di Ermete Ferraro
Fra tante notizie stravaganti, inutili o di scarso interesse, sui giornali di oggi ne è comparsa, stranamente, una su una questione di cui i “media” abitualmente si occupano molto poco.
“Nel mondo muoiono due lingue al mese”, strilla il titolo di un diffusissimo quotidiano gratuito nazionale, spiegando che l’allarme dei linguisti si riferisce ad una ricerca svolta dal “National Geographic”, in collaborazione col “Living tongues institute for endangered languages”).
Ebbene sì: anche se pochi lo sanno – e soprattutto ben pochi ne parlano- ogni due settimane scompare definitivamente una lingua, insieme con l’ultima persona in grado di parlarla. Si tratta di una strage silenziosa (e mai aggettivo fu più adatto…), le cui vittime non sono, come si potrebbe credere, stranissimi linguaggi di luoghi sperduti e disabitati, bensì interi repertori di civiltà, interi patrimoni culturali prima marginalizzati e poi spazzati via dalla globalizzazione galoppante.
Ovviamente, le lingue più fragili sono quelle prive di qualsiasi documentazione scritta, che assomigliano tanto a quei poveri barboni che vengono trovati morti per strada, senza niente che ne permetta almeno l’identificazione o la comprensione del perché sono finiti così tristemente.
Basti pensare alle 231 lingue aborigene australiane o alle 113 della tradizione andina ed amazzonica, la cui sopravvivenza è seriamente minacciata dalla predominanza dell’inglese.
Come cercano inutilmente di farci sapere da decenni sia gli studiosi dell’Istituto citato dal quotidiano (www.livingtongues.org), sia tanti altri importanti centri di ricerca e di azione eco-linguistica (cito solo il noto “Ethnologue”: www.ethnologue.com, prezioso repertorio linguistico frutto del lavoro del S.I.L www.sil.org ), non si tratta però di fatalità né di fatti privi d’importanza.
Le lingue minoritarie sono costantemente rimpiazzate da quelle dominanti, sotto il profilo politico, economico e socio-culturale. Ecco perché i due idiomi che scompaiono ogni mese si portano via con sé centinaia di generazioni di conoscenze tradizionali, codificate in quelle lingue definite “ancestrali”. Il risultato di questa strage di saperi è che, allo stato, la metà circa delle lingue presenti attualmente sul nostro pianeta sono destinate a dissolversi nel nulla entro il prossimo secolo, ad una velocità che supera quella di estinzione di qualsiasi altra realtà vivente, come risulta evidente dalla tabella che accompagna lo studio di David Harrison “When Language Die”, pubblicato nel 2007 dalla S.I.L.
Più del 40% delle lingue attuali sarà scomparso tra cento anni, mentre percentuali molto minori di tipologie in via d’estinzione riguardano i pesci (5%), le piante (8%), gli uccelli (11%) ed i mammiferi (18%). Ma attenzione, se facciamo benissimo a preoccuparci della sparizione progressiva di queste forme di vita animali e vegetali, e quindi dell’allarmante perdita di biodiversità che minaccia la sopravvivenza del nostro stesso pianeta, non possiamo pensare che la scomparsa di intere tradizioni e patrimoni etno-linguistici sia del tutto ininfluente nell’economia generale degli equilibri mondiali.
Da anni, non a caso, ho cercato di approfondire questo aspetto particolare dell’ecologia – chiamato appunto “ecologia linguistica” – nella profonda convinzione che sottovalutare questi fenomeni di cancellazione delle identità culturali sia un grave errore. Un errore che, purtroppo, conferma la frattura esistente tra una visione esclusivamente scientifica dell’ecologia (che si ferma allo studio della perdita di diversità biologica ed a soluzioni da contrapporvi per riequilibrare il carico ambientale del pianeta) ed una che, invece, potremmo chiamare “ecologia umana”, a sua volta comprensiva di quella “social ecology” di cui abbiamo tanto bisogno.
Ho affrontato questo aspetto in un mio breve saggio e per leggerlo, essendo inedito, basta accedere alla pagina della bio-biblio-sitografia del mio website (www.ermeteferraro.it/aboutme.htm ) e cliccare sul titolo “Voci soffocate”(2004). In questo scritto ho chiarito quello che credo sia un impegno prioritario per chiunque abbia a cuore che la predominanza massificante ed omogeneizzante di un unico modello socio-culturale non spazzi via ogni diversità culturale ed ogni possibilità stessa di pensiero divergente da quello dominante.
Nello stesso saggio ho sottolineato, poi, che non ci sono solo le lingue che il SIL definisce “moribonde”, ma anche quelle messe in pericolo e/o seriamente danneggiate dalla globalizzazione dei cervelli, prima ancora che delle merci. E’ il caso di lingue anche importanti e per nulla “minoritarie”, come il nostro Napoletano, per le quali è indispensabile una legge di tutela e di valorizzazione, senza la quale continueremo ad assistere al tragico declino di un intero mondo di pensieri, di sentimenti e di comportamenti, e non solo ad un mucchio di parole “dialettali”.
Ma questa è un’altra storia, e ne parlerò un’altra volta.
Chi voglia approfondire subito questo problema, può comunque consultare il sito dell’Istituto Linguistico Campano (www.ilc.it ), leggendo e commentando anche gli articoli "postati" sul suo blog.