni private…
5.Da decenni si proclama l’esigenza improrogabile di un passaggio dalla congestione paralizzante e deprimente del trasporto privato e individuale alle più responsabili e salutari forme di trasporto pubblico e collettivo. E’ sotto gli occhi di tutti – in particolare nelle nostre metropoli – come siamo lontani da questo traguardo e come si siano, viceversa, ridotti gli standard di efficienza e di puntualità dei mezzi pubblici, il cui passaggio è diventato sempre più raro e fortunoso.
6.Restando al nostro Paese, mi riesce difficile immaginare che la soluzione alla disaffezione e delusione dei cittadini, sempre più sfiduciati e demotivati rispetto alla gestione della res publica, possa essere vista nel passaggio strisciante da una repubblica unitaria e parlamentare ad uno stato federale e presidenzialista. Il preoccupante miscuglio di liberismo ed autoritarismo, di decisionismo populista e verticista e di atteggiamenti sprezzantemente nordisti e xenofobi, al contrario, mi sembra che stia facendo tramontare ogni ipotesi di un serio passaggio ad una democrazia più diffusa, partecipata e giusta.
7.E infine, come non parlare del passaggio che ha calamitato l’attenzione di tutti noi in questi giorni: quello da un’Italia ancora largamente ancorata al tradizionale retroterra cattolico e socialista ad un Paese sempre più destrorso, diffidente ed incapace di fare scelte alternative. E’ innegabile che le responsabilità di ciò sono largamente imputabili a chi non ha saputo, voluto o potuto rendere credibile e tangibile un modello davvero diverso: più pacifico, sostenibile, equo e solidale. Ciò non toglie che dopo queste elezioni regionali, che hanno sancito il passaggio di una parte delle regioni italiane al leghismo becero e di altre ad una nuova stagione ultra- conservatrice, a molti resti l’amaro in bocca e la sgradevole sensazione – avallata peraltro da noti precedenti storici – che la democrazia possa paradossalmente servire per affrettare la fine di se stessa.
Mi fermo qui, altrimenti mi verrebbe da ricordare altri passaggi che, dal livello di microcosmo a quello del macrocosmo, segnano trasformazioni che vanno in direzione esattamente opposta a quella auspicata, aprendo scenari inquietanti e che lascerebbero ben poco spazio alla speranza.
Ma per me, come per tanti Cristiani, la Pasqua è proprio la festa della speranza, l’opportunità per un cambiamento vero e il passaggio ad un’umanità riconciliata con il suo Creatore e con le altre creature. E’ per questo che auguro a tutti – ed a me stesso – che questa Pasqua riesca a restituire – per mutuare una celebre frase di S. Tommaso Moro – la forza di cambiare le cose che possiamo cambiare e di sopportare quelle che non possiamo cambiare, ma soprattutto la saggezza per distinguere le une dalle altre.